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La coscienza di Montalbano: Sei Racconti di Intelligenza e Umorismo del Commissario più Amato d’Italia. Recensione di Alessandria today
Un viaggio breve ma intenso nel mondo di Montalbano, tra crimini, ironia e riflessioni umane
Un viaggio breve ma intenso nel mondo di Montalbano, tra crimini, ironia e riflessioni umane Andrea Camilleri, autore amato e conosciuto in tutto il mondo, torna con La coscienza di Montalbano, una raccolta di sei racconti che portano il lettore a esplorare il lato più intimo e riflessivo del celebre commissario siciliano. Pubblicato postumo da Sellerio il 26 maggio 2022, il libro presenta…
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giulia portalupi would’ve done numbers on tumblr.com
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“Abbiamo tutti dentro un mondo di cose: ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!” – Luigi Pirandello, ‘Sei personaggi in cerca d’autore; Enrico IV’
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Storia Di Musica #339 - Gentle Giant, Octopus, 1973
Lo spunto per le storie di Settembre me lo ha dato la notizia più sorprendente in ambito musicale di questi giorni: la riappacificazione dei fratelli Gallagher che ha portato ad una reunion dopo 15 anni degli Oasis (con inevitabili polemiche, cascate di meme, vero indicatore dell'interesse sociale delle questioni, e biglietti per concerti venduti a migliaia di euro). Lo spunto però l'ho voluto ampliare, raccontando storie di gruppi musicali che non hanno due, ma almeno tre fratelli in formazione.
Sono un po' sorpreso che solo oggi questo gruppo, tra i miei preferiti di sempre, appaia in Rubrica. Tutto inizia quando, ad inizio degli anni '60, i tre fratelli Shulman, Derek, Phil e Roy mettono su una band: sono scozzesi di Glasgow, ma il padre, che suonava la tromba in un gruppo amatoriale dopo lavoro, si trasferì con loro neonati a Portsmouth, nel 1948. I tre fratelli Shulman formano uno dei primi gruppi inglesi di rock\ r'n'b, Simon Duprèe & The Big Sound (Simon Duprèe è lo psudonimo di Derek). La band riuscì ad andare in tour e a evolvere il proprio sound, fino a raggiungere un discreto successo, entrando nella classifica inglese con il brano musicale Kites, da un album bellissimo, Without Reservation, e per un certo periodo suonò con loro un giovanissimo pianista, Reginald Dwight, che qualche anno dopo cambiò nome d'arte in Elton John e sappiamo come andò a finire. Nel 1969 sciolgono il gruppo e si organizzano, sull'eco della nascente musica progressive, a fondere le loro idee con il jazz, la musica classica, il folk in un modo del tutto unico e caratteristico, anche sfruttando il fatto che i tre Shulman sono degli eccellenti polistrumentisti. Arruolano Gary Green alla chitarra e Kenny Minnear alle tastiere. Prendono spunto dai racconti di François Rabelais, che sarà spesso fonte di ispirazione, il nome per la nuova band: Gentle Giant. Nel 1970, George Underwood disegna il meraviglioso Gigante Gentile, che tiene tra le mani la band, nella copertina del primo, omonimo disco: album fondamentale della scena progressive è il primo disco di una tetralogia eccezionale e meravigliosa. Acquiring The Taste (1971, dalla copertina dissacrante e dalla musica sperimentale e creativa al massimo livello) e il loro concept, Three Friends (1972) svelano una band che ha delle caratteristiche peculiari. Brani che non superano quasi mai i 5 minuti, rispetto alle lunghe suite degli altri gruppi prog, un intreccio spettacolari di contrappunti, melodie, strumenti e stili che fa ridere a 36 denti gli amanti del genere, testi che hanno ispirazioni spesso letterarie, piuttosto sofisticate.
La massima espressione di tutto questo si ha nel disco di oggi, uno dei capolavori del rock progressive. Octopus esce nel 1973, con in copertina uno spettacolare disegno del leggendario artista Roger Dean (creatore di alcune delle copertine più belle di sempre, ricordo la sua collaborazione con gli Yes) di una piovra dallo sguardo intenso. in verità, c'è un gioco di parole dietro: Octo Opus è infatti un riferimento agli 8 brani, da considerarsi 8 prove musicali, brevi (quasi tutti di circa 4 minuti e mezzo, tranne l'ultimo che di poco supera i 5 e mezzo, niente in confronto agli oltre 20 di molti brani cult del prog) ma dalla quantità e qualità musicale da pelle d'oca. È anche il primo disco con il nuovo, tecnicamente abilissimo, batterista John Pugwash Weathers, già con Joe Cocker e decine di altre band. Si parte con The Advent of Panurge, che è la continuazione di Pantagruel's Nativity da Acquiring The Taste (Pantagruel e Panurge sono tra i personaggi principali di Gargantua E Pantagruel, una serie di cinque romanzi di François Rabelais): inizia con melodie vocali che poi mutano in un rock funk di altissimo livello. Raconteur Troubadour è una bellissima ballata medievale, altro motore di ispirazione creativo, suonata con assoli di violini e violoncelli. A Cry For Everyone, la canzone più hard rock anche con assoli di Minimoog, ha un testo ispirato ai lavori di Albert Camus (Run, why should I run away\When at the end the only truth certain\One day everyone dies\If only to justify life). Arriva poi la pelra tra le perle: Knots è una sorta di madrigale folk prog, con cimbali, xilofoni, intrecci vocali spettacolari ed un finale drammatico ispirato al lavori di uno psichiatra scozzese, Ronald Laing, che fu autore di tesi piuttosto eterodosse sulle malattie psichiatriche e sul ruolo dell'emozionalità dei pazienti (tra l'altro, c'è una storia sostenuta da David Gilmour, che Laing visitò Syd Barrett, lasciando zero speranze che si potesse riprendere). Il lato B è lo stesso meraviglioso: The Boys In The Band intreccia riff di organo e sax creando un capolavoro di jazz-rock pazzesco, inizia con una risata ed una moneta che rotola fino a fermarsi. Dog's Life è uno dei pochi strumentali della band, Think Of Me With Kindness è il loro tentativo di scrivere una ballata romantica, River chiude l’album con il brano più "prettamente" progressive di un disco che esprime al massimo le capacità strumentali e creative di un gruppo che nelle note di Acquiring the Taste scriveva: "Il nostro obiettivo è quello di espandere le frontiere della musica popolare contemporanea, a rischio di essere molto impopolari. Abbiamo registrato ogni composizione con un solo pensiero: che dovesse essere unica, avventurosa e affascinante."
Ci riuscirono in pieno: amati tantissimo da colleghi e dai fan più integerrimi del prog, ebbero successo relativo, nonostante una sfavillante attività live, che li portò a suonare nei più importanti Festival del periodo. Ebbero come tutti i gruppi prog successo in Italia, dove esiste ancora oggi uno zoccolo duro di appassionati. Furono attivi dieci anni, dal 1970 al 1980, attraversando la nascita, il picco e il declino della musica prog, dimostrando come si può ottenere un capolavoro condensando le idee in meno di 5 minuti.
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Laura Betti
«Sono comunque un’attrice ed ho una necessità fisica di perdermi nel profondo degli intricati corridoi dove si inciampa tra le bave depositate da alieni, tele di ragno luminose e mani, mani che ti spingono verso i buchi neri screziati da lampi di colore, infiniti, dove sbattono qua e là le mie pulsioni forse dimenticate da sempre oppure taciute… per poi ritrovare l’odore della superficie e rituffarmi nel sole dei proiettori, nuova, altra».
Laura Betti è stata un’attrice talentuosa, vivace e intensa. La cattiva per antonomasia delle grandi dive del cinema italiano.
Ha recitato in circa settanta film, diretta dai più grandi registi e registe del Novecento come Federico Fellini, Roberto Rossellini, Mario Monicelli, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Gianni Amelio, Francesca Archibugi, i fratelli Taviani, in capolavori come La dolce vita, Teorema, Sbatti il mostro in prima pagina, Nel nome del padre, Il grande cocomero e molti altri ancora.
Tra le interpretazioni più memorabili c’è sicuramente quella in Novecento di Bertolucci (1976) in cui ha interpretato Regina, personaggio dall’aria sinistra, quasi stregonesca, amante del fascista Attila, interpretato da Donald Sutherland.
Sul suo modo di esprimersi con le parole, il linguaggio, la voce roca e impastata, la fisicità, ci sono stati anche diversi studi accademici.
Artista a tutto tondo, ha recitato a teatro, cinema, televisione e lavorato a lungo come doppiatrice.
Soprannominata giaguara per la sua vitalità aggressiva e incontenibile associata a un passo felpato, quello con cui entrava in un film con un ruolo non da protagonista, per poi rubare la scena a tutti gli altri.
Nata col nome di Laura Trombetti a Casalecchio di Reno, Bologna, il 1º maggio 1927, ha esordito come cantante jazz, per poi passare al cabaret con Walter Chiari ne I saltimbachi.
Nel 1955 ha debuttato in teatro ne Il crogiuolo di Arthur Miller, con la regia di Luchino Visconti, seguito poi da spettacoli storici come il Cid di Corneille, in coppia con Enrico Maria Salerno e I sette peccati capitali di Brecht e Weill.
Il recital Giro a vuoto, del 1960, realizzato in collaborazione dei più grandi talenti letterari dell’epoca che amavano riunirsi nella sua casa romana, a Parigi venne recensito positivamente dal fondatore del movimento del surrealismo, André Breton.
Al cinema ha esordito nel 1956, in Noi siamo le colonne di Luigi Filippo D’Amico. Le prime parti importanti sono state in Labbra rosse di Giuseppe Bennati, Era notte a Roma di Roberto Rossellini, e soprattutto ne La dolce vita di Federico Fellini, dove interpretava una giovane saccente che nella scena finale della festa si vede rovesciare un bicchiere d’acqua in faccia da Marcello Mastroianni.
Fondamentale è stato il sodalizio con Pier Paolo Pasolini, che l’ha diretta in diverse opere teatrali e cinematografiche, tra cui svetta Teorema, che le è valso la Coppa Volpi come miglior attrice al Festival del Cinema di Venezia.
È stata la sua musa, definita da lui “una tragica Marlene Dietrich, una vera Greta Garbo che si è messa sul volto una maschera inalterabile di pupattola bionda”. Meglio di chiunque, è riuscito a sfruttare la sua capacità di caratterizzare i personaggi con la sua fisicità intensa, il forte segno caratteriale, spesso aspro, e la sua voce dal timbro pastoso.
A partire dagli anni ’70 ha cominciato a interpretare soprattutto ruoli da cattiva, scomodi e sgradevoli che, seppur secondari, restavano impressi nella memoria del pubblico.
Dopo la morte di Pasolini, nel 1975, ha tentato in tutti i modi di fare giustizia all’amico, sporse anche denuncia contro la magistratura per come erano state svolte le indagini sull’omicidio, le cui cause ancora oggi, restano oscure.
Ha continuato a farlo vivere, ricordandolo, scrivendone, dirigendo documentari su di lui.
Con Giovanni Raboni, ha pubblicato, nel 1977 Pasolini cronaca giudiziaria, persecuzione, morte seguito, due anni dopo, dal romanzo Teta Veleta il cui titolo è un riferimento a uno scritto giovanile del grande intellettuale.
Nel 1983 ha ideato e diretto il Fondo Pier Paolo Pasolini che per oltre vent’anni ha avuto la sede a Roma, poi spostato a Bologna, quando, nel 2003, ha creato il Centro Studi Archivio Pier Paolo Pasolini, con oltre mille volumi e altro materiale relativo alle opere dello scrittore e regista.
Nel 2001, con Paolo Costella, ha diretto il documentario Pier Paolo Pasolini e la ragione di un sogno.
È stata anche la protagonista del libro di Emanuele Trevi Qualcosa di scritto, che evidenzia come lei sia stata la vera erede spirituale di Pasolini e incontrarla è come incontrare lo scrittore, perché rimasta plasmata e posseduta dalla sua vivida presenza.
In Francia, paese che l’ha adorata e riverita molto più dell’Italia, nel 1984 è stata nominata Commandeur des Arts et Lettres.
Laura Betti si è spenta a Roma il 31 luglio 2004.
Dopo la sua morte, il fratello, ha donato al Centro Studi Archivio Pier Paolo Pasolini anche tutti i documenti personali della carriera della sorella, raccolti sotto il nome Fondo Laura Betti, inoltre la sua città di origine, Casalecchio di Reno, nel 2015, le ha intitolato il Teatro Comunale.
Del 2011 è il documentario La passione di Laura, diretto da Paolo Petrucci, in cui viene ripercorsa la carriera dell’attrice raccogliendo anche le testimonianze di registi e intellettuali come Bernardo Bertolucci, Francesca Archibugi, Giacomo Marramao e Jack Lang. Il film è stato candidato ai Nastri d’Argento del 2012 tra i migliori documentari.
Laura Betti ha concentrato la sua esistenza nella ricerca della verità. Nell’arte, nella vita, tra la poesia che ha frequentato, nella sua recitazione.
Aveva carisma e fascino, sapeva sperimentare e aveva uno straordinario dinamismo dell’intelletto.
Ha avuto ruoli fuori dai canoni e per questo è stata difficilmente inquadrabile.
Ha saputo intrecciare linguaggi differenti come il cabaret, la canzone, il teatro, il cinema, la rivista.
Dipinta con tratti alterni, di sicuro ha saputo lasciare la sua impronta decisa e precisa nella storia della cultura italiana.
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esperimenti letterari
amatissimi followers ho una richiesta da farvi. Vorrei cimentarmi in un nuovo breve scritto ma mi piacerebbe che foste voi a darmi qualche indicazione, consigliatemi un momento storico, dei personaggi, oggetti , anche qualche semplice avvenimento ed io proverò ad incastrarli tra di loro. Attendo suggerimenti! Grazie
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Antipatie letterarie
Ci sono personaggi letterari che detesto visceralmente. Sherlock Holmes rientra fra loro. Arthur Conan Doyle ha creato una figura odiosa, per lo meno ai miei occhi. Non so bene cosa mi dia più fastidio, se la sua arroganza o la pretesa di capir tutto con un semplice sguardo alla situazione. Per questo dell’autore leggo soltanto ciò che non abbia a che fare con il celeberrimo investigatore. E vi dirò che, siccome io sono un cumulo di contraddizioni, preferisco gli Sherlock Holmes televisivi. Quelli, per esempio, impersonati da Benedict Cumberbatch (Sherlock) e Johnny Lee Miller (Elementary). Perché hanno reso strepitoso qualcosa di detestabile.
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È strano vivere fra due mondi: essere nata e cresciuta in Italia e poi aver continuato a crescere altrove, in Inghilterra, in un paese completamente diverso. Mi ricordo di essere stata brava a scrivere, di sapere bene la grammatica e di ricordarmi parole obsolete e bellissime che ormai nessuno usava più. Poi sono andata via e ho dovuto ricominciare da capo. Dopo tanti anni trascorsi a vivere a Londra non so più scrivere bene in italiano, mischio le regole, sbaglio gli accenti e i congiuntivi; e non so scrivere bene in inglese perché non ho l'agilità di una persona nata e cresciuta qui, non ho quella densità di vocabolario che mi permetterebbe di spostarmi da un vocabolo all'altro come sarei forse in grado (sarei stata) di farlo in italiano. Negli anni ho scritto all'infinito. Da bambina avevo quaderni di dimensioni A4 che riempivo di storie, di avventure gotiche fatte di personaggi alieni e macabri che amavo in gran segreto e dai quali ero sempre tutta presa. Scrivevo ovunque, ma soprattutto scrivevo a casa di mia nonna paterna durante i pomeriggi soleggiati di ogni stagione un po' perché ero un po' sola, un po' perché mi piaceva avere le sue attenzioni. Avevo tanti diari e pagine piene di documenti Word ora andati perduti dopo che il fidanzato dei tempi dell'università calpestò il mio vecchio computer e schiacciato l'hard drive, portandolo ad una morte prematura e dolorosa. Il giorno in cui il mio ex calpestò il mio computer persi tutti i miei documenti preziosi, incluse le fotografie mai stampate delle mie amicizie e viaggi adolescenziali e di amori ormai vecchi (ma mai dimenticati), e ovviamente tutti i capitoli di cose iniziate e mai finite. Forse non ho mai perso niente; tanto non ho mai finito niente, d'altro canto.
L'altro giorno per puro caso mi sono imbattuta in una scrittrice italiana che vive a Londra. Anche lei amante del gotico e del macabro, delle cose "morbid" - bello, bellissimo questo aggettivo che in italiano suona come "morbido", mentre in inglese si riferisce ad un interesse verso materie inquietanti, da pelle d'oca, che abbiano a che fare con la morte o le malattie. Sembra quasi che non ci sia una semplice traduzione di questo aggettivo, come tradurre "dolce" con "sweet", o "arrabbiato" con "angry". La scrittrice che ho scoperto si chiama Viola di Grado e ha già alle spalle premi letterari e lavori prestigiosi, indossa quello che vuole (è una goth appassionata) e scrive come le pare. È sé stessa negli autoscatti tenebrosi misti ad ego un po' imbarazzanti e teneri, e nei libri anche questi morbid e pieni di psicologia del lutto e di antropologia. L'ho adorata immediatamente e dopo ore trascorse a cogitare ho deciso di mandarle un messaggio per dirle che anche io ho un lavoro che lei forse sognerebbe, in una libreria che forse avrà visitato già tante volte, fra la stregoneria, il paranormale, la magia, i tarocchi, e che mi farebbe piacere essere sua amica.
Mi sono chiesta perché ho voluto mandarle quel messaggio e perché sento il bisogno di farmela amica. All'inizio mi sono detta che vorrei tanto avere amicizie originali e sincere, e ammiro chi nonostante l'età continui ad indossare abiti scelti con amore e con personalità piuttosto che amalgamarsi e mettere a tacere i piaceri personali. In parte è vero; in parte è anche una cazzata. La verità è che ho sempre voluto scrivere bene e scrivere un libro. Ho scritto fino alla nausea e odiato ogni cosa che ho pensato e deciso di trascrivere in flussi di rabbia, senza struttura, o in flussi di calma e amore, di notte, prima di collassare sotto il peso del sonno, anche questi senza struttura. Ho sempre voluto essere una scrittrice fino ad imbarazzarmi. Proprio come lei.
Ho un ricordo distinto delle scuole medie. Tornata per un saluto alle scuole elementari, mi ero fermata a salutare la maestra di italiano, tale Maestra Manfreda, rigida e gelosa delle bambine talentose a differenza di sua figlia, meno dotata, o almeno così mi aveva detto una cugina che subiva le sue angherie. Le dissi: sto scrivendo un libro che voglio pubblicare. Lei era contentissima, sotto sotto però mi sentivo presa in giro. Stavo gonfiando le parole quanto possibile per sentirmi grande e capace. Quindi ho voluto essere scrittrice già secoli fa, quando non sapevo cosa fosse scrivere; per me non era altro che un passatempo e un luogo metafisico per nascondermi, e da allora non è quasi cambiato nulla.
E poi Viola di Grado.
Continuo a scrivere prima di andare a letto. Sono sole paginette a sé stanti che descrivono sentimenti e fatti accaduti. Mi impegno a scrivere bene in italiano per non dimenticare questa lingua che mi ha cresciuta, che mi ha fatto innamorare e che ho odiato fino al midollo per poi rimangiarmi le parole. Scrivo scrivo scrivo e poi niente.
Forse un giorno.
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Ci sono luoghi che restano custoditi nella memoria, richiamati da canzoni, poesie, dove il cibo, il buon vino, aneddoti e storie si rincorrono, si mischiano, in maniera indissolubile.
Sono le trattorie tipiche di un tempo, quelle rimaste fedeli alla tovaglia a quadrettini rossi e bianchi ed ai bicchieri con la base smerigliata ottagonale.
Le trattorie o le osterie, meglio se “quelle di fuori porta“, rimaste celate ai flussi turistici, sono uno scrigno dell’anima. Un richiamo irrinunciabile per gli abitanti del posto, un tesoro per chi, da turista, da visitatore, da straniero, ha modo di imbattersi in loro e respirare l’aria antica e vera di una città, gustare i piatti tipici secondo le ricette tradizionali.
Tutti i centri italiani, piccoli e grandi hanno la propria “bettola”. Quella che nel corso degli anni ha visto avvicendarsi i vip del posto, quella in cui sono nati progetti politici, teatrali, musicali, letterari.
Di solito non finiscono mai su TripAdvisor, non hanno migliaia di recensioni. Perché la trattoria di una città non ha bisogno di fare fatturato, fanno storia e offrono buon cibo, quello di una volta, della tradizione, la vera ricetta della nonna, che poi, magari, è la persona grazie alla quale, quel luogo di sapori e profumi fu aperto.
Le trattorie tipiche devono essere apprezzate per la loro immutabilità, per la capacità di custodire la storia di una comunità, di conservare i ricordi di un tempo che non ci appartiene più e soprattutto riscoprire sapori di un tempo, immutati, conoscere, anche solo attraverso le foto, i personaggi che ne hanno dato lustro e notorietà.
Bologna, Roma, Milano, Napoli, Torino, Firenze, Palermo, Bari, hanno la trattoria tipica, l’osteria storica, la cassaforte dei ricordi di una città.
A Bologna e a Milano, così come a Roma, le trattorie tipiche si trovano in zone poco battute dai flussi turistici. A Napoli le puoi scoprire nascoste nei meandri dei vicoli del Decumano. Osterie di un tempo a Bari Vecchia, sulle colline fiorentine a Firenze, nel cuore antico a Torino e così via.
Per chi non è del posto, però, potrebbero esserci dei contraccolpi non da poco. Chi vi serve a tavola potrebbe avere un comportamento “troppo intimo”, poco professionale per così dire. E’ questo il bello della trattoria. Se avrete la fortuna di imbattervi in quella davvero storica in una delle cento città italiane, ricordatevi che la trattoria è una esperienza prima ancora che una sosta gastronomica, è come vivere per un’ora in “una stampa storica animata di quella città” dove il tempo si è fermato a tavola.
Il luogo dove potete ancora respirare l’aria degli stornelli e dei minestroni d’osteria, che non sono le zuppe di verdura, ma le lunghissime canzoni che un tempo gli avventori ideavano al momento, magari dopo aver alzato un po’ il gomito.
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È abbastanza curioso il diverso approccio dell’editoria straniera e italiana al copyright dei testi di canzoni usati in opere letterarie. Vi basterà aver letto anche solo un libro di Stephen King per aver trovato una minuziosa lista di credits e copyright dei brani di cui si cita del testo, in epigrafe o nel romanzo. In Italia invece è un po’ liberi tutti – ma legalmente è sbagliato, è come campionare un pezzo di un brano nel proprio senza averne chiesto i diritti.
(La cosa mi è venuta in mente perché nell’ultimo Dylan Dog ci sono due pagine con il testo di Two minutes to midnight degli Iron Maiden. In un numero di Sex Crimimals uno dei personaggi canta una canzone al karaoke e nei balloon dove dovrebbe esserci il testo della canzone ci sono dei finti post-it in cui lo sceneggiatore spiega che la canzone è Fat bottomed girls dei Queen, ma il management chiedeva troppo per i diritti e alla fine hanno lasciato perdere)
(In Almost Famous doveva esserci una scena in cui la sorella del protagonista fa ascoltare alla madre Stairway to Heaven, che fu girata per intero e poi scartata perché i Led Zeppelin non amano concedere diritti per la loro musica – una ritrosia che, via Jack Black, ha poi causato la nascita dei Rockin’ 1000, ma questa è un’altra storia. Nei bonus del dvd c’era la scena, muta, con l’indicazione di quando far partire la canzone – prima che il montaggio audio e video diventasse alla portata di chiunque, per cui oggi la scena è su YouTube)
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Casa Paradiso: Un Romanzo sulla Solitudine, la Memoria e i Legami Familiari. Mario Volpe racconta la storia di un uomo che sfida la solitudine e la superficialità dei legami attraverso un ultimo, ironico stratagemma
Il nuovo romanzo di Mario Volpe, Casa Paradiso, esplora i complessi legami tra memoria, solitudine e famiglia
Il nuovo romanzo di Mario Volpe, Casa Paradiso, esplora i complessi legami tra memoria, solitudine e famiglia. Pubblicato da Capponi Editore, il libro narra la storia di Benito Gramaglia, un ex ingegnere ferroviario che, dopo la perdita della moglie, si trasferisce in una casa di riposo nei monti del Ticino, cedendo ai figli tutto il suo patrimonio. Tuttavia, quando le loro visite diventano…
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Dottor Johann Faust, uno dei personaggi più conosciuti e importanti del canone occidentale. Sono innumerevoli le sue reincarnazioni letterarie: da Johann Spies nel ‘500 alla versione ottocentesca di Goethe. Dallo spagnolo Calderón de la Barca al francese Valéry. Dal romanzo di Thomas Mann del ‘900 fino alla versione del 2020 di Chris Bush.
🎭 Il post di oggi riguarda una delle primissime apparizioni di questo personaggio: “The Tragical History of Doctor Faustus” di Cristopher Marlowe, play teatrale del 1593.
L’opera è un mix di elementi molto diversi tra loro: troviamo scene che rimandano alle morality play medievali ed elementi ancor più antichi derivanti della tragedia greca come il chorus. Pur essendo una tragedia, inoltre, contiene anche elementi puramente farseschi atti a stemperare la tensione.
Si tratta di un’opera nella quale l’intento moralizzatore è manifesto, eppure, in questa cornice il personaggio di Faust spicca per la propria modernità. Certo, Faust non è certo uno stinco di santo: è un arrogante, un megalomane assetato di potere che decide di vendere l’anima pur di raggiungere i propri scopi. Ma è anche un dotto: ha in sé una fortissima curiosità e sete di conoscenza. Incarna il potenziale umano; é l'uomo del rinascimento proiettato verso un futuro di libertà intellettuale, ma non scevro in insidie.
Una delle parti più belle e poetiche del testo è il monologo di Faust durante le sue ultime ore di vita, prima di essere trascinato all’inferno. Un momento di puro lirismo; se proprio non vi piace leggere le opere teatrali, consiglio comunque di recuperare almeno questo monologo straordinario.
[Credit dipinto: Faust on Easter morning - Johann Peter Krafft - 1830]
[ ig: @conigli_letterari ]
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Storia Di Musica #289 - Genesis, The Lamb Lies Down On Broadway, 1974
Quando si parla di dischi dove davvero si sente quanto siano bravi i musicisti, non si può non pensare all’epopea del progressive (che come quelli che mi sopportano in questa rubrica da più tempo sanno, sia uno dei miei pallini musicali). Il prog, che vorrei sottolineare è una definizione che negli anni è diventata sempre meno descrittiva e precisa, ma che per consuetudine e anche affetto si continua ad usare, è stato il primo e significativo della gioventù europea di creare musica pop fuori dallo schema del blues americano d’importazione. Sembra un particolare secondario, ma è fondamentale, come lo è l’estrazione sociale dei protagonisti: tutti baby boomer (termine che vuol dire la prima generazione nata dopo la guerra, non il sarcastico e odioso epiteto di oggi contro chi non è “giovane”), sospinti dalla crescita economica e, particolare importantissimo, la prima generazione che fa musica studiando a livelli superiori; quasi tutti i grandi gruppi progressive sono formati da ragazzi laureati, spesso in materie scientifiche (l’esempio più famoso è Brian May, laureato con lode in Astrofisica, ma ricordo anche i componenti dei mitici Van Der Graaf Generator tutti dottori in materie scientifiche). Tutto questo portò ad un approccio molto serio e tecnico alla musica, e al netto delle preferenze personali i capolavori del prog sono tutti dischi suonati magistralmente, e potrebbero essere tutti citati in questo mese. Aggiungo, in primis, disseminati nei post di questa ve ne sono tanti, e in secundis per celebrare degnamente i dischi stato dell’arte ho scelto uno dei più famosi dischi prog, capolavoro di una delle band leggenda del movimento.
I Genesis sono stati i principi del progressive, una dei gruppi mitici di quel periodo. Eppure l’inizio fu tutt’altro che promettente: dopo una scrittura per la Decca e due singoli, esce From Genesis To Revelation (1969), che ha così poco successo che tutti i membri della band, Peter Gabriel, Tony Banks, Chris Steward, Anthony Phillis e Michael Rutherford tornano a fare gli studenti universitari. Fu però l’intuito di un grande discografico, Tony Strattor-Smith, che fondò la Charisma, la casa discografica motore del prog, a intuire il potenziale: entra a fare patte della band John Mayhewm con cui registrano Trespass (1970), che sebbene non ha vendite confortanti è apprezzato e ha il primo, grande brano, The Knife. Ma il meglio deve ancora venire: Mayhew se ne va con Phillips, e tramite un annuncio sulla famosissima rivista Melody Maker, vengono scelti due nuovi musicisti, Steve Hackett alla chitarra e Phil Collins alla batteria. Nasce qui la line up leggendaria, e piano piano inizierà a prendere forma il loro mondo di testi colti, ironici e surreali, con tanti riferimenti letterari e alla mitologia non solo classica ma anche del folklore locale, una musica maestosa e a tratti magicamente ipnotizzante con largo uso di tastiere e sintetizzatori, creando o anticipando stili futuri, tipo il rock sinfonico. Nursery Crime, Foxtrot, Selling England By The Pound sono i primi tre capitoli di una tetralogia magnifica di capolavori che impongono lo stile musicale del gruppo ma anche l’istrionismo di Gabriel, cantante superbo, e da ricordare soprattutto che fu il primo ad introdurre l’aspetto teatrale e scenografico nei concerti, usando travestimenti, trucchi in volto, caratterizzando la voce dei vari personaggi delle canzoni. Il disco di oggi è l’apoteosi di questo concetto, un disco che è molto di più di Gabriel che dei Genesis, nella stessa misura di The Wall disco di Roger Waters che dei Pink Floyd.
The Lamb Lies Down On Broadway, che esce nel 1974, è il primo, e unico, concept album dei Genesis. Racconta la storia di Rael (anagramma di Real, reale, ma anche parziale di Gabriel), un ragazzo portoricano fuggito dall’orfanotrofio di Pontiac che va a New York a scrivere graffiti, unica forma per esprimere i suoi sentimenti. Camminando per Broadway, Rael si imbatte in un agnello sdraiato fra i vapori dei riscaldamenti sotterranei, che si trasformano in una nebbia che lo trasporta in un'altra dimensione spazio-temporale, quasi interamente ambientata sottoterra. Qui troverà mostri mitologici, uomini mezzi rettili, personaggi grotteschi, ma troverà anche suo fratello John. Proprio per salvare la vita di John, al culmine della storia, Rael rinuncerà a tornare nella sua Manhattan, magicamente riapparsa oltre una finestra nella roccia, per gettarsi fra le rapide di un fiume. Subito dopo il salvataggio tuttavia Rael si accorge sgomento che John ha assunto le sue stesse sembianze, rivelandosi di fatto una proiezione del suo io, e appena capito cosa sta per succedere immediatamente dopo i "due Rael" scompaiono in una misteriosa foschia purpurea assieme a tutta la scena e alla storia stessa. Non esiste un brano “killer” come ci sono stati in altri lavori precedenti, ma basta il brano omonimo che apre il disco, che raccoglie come una ouverture di musica classica tutti i temi del disco ( il doppio LP dura oltre 90 minuti), la dolcezza di Hairless Heart o The Carpet Crawlers, o la forza di In The Cage o di Counting Out Time per decretare questo disco di una tale ricchezza di spunti, sia lirici che sonori, da dare il capogiro. La storia di Rael è l’ennesimo, e più sofisticato, tentativo di Peter Gabriel di critica al consumismo, alla imminente globalizzazione, agli idoli fallaci di un mondo dove i confini tra illusione e realtà sono sempre più fittizi, dove essere e apparire si fondono perdendo di contorno e significato, e molto più di altre occasioni c’è una dimensione personale di racconto emozionale per dar forma a temi che riguardano la sua interiorità, come il rapporto col sesso (The Lamia, The Colony Of Slippermen), con la paura o con la morte (Anyway, Here Comes The Supernatural Anaesthetist), visti con gli occhi di Rael. E se per qualcuno c’è il dubbio, in It, misterioso e sarcastico brano di chiusura, Gabriel canta “Se pensi che sia pretenzioso, sei stato preso per un viaggio\Guarda attraverso lo specchio figliolo, prima di scegliere, decidi” e finisce con “it's only knock and know-all, but I like it", che storpia il titolo di It's Only Rock 'n Roll (But I Like It), degli Stones, traducibile pressappoco: «criticare e [fare il] saccente su tutto», quasi a profetizzare le future critiche delle riviste musicali al lavoro, accusato di essere uno spaccato di megalomania, per la storia così complicata (che ha, per essere precisi, un finale aperto, come a sospettare un continuazione prevista). Gabriel dopo il tour successivo questa faticaccia se ne va, nel 1975, anche perché gli animi degli altri non vedevano bene il suo protagonismo. Ci sono le ultime tre cose da dire: i Genesis ne volevano fare un film con William Friednik, recentemente scomparso, ma non se ne fece mai niente; il disco fu accompagnato da 102 concerti, dove Gabriel cambiava vestito per decine di volte, ed è un peccato che non ne sia mai stato fatto un live come si deve; i Genesis, dopo l’addio di Gabriel, passano le redini a Phil Collins, che dopo la bufera del punk (che odiava la maestria del prog, a cui opposero i suoni viscerali e spesso sgangherati), specializzerà il gruppo in una sorta di pop d’autore, che regalerà risultati di vendita mai visti, soprattutto negli Stati Uniti, che ovviamente non capirono mai del tutto il prog. Ma il passaggio tra le due epoche equivale a passare in una strada dove prima sorgeva una cattedrale maestosa, tra le più grandiose di sempre per meraviglie, al cui posto adesso c’è una villetta in riva al mare, che accoglie l’ondeggio lento delle onde. Un cambiamento non da poco.
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Ágota Kristóf
Ágota Kristóf, scrittrice e drammaturga ungherese passata alla storia della letteratura mondiale col suo capolavoro La trilogia della città di K. che ha ricevuto numerosi premi letterari ed è stato tradotto in oltre trenta lingue.
I suoi romanzi, dalla scrittura asciutta e incisiva, la prosa austera e la narrazione senza fronzoli, esplorano, in maniera cruda e provocatoria, temi universali come la violenza, la guerra, l’infanzia e la natura umana. I personaggi dei suoi racconti sono spesso segnati dalla condizione esistenziale dell’erranza, di chi è costrettə ad abbandonare la propria terra per cercare rifugio in un paese straniero
Nata il 30 ottobre 1935 a Csikvánd, un piccolo villaggio in Ungheria, a quattordici anni scriveva le sue prime poesie mentre studiava in un collegio di sole ragazze.
Nel 1956, dopo l’intervento dell’Armata Rossa per soffocare la rivolta popolare contro l’invasione sovietica, è fuggita con il marito e la figlia in Svizzera stabilendosi a Neuchâtel, dove ha vissuto fino alla morte, avvenuta il 27 luglio 2011.
Quando è scappata aveva poco più di vent’anni e una bambina di undici mesi avvolta alla schiena. Ha dovuto imparare a ricostruirsi una nuova vita, una nuova lingua, che ha adoperato per scrivere sentendosi sempre analfabeta perché non la padroneggiava abbastanza. Ha lavorato come operaia in una fabbrica, poi è stata insegnante e traduttrice, ha divorziato e avuto altri due figli.
La sua fuga è stato un trauma da cui non si è mai ripresa, allontanata dagli affetti in un mondo totalmente diverso da quello a cui apparteneva. La condizione inesorabile della persona migrante che deve adattarsi a una realtà da cui si sente estranea.
Ha raggiunto il successo internazionale nel 1987, con la pubblicazione de Le grand cahier che, insieme a La preuve e Le troisième mensonge è confluito in quel grande capolavoro che è stato la Trilogie (Trilogia della città di K.). I tre libri ripercorrono il tema del distacco, la separazione di due gemelli, Klaus e Lucas, e il ritrovamento dopo la guerra.
La sua scrittura è scarna, crudele, reale. Un pugno nello stomaco di chi la legge. Quello che racconta non ha bisogno di fronzoli o abbellimenti, è il ritratto di una realtà dura che molto coincide con la sua biografia. Ha rappresentato le tragedie della guerra con una disperazione fredda e sorda, come se scrivesse attraverso gli occhi di un bambino che non giudica mai niente, che si limita a registrare quello che accade con spietata ingenuità.
Vari i romanzi e le opere teatrali che ha scritto consumando, con parole dure, la lotta per integrarsi in una nuova cultura, la continua guerra di chi ha perso la propria terra e non potrà mai più tornare indietro.
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"Lasciatevi trasportare dalla magia di Chocolat, un romanzo che vi incanterà con la sua atmosfera incantevole e i suoi personaggi indimenticabili."
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Libri che vanno letti 32
Ho avuto e ho i miei Grandi Amori Letterari. Autori che mi hanno “sequestrato” fin dalle prime righe e ai quali mi sono concesso senza condizioni in quanto lettore. Purtroppo alcuni di loro mi hanno deluso. È il caso di Stephen King, scoperto al liceo grazie a un amico e compagno di classe. Me l’ha fatta davvero grossa. Prima ha scritto un romanzo ridicolo, farraginoso, stupido e immondo: L’acchiappasogni. Poi nel ciclo della Torre Nera ha fatto incontrare i suoi personaggi con se stesso. Da un uomo considerato unanimemente un genio non mi aspettavo una simile banalità. Come conseguenza è scattato in me un rigetto quasi totale. Non riesco più a leggerlo. Ho perfino deciso di sbarazzarmi di quasi tutte le sue opere. A parte alcune. Tipo questo suo saggio sulla letteratura fantastica. Al di là di tutto, King è uno specialista del genere. E il suo punto di vista rimane pur sempre di una certa rilevanza.
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