#Marco Nutricula
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Come una mattina all’Eurospin può salvarvi la vita. Racconto di un disperato alla ricerca dell’immortalità tra asparagi e Alzheimer
Il privilegio di essere disoccupato e abitare di fianco all’Eurospin è quello di avere sempre a portata di mano una bella scorta di birra Kenner. Ingozzarsi del suo fantastico luppolo austriaco, nella solitudine del mio loft romano, davanti ad una serie Netflix non ha prezzo, o meglio, lo ha: 2,99 euro per una confezione da quattro e 7,99 euro per un abbonamento Netflix standard. Adoro crogiolarmi negli abissi abietti della mia malsana solitudine. Mi accorgo che, dopo un paio d’ore consecutive passate davanti al monitor, a tracannare con sguardo vitreo e occhi gonfi, avverto una fitta dietro la nuca ai lati della regione occipitale, la vista cala e le mani si intorpidiscono. Decido allora di fare una piccola pausa, per evitare di passare l’intera notte in preda alla turpitudine esistenziale e al reflusso gastrico. Ma il privilegio di abitare di fianco all’Eurospin è anche quello di incontrare, nonostante io sia un misantropo, una fauna di umanità disperata ai limiti dell’immaginazione. L’altra mattina, ad esempio, seppur ancora in attesa del reddito di cittadinanza, mi trovavo nel mio amato supermercato. Tra i più temuti incontri che si possono fare, vi sono quelli con i vicini di casa. In prossimità del banco dei surgelati, notai in lontananza la vecchia del secondo piano. Ha dieci nipoti, quattro figli e persino tre bisnipoti, e nessuno che la vada mai a trovare. Vive nella solitudine totale e nonostante l’artrosi, l’arteriosclerosi, lo spettro della demenza senile e l’Alzheimer galoppante, non è disposta a cedere e si afferra con fervore alla vita. L’ossessione della vita eterna è quello che ci tiene in piedi. Non siamo disposti a cedere, a venire a compromessi. Mi chiedo cosa pensi la sera, quando è sotto le coperte, e cosa aspetti a farla finita. Capite bene come la sua storia sia per me di conforto. Spinto da un’irrefrenabile e assurdo moto di compassione, decisi di salutarla. Più mi avvicinavo al suo corpo rattrappito e più mi accorgevo di quanto la vecchiaia sia spietata. Siamo sicuri che il fatto che la vita media si sia allungata costituisca un bene? Il suo volto appariva bucherellato, lapidato come un paesaggio lunare. I capelli sporchi, grigi, diradati come quelli dell’anziana gattara dei Simpson. La sua mano artritica si muoveva lentamente nella difficile impresa di prendere una confezione di asparagi surgelati. Mi avvicinai ancora di più. Non c’era nessuno al banco, oltre noi due poveri disgraziati. Lasciai perdere il mio mood malinconico, che mi avrebbe condotto verso una sana estinzione glaciale sotto le confezioni monodose di pizza surgelata, presi coraggio e le parlai.
“Buongiorno signora, sono il sig Nutricula del piano terra.”
La vecchia si volta, mi guarda, strabuzza gli occhi. Appariva incredula. Attimi di silenzio e poi parla.
“Ginoooo! Ginoooo! Disgraziat! Ma t par chist o’ mod e’ anna ‘n’miezz a via?”
Il suo principio di Alzheimer stava vincendo. Gino, suo figlio, napoletano da tempo emigrato a Milano, l’aveva ormai abbandonata al suo triste destino romano. Ma non capivo perché quella vecchia ce l’avesse con la mia amata tuta adidas alla Fidel Castro.
“No, signora. Sono il sig Nutricula del piano terra, ha presente?”
“Gino che fatt?! T sì trasferit o pian e’vasc – piano terra – e nun m’e ritt nient?! Vieni da me, disgraziat!”
Nulla da fare. Il suo cervello era andato in pappa. Decisi di stare al gioco. Provavo una certa empatia per quella simpatica vecchia rincoglionita di origini partenopee.
“Si madre, è stata una decisione sofferta ma inevitabile. Dovevo tornare alle origini per potermi sopprimere.”
Qualcosa in lei scattò e un sorriso comparve sul suo volto straziato dagli anni.
“Ginoooo! Ti sei ricurdat e me purtà a’muzzarella?”
“No madre, sono allergico ai latticini, alla gente, alla vita, a tutto. Medito l’estinzione della specie. La vita è un massacro, madre. Il tempo ci annienta.”
“Ginoooo! Figlio mio, ma come te sei ridotto? Vamm a pija a’muzzarella. Curr!”
Niente. Mi trovavo davanti a un muro di gomma, un apparato umano scarnificato del suo essere. Ma tutto sommato provavo una strana sensazione di gioia. Avevo trovato un interlocutore sordo, un rispettabile antistress, un antidoto alla mia sofferenza, alla mia solitudine.
“Va bene, madre. Andrò subito, ma tu converrai con me sul fatto che la vita ci ha fottuti. Il solo fatto di esser nati basta a farci precipitare nell’angoscia.”
“Gino, figlio mio, figliuzzu beddu, domani viene padre Alfio dalla parrocchia, fatti benedire! C’amma fa truvà a’muzzarella pur a’iss.”
“Madre cara, Dio è morto. La fede è un virus. Dobbiamo recedere da siffatti pensieri, tenerci per mano, cedere all’infertilità e camminare felici verso l’estinzione.”
Quanta gioia ho provato nel potermi confidare con lei. L’Eurospin poteva riservarmi ancora delle belle sorprese.
“Ginooo! Tieni, prendi questi! Stasera faccio una bella cena.” Si rattrappì ancora di più e prese dal banco freezer una confezione di asparagi che mi offrì con somma gioia. “Questi ti faranno bene, sì sciupat! Gli asparagi fanno bene alla salute, t fann annà into o’cess, so’ na bomb! E tu sei cagionevole a’ mammà.”
“Madre, ti ringrazio per tale dono e per la splendida discussione sull’efficacia degli asparagi nel combattere il lento e triste decadimento del corpo. Credo che tu sottovaluti le tue capacità intellettive.”
“Eehhh? Non ci sento più tanto bene, Gino. Ho sempre stu’ fischio int e’recchie. O’duttore m’ha detto che soffro di aracfene, alfiene, aufenne… nun m’arricord mo.”
“Acufene, madre. Acufene. Ma non temere, quel fischio che tu senti non è altro che un ronzio, quel ronzio di fondo lo si percepisce in ogni attimo della nostra vita, un ronzio incessante che non porta a nulla. Col passare degli anni quel ronzio si accentua e diventa rumore, poi, da morti, scompare del tutto.”
Non eravamo più soli al banco dei surgelati. Qualcuno cominciava a guardarci con sospetto. Ma era comprensibile: tali pensieri elevati erano irraggiungibili per dei comuni mortali. Decisi in quell’istante che avrei accettato volentieri di cenare con la vecchia, per riprendere il nostro magnifico discorso. Ci salutammo con rammarico, ma con la promessa di rivederci presto.
Ho trovato finalmente l’antidoto alla mia solitudine. L’Eurospin mi ha dato in dono un essere spogliato del suo stesso essere. Mascherarmi in un Gino qualunque, per non dovermi pensare, per non dovermi sopprimere. Confessarmi a un muro di gomma bucherellato e straziato dal tempo. Parlare per non sentirmi ascoltato. È così che andremo avanti io e la vecchia del secondo piano. Stasera cenerò con lei. Gli asparagi mi hanno salvato la vita.
Marco Nutricula
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Storia di ordinaria ossessione per la cultura (e per Dostoevskij). Ovvero: quella volta che un calzettino fu la risposta al mio malessere esistenziale
Sono un ignorante, un idiota, un idrocefalo, mi dico. Non ho cultura, non scrivo libri, non vado da Fazio. La cultura mi ossessiona. Non riesco proprio a convivere con l’idea di non aver letto i classici, di non comprendere il secondo principio della termodinamica e, soprattutto, di non possedere uno straccio di laurea. La cultura mi ha da sempre tormentato. Appena posso, a casa, per strada, nei locali, alle poste, al cimitero, cerco di leggere quanti più libri possibile. Anche ora, mentre guido, leggo. Un occhio sulla strada e l’altro su I fratelli Karamazov. La mano mi fa male perché questo capolavoro è pesante. Devo resistere, mi dico, è il peso della cultura.
Mia moglie – una bambola gonfiabile presa da Aliexpress – mi ha incaricato di acquistare un cetriolo, due banane e della curcuma – pare sia vegana – all’Eurospin. «Almeno oggi fai qualcosa», mi ha detto, «invece di stare tutto il santo giorno a leggere». L’inconveniente di vivere con una bambola gonfiabile è che, qualunque cosa tu le dica, non riuscirà mai a capirti. È come parlare con un muro di gomma. Tuttavia, non riuscirei a farne a meno. La solitudine mi perseguita da sempre. Di giorno, di notte, sempre. Noi uomini dalla coscienza ipertrofica siamo afflitti da un vuoto doloroso e la cultura cos’è se non riempire questo vuoto? La cultura come mancanza.
Oggi mi sono dato malato. Il mio umile lavoro non ha importanza. Il mio medico è compiacente. Capisce il peso della cultura e mi concede giorni di malattia quando voglio. Durante la finta convalescenza ne approfitto per leggere, studiare, riflettere. Quando mia moglie va dal gommista per farsi dare una gonfiata ne approfitto per immergermi nel mio studio matto e disperatissimo. Devo recuperare il tempo perduto, mi dico, esercitare l’intelletto, non cedere all’atrofia cerebrale.
E così ora mi ritrovo in macchina, nel parcheggio del supermercato, con due buste in una mano e Memorie dal sottosuolo nell’altra – sono nel periodo Dostoevskij. Porterò con me Ivan e la sua coscienza ipertrofica all’Eurospin, mi ripeto come un ossesso. La sua compagnia mi aiuterà a riflettere su questa malattia che affligge entrambi. Mi appresto ad avviarmi verso l’ingresso del supermercato sotto lo sguardo indagatore del mendicante, che sicuramente starà pensando che sono un intellettuale. Perché sono vestito da intellettuale: giacca a quadri con toppe ai gomiti di una taglia più grande, pantaloni a coste marroni, maglione nero girocollo, occhiali da vista d’ordinanza anche se ci vedo a occhio nudo. Ho il volto da intellettuale: barba lunga e curata, capelli trasandati e gonfi con un pizzico di forfora che non guasta mai, sguardo pensieroso a lasciar intendere che stia sempre raccolto in riflessioni di alto livello. Mi muovo pure come un intellettuale, un po’ claudicante, impacciato, con passo svelto per sfuggire ai comuni mortali, ma che rallenta eccessivamente nei pressi di una libreria indipendente. Colto da un improvviso raptus d’intelletto, decido di rivolgere la parola al mendicante e lasciare che questa sia per lui una giornata di illuminazione spirituale. Sarà la mia coscienza ipertrofica a parlare, citando con voce ferma e decisa le parole con cui Ivan, il protagonista di Memorie dal sottosuolo, presenta sé stesso: «Mio caro e umile mendicante, “io sono un mascalzone, il più abietto, il più ridicolo, il più dappoco, il più stupido, il più invidioso di tutti i vermi della terra. Un cialtrone, il più viscido, il più patetico, il più idiota, il più mediocre, il più bugiardo di tutti i farabutti della terra”».
Dopo un interminabile minuto di silenzio, il mendicante mi si avvicina e dalla sua bocca escono queste parole: «Duttò lasciat stà stì strunzat che fann mal e’cervell, nun v’affaticat, a’soluzion a teng ij pe’vuj e o’sapit qual è? Accattatev o’cazettin».
Rimango pietrificato, senza fiato. Di colpo ogni architettura, ogni inutile sovrastruttura mentale, è crollata e capisco che o’cazettin è la risposta al mio malessere esistenziale. La sua beata ignoranza mi ha colpito a tal punto da lasciar perdere ogni proposito di acquisto, ogni proposito di lettura. Devo tagliare i ponti con la cultura, penso, mandare al rogo la coscienza ipertrofica attraverso il fuoco vivo del calzettino. Lascio una lauta ricompensa al saggio mendicante acquistando non uno ma ben tre paia di calzettini nella speranza di non dover più soccombere al macigno del mio intelletto.
Sono sul divano di casa. Mia moglie riposa a letto, è sgonfia. Apro la prima immacolata confezione di calzettini e aspiro forte. Attendo qualche minuto. Niente. Apro la seconda confezione e aspiro di nuovo. Ancora niente. Terza e ultima confezione. Aspiro. Il nulla. Sarà forse questa la risposta, il nulla? Sarà forse questo il significato della vita? Lascio cadere i calzettini, vado sul letto e abbraccio mia moglie sgonfia. Ti voglio bene, le sussurro, nonostante il nulla.
Marco Nutricula
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