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#Mosca 1966: processo alla letteratura
iannozzigiuseppe · 2 years
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Lo scrittore senza nome. Mosca 1966: processo alla letteratura - Ezio Mauro - Feltrinelli
Lo scrittore senza nome Mosca 1966: processo alla letteratura Ezio Mauro Feltrinelli Da una parte due uomini soli. Dall’altra un potere anonimo e totale, invisibile e assoluto, con un compito metafisico: dosare la scrittura a uno scrittore, la notorietà a un autore, il cognome a un uomo, l’identità a una persona. «Questo è un racconto della disperazione e della dignità, dal fondo dell’abisso…
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pangeanews · 5 years
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“Che cosa fa lo scrittore se non sputare in faccia ai suoi lettori?”. Elogio di Andrej Sinjavskij, un genio che ci fa paura
Leggendo Cristina Campo – anzi, masticandola – ritorna il nome di Andrej Sinjavskij. Mi sembrava sepolto da tempo, in una bruma bruna, inesorabile. Ora mi attacca, come una turba di locuste di ferro.
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Cristina Campo parla di Andrej Sinjavskij ne Gli imperdonabili. Lo definisce “il solo poeta religioso oggi vivente” in un saggio che si intitola Sensi soprannaturali. In realtà, ho letto il suo nome qualche mese fa, me lo ero scavato in testa. Nell’introduzione ai Racconti di un pellegrino russi la Campo trova un gemellaggio tra lo stile delle Vite dei santi, “tramandate da scribi greci, copri, siriaci, attraverso Bisanzio e la letteratura ecclesiastica slava” e “lo stile narrativo puramente russo, dal Pellegrino a Gogol’, da Dostoevskij a Cechov”. Il capoverso conclude così: “Stile narrativo che non ha l’aria di voler finire se molto della sua monumentale innocenza e dignità troviamo ancora nel linguaggio liturgico di Pasternak, nei brevi apologhi severi di Solzenitzin, nei bianchi fogli di taccuino di Andrej Sinjavskij”. L’introduzione termina così: su quel concetto, monumentale innocenza e dignità, che è questione di stile e di vita, soprattutto, e su quel nome, Andrej Sinjavskij.
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Inoltre, c’è l’intrusione del caso. Luca Orlandini mi invia una straordinaria raccolta dei suoi saggi. La raccolta è inaugurata da questa frase, “I pensieri non sono assimilati dai libri, spuntano dalle ossa”. L’autore è Andrej Sinjavskij, appunto. Gliene chiedo. Mi sembra un assedio.
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Naturalmente, non posso non conoscere Sinjavskij. Nato a Mosca nel 1925, seguace di Boris Pasternak, Sinjavskij pubblica alcuni libri alieni all’ideologia sovietica e al ‘realismo socialista’ in Occidente, con lo pseudonimo Abram Terc. Arrestato nel 1966 insieme all’amico poeta Julij Daniel – che muore nel 1988, a fine anno, scegliendo, comunque, di restare in Russia – subisce un processo tristemente celebre: per la prima volta, è sotto accusa l’attività di uno scrittore, esercitata tramite libri, che comprovano la criminalità di chi li ha scritti. Daniel fu condannato a cinque anni di lavori forzati; Sinjavskij a sette. A nulla servirono le proteste internazionali. Sinjavskij fu rilasciato nel 1971, due anni dopo emigrò in Francia, diventando il simbolo della dissidenza al nuovo regime sovietico.
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Michail Solochov, Nobel per la letteratura nel 1965, si scagliò duramente contro Sinjavskij, difendendo i valori dello Stato contro la libera creatività dell’individuo. “Io mi vergogno per coloro che hanno calunniato la Patria e infangato ciò che abbiamo di più caro. Essi sono degli amorali… Altri, nascondendosi dietro frasi umanitarie, lamentano la severità della condanna. Vedo qui delegati politici del nostro amato esercito sovietico. Come si comporterebbero se in uno dei reparti comparissero dei traditori?”. Secondo Marco Clementi, la straordinaria durezza nei riguardi di Sinjavskij fu adottata perché “si voleva interrompere la nascente usanza di pubblicare all’estero opere di difficile collocazione in patria… Un ruolo non secondario fu giocato dal fatto che le pubblicazioni all’estero erano state firmate con degli pseudonimi: già questo, secondo la logica del Kgb, costituiva un’ammissione di colpa (celare significa cospirare)” (in: Storia del dissenso sovietico, 2007).
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“I problemi che Sinjavskij solleva, la frattura tra individuo e società, la contraddizione tra crescita del progresso tecnico e immiserimento spirituale dell’uomo, il rapporto tra gli scopi e i mezzi per il loro raggiungimento sono al centro della cultura contemporanea”, scrive Aleksandr Ginzburg in Libro bianco (1967). Non sono forse i problemi capitali dell’oggi? Già. Solo che Libro bianco – che fu libro di culto per chi sbracciava a liberare l’individuo dalle storture dello statalismo, dalla burocrazia dell’intelletto – è fuori dal convegno editoriale. E anche Sinjavskij, un tempo lettura essenziale per lanciarsi al tormento dello spirito, chi lo legge più?
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Pubblicato da Jaca Book, oggi di Andrej Sinjavskij trovate, ancora disponibili, Pensieri improvvisi con ultimi pensieri e Passeggiate con Puskin. Il libro più importante di Sinjavskij, Una voce dal coro – un tempo stampava Garzanti – come altri libri – cito a caso: Nell’ombra di Gogol’, Buona notte, Compagni entra la corte, La gelata – sono introvabili. Un autore un tempo inevitabile, necessario, ora è editorialmente scomparso. Forse non abbiamo più voglia di scrittori inquieti, in lotta, radicalmente radiosi.
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Fu Boris Pasternak il punto di svolta nella vita letteraria di Sinjavskij. L’ultimo Pasternak, quello per cui l’arte letteraria è, infine, pittura di icone, estetica d’estasi, esclamazione che lascia spazio ad altro, un fare spazio, appunto. Così ne dice Sinjavskij: “cominciò a parlare di Cristo, che viene a noi da laggiù, dal profondo della storia, come se quelle lontananze fossero il giorno che viviamo, e insieme al giorno si facessero trasparenti e declinassero nella sera, congiungendosi a un domani senza fine. Nelle parole di Pasternak, come mi parve, non v’era neppure l’ombra di un’aspettativa apocalittica. Cristo veniva oggi perché la nuova storia veniva da Cristo e dal Vangelo, compresa la nostra giornata e Cristo era di questa giornata la realtà più naturale e familiare. La storia con il suo passato, il suo presente, il suo futuro, era come un campo, un unico campo, uno spazio che s’apriva ininterrotto allo sguardo. Guardando dalla finestrella i campi e i declivi nevosi Pasternak parlava di Cristo che viene a noi da laggiù. E parlava senza affettazione, né enfasi, senza pompa alcuna, ma con semplicità quotidiana, come se là e laggiù fossero stati gli orti contigui e la fila dei campi biancheggianti che s’allargavano attorno”.
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No, Sinjavskij non è antimoderno – didascalia all’occidentale – è arcaico, come possono i russi, i tolstojani. “Osservando il digiuno e le feste, l’uomo viveva secondo il calendario di una storia comune che cominciava da Adamo e finiva col Giudizio Universale. Per questo, fra l’altro, un qualsiasi settario semianalfabeta poteva qualche volta filosofare non peggio di Tolstoj e innalzarsi al livello di Plotino, senza aver sottomano nessun testo fuorché la Bibbia. Il contadino manteneva un legame permanente con l’immensa creazione del mondo, e spirava nelle profondità del pianeta, accanto ad Abramo. Invece noi, scorso il giornale, moriamo solitari sul nostro divano angusto e superfluo… Dove va a finire tutto il nostro orizzonte, tutta la nostra capacità ricettiva quando ci togliamo i calzoni o ce li sfilano di dosso? Oppure quando portiamo il cucchiaio alla bocca. Prima di impugnare il cucchiaio, il contadino cominciava col farsi il segno della croce e con questo solo gesto riflesso si legava alla terra e al cielo, al passato e al futuro”.
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Il compito dello scrittore. “Certe espressioni mi danno l’orticaria: ad esempio ‘si ritiene’ invece di ‘sembra’ o aggettivi come ‘speciale’ invece di ‘particolare’. Del resto, vi chiedo, cosa credete che faccia lo scrittore nella sua letteratura, se non regolare i conti con il prossimo? Che altro fa lo scrittore nei suoi libri se non scaricarsi delle passioni che l’angustiano e annoiano? Che cosa fa lo scrittore se non sputare, quasi apertamente, in faccia ai propri lettori? E quelli sopportano, si leccano le labbra dicendo grazie, merci. Immaginatevi dunque di quale libertà e pienezza di vita gode lo scrittore!”. Da uno scrittore voglio essere sconvolto e disfatto – con ferocia o tenerezza – voglio che mi sconfigga e che mi laceri. Certo, voglio anche che mi sputi in faccia.
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Non è un austero aforista, Sinjavskij, ma un uomo animato da una poetica feroce, irrequieta, che va senza timore nel torbido, nel tormento. “Non si sa perché fango e immondizia si accumulino intorno all’uomo. Ciò non esiste nella natura. Gli animali non sporcano se non sono rinchiusi in una gabbia, in una stalla, ossia in mano e in balia degli uomini. Ma anche se sporcano, la cosa non diventa ripugnante, e la stessa natura, senza sforzo da parte loro, s’incarica di ripulire assai presto. Invece gli uomini si devono mondare tutta la vita, dal mattino a sera… Ultimo detrito, il nostro corpo esanime, che richiede pure di essere rimosso al più presto. Un mucchio di letame superstite”.
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Irritante esegeta dei costumi e dei riti odierni – “L’attuale cristianesimo pecca di buona educazione. Si preoccupa soltanto di non sporcarsi, di non mostrarsi indelicato, teme il fango, la grossolanità, la franchezza, preferendo una meticolosa mediocrità a tutto il resto” – Sinjavskij sfoga sempre lì, nel tema per eccellenza della letteratura russa, da Tolstoj a Pasternak, la morte. “L’uomo vive per morire. La morte comunica alla vita la finalità di una trama unitaria e precisa… Chiederemo al destino una morte degna, onesta; chiederemo di muovere incontro alla morte secondo le nostre forze, in modo da compiere convenientemente il nostro ultimo e principale atto, l’atto di tutta la vita – morire”. Forse ci accontentiamo di una letteratura devota al quotidiano, oggi, facilmente ‘d’inchiesta’, docile, piena di provocazioni che suggestionano il protagonismo dei saputelli. Chi ci ricorda che siamo uno sputo, che si vive per morire degnamente, non ci piace. Ma altro scavo non va chiesto, siamo uomini, cioè adatti al volo e alla fiamma. (d.b.)
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iannozzigiuseppe · 2 years
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Lo scrittore senza nome. Mosca 1966: processo alla letteratura - Ezio Mauro - Feltrinelli
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pangeanews · 7 years
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1917: la Rivoluzione che ha ucciso i più grandi poeti del ‘900
Aleggia in giro una strana leggenda. Leggenda vuole che la Rivoluzione russa, di cui si onorano i 100 anni quest’anno, sia stata una incubatrice di mirabili esperienze culturali. Che i bolscevichi promuovessero le arti e che Lenin fosse un arguto mecenate. Insomma, che alla rivoluzione politica e sociale si sia associata per davvero, pur in una stretta cinghia di anni – diciamo dieci? diciamolo – la rivoluzione estetica.
Boris Pasternak (1890-1960)
Poi accadde Stalin e tutti sappiamo come andò a finire. Dai buoni propositi culturali alle macerie dei Gulag. Beh, sono tutte palle. Quella leggenda è fasulla. È vero che gli artisti – come sempre – lavoravano per la ‘rivoluzione’ delle forme e quindi dei costumi, consapevoli che la Russia, di per sé, non esiste, che, come cantava l’immenso Fjodor Tjutcev, “con la mente non si può capire la Russia/…nella Russia si può soltanto credere”. Ma non è vero che la Rivoluzione bolscevica, quella fatale, quella dell’ottobre, fu un toccasana per i poeti. Fu, al contrario, una mannaia. E i poeti, come sempre, capirono tutto subito. Mettiamo insieme un po’ di dati. Perché? Perché in Russia, nel 1917, vive una generazione di poeti, di singolari individualità poetiche, che a ripeterle fanno rabbrividire il gozzo (ci provo: Achmatova, Cvetaeva, Blok, Belyj, Majakovskij, Mandel’stam, Pasternak, Esenin, Chlebnikov…), sono la generazione lirica più abbagliante del Novecento e forse di ogni tempo. Una generazione interamente annientata dalla tirannia ‘rossa’, dal delirio proletario. Partiamo con i dati, per così dire, poetici.
*Osip Mandel’stam, 15 novembre 1917, un distico didascalico: “Quando il favorito dell’Ottobre ci ha preparato/ il giogo della violenza e della crudeltà”; Mandel’stam a Anna Achmatova, nella poesia A Cassandra: “E nel dicembre del millenovecentodiciassette/ abbiamo perso l’amore, abbiamo perso tutto”; maggio 1918, ancora Mandel’stam, Inno: “Celebriamo, o fratelli, il crepuscolo della libertà…”.
*Boris Pasternak, poche settimane dopo la Rivoluzione ‘d’ottobre’, sfodera una poesia da sardana infera, “versa l’inferno col tino del Baltico/ sangue umano, cervelli ed ebbro vomito di marinai”; ancora Pasternak, in una lettera all’amico Dmitrij Petrovskij, nel 1920: “Il potere dei Soviet si è gradualmente trasformato in una specie di sudicio ospizio ateo. Pensioni, razioni, sussidi… tengono la gente a digiuno e la obbligano a professare la propria miscredenza – pregando per la propria salvezza dai pidocchi – a togliersi il berretto al canto dell’Internazionale ecc. Ritratti dei membri del Comitato Esecutivo Centrale di Tutte le Russie, corrieri, giorni feriali e giorni festivi… Tutto qui è morto, morto, e bisogna andarsene via al più presto”.
*Michail Bulgakov, lo scrittore de Il Maestro e Margherita, 31 dicembre 1917: “Ritorneranno i vecchi tempi? Il presente è tale che cerco di vivere senza farci caso… non vedere, non sentire! Ultimamente durante il viaggio a Mosca e Saratov, mi è toccato di vedere tutto con i miei occhi, e vorrei non vedere più. Ho visto grigie folle che con urla d’incitamento e ignobili imprecazioni rompevano i vetri dei treni, le ho viste picchiare la gente. Ho visto, a Mosca, case distrutte e in cenere. Facce ottuse e bestiali… Ho visto folle assediare gli ingressi delle banche confiscate e chiuse, file di persone affamate davanti alle botteghe, poveri ufficiali braccati, fogli di giornali dove in sostanza si scrive di un’unica cosa: del sangue che scorre a sud, a ovest, a est, e delle prigioni”.
*Vasilij Rozanov, supremo critico letterario, superbo aforista (leggete almeno Foglie cadute, stampa Adelphi), ottobre 1918, lettera a un amico: “ottobre 1918, Vasilij Rozanov, lettera a Gollerbach, “Come è successo. La Russia è stata sostituita. Ed essa arde di una fiamma estranea, di un fuoco estraneo, riluce di luce non russa e non riscalda la stanza in modo russo”.
*Aleksandr Blok, già alfiere – a modo suo – della Rivoluzione, maggio 1919: “Ormai non sono più in grado di lavorare sul serio… finché sul collo mi balla il cappio dello stato poliziesco… significa dunque che è la fine per la mia vita?”.
*Andrej Belyj sintetizza cosa è stato il 1919, due anni di Rivoluzione bolscevica e di guerra civile: “l’anno più difficile […] quello in cui erano svanite le illusioni sul prossimo avvento della Rivoluzione dello Spirito”.
*Evgenij Zamjatin, lo scrittore di Noi, a suggello, nel 1921, firma un articolo dal titolo emblematico, Ho paura: “Una letteratura autentica può esserci soltanto là dove a farla non sono funzionari coscienziosi e benpensanti, ma folli, eremiti, eretici, sognatori, ribelli, scettici”.
Passiamo ora a qualche esemplare dato storico-politico:
a) 7 novembre 1917, varato il ‘Decreto sulla stampa’, “che introduceva la censura e chiudeva tutti i giornali e le riviste che avevano un atteggiamento critico nei confronti del potere” (Andrej Siskin).
b) 3 luglio 1918: Lenin chiude la rivista del suo amico Maksim Gor’kij. “È necessario chiudere La nuova vita”, dice il capopopolo, “allo stato attuale delle cose, e con l’urgenza di portare l’intero paese a difendere la rivoluzione, ogni forma di pessimismo intellettuale è oltremodo nociva”. Gor’kij va in esilio, farà ammenda, torna in Russia, diventa il paladino del ‘realismo socialista’ – e morirà, in circostanze molto poco chiare, nel 1936.
c) “’Verso la fine del 1920, dopo tre anni di guerra civile e di comunismo di guerra, nulla più rimane delle vecchie strutture della vita letteraria. Anche se mai formalmente vietate, le edizioni private sono state via via soffocate dalla censura, dalla mancanza di carta, dalle tasse, dalla chiusura delle tipografie. L’editoria ha finito così per concentrarsi nelle mani del potere centrale, dei soviet locali, delle ‘organizzazioni culturali ed educative del proletariato’”. Di fatto, esistono dal 1919 solo le Edizioni di Stato, Gosizdat, “organismo che sovrintende su tutto il complesso dell’attività editoriale, soprattutto attraverso il razionamento autoritario della carta” (Michel Aucouturier).
d) Di lì a poco, ma prima del ‘realismo socialista’, prima dei Gulag, prima del tallone staliniano, si impone la letteratura ‘sociale’, utilitarista. Nasce, per dire, il romanzo ‘produttivistico’. Nessun intento estetico, per carità, “si trattava di avvicinare il lettore al processo lavorativo, educare in lui la coscienza del suo ruolo nel processo di industrializzazione e di collettivizzazione” (Aleksandr Flaker). Basati su “una fabula lineare, in cui l’operaio o l’ingegnere comunista vince le resistenze opposte dall’arretratezza russa o dall’attività di sabotatori, per rimettere in funzione o costruire un oggetto industriale”, nascono romanzi come L’altoforno di Nikolaj Ljasko e Cemento di Fedor Vasil’evic Gladkov, nel 1925 e La centrale idroelettrica, di Mariétta Saginjan. La metamorfosi forzata è avvenuta: l’artista è asservito all’ideologia.
I dati sciorinati qui sopra non sono segreti arcani, né oggetto di studi abissali. Tutta roba che abbiamo sotto gli occhi da anni (cito solo due reperti: la Storia della letteratura russa, sotto la supervisione di Vittorio Strada, Einaudi 1990, e la Storia della civiltà letteraria russa, diretta da Michele Colucci e Riccardo Picchio, Utet, 1997).
Vladimir Majakovskij (1893-1930)
Insomma, sappiamo da sempre cosa è stata la Rivoluzione ‘rossa’: massacro della libertà individuale in favore dell’orrore collettivo, collettivismo delle arti. I dati sono testimoniati dalle singole, esemplari esistenze dei poeti russi, autori, in quegli anni, di libri destinati a cambiare il corso della lirica occidentale. Riassunto:
*Osip Mandel’stam muore in un campo di smistamento prigionieri nel 1938 – la sua storia è ricordata, tra l’altro, nei Racconti della Kolyma di Varlam Salamov;
*Isaak Babel’, lo scrittore de L’armata a cavallo, viene fucilato nel 1940 con la consueta accusa di attività sovversiva antibolscevica; nel 1954 il governo sovietico, però, dice che si è sbagliato, Babel’ è innocente, non ha commesso il fatto, è soltanto defunto;
*Nikolaj Gumilëv, il promotore dell’‘acmeismo’, marito di Anna Achmatova, viene fucilato – solita accusa, radicale antibolscevico – nel 1921;
*Sergej Esenin si impicca nell’albergo ‘Angleterre’ dell’allora Leningrado, è il 1925, dopo aver scritto, con il sangue, “non è nuovo morire, in questa vita/ ma più nuovo non è nemmeno vivere”;
*Marina Cvetaeva si impicca nel piccolo distretto di Elabuga, il 31 agosto 1941; il giorno prima aveva chiesto di essere assunta come lavapiatti per guadagnare due soldi. Fu intima amica di Boris Pasternak e di Rainer Maria Rilke;
*Vladimir Majakovskij, il geniale megafono della Rivoluzione, si uccide il 14 aprile 1930, sparandosi al cuore, “il tuo sparo fu simile a un Etna/ in un pianoro di codardi e di codarde”, scrive di getto l’amico-nemico Pasternak;
*Boris Pasternak vive. Oltraggiato, spiato. Nel 1957 l’editore Feltrinelli pubblica il Dottor Zivago, di cui è impedita la pubblicazione in Russia. Pasternak vince il Premio Nobel per la letteratura nel 1958. Il governo sovietico gli intima di rifiutarlo. Al suo funerale, nel 1960, aleggiano gendarmi inviati dal regime;
*Anna Achmatova vive. Censita nell’ostilità, censurata. Nessuno può pronunciare il suo nome. Le dicono – testuale – che è la puttana della poesia russa (un libro istruttivo: le memoria di Lidija Cukovskaja, Incontri con Anna Achmatova).
Queste storie sono narrate, sommariamente, in un libro, 1917. I poeti che fecero la rivoluzione (Interno 4 Edizioni, pp.180, euro 14,00). Che è, in sintesi, una antologia dei grandissimi poeti vissuti durante la Russia sovietica. L’ho scritto io, ma questo è secondario.
Anna Achmatova (1889-1966)
Di primaria importanza è che il libro è un risarcimento estetico. In Italia tutti sviscerano la Rivoluzione russa da ogni lato. Ma non pubblicano più i poeti russi di quegli anni. La pionieristica antologia della Poesia russa del Novecento (1954), curata da Angelo Maria Ripellino, un totem di eleganza stilistica e di acutezza critica, è scomparsa. Manca una edizione delle poesie tutte di Pasternak, di Mandel’stam, della Achmatova, della Cvetaeva. Mancano i libri di molti poeti importanti, Chlebnikov, Chodasevic, Gumilëv, Belyj. Bisogna colmare la pecca. Per non ucciderli due volte. Il libro, ad ogni modo, fa un breve tour. L’8 novembre è al Museo della Città di Rimini (ore 17,30), il 7 dicembre a Roma, presso Più Libri Più Liberi (ore 15, con lettura dei poeti russi da parte di Monica Guerritore), il 14 dicembre a Cles. Per far risuonare la voce di chi non si è piegato, di chi con un verso ha piagato la Storia.
Davide Brullo
L'articolo 1917: la Rivoluzione che ha ucciso i più grandi poeti del ‘900 proviene da Pangea.
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