#Pagani Guerriero
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Non amo le Religioni. Tutte. La "nostra" ad esempio è stata concausa primaria della fine dell'impero Romano, nonché "benzodiazepina rincoglionitiva" del nostro forte spirito fino a annichilire del tutto ogni forma di "Severitàs". Amo più l'idea di un Paganesimo. Un Dio diverso da pregare per ogni stato d'animo da affrontare. Un Dio severo quando serva Severità, uno Pacifico quando serva Pace, uno Guerriero quando serva Azione, uno Giusto quando serva Decisione ecc ecc. Vari momenti da affrontare proprio come la Vera vita impone. Un Pagano qualcosa di simile ai Giusti tra le Nazioni con cui gli odierni ebrei onorano i Non-ebrei che si sono prodigati però per difendere ebrei perseguitati. Con esso, anche i teologi cristiani hanno affrontato il problema della eterna salvezza per i pagani che, pur non avendo ricevuto la evangelizzazione, vissero come se l'avessero anticipata: cioè in modo Retto e Morale senza bisogno di false credenze
Ma non amo la forza del rito che contiene tutti in pugno. Le collettività che abindolano come tutte le "fedi create dall'uomo" e non dalla Natura come il Paganesimo
Le religioni pregiudicano scelte e adattamenti in quanto impongono a tutti in modo uniforme la loro unica via verso il raggiungimento della felicità e la loro idea di protezione dalla sofferenza. La tecnica delle religioni consistoni nello sminuire il valore della vita e nel deformare in maniera delirante l’immagine del mondo reale, cose che presuppongono l’avvilimento èe soprattutto l annichilimento dell’intelligenza. A questo prezzo, mediante la fissazione violenta a un infantilismo psichico e la partecipazione a un delirio collettivo, le religioni riescono a deformare la vita di interi popoli fino a farli entrare in guerra.
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Lughnasadh, il giorno delle unioni matrimoniali
Lughnasadh, il giorno delle unioni matrimoniali
Ieri è stato il primo agosto e noi pagani festeggiamo Lughnasadh una festività gaelica che segna l’inizio della stagione del raccolto (in particolare del grano e dei mirtilli). Il nome deriva dal dio celtico Lugh, figlio del sole, guerriero, re, maestro dell’artigianato e salvatore della stirpe di divinità Tuatha Dé Danaan, figlio della dea della Terra e della vegetazione morente Tailtiu. Era una…
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9 AGOSTO 378 d.C
Già da diversi anni circolava la notizia che i barbari del Nord si erano messi in movimento. Valente (imperatore romano d’oriente all’epoca -376) non era preoccupato per niente. Le notizie arrivate ad Antiochia parlavano di un nuovo popolo -gli Unni- che procedendo verso sud-ovest stavano devastando e terrorizzando le popolazioni nomadi oltre i confini romani del Reno e Danubio - i Goti- sospingendoli verso il confine naturale.
Ad un certo punto, oltre il Danubio, si trovarono accampati decine di migliaia di goti, in cerca di scampo che a piccoli gruppi stavano tentando di attraversare il confine, ma le pattuglie romane li avevano intercettati e distrutti senza pietà.
Al momento dell’accoglienza dei profughi Goti, a Costantinopoli si era fatta strada già da tempo l’ideologia, diciamo così, progressista e umanitaria che era molto diffusa tra i circoli dirigenti dell’impero e che è l’altra faccia della deliberata crudeltà con cui le truppe romane conducevano le loro operazioni in territorio nemico. Temisto, come quasi tutti i politici dell’impero è convinto che con un pò d’impegno i barbari potranno essere civilizzati e un giorno diventare anche loro sudditi dell’imperatore, sudditi utili - che nel linguaggio del tempo vuol dire innanzitutto dei contribuenti solvibili. Perciò Temisto elogia Valente che poteva sterminare i Goti e invece ha preferito risparmiarli.il genocidio appare un’opzione perdente perché l’impero che aspira a dominare il mondo deve proporsi anche l’obiettivo di civilizzare i barbari. Possiamo scommettere che più di un generale non la pensasse così, ma ufficialmente erano discorsi che non si potevano più fare, e non solo perché l’impero era diventato cristiano (Temisto e Libanio erano pagani) il fatto è che l’ideologia imperiale si incentrava sempre più apertamente nella sua forza d’attrazione per tutta l’umanità, per lo sfoggio di benevolenza verso “quei popoli che non hanno mai avuto l’occasione di essere romani”. L’integrazione andava incoraggiata e gli imperatori nelle loro leggi si compiacevano perché “molti appartenenti ai popoli stranieri sono venuti nel nostro impero inseguendo la felicità romana”.
Giochi di potere tra oriente e occidente, dispute a oriente per la successione, calcolo politico-economico sull’utilità di poter impiegare i Goti nella guerra contro la Persia, indussero l’imperatore ad accettare la richiesta dei barbari di essere ammessi come profughi all’interno del territorio romano. E cominciò il trasbordo. Eunapio conferma che questo si svolse nella più grande confusione e aggiunge dettagli sull’illegalità diffusa e più ne trasbordavano più le masse umane oltre il Danubio crescevano, fino a che non fu più possibile arginarle.
Il patto tra romani e Goti prevedeva la possibilità di stanziarsi stabilmente in certi territori che avevano bisogno di essere coltivati, riconoscimento dell’autorità imperiale e lavoro nell’esercito romano. Questa accoglienza di immigrati su larga scala era la più grande numericamente che l’impero avesse mai attuato.
Ma una volta arrivati in Tracia, qualcosa va storto e i goti si ribellano dando inizio alle guerre che porteranno alla caduta di Adrianopoli e alla morte dell’imperatore d’oriente. il 9 agosto 378. Mentre a oriente sale al trono Teodosio, i goti si dirigono verso ovest, passano la Grecia, Balcani e arrivano a Roma: è il 410.
Alarico è un cristiano ariano, un militare romano di carriera che emerge nell’ambiente dei mercenari gotici al servizio di Teodosio, solo che prima di questo é capo di una banda di guerrieri che lo seguono perché capace di negoziare dei contratti lucrosi col governo. Non è un re, è un uomo con almeno due identità: capo guerriero a cui tanti Goti avevano giurato fedeltà secondo i rituali dei loro antenati, ed è Flavio Alarico, generale romano, magister militum, e queste due identità non erano una vera e una falsa, erano vere tutt’e due.
A partire da quel momento il flusso dell’immigrazione barbarica non più controllata si rivolgerà sempre più verso occidente e qui i mercenari barbari prenderanno il potere, i Goti nella Gallia meridionale e Spagna, i Franchi nella Gallia del Nord.
Inizia la spaccatura tra oriente greco e occidente cristiano.
fonte Alessandro Barbero
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24.10.2021
Sono tre le figure incollate, non ci sono ombre sul terreno e la prospettiva è ancora quella centrica-lineare, in uno sfondo serale sul quale una tempesta si sta per abbattere sulla scena: o se ne sta andando?
A destra c'è l'antro della belva: nulla di buono da quelle parti...
C'è la principessa forse spaventata, sicuramente diafana, gotica, altera nello sfarzo dei suoi abiti pagani: quasi bizantina se non fosse "presa" di lato.
C'è Giorgio che si è preso la briga, per evangelizzare un nuovo popolo, di uccidere il mostro: lo farà più tardi, una volta portatolo entro le mura della città.
Davanti al popolo per convertirlo.
Giorgio è bellissimo nella sua alta corrazza-uniforme da guerriero che ci verrà tramandata dall'iconografia: è in groppa al suo cavallo bianco, teso in uno sforzo plastico, quasi irreale.
La lancia che usa è fin troppo lunga e sottile per lo scopo e, con lo sforzo muscolare dell'equino, dà un'idea ieratica e fortemente simbolica al tutto: è il Gotico Internazionale bellezza, nei suoi ultimi, bellissimi, respiri.
Poi c'è il mostro che più che un drago è una viverna, legato, tramite una sottile catena, alla principessa: non sappiamo se è stata messa dai concittadini affinché la creatura la portasse con sé o se è un'idea di Giorgio per scortarla, infine ferita e mansueta, verso la sua cruenta fine ma, tant'è, che c'è e lascia una certa ambiguità al tutto.
Il terreno di scontro è fin troppo ordinato, con quelle "simil-aiuole" per essere una scena "selvatica": ok la violenza ma rimaniamo umani per dio!
Ho sempre pensato che era necessario concentrarsi sul poco rosso (le vesti della principessa, la bardatura del cavallo, il sangue della viverna) per capire fino in fondo questo dipinto.
Probabilmente la cosa è corretta ma, invecchiando, mi sono reso conto che il quid sta proprio nella tempesta a destra: che il bene vinca sul male pare chiaro ma la domanda è se, alla fine, sia una cosa, veramente, auspicabile.
Non sappiamo se Paolo se l'era posto come problema ma è lì che ci scruta...
Paolo Uccello (1460 ca.)
Olio su tela (cm 57×73)
National Gallery, Londra (UK)
Mood: Dragoniano
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Monte Sant’Angelo, dove il cherubino è un bimbo con la spada scintillante. Gita in un luogo fuori dal tempo, un’utopia, tra boschi da “Signore degli Anelli” e desideri di rinuncia
Questo paese si raggiunge attraverso due strade. Una è più veloce e diretta, l’altra è più lenta e attraversa la suggestiva foresta umbra. Prendete quest’ultima e percorrete i chilometri di curve che, sempre all’ombra di alberi nodosi e antichi, in un paesaggio che sembra letteralmente scaturito dalle pagine del Signore degli Anelli (o di qualsiasi altra saga medievale). Non a caso, perché questa zona della Puglia è ancora considerata una terra di magia, punteggiata di miracoli e percorsa dalle note di canzoni popolari che rievocano le leggende della corte federiciana. Una terra in cui il sacro e il profano si mischiano all’ombra dei campanili, camminando mano nella mano in processione; una terra di santuari, ormai più popolati di turisti che di pellegrini.
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Monte Sant’Angelo in una fotografie di Daoine Sidhe. Le altre immagini sono scattate dall’autrice, Ilaria Cerioli
Monte Sant’Angelo, arroccato a 800 metri, domina dalla sua sommità l’orizzonte. Da una parte si staglia il Tavoliere e la Foresta umbra, dall’altra il celeste brillante del mare aperto. La sensazione predominate è quindi quella di trovarsi in cielo, intento a volteggiare nell’aria calda dell’estate. Quando vi si arriva quel che colpisce immediatamente è la presenza di antiche architetture in pietra, massicce e arcaiche, megalitiche. Case altissime si alzano nella parte vecchia di Monte, ma pure nella zona nuova; più defilate, quasi sperdute tra i muri intonacati che nascondono più umili e moderni mattoni rossi, eppure orgogliosamente sull’attenti. Inutile dire che non si può non provare una grandissima invidia per coloro che possono godere, dai balconcini in ferro battuto che si vedono lassù, del panorama.
Monte Sant’Angelo non è solo una bella cartolina. Monte Sant’Angelo è per esempio un centro importante per i culti Micaelici, ben inserito all’interno di un percorso sacro che collega i santuari dedicati all’arcangelo Michele. Dal celeberrimo Mont Saint-Michel normanno giù giù, fino al cuore pulsante del Mediterraneo. In un documento datato tra VII- IX secolo, il Liber de apparitione Sancti Michaelis in Monte Gargano, si narra ad esempio della sua miracolosa apparizione al vescovo Maiorano. In un altro anonimo del X-XI secolo, la Vita Sancti Laurentii episcopi Sipontini, dedicato alla narrazione della vita di San Lorenzo, vescovo di Siponto, si riporta invece l’epoca delle prime apparizioni. C’è un salto temporale tra le date di questi primi testi e le precoci notizie di miracoli, le quale paiono attestate a partire dal V secolo d.C. Che sia una dimostrazione del fatto che la grotta era nota già ai primi cristiani, agli albori del Tardo Antico? Oggi Monte Sant’Angelo e la sua grotta vantano numerosi visitatori, provenienti da tutte le parti del mondo. Alcuni arrivano in auto, altri in pullman. Qualcuno a piedi, riscoprendo gli antichi percorsi della via Langobardorum (o via Francesca) e della via Franchigena. Proprio quest’ultima era, nella prima metà del IX secolo, la strada più frequentemente scelta dai devoti, che vi giungevano dai territori longobardi e da quelli posti al di là delle Alpi (J.M. Martin, Le culte de Saint Michel en Italie méridionale daprés les actes de la pratique. VI-XII siècles, in Culto e insediamenti micaelici nell’Italia meridionale fra tarda antichità e Medioevo, a cura di C. Carletti e G. Otranto, Bari, 1994, p. 378). Non è quindi un caso che ancora oggi una spartana “Casa del pellegrino” sia posta a guardia dell’ingresso del paese, e che nelle botteghe artigiane si possa acquistare oggetti e simboli di questo turismo spirituale.
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Una tradizione secolare, questa, tanto che in Puglia giunsero San Tommaso d’Aquino, Santa Caterina da Siena e San Francesco d’Assisi. Anche per questo Monte Sant’Angelo è entrato a fare parte, il 25 giugno 2011, del Patrimonio culturale mondiale, tutelato dall’UNESCO. Nel gennaio 2014 è giunto poi il riconoscimento della National Geographic Society, che ha classificato la grotta di San Michele Arcangelo all’ottavo posto nella speciale classifica delle grotte più belle del mondo. Che tutto ciò sia una conferma della predilezione dell’arcangelo Michele all’apparizione nelle grotte, meglio se splendide come quella di Monte Sant’Angelo? Che Michelino ami il buio misterioso degli anfratti è testimoniato dalla tradizione agiografica, ricchissima di spazi bui e notturni, ricchi di acque e di pietre scintillanti. Tutti elementi che, a ben pensarci, rappresentano una rilettura in chiave cristiana di culti assai più antichi (S. Laddomada, Frequentazioni di grotte naturali nell’antichità, in Riflessioni Umanesimo della pietra, Martina Franca, 1983, p. 83- 86).
Non è neppure casuale che sia proprio l’arcangelo Michele, e non il leggiadro Raffaele o il rassicurante Gabriele, a scendere tra i comuni mortali: nei secoli bui, quando il cristianesimo si confrontava ancora con culti pagani, ma soprattutto con l’arianesimo dei barbari, il cherubino che doveva far sentire ai fedeli il battito d’ali di Dio, riecheggiante nella grotta garganica, non poteva infatti essere altri che un angelo guerriero; un milite di Dio abituato a lottare con Satana, in grado di simboleggiare la concreta e sanguinosa vittoria del Dio dei cristiani sui falsi Dei pagani. Guardiamolo bene questo cherubino.
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Nonostante venga definito bonariamente col nomignolo di Michelino, l’arcangelo non si propone affatto con l’immagine di un santo umile e pacifico. Al punto che, nella solenne processione del 29 settembre, un bambino lo impersona sfilando vestito con piccole ali e grande spada scintillante. Michele è del resto una divinità importante, tanto da essere riconosciuta anche nella cultura araba (Mīkāʾīl in arabo: ميخائيل, o Mīkīl ﻣﻴﻜﻴﻞ è infatti citato nel Corano come “colui che non ride mai”, di pari rango rispetto a Jibrīl (Gabriele). Dunque, altro che piccolo e paffuto angioletto michelangiolesco; qui siamo alle prese con un pezzo da novanta della tradizione cristiana.
Mentre scendo le scale, procedendo verso il cuore del santuario, mi diverto a leggere le numerose epigrafi impresse nella pietra (per le iscrizioni si veda San Michele e il suo santuario. Via sacra Langobardorum. Ed. Bastogi Foggia 1997). Alcune sono mani o impronte di scarpe, altre sono simboli universali e globalizzati come il Tao, altri ancora sono i nomi (qualcuno in alfabeto runico, tanti in latino, in lingua germanica e longobarda). Inoltrandosi nel reticolo di strade che dal santuario portano al quartiere medievale si incontrano poi diverse testimonianze architettoniche “strane”, che raccontano dell’inesausto processo di passaggio di potere: dalle dinastie longobarde al regno normanno, dagli svevi agli angioini e agli aragonesi. In una successione di genti che ha lasciato tracce evidenti del passaggio, non solo nella tradizione culturale ma anche in quella culinaria. Se capitelli, chiese e castello definiscono le tappe di questa lunga storia di dominazione, il quartiere Juno, con le abitazioni in grotta, racconta invece la vita di chi passava con indifferenza da un padrone a un altro. Per loro non c’era alcun problema. Del resto, come ci insegna il Manzoni, per gli umili una lingua straniera significa sempre sopruso.
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Rimango colpita dal fatto che anche i turisti, di solito chiassosi e ingombranti, con zaini e macchine fotografiche, bambini e cani al guinzaglio, aste per i selfie e telefonini in mano, sembrano condizionati dal silenzio, che è la vera particolarità del luogo. Nessuno osa alzare la voce, chiamare un famigliare o chiedere insistentemente un rinfrescante gelato; pure i cani paiono temere di disturbare troppo con i loro guaiti. Su tutti e tutto la presenza muta e severa delle suore clarisse, con i loro volti tutti quadrati e terreni incorniciati dal velo. Così, mentre a pochi chilometri si brinda in spiaggia negli happy hours, a Monte Sant’Angelo si riflette sul valore della preghiera, dell’umiltà e della rinuncia. Sto per partire e tornare verso il mare, ma negli occhi rimangono gli stralci di Paradiso di questa terra. Scampoli di cielo appaiono e scompaiono magicamente, tra tetti e terrazzini, schiaffeggiando con il violento azzurro del palmo il mio viso.
Sto percorrendo gli ultimi metri e mi sento stanca. Del resto questo paese è faticoso da visitare, con la sua planimetria sfalsata sembra di percorrere le strade del castello dei destini incrociati. Il suo centro storico è infatti un alveare di botteghe artigiane nascoste, di laboratori e abitazioni private; un vero labirinto, punteggiato da piazze assolate, odore di piscio di cane e murales con l’immagine di Falcone e Borsellino. No, Monte Sant’Angelo non è un luogo facile da visitare; e nemmeno da abitare. È un paese di montagna, con gente dura e abituata al capriccio delle stagioni, alla carenza di acqua e al destino della migrazione. E in fondo tale e quale al passato rimane, nonostante gli impianti moderni finalmente costruiti, che permettono una qualità della vita dignitosa eppure come estranea alla realtà di questo mondo.
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Monte Sant’Angelo è oggi una sede universitaria, con tanto di campi sportivi, di scuole, di teatro e di auditorium. Con tutto questo armamentario di edifici e di contemporaneità ci si illude di contrastare le forze profonde, le stesse che da sempre trascinano via lontano centinaia, migliaia, di compaesano. Tanti cognomi di qui si ritrovano in Sud America, tanti altri nelle grandi città del Settentrione. Probabilmente vi rimarranno, e altri se ne aggiungeranno. Anche per questo è significativa una targa che scorgo su di un muro scrostato. Vi leggo: Sì come sa di sale lo pane altrui. Proprio il pane a forma di ruota è una delle specialità della zona insieme alle orecchiette e alle cartellate, o alle ostie con miele e mandorle. I dolci grezzi, simili a quelli della tradizione araba, ricordano che siamo pure sempre frutto di una contaminazione culturale. Monte Sant’Angelo è un’utopia, una scommessa. Una prova di resistenza verso il futuro perché ai freddi inverni di Monte ora i giovani preferiscono il clima mite della pianura e la confusione al silenzio. o un lavoro alla disoccupazione. Oggi, infatti, come un tempo le nuove generazioni progressivamente lasciano la loro terra, i loro affetti. Non sono più uomini con valigie di cartone, contadini o gente povera, ma ragazzi e ragazze che, nonostante lauree e tutoli di studio, sono costretti a emigrare in cerca di migliori opportunità.
Ilaria Cerioli
*In copertina: Raffaello, “San Michele sconfigge Satana”, 1518
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Ho passato il compleanno con Montherlant, l’ultimo degli imperdonabili
Ho passato il compleanno con Henry de Montherlant, nonostante l’8 febbraio sia nato James Dean, si merita un cero. Ieri, dopo una sessione di tesi, consueto appuntamento annuale all’Università della Terza Età di Rimini. Il giorno del mio compleanno. Per festeggiarmi, parlo di Henry de Montherlant. Più lo leggo, più mi sembra uno scrittore desolatamente grande, isolato, sorprendente e incomprensibile. Artista dallo stile inimitabile, a misura della sua vita, che piglia Pascal, lo mescola a Sade, se ne frega degli avanguardismi alla moda – austero difensore della grandezza granitica dell’individuo, solo contro tutti.
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In particolare, ho parlato di Malatesta, il testo teatrale scritto da Montherlant dal 1943, durante gli anni dell’occupazione tedesca di Parigi, perduto tra le brume della storia antica, bramando la rivolta dell’ego. Montherlant sentiva un gemellaggio con il “condottiero, poeta, erudito, mecenate, assassino, sfrenato donnaiolo nonostante l’amore appassionato che in lui non viene mai meno per la moglie Isotta, leggero abbastanza per far erigere una chiesa in cui non c’erano che simboli pagani, grave abbastanza per vivere come gli anacoreti con un teschio sul tavolo, abbastanza sacrilego per essere condannato al rogo dal Santo Uffizio, abbastanza religioso per morire cristianamente”. Ancora più di Ezra Pound – che al principe di Rimini dedica i Cantos ‘Malatestiani’ – Montherlant accusa un legame di sangue, anzi, ‘di latte’ con il Malatesta, “dal momento – scrive in un marmoreo articolo sul Resto del Carlino, il 28 luglio 1969, in concomitanza con la messa in scena della pièce a Rimini – che un’amica di mia madre, che mi allattò, discendeva dai Malatesta (ne constatai la discendenza su di una pergamena vecchia di due secoli)”. Pubblico dal 1946, in scena a Parigi, la prima volta, nel 1950, Malatesta è l’opera di un uomo assediato dalla Storia, trafitto dai desideri, di tracotante vitalità, ucciso, non a caso, dal vile, dall’intellettuale di corte, dall’uomo stitico di cuore, reso buio dallo studio, incapace perciò di assecondare il rombo del destino. L’amore per Sigismondo Pandolfo Malatesta unisce Montherlant a Federico Fellini, che disse, più o meno mimandolo, “Sigismondo è il mio nume preferito. Doveva essere uno spietato predone, un guerriero invincibile, un eccezionale conquistatore di donne”.
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“Individualista, desideroso di realizzare un ideale di vita personale e originale… Montherlant sfugge a ogni classificazione” (Y.A. Favre); “Stilista che ausculta l’io… religioso dell’istante… anarchico… uomo del rinascimento” (Gianni Nicoletti): sembra quasi ovvio che un’era di servi – della propria individualità di latta, mal coltivata – malsopporti un genio invalicabile come Montherlant, autore di libri memorabili – Gli scapoli, Il Caos e la Notte, La rosa di sabbia – che sono scomparsi dal panorama editoriale. Se lo cercate, trovate, stampa Adelphi, Le ragazze da marito: un libro eccelso, che è una beffa. Della quadrilogia di Montherlant, infatti, è il solo romanzo disponibile: e gli altri? Idioti!
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Per festeggiarmi, ho tradotto il ‘coccodrillo’ di Montherlant, pubblicato sul New York Times. Particolarmente cristallino, illustra, semmai, come Montherlant fosse uno scrittore ‘pericoloso’ fin da allora. Montherlant è un indesiderato, uno degli imperdonabili – per questo lo adoro. Ah… ho dimenticato di dirvi che la mia traduzione-revisione del Malatesta di Montherlant (altrimenti nella traduzione del grande Camillo Sbarbaro) sarà pubblica. Ma su questo speculerò più avanti. (d.b.)
***
Henry de Montherlant è morto; romanziere e drammaturgo francese
The New York Times, 23 settembre 1972
Henry de Montherlant, il romanziere e drammaturgo, si è ucciso sabato pomeriggio, 21 settembre, sparandosi alla gola nella sua casa al Quai Voltaire, da cui si vede la Senna. Aveva 76 anni.
Molti personaggi della sua vasta opera si suicidano, spesso l’autore ha lodato il suicidio ritenendolo un gesto nobile, un diritto dell’uomo, qualcosa di desiderabile rispetto che “affrontare il vuoto dell’inattività”. Questa attitudine è tipica di Montherlant, un nichilista che si occupa di estetica. Cieco dal 1968, dopo una caduta, è stato ammalato tra il 1969 e il 1971. Lo scorso febbraio, dopo un infarto, è stato ricoverato in ospedale.
Dal 1960 membro dell’Accademia di Francia, Montherlant è stato uno dei maestri della lingua francese. Il suo stile è classico, cristallino, nobile, freddo, elegante; egli possedeva l’accurata freddezza del marmo nel cesellare la sua prosa aforistica. Era un uomo di un altro tempo: aveva aggirato Céline, la rivoluzione surrealista e tutte le sperimentazioni del XX secolo.
Personalità controversa, Montherlant durante la Prima guerra aveva salutato la battaglia come la prova necessaria che convalida il valore di un uomo. Ha celebrato il ‘machismo’ e il suo culto nei libri dedicati alla corrida e allo sport. Tra il 1936 e il 1939 scrive l’audace, spettacolare, egocentrica tetralogia ‘Les Jeunes Filles’, spietata contro le donne a cui l’autore attribuisce tutti “i veleni dell’Occidente moderno: l’astratto, la liturgia del dolore, il desiderio di piacere, la socievolezza, un pensiero accondiscendente”. Durante l’occupazione tedesca, in un libro che compara le due guerre mondiali, salutò l’avvento della svastica come una nuova, grande era. […]
Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, Montherlant diventa corrispondente per “Marianne”, settimanale di destra. Il suo contributo al giornale collaborazionista “La Gerbe” lo porta all’espulsione dell’Associazione degli scrittori francesi nel 1947. Mentre lavorava come corrispondente di guerra, fu ferito. Ferito fu anche durante la Grande Guerra, garantendosi tre medaglie per condotta valorosa. Montherlant era un politico dilettante e ne fu orgoglioso. In alcuni aforismi scrive che “un’idea politica non è migliore di un’altra” e che “le idee politiche non hanno nulla a che fare con l’intelligenza”. Caratteristico del suo pessimismo è anche l’aforisma, “le nobili cause sono destinate per loro natura a soccombere”. Questo diventerà il tema fondamentale della sua carriera di scrittore e di drammaturgo. L’illustre critico letterario di “Le Monde”, Bertrand Poirot-Delpech ha sottolineato che “la nobiltà dei personaggi di Montherlant è solo apparente… il disprezzo sprigionato in loro dalla nullità di tutte le cose degenera in un irritato rifiuto degli altri… l’azione è ridicolizzata, l’amore ridotto a un mero gioco di scimmie”. I drammi incarnano, tra l’altro, le complesse relazioni tra l’autore e la fede nel cattolicesimo romano. “Non ho fede – non c’è Dio, non c’è una vita futura, tuttavia va bene così”, ha detto. Allo stesso modo, ha continuato a ragionare sui temi dell’etica cattolica.
Ritto come un militare, con le mascelle serrate, dall’aspetto cupo e ostile, una volta Montherlant disse di essere stato “un uomo dedito ai piaceri”. Ma dagli anni Quaranta ha vissuto come un recluso nel suo mefistofelico appartamento pieno di busti greci e romani, assistito da un maggiordomo e da un segretario. Non si è mai sposato.
Nel 1960, per costringerlo a diventare un membro dell’Accademia di Francia, gli accademici hanno acconsentito, contro il loro regolamento, ad ammetterlo nonostante si fosse rifiutato di scrivere la canonica lettera di richiesta: Montherlant aveva dichiarato che una lettera simile non l’avrebbe mai scritta.
Di recente, in conversazioni con gli amici, come lo scrittore Michel de Saint Pierre, aveva accennato al suicidio. Lo ha trovato morto il suo segretario, era seduto sulla sua poltrona preferita: su un tavolino, al suo fianco, erano poggiate tre lettere, una per un amico, una per il segretario e l’altra, contenente le sue volontà, indirizzata al tribunale.
Andreas Freund
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