#Maurice Chappaz
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ventuno dicembre
Guido Strazza, Orizzonti Il libro Paola, le rose che il vento del nord strapazza sul mio terrazzo sono di porpora oscura – ma loro profumano- come il sangue che l’ago mi estrae dalla vena a verifica dell’anti-coagulo. Rose e sangue e azalee già spente, tempo che altrove è il suo contrario, e, a ritmarlo, il ticchettio della bomba innescata da sempre nella mia mano, o in quella di non so che…
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“Perché sul punto di spegnersi il mistero parla…”. Maurice Chappaz, il poeta che ha trovato il Tibet sulle Alpi
Pensavo fosse possibile una vita tra i monti – ma solo nel sogno, in una camera da letto che pende sul fiume, stretto, evocato dall’inno delle pietre e dal loro rimpianto, ci si può mutare in lupi e apprendere la precisione del falco. Il lago, da lì, sembra una piastra in bronzo, un amuleto – chi è del lago va in barca, con sensuale avidità di mare; chi è qui, arma gli scarponi, rincorre a zodiaco inverso gli scorpioni, senza scopo. A volte scendevo al lago a piedi, mi abbeveravo alla Margaroli, mitica libreria di Intra, Verbania. Ora non c’è più – o meglio, è trasmutata in catena libraria. La Margaroli era il cervello di una casa editrice – sede: Verbania, piazza Ranzoni – si chiama Tararà. Al bordo del lago, una casa editrice “specializzata in letteratura di montagna”.
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Scoprii più tardi che il libro più noto di Maurice Chappaz, Il Vangelo secondo Giuda, stampato da Gallimard nel 2001, era stato tradotto, per Tararà, da un amico, il poeta Flavio Santi. “Una dopo l’altra le poesie mi lasciano, si muovono, ma mi sembra ancora di decrittare ricordi con le parole di poeti diversi, inghiottiti, fuggiti verso la fine del mondo, di passaggio nella mia coscienza, quasi visibile. Non so da dove venga questa voce, la penetro, a tentoni tra cespugli neri, su sentieri alla fine dell’era”. Il libro, tradotto nel 2010, l’ho regalato a Domenico Quirico, l’inviato speciale, in memoria di un incontro, accaduto a Lima. Quasi condor stavano, all’altro lato del mondo, in cima ai cancelli – puntavano un al di là di me.
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Nel 2000 Tararà pubblica un libro meraviglioso, s’intitola Vallese-Tibet. Icona dei contadini di montagna. La prefazione è di Mario Rigoni Stern: “Quanti ancora notano i semplici segni? Siamo pochi vecchi, ormai. L’erba cresce e nessuno più la taglia, il bosco avanza e copre i pascoli. Non c’è tempo per osservare; nemmeno di riflettere. Sono sempre meno quelli che vanno a piedi. Ancora di meno quelli che coltivano la montagna. Sono sempre molti, invece, quelli che fanno le file agli impianti di risalita”. Quando ho letto Chappaz mi ha sorpreso questo: è uno che scrive andando a piedi. Enumera le stelle, le valuta con lo scroscio del fiume, sa che la parola non è una pietra – ma può lapidare. C’è una calma limpida, lampante. “La mia epoca è stata spazzata via. I paesi scappano, le campagne si impigliano, si perdono l’una nell’altra. Non so più dov’è la mia casa”, dice Chappaz. Avere il privilegio di una infanzia tra i boschi – nel paese, singolare, sopra il Lago Maggiore, in cui ho abitato, non c’erano negozi ma una chiesa, che fungeva da agorà e da fuoco; il sabato, quando dalla porta semiaperta vedevi la pala, le candele, la tovaglia, il calice, l’ombra del prete, sentivi, con nitidezza meridiana, il ruggito del sacro. Avere il privilegio dei boschi, dico, quando infanzia e sogno sono nello stesso magma, è addestrarsi a perderlo.
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Maurice Chappaz (1916-2009) è uno scrittore svizzero, cresciuto nel Vallese, un ‘classico’; ha sposato la poetessa S. Corinna Bille nel 1942, ha avuto tre figli. Nato da una famiglia di avvocati, sceglie la letteratura, Paul Eluard ne benedice il talento, viaggia, scrive sui giornali, si occupa di una vigna, si applica come geometra. Dagli anni Settanta scrive contro il turismo che dilania le montagne, che fa dell’ascesi una cartolina. Ha ottant’anni quando viene riconosciuto con il Prix Schiller; i suoi libri, memorie vetrificate di tenerezza e di vertiginosa ribellione, sono pubblicati da piccoli editori, molti, ora, sono stampati da Fata Morgana. “Tutto inizia, in Chappaz, da un infantile grido di gioia, a 22 anni”, scrive Philippe Jaccottet commentando questa terzina: “…vorrei dire soltanto/ meraviglia meraviglia/ ma allora chi dirà la notte? chi dirà l’estate?” (Verdures de la nuit).
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Di Maurice Chappaz vorrei tradurre tutto. Le livre de C – edito da Fata Morgana, con uno scritto di Jean Starobinski – si concentra sulla morte di Corinna, accaduta nel 1979. “Un’isola al mondo come il dorso di una balena. Dicono che i marinai in viaggio evochino la terra; gli si approssimano, mangiano. Alimentano un piccolo fuoco e l’isola, che si è appena rivelata, affonda nell’oceano. Allo stesso modo, al momento della morte, la terra ci lascia, ci immergiamo in un’acqua illimitata, senza palazzi…”.
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La mia copia di Vallese-Tibet è ingiallita; l’ho portata con me nei recessi e nei ricoveri della Val Grande, una delle aree più selvagge del paese. Qualcuno mi avvisava quali piante succhiare per un immediato conforto, un altro, dal dialogo in spirali nei cespugli, sapeva riconoscere la vipera. Non è difficile vedere il falco, ma parlargli. “La vita qui, intessuta di miseria (dominata collettivamente), splende di qualcosa di intatto o di vergine, un valore in sé che ci sfugge. L’infallibilità si sogna o si vive… La peggiore illusione si chiama progresso. Basandoci su questo fatto: c’è una perfezione del mondo piuttosto terribile, dato che tutti i mali sono possibili, allora o sono anche tutti i beni. I soli a non cascarci, con una speranza, piccoli villaggi tra due valanghe”. Torna la parola meraviglia, sbigottimento bianco, etimo in cui il verbo plana al silenzio: “Meravigliati, gli artisti hanno avuto naso e hanno fatto il loro mestiere. Perché sul punto di spegnersi il mistero parla, non ho avuto bisogno di impararlo… Solo gli gneiss, i larici e i loro fiumi sapevano andare fino in fondo… Verso una reincarnazione”.
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Non asserisce e non assolve, la poesia – assomiglia. Coagula il sole, la sua eclissi – può essere una cittadinanza, la sua sconfitta. Nel 1987 Gallimard pubblica le Georgiche di Virgilio, “l’ex padre dell’Occidente”, secondo Chappaz; dall’apicoltura alla discesa agli inferi, come se i morti vivessero in un immenso alveare, liquefatti i ricordi.
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“L’altitudine vista come gli oceani, nei romanzi di Joseph Conrad e di Herman Melville”, è scritto a proposito di La Haute Route (per Tararà, L’alta via). In Vallese-Tibet torna la metafora dell’alveare. “Forse le scritture, tendo i miei fogli ancora bianchi, servono per raccogliere gli ultimi sciami? Che lasciano gli alveari quando i proprietari dormono sotto terra. Qualche parola alata fugge via. Il Tibet fu l’ultimo alveare”. Da lontano, Oriente pare un triangolo di miele; le città europee sono convalidate dal corvo e dal randagio. Anche la fatica è una variante della poesia, le mani in preghiera, giunte, simulano una cima, gli occhi, poi, vanno spesi, svuotati perché qualcuno ne confermi il fiume, il fine. (d.b.)
In copertina: la fotografia di Maurice Chappaz è tratta da qui
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« On naît dans une dissemblance, et l’écrivain, dirait-on, de la façon la plus nécessaire. Tout son effort sera de frayer le chemin d’une autre origine, de laisser advenir les choses comme virginalement : de les laisser apparaître pour qu’un « moi » simultanément se découvre dans cette apparition et retrouve en elle sa propre ressemblance. » Ce processus de désencombrement, de déconditionnement, est une traversée inajournable, en vue de savoir « qui je suis avant de mourir » (Chappaz). » Alain Bernaud | Passages de Maurice Chappaz recension de "Maurice Chappaz" de Christophe Carraud, aux éditions Seghers
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«Testament du Haut-Rhône suivi de Les Maquereaux des cimes blanches» de Maurice Chappaz
«Testament du Haut-Rhône suivi de Les Maquereaux des cimes blanches» de Maurice Chappaz
Dans le Testament du Haut-Rhône, Chappaz déroule une prose poétique aux images vibrantes et mélancoliques, abordant sa vie, son rapport à la nature et la beauté du paysage valaisan, pressentant les bouleversements tragiques qui menacent les vallées.
Les Maquereaux des cimes blanches (1976) est une collection de trente textes poétiques et satiriques dans lesquels Chappaz plaide pour la nature et…
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Pierre Imhasly, Swiss author and poet, Died at 77
Pierre Imhasly, Swiss author and poet, Died at 77
Pierre Imhalsy was born on November 14, 1939, in Visp, Switzerland and died on June 17, 2017. He was a Swiss novelist and poet. Imhasly studied German literature in Fribourg and Zurich. Pierre major work is The Rhone Saga an epic poem about the Rhône River. He was the principal translator of Maurice Chappaz’s works. He died on from cancer. Pierre Imhasly passed away at 77 years old.
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Humer simplement une rose ou dévaster le jardin parce que la brise a ouvert la porte?
Je me suis assis devant la maison de ma bien-aimée.
L’angoisse scelle mes lèvres et fait parler mon coeur en silence.
Maurice Chappaz
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Evviva, torna l’opera di Piero Scanziani! Mircea Eliade lo voleva al Nobel, “Lo leggo, rapito, per alcune ore. La gioia di scoprire, alla mia età, un nuovo scrittore”. Ovvero: elogio delle piccole, avventurose imprese editoriali
Prima cosa che mi preme. Elogio delle imprese editoriali che al di là dei meandri del mercato (i libri si devono vendere è ovvio: dipende cosa, come, perché) s’impegnano in vaste avventure. Un esempio. Lindau che pubblica tutto Carlo Coccioli. Secondo esempio. La neonata casa editrice Utopia, che ha vaghi intenti da enogastronomia libraria (annunciano di voler fare “letteratura di qualità” all’ombra della parola “coerenza”: io sono un lettore del sottosuolo, mi bastano i buoni libri e gli autori impeccabili) e una proposta magnetica. Oltre alla pubblicazione di testi importanti (La famiglia di Pascual Duarte di Camilo José Cela, un tempo in catalogo Einaudi, e Gente nel tempo di Massimo Bontempelli, un tempo Mondadori poi SE), infatti, Utopia ha annunciato di voler investire sull’opera di Piero Scanziani. Una notizia magnifica.
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Di Piero Scanziani, scrittore svizzero, studi a Milano, talento anomalo, desto a scandagliare gli ignoti, ho avuto modo di scrivere, interpellando la moglie, Magì, che con dedizione ne custodisce l’opera. Autore di libri spesso spiazzanti – mi ha appassionato, per qualità narrativa e foga intellettuale, Entronauti, il viaggio, dagli Stati Uniti al Giappone, tra Monte Athos e santoni indiani, che lo scrittore compie alla ricerca degli ultimi maestri, delle residue tracce del sacro – ho conosciuto Scanziani scontrandomi con la scrittura intrepida e tremante di Mircea Eliade. Era il 21 luglio del 1984, Provenza, quando il grande studioso scriveva a Scanziani, denunciando la gioia di averlo scoperto. “Caro Piero Scanziani, come ringraziarLa? Da due settimane mi sono immerso nei suoi libri. (Una cataratta, per ora inoperabile, limita la mia lettura a tre, quattro ore al giorno). Dopo Aurobindo, l’appassionante Avventura dell’uomo, poi I cinque continenti e gli straordinari incontri di Entronauti! M’inoltro, adesso, meravigliato in Libro bianco… Vorrei parlarle più a lungo. Ahimé! Scrivo con fatica (artrite reumatoide) e non sono capace di dettare (ho provato il dittafono, ma i risultati mi deprimono!) Ancora una volta, grazie! In tutta sincerità e amicizia, il suo Mircea Eliade”.
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Quella lettera è preceduta da un appunto, il 28 luglio del 1984, che ho trovato per caso – come se il caso fosse la provvidenza, bendata – sfogliando il Diario di Eliade in una bancarella bolognese, edizione Jaca Book. Ecco il testo: “Ieri sera con gli Ionesco e Cioran abbiamo cenato da Colette e Claude Gallimard. Ero di cattivo umore, apatico e, infine, depresso. La conversazione generale: si è parlato soprattutto di malattie… Ho ricevuto oggi, per espresso aereo, tre volumi di Piero Scanziani. Tutti con la stessa dedica: ‘A frate Mircea, frate Piero’. Apro a caso il Libro bianco. Il testo mi conquista subito e leggo, rapito, per alcune ore. La gioia di scoprire, alla mia età, un nuovo scrittore”. I libri di Scanziani dovettero davvero coinvolgere e sconvolgere Eliade, se è vero che uno degli ultimi atti dello studioso – morirà nel 1986 – sarà quello di candidare lo scrittore svizzero al Nobel per la letteratura (nei cui archivi, per altro, risulta, ad ora, anche una candidatura cascata sul capo di Eliade: era il 1957, l’alloro andò ad Albert Camus, come si sa).
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Alcuni, grandi autori, passati negli altri mondi (Scanziani muore nel 2003), meritano di essere imbracciati solo da editori intrepidi, avventati, votati al nuovo e all’antico, desti alla maestria. Altrimenti, verrebbero massacrati dal carrarmato editoriale. Scanziani non otterrà il Nobel – che in quegli anni va a Jaroslav Seifert, Claude Simon, Wole Soynka: non per forza autori “maggiori” – ma nel 1997 è onorato con il Premio Schiller, “per l’opera omnia”, nell’anno in cui viene riconosciuto anche Maurice Chappaz.
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Eliade preferiva Libro bianco, romanzo inclassificabile del 1968; Utopia non denuncia il piano editoriale, ma partirà – da ciò che si annusa in giro – con Avventura dell’uomo, uno dei libri felici e inquieti di Scanziani, di cui riproduciamo un brano.
“Nel momento in cui il pensiero della morte ci opprime, è importante per noi capire come mai l’uomo antico si convinse che i morti non erano morti, anzi ben vivi, tanto d’aver bisogno d’aiuto e di parola. Qual era dunque per lui questa evidenza?
Una storiella ottocentesca, che ancora qualcuno ripete, pretendeva che l’uomo dei primordi fosse quasi bestiale. Ma era una storiella mal inventata, poiché l’uomo sarebbe stato una bestia così gracile da non poter certo sopravvivere, con il solo aiuto di qualche selce aguzza, in un immane mondo nemico. Cos’è mai una selce dinanzi al mammut di cento quintali, all’orso cavernicolo alto cinque metri, ai sauri lunghi dieci? Come potrebbe un bambino, lanciando pietre, sopravvivere nella lotta contro uno stuolo di carri blindati?…
Se rileggiamo i primissimi libri, se interroghiamo le superstiti popolazioni primitive, ci persuadiamo che gli antenati vedevano il creato diversamente da noi. Vedevano anche un universo etero, sovrasensibile, sottile, mentre noi vediamo soltanto un cosmo denso e pesante, tutto terrestrità.
Nipoti e pronipoti di pazzi, noi soli dunque siamo savi? Certo erano pazzi, ma con le loro follie vinsero i cento quintali del mammut. Certo erano visionari, ma la loro veggenza non doveva essere contraria al vero, altrimenti la terra li avrebbe cancellati.
Per tutti i millenni antichi gli uomini di ogni latitudine costruirono grandi civiltà intorno ai loro Dei e ai loro morti, ossia intorno a ciò che ci sembra inesistente. Tutte quelle civiltà erano sacre, compreso il Medioevo: soltanto la nostra è profana. Tutte quelle civiltà affermavano che dietro la realtà corporea ve n’è un’altra, più importante, animata da forze e da potenze, da anime e da Divinità. Furono dunque dei pazzi i costruttori della Grande Muraglia, del Tempio di Boro Budur, delle Piramidi, dell’Acropoli, del Colosseo e di San Pietro? Furono dunque dei pazzi Mosè, Budda, Pitagora, Platone, Maometto, Francesco e Gesù? Se noi siamo savi, dobbiamo dire che i più grandi popoli e i più grandi uomini dell’umanità furono tutti pazzi. Ma dirlo non sarebbe una pazzia?
Forse non vi sono né pazzi né savi, ma esistono due dimensioni del reale, l’una sottile che si raggiunge con la sola anima, l’altra pesante, che si raggiunge con i soli senti. Per l’una il morto è vivo, per l’altra è morto”.
Piero Scanziani
*Il testo è tratto da: Piero Scanziani, “Avventura dell’uomo”, Elvetica Edizioni, 200
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Une vallée de larmes de joie et de douleurs, une vallée où nul ne peut vivre sans pardon ni garder une miette pour soi. Mais la beauté s’obtient par l’amitié d’une chose plus belle. Ni vu ni connu : il faut mourir pour renaître. Maurice Chappaz
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