#Ottimo escamotage
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Visto che mi sono sudata rimontando il pacco di ikea, adesso mi alleno pure tanto già ci sono
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Come promesso questa settimana risponderemo alla domanda "A Che gioco stiamo giocando?" con Cat in the Box, gioco da tavolo di cui abbiamo scoperto i componenti domenica e di cui vi avevo parlato nella scorsa edizione del TG Table!
Ho deciso di prendere Cat In the Box, dallo scaffale delle novità di Hirtemis, perché mi è sembrato un boardgame perfetto da essere giocato d'estate per coinvolgere tutta la famiglia: Cat in the Box infatti è un trick taking, ovvero un gioco da tavolo evolve le meccaniche base della briscola per evolverle!
In Cat In the Box, Muneyuki Yokouchi, ha evoluto le meccaniche della classica briscola "semplicemente" permettendo ai giocatori di affibbiare il seme (in questo caso il colore) alle carte che hanno in mano dopo averle giocate, questa intuizione aumenta esponenzialmente le scelte strategiche, ad esempio permettendoci di scegliere sempre se rispendere al seme di turno rinunciando però a quel seme per tutto resto del round! Scelte, che vedremo ridursi quando per la rinuncia ai semi e per la progressiva diminuzione dei numeri e colori a nostra disposizione, questo ci porterà sempre più vicini al "paradosso" aspetto di game design che congiunge le meccaniche all'estetica "scientifica" del gioco, ispirata al gatto di Schrodinger: il paradosso ci costringerà a chiudere una fase di prese senza che nessuno possa prendere le carte, a concludere il round e a far perdere punti al giocatore che avesse innescato tale paradosso!
Cat in the Box è una piacevole sorpresa che potrà essere un ottimo escamotage per passare qualche pomeriggio estivo in compagnia di tutta la famiglia con un gioco dalle meccaniche familiari ma con diversi twist che lo renderanno appetibile anche ai boardgamer!
Cat in the Box è un boardgame per 2-5 giocatori, per una durata che può variare tra i 20 e i 50 minuti, consigliato dai 10 anni in su di Muneyuki Yokouchi (横内宗幸) con le illustrazioni di Osamu Inoue (井上磨) edito in Italia da Lucky Duck Games!
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STARSCREAM ( Voyager ) War for Cybertron EARTHRISE

Non finirò mai di tessere le lodi dello STARSCREAM Siege, quintessenza della linea grazie alla sua iconica somiglianza al classico G1 ma con la modalità velivolare ispirata ai famigerati tetrajet, il tutto condito da una posabilità eccezionale. Dopo tutto questo ben di Primus, però, Hasbro ci ripropone ancora, dopo giusto un anno nella nuova linea Earthise, il buon vecchio Astrum: varrà la pena fare la doppietta del caro 'Screamer nel giro di così pochi mesi?

L'Earthrise, nella FORMA ROBOTICA gioca facile, in quanto somiglianza al G1 iconico: se il Siege doveva ricorrere ad escamotage come il cockpit del torso farlocco, mentre quello di quest'altro Voyager è effettivamente la cabina del jet che diverrà, così come la forma delle ali, le ginocchiere più pronunciate ed in generale c'è più "genuinità" nel design che non quello artificioso del precedente modello.

Ad una prima, fugace, occhiata, quindi, l'ER risulta esteticamente più accattivante, ma a guardare meglio qualche lacuna c'è, come le ali che non si piegano alla base, spezzandosi letteralmente quasi 1 cm dalla parte più larga, così come parecchio posticcia risulta la punta del jet appesa dietro la schiena, non aderente a questa e che si intravede dietro la testa guardando il robot frontalmente. Fra l'altro, così rende poco utilizzabile il foro per armi sulla schiena, appunto, coprendolo parzialmente; viceversa, ci sono un paio di fori aggiuntivi al livello delle caviglie ( nella media dei fori per armi degli WfC ), grazie agli alettoni ripiegati lì, mentre sugli avambracci i fori sono sotto e non ai lati degli stessi.
Ma sopratutto, un bel passo indietro rispetto al Siege è nella posabilità, con i pugni fissi così come il bacino! L'unico precedente finora di tutta la linea è stato per Apeface, ma ok, aveva il discorso di essere un Triple Changer... Il resto, come le caviglie che si inclinano, c'è, ma dover rinunciare ad un po' di posabilità e non reggere il passo con il precedente Voyager omonimo di certo non è il massimo, ANCHE SE posso anche soprassedere sul discorso del bacino rigido per la trasformazione, ma piuttosto mi secca di più la succitata punta del jet dietro la schiena.

TRASFORMAZIONE che anche qui gioca facile, dato che è ispirata a quella del Deluxe Classic del 2007, con la schiena che si apre dal torso per poter inglobare le braccia accorciatesi e fa uscire il cockpit, che slitta in su e ruota di 180°, piuttosto che non ribaltarsi come il giocattolo G1. Infine, le gambe inglobano le cosce, i piedi e i talloni si abbassano a divenire i reattori, mentre si posizionano ali ed alettoni.

L'AEREO DA COMBATTIMENTO è, indovinate un po', il classicissimo F-15, ma talmente classico che è davvero una gioia per gli occhi rivederlo, e sopratutto nella classe Voyager trova la sua dimensione ideale; forse quasi più che il robot, il cui design di riffa e di riffa è stato importato nelle diverese varianti omonime delle molte linee del brand, è ritrovarsi il jet originale che suscita maggiormente il senso di nostalgia che i nostri Earthrise forse vogliono rievocare.
La colorazione si rifà a quella del cartone, ovvero con i semplicissimi cambiamenti della punta dell'aereo non colorata di azzurro ma grigia, ed i simboli Decepticon sulle ali rivolti "al contrario", in modo da risultare a testa in giù poi nel robot; a proposito dell'azzurro, non è il blu scuro visto in altre incarnazioni ma un ottimo blu tendente appunto all'azzurro, ne troppo chiaro ne troppo scuro, già visto pure nel Siege ma che qui grazie agli alettoni posteriori si nota maggiormente.

A parte il foro al centro del jet, in alto, che era quello della schiena e quindi a sto punto pure inutile perchè qui è pure anti estetico, ci sono due fori per fiancata così come ovviamente sotto le ali e, come anticipato, sotto gli alettoni orizzontali; i reattori posteriori rovinano un po' il look generale, non essendo tondi come l'originale, ma appunto sono dietro e si notano poco ( anche se magari le parti superiori / talloni potevano farli tondeggianti ).
Non ci sono i carrelli d'atterraggio retrattili, figuriamoci, ma sto punto, a rigor di fedeltà al cartone, potevano aggiungere i missili a punta corta, o fare i fucili laser "trasformabili" in questi facendo ritrarre la canna, ma vabbè.
Ennesima versione del famigerato vice comandante Decepticon, quindi, e nonostante la ridondanza risulta comunque un "must" per il carisma del personaggio e l'effettiva bellezza del robot e dell'aereo, anche se è praticamente una versione più grande dell'originale Deluxe Classic del 2007, e, ripeto, anche se manca un paio di articolazioni fondamentali per un WfC come la rotazione del bacino, mi cruccia di più il muso del jet sulla schiena.
Insomma, consigliato anche se per certi versi è un passo indietro rispetto al precedente Siege.
#transformers#starscream#astrum#seeker#wfc#war for cybertron#generations#earthrise#voyager#review#recensione
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“L’italiano prosciugaticcio di certi romanzi contemporanei mi lascia perplesso, noi siamo gente folle, è con il Barocco che abbiamo fatto il cu*o al mondo”: dialogo eccentrico con Fabrizio Patriarca
Fabrizio Patriarca, solida formazione letteraria e filosofica, è quanto di più lontano dalla schiera di ominicchi, delusi dal burosauro accademico, che accusano il sistema e i prosivendoli insensibili al talento per giustificare la propria frustrazione. Eppure era sulla buona strada, dopo laurea, specializzazione e dottorato, due opere di critica letteraria, Leopardi e l’invenzione della moda, del 2008 e Seminario Montale, del 2011, usciti entrambi per Gaffi. Classe ’72, non fa parte della generazione degli apocalittici, marginali che amano definirsi emarginati e che odiano Lagioia e Cognetti solo perché loro hanno raggiunto fama e ricchezza. Fabrizio percorre orgoglioso la propria strada. Si sbatte, apre partita iva, approfitta del regime forfettario e sfodera nel 2016 un romanzo che fa discutere, Tokio Transit, per 66thand2nd. Chi lo legge non rimane indifferente: o lo odia, o lo saluta per la libertà e il caustico realismo che nulla concede all’aurea mediocritas. Tutto è eccessivo, enfatico, spericolato. Poi, il 7 febbraio 2019, quando Annamaria Franzoni, contemporanea Medea, ritrova la libertà, Minimum Fax pubblica L’amore per nessuno, che sulla figura della Medea Pop Annamaria Franzoni costruisce l’ossessione del protagonista e la chiave d’innesco della trama. Non avevo alternative: l’ho incontrato.
Mi sono divertito: il tuo è un libro spassoso, scorre via senza momenti di stanca, ottimo per l’autobus o la metro. Personalmente mi è bastato un volo d’aereo e l’attesa al gate. Eppure. Mi chiedo, e ti chiedo: ma com’è possibile? Il fatto è che L’Amore per nessuno non fa nulla per rispettare le regole del romanzo, seppure esplicitamente le citi continuamente, da Campbell-Vogler alle regole della buona sceneggiatura. Il plot scimmiotta eventi scatenanti e viaggi dell’eroe, ma depotenzia ogni possibile escamotage narrativo, lo svuota. Si tratta in realtà di un gigantesco collage di elzeviri, erudito, pieno di citazioni pop: digressioni, pezzi di costume, gossip. Come sei riuscito a farmi sorbire d’un fiato dodici capitoli (più l’epilogo) di un blob che tu stesso riconosci essere costituito da genuine seghe mentali? Parlaci dei tuoi segreti.
Sono cresciuto all’università in mezzo a falangi di fanatici heideggeriani, leggevo Walter Benjamin di nascosto, come un ladro, nel discreto cono d’ombra di un paio di cattedre compiacenti (Estetica, Mario Perniola; Letterature Comparate, Rosalma Salina Borello) – trattenevo frammenti di pensiero: l’arte può supporre la natura degli esseri umani ma non la loro attenzione. Rovesciando fruttuosamente il concetto per i miei lerci scopi: il romanzo suppone tutta una serie di regole – alcune codificate, altre ancora da codificare – ma non necessariamente la loro osservanza, e siamo al punto. Frequento il romanzo perché mi sembra resistere come forma libera, nonostante sia stretto d’assedio dai militanti dello schema, i maledetti “plottisti”. La buona architettura, in narrativa, non è una faccenda che puoi delegare solo agli intrecci, o alla funzionalità della singola pagina, altrimenti il barbuto George R. R. Martin l’avrebbe sempre vinta sul baffuto V. L. G. E. Marcel Proust. Credo insomma che la forma romanzo sia ancora abbastanza accogliente da permettere una sana biodiversità degli scrittori. Le analisi alla Campbell-Vogler sono entusiasmanti, perché ti svelano un arco, e sono senz’altro efficaci, finché non diventano manualistica. La manualistica al massimo produce replicazione dello schema, variazioni sullo schema, qualche saltuaria e apertamente intenzionale rottura dello schema. Agli estremi delle concezioni-circa-la-letteratura hai il mistico, che proclama il suo fervore per il Sacro-Fuoco-Dell’Arte, e il sacerdote, che celebra le Lettere da un’altana storico-critica, quando non da un pulpito. Preferisco il mistico, che tutto sommato è innocuo, perché mosso da una Fede. Il sacerdote tende a fare Chiesa. Dunque sarei tentato di suggellare il tutto con una massima da arti marziali: quando sei padrone della tecnica puoi dimenticartela o buttarla via. Non è così. Mi sembra che si scrivano romanzi “alla ricerca” della propria tecnica – così come si scrive inseguendo l’ispirazione, non in-seguito-a. Bruce Lee, Jeet Kune Do: nessuna via come via, nessuno stile come stile. Ora penso alle scuole di scrittura, ai loro saldi precetti, alla diffusione di forme narrative come il serial-tv (che non a caso è la chimera al centro della mia storia): il serial, in particolare, è visto da molti scrittori come punto di riferimento contemporaneo, il competitor. Mi domando perché non i videogame. Se guardi bene la narrativa si è sempre messa in competizione. Col cinema, prima, con la televisione, più tardi. Ogni volta ha finito per riscoprire sé stessa – in una dimensione che riusciva a includere alcuni meccanismi mutuati dai linguaggi dei competitor, ma prendendo in definitiva strade autonome. Se insomma vuoi leggere il mio romanzo come un inno all’autonomia della narrativa rispetto al mondo dei media non mi offendo. L’aspetto blob potremmo riferirlo agli albori del romanzo: la satira menippea, le “anatomie” da cui viene fuori un Don Chisciotte, il gusto di mescidare l’alto e il basso, prosa e versi (Satyricon), realismo e grottesco (ancora Cervantes: la grotta di Montesinos, che poi è il luogo dove veramente si libera lo spirito romanzesco moderno).
Il pezzo forte del tuo repertorio è il linguaggio. Non nego di aver consultato spesso i dizionari on line per la gretta curiosità di conoscere parole nuove. Ma non si tratta solo di esattezza: il tuo stile è acrobatico, densissimo di figure metriche e di suono, sintattiche e semantiche, salti mortali di metonimie e metafore. Anche qui, esattamente l’opposto di quanto suggerito dai manuali di buona scrittura, per lo più costruiti sul modello della letteratura americana. Ci sono modelli propriamente tuoi?
Esistono modelli straordinari, soprattutto nel romanzo americano, ma considerarli come l’esclusiva della letteratura mi sembra possa nuocere alla letteratura stessa, nel senso che non le rende un buon servizio, né riguardo alle possibilità (parolaccia) poietiche, né tantomeno dal punto di vista storico. Posso godermi entrambi, Hemingway e Nabokov, senza sentirmi condizionato da nessuno dei due (anche visti i mezzi che al confronto risulteranno sempre poverissimi). Forse conviene l’onestà di giocare il gioco che sappiamo giocare meglio, stare nella luce giusta. La domanda è se questa, che declina, sia luce di raccordo o di cesura. Visto? Ho fatto due endecasillabi. Il problema è che l’italiano non è una lingua nata per il romanzo: è fatta per la lirica, per i versi, per i poemi – la lingua dell’amore. Una lingua fantastica che dà il massimo quando deve gonfiare una misura stabilita – un’ottava, un paragrafo, un capitolo. A me l’italiano prosciugaticcio di certi romanzi contemporanei che viene osannato perché richiamerebbe il “nitore” di alcuni modelli americani – sempre gli stessi – lascia sempre un po’ perplesso: ci vedo un abbandono della “strada folle” di dantesca memoria. Noi italiani siamo gente dantescamente folle. Il Barocco, disciplina in cui rompiamo il culo al mondo, ci ha insegnato che non esiste solo il nitore di “sottrazione”, ma pure un nitore fatto di aggiunte e superfetazioni, di enfietà, flogosi, metastasi. Viva Stefano D’Arrigo e Gesualdo Bufalino! Ovviamente, oggi come oggi, non puoi seguire un’ideale espressionista da “nipotino di Gadda”, perché il mercato ti castiga. Per me ho risolto intellettualizzando variamente l’espressionismo, verso forme fredde – come già in Tokyo transit – che trovo particolarmente adatte a rappresentare il mondo dei miei personaggi dalle emozioni desertizzate. Nel realismo intellettualistico della mia prosa – così lo chiama il mio editor – c’è tutto il mio amore per gli anaffettivi – un amore evidentemente mal riposto.
Non è facile scrivere di sesso, soprattutto nell’era del porno universalmente accessibile. Eppure ti cimenti con disinvoltura. La tua prosa è satura di odori e liquidi corporei. Lo sfondo è maschilista e misogino. Direi: senza autocensure, libero. Non ti fermi di fronte agli stereotipi, al gratuitamente scurrile, neppure di fronte al compiacimento del dettaglio per scatenare lo scandalo (o i pruriti, che abbisognano di subitaneo sollievo). Usi senza parsimonia anche l’indicibile parola con la “n”.
Il sesso è sempre un banco di prova per lo scrittore, e non mi riferisco alla solita metaforizzazione su cui senti spendere tante parole in giro, quando appunto si parla di sesso e scrittura. Idiozie come «entrare nel profondo della carne» o ancora peggio «la scrittura che si fa corpo stesso». Il sesso è difficile perché ormai è organizzato e diviso in una serie di linguaggi autonomi che la gente conosce a puntino: codificati, stratificati, acquisiti al bagaglio dei singoli linguaggi. Quando senti “il capezzolo turgido” o “il membro muschiato” sai già di essere in una certa enciclopedia culturale – quella della rivista hard-core o del giornaletto da edicola: è un linguaggio definito, sai come funziona e puoi prevederlo, dietro alla “patta che sembra scoppiare” c’è sempre un “glande tumido” in agguato, che finirà per soffocare qualche sventurata. Poi esistono altre enciclopedie culturali, dove il sesso è ugualmente collocato a una precisa altezza di registro: il sesso televisivo, quello cinematografico, il porno-amateur online ecc. A me piace giocare con questi linguaggi ormai acquisiti, farli confliggere con le orbite mentali dei miei personaggi, evaderli, talvolta, irriderli, sempre.
Che posto ha nel tuo universo il politicamente corretto?
Il che?
L’amore per nessuno parla in modo dichiarato, fin dal titolo, di alessitimia. Il tuo protagonista Riccardo è un campione di analfabetismo emotivo, sembra concepito direttamente dalle pagine dell’ICD 10. Su questo piccolo insight si costruisce tutto il resto. Il cinismo, l’incapacità di relazioni empatiche, la superficialità consapevole, la falsità un po’ snob sono le matrici di un’intera generazione, cresciuta con la tata TV. Esiste dunque un profondo trattato di analisi psico socio cazzica sotto alle tue storielle di narcisi, maniaci, famiglie disfunzionali e relazioni evitanti? Un ritratto impietoso della bistrattata generazione X? Oppure ancora mi stai fregando, e non c’è alcun progetto simile?
Più che all’analisi psico socio cazzica inclino, in genere, al cazzeggio psico socio anal, ma è chiaro che parliamo di punti di vista. Nei romanzi è importante mettere i fatti, questo lo sai bene – le analisi stanno nel calderone delle idee ed è meglio che non agiscano direttamente sulla pagina. Ovvio però che dietro al racconto puoi sistemare a piacimento una sociologia sarcasmo-pamphlet, un j’accuse rivolto al cinismo del mondo televisivo, un pianto per mia madre ecc. Tutto lecito, per carità. La questione che mi preme è un’altra, e te la sottopongo rivoltando la domanda: può darsi un ritratto, un vero ritratto, che non sia impietoso?
Hai ragione, «ritratto impietoso» è fastidioso come «innumerevoli costellazioni». Meglio sarebbe trovare un contrario per «accondiscendente» o ancor meglio per «auto assolutorio». Tokyo Transit dopo poche pagine dichiarava esplicitamente la propria poetica: «Dalla solitudine ci aspettiamo tonnellate di enfasi, è giusto. Enfasi e la dovuta porzione di disincanto». Anche in L’amore per nessuno enfasi e disincanto ci sono, inoculate a dosi massicce. Allora è a solitudine la colpa che dobbiamo espiare, o da cui ci dobbiamo assolvere?
Sì, l’enfasi della solitudine, attesa nella solitudine è una convinzione che mi porto dietro dal romanzo precedente – anche come enfasi linguistica naturalmente. È bello che alcune condizioni particolari passino da un libro all’altro, un po’ come le coblas capfinidas delle canzoni medievali, che si richiamano di stanza in stanza attraverso termini chiave. La solitudine è stata, fino a questo libro, un orizzonte fondamentale, perché mi permetteva di far viaggiare in simultanea il panorama interno e il panorama esterno. Espiazione-assoluzione mi sembrano altresì una coppia notevole, almeno come funzioni propulsive in un romanzo, e sono contento che tu abbia voluto sottolinearle: entrambe richiedono un “percorso”, rispetto al quale i miei personaggi, che desiderano molto, sono sempre riottosi. Non è – credo – una banale meccanica del “tutto subito”, è proprio mancanza di strumenti, quelli “umani” diciamo così, quelli che Vittorio Sereni vedeva «avvinti alla catena / della necessità». Come vedi c’è un enjambement tra «catena» e «necessità»: dire le cose negandone il fondamento, affermare con la semantica mentre spezziamo con la metrica – che grande lezione!
Non sembra proprio che ti interessi l’immortalità. Il tuo romanzo è irrimediabilmente radicato nell’attualità, annacquata se vogliamo da ruffiani EasterEgg anni ottanta. Penso che possa risultate assolutamente incomprensibile da chi non frequenta la cultura pop italiana della contemporaneità. Ma chi è il lettore perfetto de L’amore per nessuno?
La prima volta che mi hanno messo in bocca un’ostrica non sapevo assolutamente cosa fosse, ero un bambino. Il sapore mi ha lasciato perplesso, però ne ho mangiate altre tre-quattro, senza troppe conseguenze, e anzi con una certa gioia dell’inatteso. Siamo sicuri che il punto sia la comprensibilità? Forse è la digeribilità, o l’apporto calorico. O, perché no, il semplice gusto. Martin Amis ha scritto che gli scrittori «competono per l’Universale», per questo sono destinati a odiarsi tra loro, a cercare la rissa. In questa allegra competizione fra tagliagole entrano a viva forza i lettori, che come diceva Debenedetti sono dei veri e propri strozzini: ti concedono il loro tempo, a patto di esigere un tasso di interesse altissimo. Il mio lettore ideale – quello che tu chiami perfetto per il mio libro – è uno abbastanza stanco di prestare il proprio tempo a un romanzo e ancora abbastanza in credito da permettersi di passare del tempo con un romanzo.
Scrivi in modo talmente intelligente e scopertamente arrogante da risultare antipatico. Ti chiedo tre ragioni, nonostante questo, per cui vale la pena leggere il tuo libro.
Con questa domanda mi hai messo in un cul-de-sac dialettico. Qualsiasi risposta mi sforzi di pensare verrà recepita non “nonostante”, ma in ordine ai tuoi argomenti. Colpa mia, ho peccato di leggerezza. Presentarmi con un coltello a uno scontro a fuoco. È comunque dimostrato che in generale i romanzi sopra le trecento pagine a) distruggono la massa grassa a beneficio del core addominale, b) potenziano la libido del soggetto leggente; c) sterminano le spore terrapiattiste e arredano vivacemente il paesaggio urbano quando deposti e disposti in simmetrie goffrate. Il mio in particolare impedisce l’uptake della dopamina nei neurotrasmettitori, prolungando la caratteristica sensazione di euforia, ed è un ottimo presidio contro il traduttese.
Non credo di aver capito proprio tutto, ma devo ammettere che sei convincente.
Simone Cerlini
L'articolo “L’italiano prosciugaticcio di certi romanzi contemporanei mi lascia perplesso, noi siamo gente folle, è con il Barocco che abbiamo fatto il cu*o al mondo”: dialogo eccentrico con Fabrizio Patriarca proviene da Pangea.
from pangea.news http://bit.ly/2JBpQbU
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La storia continua senza soluzione di continuità e siamo nel combattimento che si era interrotto nel numero precedente e che qui si conclude come era possibile prevedere. Kagome continua ad essere poco credibile troppo capace di fare tutto in un ambiente dove non saprebbe fare niente. Continuo a credere che sarebbe tutto migliore senza mostri che si alternano per prendere i vari pezzi della sfera che si sono sparpagliati quando si è rotta: ottimo escamotage per la ripetitività. I continui combattimenti rendono la storia inoltre troppo splatter. Succede qualcosa nella storia base: arriva Sesshomaru il fantastico fratellastro di Inuyasha. Hanno delle madri diverse, Sesshomaru è un demone completo mentre Inuyasha è un mezzo demone, sono entrambi affascinanti. Sesshomaru si fa vivo perché cerca la tomba del padre dei due dove spera di trovare Tessaiga la spada forgiata direttamente da una zanna del padre il cui scheletro giace in una perla che era stata nascosta nell’occhio di Inuyasha. Nessuno dei due fratelli riesce ad estrarla in una situazione in stile la spada nella roccia ma ci riesce Kagome perennemente con la gonnellina che la rende veramente ridicola. Sesshomaru per l’ennesimo combattimento si trasforma in un lupo gigante che è la sua vera natura ma il fratello lo sconfigge grazie alla spada che come si scoprirà alla fine può essere usata solo da coloro che amano gli umani e desiderano difenderli perché il padre dei due fratelli l’aveva creata per proteggere la donna umana che amava. Una spada dunque che reagisce in base agli intenti e che se non li gradisce rimane dall’aspetto consumata e non funziona. C’è un nuovo spiacevole personaggio: Myoga. Myoga è un demone a forma di pulce, disgustoso e antipatico che è stato inserito per rallegrare un po’ l’ambiente ma che rovina la storia. Si va avanti. Inuyasha 2 💬 feat. Emily 📚 This the Black Cat Library 📚 🐈⬛ 📖 #photos of #books 📚 #bookstagram 📚 #manga and #comics 💭 🏡 #hausofhermio #library #photography #digitalart ☠️ da #hermio ci sono #foto di #libri e #fumetti 📚 #Instagram #Inuyasha 🍿 #minifee #doll #bjd assistants 🐰 🐰 🐰 🐰 #photos of ✨ #toys 🧸 🧸 #home 🧸 #dolls 🐴 #portrait (presso Falconara Marittima) https://www.instagram.com/p/CpslL9eq3am/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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posso andare d'accordo con l'altro anonimo, sarebbe na bella scusa per non uscire con la gente che non ti piace...
Infatti, è un ottimo escamotage
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Il pluralismo, la tempestività e la gratuità sono i connotati fondamentali dell’informazione dei nostri giorni. In questo contesto è sempre più difficile ottenere e produrre un’informazione corretta e di qualità, così come rispettare e garantire la libertà d’espressione, senza che questa venga utilizzata come escamotage per diffondere informazioni false e alimentare i discorsi d’odio. La sfida principale è rappresentata dal mondo dei social network, la cui regolamentazione è sempre più urgente.
Questi i temi al centro dell’incontro ‘Informazione in Europa: quale libertà? Pluralismo dei media, accesso alle informazioni, contrasto all’hate speech’, organizzato la scorsa settimana dall’associazione Carta di Roma insieme all’Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa. Durante l’incontro hanno avuto modo di confrontarsi, con la moderazione di Luisa Chiodi (direttrice dell’Osservatorio), alcuni esperti del mondo dell’informazione: Giovanni Maria Bellu (presidente di Carta di Roma), Elisa Marincola (portavoce di Articolo 21), Pavlos Nerantzis (tra i promotori della Carta di Idomeni) e Nadia Bellardi (rappresentante di Community Media Forum Europe).
Guardando allo stato della libertà di stampa nel nostro Paese, è inevitabile fare riferimento al dato diffuso di recente da Reporter Sans Frontieres. Nell’indice annuale della libertà d’informazione nel mondo l’Italia fa un balzo in avanti, passando dalla 77esima alla 52esima posizione. Un dato positivo, sebbene relativo. Come infatti sottolinea Marincola: «Sulla situazione italiana si riflette ciò che accade a livello globale, abbassamento complessivo del livello qualitativo dell’informazione, tendenza a cercare un uomo forte in politica. Si registra una tendenza diffusa a intervenire in maniera sanzionatoria attraverso uno strumento che in Italia è diventato di massa, quello della querela e della lite temeraria». Parole che trovano riscontro nello stesso report di RSF, che riconosce come in Italia i lavoratori dell’informazione siano oggetto di continue intimidazioni, in primis da parte della politica. Il report cita il M5S come esempio. Il comportamento degli esponenti del movimento è in effetti paradigmatico di quanto si possa nuocere all’informazione: da una parte sono querelati o additati pubblicamente giornalisti scomodi – e il giornalista stesso per definizione dovrebbe essere tale –, dall’altra vengono diffuse con leggerezza – o forse impertinenza – fake news.
Si pensi alle recenti, tristissime, affermazioni di Luigi Di Maio che si rivolge alle Ong operanti nel Mediterraneo bollandole come ‘taxi’. L’attuale vice presidente della Camera dei deputati attribuisce la paternità di questa espressione al rapporto ‘Risk Analysis 2017’ di Frontex, nel tentativo così di legittimare le sue affermazioni. Mezzo di diffusione di una tale notizia è in primis la bacheca Facebook del parlamentare.
Questo caso è un ottimo esempio per identificare il problema da affrontare: si tratta di una notizia falsa, viaggia sui social network, alimenta i i discorsi d’odio. Lo dice chiaramente Bellu: “la sfida è salvare la libertà di stampa quando il giornalista viene querelato per una notizia vera, pubblicata sul suo giornale, e il ‘concorrente’ [utente dei social network, ndr] non viene sanzionato per una notizia falsa, che poi rappresenta un caso di hate speech”.
Per combattere questa tendenza e salvare la professionalità dell’informazione occorre regolamentare la possibilità di esprimersi sulle piattaforme social. Non è realistico lasciare alle stesse aziende private, come Facebook, il compito di sanzionare tali comportamenti, dal momento che si tratta di multinazionali finalizzate al profitto e non alla salvaguardia della libertà d’espressione. Sarebbe però sufficiente applicare le leggi già in vigore per il giornalismo tradizionale, che regolamentano l’informazione e che sanzionano quella falsa e tendenziosa; norme che nessuno ha mai additato come lesive della libertà d’espressione. Seguendo tali direttive sulle piattaforme social, senza limitare la libertà d’espressione si contrasterebbe la diffusione di fake news – che di fatto rappresentano un ostacolo a questa stessa libertà, oltre ad alimentare i discorsi d’odio. “Questi – sottolinea Bellu – sono di fatto fake news, che si perpetuano nel tempo. Il discorso d’odio si fonda infatti in larga parte sul pregiudizio razzista, o sull’idea che esista una categoria del genere umano che non ha dignità in quanto tale. Non si tratta di conciliare il contrasto a questo con la libertà di informazione: è esso stesso l’ostacolo”.
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10 dic 2018 08:34
“IN ITALIA LE LEGGI SULLA CAPIENZA DEI LOCALI SONO ANTIQUATE E SURREALI” - IL RAPPER FRANKIE HI-NRG: “MOLTI LE TRASGREDISCONO. IL PUNTO È FINO A QUANTO SEI DISPOSTO A FARLO - IL GESTORE ACCOGLIE PIÙ GENTE DEL NECESSARIO PER FARE CASSETTA, SENZA AVERE PERSONALE QUALIFICATO PER FAR FRONTE ALLE EMERGENZE” - L'ESCAMOTAGE DEL DJ SET PER AGGIRARE LE NORME
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1 - FRANKIE HI-NRG: «SULLA CAPIENZA LEGGI VECCHIE, MA C'È CHI PENSA A FARE CASSA»
Matteo Cruccu per www.corriere.it
«Serate come quella in cui doveva suonare Sfera Ebbasta, le ho fatte spesso anch' io: arrivi alle tre di mattina, metti due dischi e canti qualche brano. Che brividi a pensare a quanto è successo...». Corinaldo è lontana, ma fa male anche a distanza, mentre interviene da New York Frankie Hi-Nrg, al secolo Francesco Di Gesù, quasi cinquant' anni, 25 di rap e una vita sui palchi (e dentro le notti) di tutta Italia.
Che idea si è fatto della vicenda?
«Che i responsabili sono molti, ma se c'è uno che non c' entra, questo è Sfera. Lui è quanto di più distante da me, per tematiche e attitudine, ma guai a chi cerca di attribuirgli delle colpe, lui stava solo facendo il suo mestiere».
Molti la pensano diversamente: manda messaggi sbagliati, attira gente sbagliata...
«Non diciamo stupidaggini: si diceva lo stesso del jazz e poi del rock, la musica del diavolo. Oltre a essere un'idiozia, è anche un ottimo modo per sgravare di responsabilità tutti gli altri».
Qual è il problema vero secondo lei?
«È l'incoscienza diffusa in questo Paese che, in questa vicenda, si riverbera sotto tanti aspetti».
Per esempio?
«Innanzitutto ha fatto qualche errore di valutazione chi sta intorno a Sfera. Dovrebbe sapere che uno come lui ormai attira tantissima gente e forse quel locale era troppo piccolo».
E poi?
«Il gestore che accoglie più gente del necessario per fare cassetta, senza avere personale qualificato per far fronte alle emergenze. Anche se le leggi sulla capienza in Italia sono antiquate e surreali, a volte impongono delle restrizioni assurde. Molti le trasgrediscono. Il punto è fino a quanto sei disposto a farlo».
E poi ci sono quei maledetti spray al peperoncino. A Sfera era già successo, prima della tragedia, almeno altre quindici volte.
«Io non penso che chi tirava i sassi dal cavalcavia volesse uccidere qualcuno. Il problema, di nuovo è l' incoscienza, ignorare le conseguenze dei propri gesti. Ma la questione è anche un' altra».
Quale?
«Trasformare armi di difesa in offesa. È assurdo che ci si possa procurare in modo così facile quelle bombolette. Com'è assurdo pensare che in questo Paese le donne si debbano difendere da sole».
Infine ci sono i genitori...
«Ho sentito che all'una di notte, c'erano bimbi di dieci anni con le madri in quella discoteca. Qui si è perso decisamente il senso della misura e della realtà. E non sarà mica colpa di Sfera...».
2 - L'ESCAMOTAGE DEL DJ SET PER AGGIRARE LE NORME
Mic. All. per “il Messaggero”
I fan lo aspettavano alla Lanterna Azzurra di Corinaldo alle 22. Ma all' una di notte Sfera Ebbasta non era ancora arrivato. Stava suonando all' Altromondo Studios, una delle discoteche più famose di Rimini. Stessa data, stesso prezzo del biglietto - 30 euro - e, soprattutto, stesso orario di esibizione: le 22. Perché quello previsto nella discoteca in provincia di Ancona non era un concerto, ma un dj set.
Un' ospitata in un locale che consente all' artista di incassare intrattenendosi con il pubblico per molto meno tempo: al massimo tre o quattro brani, prima di correre in macchina verso la tappa successiva. Un escamotage che potrebbe avere consentito anche ai gestori del locale di guadagnare di più, aggirando le norme di sicurezza. Perché le autorizzazioni per un concerto per il quale si preveda l' affluenza di migliaia di persone, sono diverse - e più costose - rispetto a quelle da richiedere per gestire una serata in discoteca.
LA DOPPIA DATA
Nel caso della Lanterna Azzurra, gli spettatori erano quasi tutti ragazzini. I genitori li avevano accompagnati pensando di portarli a vedere il loro cantante preferito, con inizio dello spettacolo alle 22 e ultimo brano lanciato un paio di ore dopo.
A mezzanotte, invece, Sfera Ebbasta era ancora a Rimini. «Come è possibile che stesse suonando ancora lì? Quello alla Lanterna era un evento inventato, Sfera non c'è mai stato», ipotizza su Facebook un giovane. In realtà, il manager del cantante, verso l' una di notte, aveva chiamato il locale di Corinaldo per annunciare che il trapper stava per arrivare. Per chiudere un dj set, però, e non per esibirsi in un concerto.
Anche su questo punto gli inquirenti faranno accertamenti, così come sulle norme di sicurezza che sono state violate, forse proprio grazie all' escamotage. La capienza della sala del concerto era di 459 persone. I biglietti venduti sarebbero 680, quelli staccati quasi 500. Ma il dj e figlio di uno dei gestori, Marco Cecchini, parla di «800/900 persone». E molti ragazzi hanno raccontato di essere entrati senza biglietto.
«Mia figlia non ha comperato il biglietto, ma aveva prenotato un tavolo - racconta la madre - un pr è passato a riscuotere i pagamenti, poi ha consegnato un braccialetto giallo per l'ingresso e un tagliando, senza marchi, per la consumazione.
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I vaccini e la dimensione pedagogica (ovvero il titolo fuorviante)
I vaccini e la dimensione pedagogica (ovvero il titolo fuorviante)

Parlerò di vaccini? No. Per fortuna no. Ma il titolo sarà un ottimo acchiappaclic/mi piace, ed è un escamotage che usano tutti. O in troppi. Così come se intitolassi il post “I rischi delle balene blu”. Si tratta di argomenti serissimi, per carità, ma per i quali rimando ad altre persone il compito esplicativo. Lo so, non è una manovra propriamente corretta. Ma è questo che in fondo voglio…
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#Blue Whales#consulenza pedagogica#contesto#crisi educativa#educare al web#imparare#imparare nel web#Vaccini
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iFixit disassembla iPhone X e mostra l'incredibile lavoro ingegneristico svolto
Come sempre all’uscita di un nuovo iPhone iFixit è pronta a fornire un report di qualità sul teardown del dispositivo. Quello di oggi riguarda ovviamente iPhone X, in versione da 64GB. Sappiamo che alcune specifiche tecniche del device non sono dissimili da quelle di iPhone 8. Anche qui troviamo il SoC Apple A11 Bionic, a cui sono abbinati 3GB di RAM oltre al modem LTE Snapdragon X16 fornito da Qualcomm e la memoria flash di casa Toshiba.
Tuttavia viene rilevato un incredibile lavoro di miniaturizzazione della logic board, con una densità di componenti e connessioni senza precedenti, addirittura superiore a quella di Apple Watch. Per la precisione la scheda logica di iPhone X occupa una superficie che è circa il 70% di quella presente nell'iPhone 8. Per raggiungere questo incredibile risultato, Apple ha deciso di far ripiegare su se stessa la scheda, distanziando poi le parti interne formando una struttura che si sviluppa anche in verticale, con più livelli sovrapposti come i solai di un edificio multipiano, "arredato" poi di chip e connettori sia sul pavimento che sul soffitto. Distendendo completamente il foglio di silicio che ospita i componenti ci si è accorti che la superficie reale è circa il 135% di quella della logic board di iPhone 8. Un ottimo modo per mettere di più in meno spazio, come sottolinea iFixit.
Grazie a questo escamotage ingegneristico è stato possibile lasciar posto ad una batteria di dimensioni maggioriate. Per la verità si tratta di una batteria formata da due celle, disposte a forma di elle. Il risultato è ancora una volta sorprendente poiché si è riusciti a superare la capacità offerta da battery pack di iPhone 8 Plus: 10,35Wh per iPhone X (2716 mAh a 3,81 V) contro i 10,28Wh del fratello minore (o maggiore, a seconda del parametro che guardiamo).
Ovviamente l’attenzione di iFixit non ha potuto che focalizzarsi anche sulla barra sensori, la parte che ospita tutte le componenti più innovative di iPhone X. Interessante la spiegazione fornita dalla testata sul sistema TrueDepth e il suo funzionamento nell’analisi dei volti. Il primo step è mosso dall’illuminatore flood che emette un fascio lampeggiante di luce infrarossa verso il volto. La camera frontale IR analizza questa luce e conferma la presenza di un volto. Qui inizia la parte più interessante, poiché entra in gioco il proiettore di punti IR. Si tratta sempre di onde nello spettro infrarosso che creano una griglia di luce sul viso. Questa è ancora analizzata dalla fotocamera IR frontale che. inviando i dati al processore, gli permette di generare una mappa tridimensionale del volto.
Ovviamente ci sono tante altre migliorie apportate al device, come il connettore Lighting, ora dotato di una struttura interna più robusta, e non si può non citare la vistosa presenza della bobina per la ricarica wireless con standard Qi. iFixit assegna ad iPhone X un punteggio di riparabilità di 6 su 10. Positivo il fatto che in caso di rottura del display non sarà necessario intervenire sul sistema TrueDepth, mentre un eventuale danneggiamento del vetro posteriore richiede il disassemblaggio completo del dispositivo per la sostituzione.
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