#La bottega del fabbro
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cerentari · 10 months ago
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Il sé incrostato
… saremo noi che abbiamo nella testa un maledetto muro. (Ivano Fossati) . Qui c’era la bottega del fabbro, più in là il calzolaio riparava scarpe, la messa è finita ma non c’è pace nemmeno fierezza nel Cristo divorato senza aver lavato le mani, eravamo magri ma in ogni banda c’era il grassone da tirar dietro, vedemmo il primo italiano del Sud dall’accento in esse sibilanti intorno ai dieci anni,…
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blogexperiences · 1 year ago
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Inaugurato il museo medievale di Monfalcone (Gorizia)
Inaugurazione, al centro Sindaco di Monfalcone, Anna Maria Cisint – Foto di Fabrizio Ruzzier INAUGURATO IL MUSEO MEDIEVALE DI MONFALCONEAl via le visite anche alle altre risorse storiche e culturali della città La spada “a una mano e mezza” rinvenuta nell’area adibita a bottega del fabbro durante il restauro dell’edificio che ospita il Comune di Monfalcone è uno tra i reperti più importanti…
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jacopocioni · 2 years ago
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Favole Fiorentine: Il fantasma dell'anfiteatro.
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(NdR) Queste favole scritte da Francesco Manetti hanno come recapito un pubblico giovanile, ma sono sicuro non saranno disdegnate da lettori più maturi. Si tratta di tre favole che hanno come protagonisti Lapo & Baldo due ragazzi che vivono le loro avventure nel 1400, cioè in pieno medioevo. Vi lascio alla lettura della prima. la prima favola a questo link: L'oggetto misterioso. La seconda favola a questo link: La statua di Marte. IL FANTASMA DELL'ANFITEATRO: LA TERZA AVVENTURA DI LAPO & BALDO, RAGAZZINI MEDIEVALI! di Francesco Manetti
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  "Quando Firenze si chiamava ancora Florentia", spiega il maestro Brunetto Cavalcanti alla scolaresca di cui fanno parte anche Lapo e Baldo, "esistevano molti edifici oggi scomparsi. Tra questi lo stupendo anfiteatro romano capace di ventimila posti: se ne può fare ancora il giro percorrendo quelle viuzze curve subito dietro Porta della Pera. La leggenda vuole che il fantasma dell'ignoto architetto che lo progettò circa 1200 anni fa vaghi ancora nei sotterranei delle case che oggi coprono la sua opera. Da qualche mese molti degli abitanti della zona sono fuggiti spaventati da grida disumane e terrificanti che vengono dal sottosuolo soprattutto di notte. Bene, anche per oggi la lezione è finita. Ci vediamo domani". Per strada Lapo e Baldo commentano quanto udito in classe. "Che ne dici, Lapo: ci andiamo oggi pomeriggio a vedere dalle parti di Via Torta? Forse abbiamo la fortuna d'incontrare lo spettro!" "Sì, sarebbe emozionante, ma dobbiamo stare attenti a non farci sorprendere dal buio, non tanto per il fantasma, quanto per la ronda delle guardie. Lo sai cosa capita a chi non rispetta il coprifuoco..." "Non ti preoccupare, non faremo tardi. Ci vediamo dopo pranzo a casa mia". "A più tardi, allora". Qualche ora dopo i due amici sono già a osservare le curve pareti delle case edificate sull'antico perimetro dell'anfiteatro. Le abitazioni abbandonate conferiscono al posto un'aria tetra. Il silenzio è palpabile e solo degli occasionali rumori di stoviglie confermano che qualcuno più coraggioso degli altri non se ne è ancora andato. "Brrr... da quando siamo arrivati mi si è accapponata la pelle. Eppure non fa freddo", dice Lapo. "Ho i brividi anch'io, ma mi consolo pensando a come ci invidieranno i nostri compagni quando sapranno che siamo stati qui. Cominciamo da là!" Baldo indica quello che fino a pochi mesi prima era stato l'ingresso di un fiorente negozio di fabbro. I due entrano in punta di piedi in quei locali anneriti dal fumo camminando sui pavimenti coperti di fuliggine.
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"Che tristezza, Lapo. Quel pover'uomo se ne è andato così in fretta che non si è potuto portar dietro tutti i suoi attrezzi. Guarda qua: un martello, due pinze, un attizzatoio... E non ha nemmeno chiuso a chiave la bottega". "Sarà meglio farlo noi. Non vorrei che qualcuno, passando, ci vedesse e ci scambiasse per ladruncoli.", dice Lapo chiudendo il portone. "OOOOOOOOOOOOOOUUUUUUUUUUUUUUU!", un grido che sembra provenire dall'Inferno fa sobbalzare i ragazzi. "C-cosa è s-stato?" "N-non lo so, L-Lapo. V-veniva da s-sottoterra!" "AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAUUUUUUUUUU!" "San Giovanni aiutami tu! E' il fantasma! E stavolta il grido era più vicino. Sta venendo quassù!" "Presto! Diamocela a gambe!" "Accidenti! La serratura si è bloccata! Che facciamo?" "Non c'è un secondo da perdere! Infiliamoci là!"
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E in men che non si dica Lapo e Baldo trovano rifugio in un pesante armadio di noce. Sbirciando dagli interstizi delle assi che compongono il mobile i due vedono apparire un essere ammantato di bianco che porta un calderone. Lo spettro aggancia la pentola nella fornace del fabbro e accende il fuoco. "Che sta facendo?" si domanda sottovoce Lapo "da quando in qua i fantasmi hanno bisogno di cucinarsi la cena?" "Ma che dici... quell'attrezzatura serve per fondere i metalli... ma è la prima volta che sento parlare di un spirito con il passatempo del fabbro." "Ehi, ora che è tutto intento nel suo lavoro, che ne diresti di provare di nuovo ad aprire quella porta? Mica possiamo star qui dentro tutta la vita." "Vabbè, usciamo." Quatti quatti i ragazzi scivolano fuori dall'armadio e si dirigono verso la porta. I loro sforzi sono inutili: nemmeno tirando in due riescono ad aver ragione del chiavistello. Lo spettro, intanto, sembra aver finito di preparare la fornace. Proprio in quel momento i ragazzi notano una botola aperta e delle scale che scendono nei sotterranei. Senza esitare si lanciano giù e si trovano di fronte a uno spettacolo incredibile. Una decina di torce illuminano degli ampi soffitti a volta e delle gradinate.
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"Guarda, Lapo! L'anfiteatro romano esiste ancora sotto le case moderne. Vedi quelle colonne? Reggono il peso delle nuove costruzioni." "Davvero stupendo! E qua cosa c'è?" In un angolo tre barili pieni di soldi brillano alla luce tremolante delle torce. "Santo cielo! Sono fiorini d'oro! Saranno centinaia di migliaia! Ci potresti comprare tutta Firenze!" "Non credo, Lapo", dice Baldo avvicinandosi a un tavolo di legno, "vedi queste barre di metallo vile accanto ai lingotti d'oro? Servono per fabbricare una lega pesante come l'oro e con lo stesso aspetto ma di valore molto inferiore. E questi stampi...? Siamo capitati nel covo di un falsario, altro che spettro! Con quella mascherata teneva lontani i curiosi dai suoi loschi affari." "OOOOOOOOOOOOOOUUUUUUUUUUUUUU! CHI OSAAAAAAAAA?" "Presto, appena scende tiriamogli addosso un paio di questi!" dice Baldo, lanciando a Lapo uno dei pesanti lingotti d'oro." Il finto fantasma non fa in tempo ad accorgersi di cosa succede che due mattoni dorati lo centrano in fronte. "Bene! Mi sembra sistemato! Vieni, Baldo: leghiamolo a una colonna con questa corda e poi andiamo a chiamare i bargellini. Sapranno loro come trattarlo".
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Poco dopo il furfante viene portato via in catene dai poliziotti del Bargello. Il capitano si congratula con Lapo e Baldo. "Bravi ragazzi! Da tempo avevamo notato che circolavano dei fiorini contraffatti, ma non ci immaginavamo certo che il falsario era lo spettro dell'anfiteatro! Come ricompensa vi spettano cinque monete d'oro a testa". "Vere, vogliamo sperare", dice Lapo. "Appena sfornate dalla zecca", dice il capitano, consegnando ai giovani investigatori un tintinnante borsello di cuoio ciascuno. Ecco cosa c'è di vero nell'avventura che avete appena letto: il perimetro dell'anfiteatro romano si nota ancora a Firenze, nelle vie presso Santa Croce; i falsari esistevano anche allora e venivano puniti col rogo. Il resto è tutta fantasia. http://ultimoistante.blogspot.it/2013/01/il-fantasma-dellanfiteatro-la-terza.html
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lamilanomagazine · 2 years ago
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Cineclub dei Piccoli, i vincitori dell'edizione 2022
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Cineclub dei Piccoli, i vincitori dell'edizione 2022. È la pellicola "Hanukka - La festa delle luci" ad aggiudicarsi la terza edizione del Festival nazionale di cortometraggi Il Cineclub dei Piccoli che si è svolta in contemporanea a Palermo e Messina. Il lavoro del regista palermitano Maurizio Forestieri, con le voci di Luisa Ranieri e Francesco Pannofino (Produzione Rai Ragazzi e Graphilm Entertainment), è stato premiato dalla giuria popolare composta dai piccoli spettatori che, nel corso di questa intensa settimana del Festival, sono stati impegnati anche in laboratori didattici e workshop dedicati al mondo del cinema. Hanukka - La festa delle luci è una storia di amicizia, coraggio e condivisione, piena di poesia e di spunti di riflessione, rivolta ai ragazzi e alle loro famiglie. Nella Roma del dopoguerra, tra la comunità ebraica che vuole ricominciare a vivere liberamente dopo anni di persecuzioni razziste, una giovane pasticcera di nome Anna lotta per salvare la bottega di famiglia dalle grinfie di Antioco, un uomo meschino e spietato. In un’epoca in cui manca il necessario, alla vigilia della festa di Hanukkah, l’amicizia e la solidarietà faranno la differenza. Il Premio Speciale della Giuria per il secondo classificato è andato invece a "Vulcano" realizzato da Serena Miraglia, Margherita Abruzzi, Giada Rizzi e Lara Zizzi: viene narrata la storia del giovane Efesto che vuole riscattarsi agli occhi della madre e per farlo ha bisogno dell’aiuto di Ermes, il quale, però, non sembra prendere sul serio il suo ruolo di messaggero degli dei. Piuttosto, è più interessato ai marchingegni costruiti dal fabbro dell’Olimpo. Infine, l'unico riconoscimento proveniente da una giuria di adulti, il Premio FICC per la Miglior Regia, è andato a "Superfunny Button", di Elena Panetta e Valerio Sorcinelli, con la seguente motivazione: "La sua ironia unita ad un gradevole connubio tra immagini e musica divertono e fanno riflettere i bambini di tutte le età". In questo lavoro, una ragazzina è chiusa in casa, nella sua piccola bolla confortevole, mentre la grande finestra alle sue spalle mostra una violenta invasione aliena che devasta il pianeta. Ma nulla turba la protagonista, distesa sul divano mentre annoiata scrolla il feed dei social network: gattini, gattini, altri video di gattini e ancora gattini. Finché, alzatasi per andare a cercare qualcosa in frigo, nota un bottone che la trasporta in un mondo magico fatto tutto beh, di gattini. Qui si dà alla pazza gioia, fino a sfogare in maniera grottesca anche una certa natura selvaggia. Francesco Torre, fondatore e direttore artistico del Festival, fa un bilancio di questa terza edizione: " È stata una festa. Abbiamo letteralmente fatto la spola tra Palermo e Messina ma l'entusiasmo di bambini e insegnanti, nel primo anno scolastico senza mascherine e restrizioni, è stato sorprendente e contagioso e ci ha sostenuto sempre. La formula di festival diffuso ha funzionato e abbiamo anche consolidato una squadra di lavoro davvero appassionata, sempre fedele ai nostri valori identitari, peraltro qui sublimati dall'arte di Michel Ocelot, ideale mentore e stella polare di questa edizione: promozione di percorsi personali di libera creatività e valorizzazione delle pluralità e delle diversità". La manifestazione, organizzata dall’Associazione culturale siciliana Arknoah con il sostegno della FICC - Federazione Italiana dei Circoli del Cinema e dell’Assessorato Turismo, Sport e Spettacolo della Regione Siciliana, quest’anno ha visto la collaborazione della Direzione didattica Aristide Gabelli di Palermo e dell’Istituto Comprensivo n. 7 Enzo Drago di Messina.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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tradizioni-barcellona · 3 years ago
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5 Maggio 2022 ♦️ SAN NUNZIO SULPRIZIO ♦️ Nacque a Pescosansonesco (Pescara) 13 aprile 1817, da un’umile famiglia. Nell’agosto 1820, muore il padre a soli 26 anni. Circa due anni dopo, la mamma si risposa, anche per trovare un sostegno economico, ma il patrigno tratta il piccolo Nunzio con asprezza e grossolanità. Il 5 marzo 1823, muore la mamma, Nunzio ha solo 6 anni e la nonna materna Rosaria Luciani lo ospita in casa, prendendosi cura di lui. Quando ha appena 9 anni, il 4 aprile 1826, gli muore la nonna. Nunzio ormai è solo al mondo ed è per lui l’inizio di una lunga “via dolorosa” che lo configurerà sempre più a Gesù Crocifisso. Solo al mondo, è accolto in casa, come garzone, dallo zio Domenico Luciani il quale subito lo “chiude” nella sua bottega di fabbro, impegnandolo nei lavori più duri, senza alcun riguardo all’età e alle più elementari necessità di vita. Spesso lo tratta male, lasciandolo anche senza cibo, quando a lui sembra che non faccia ciò che gli è richiesto. Alla domenica, anche se nessuno lo manda, va alla Messa, il suo unico sollievo nella settimana. Presto si ammala. Un rigido mattino d’inverno, lo zio lo manda, con un carico di ferramenta sulle spalle, in uno sperduto casolare. Vento, freddo e ghiaccio lo stremano. Lungo il cammino mette i piedi accaldati in un laghetto gelido. A sera rientra spossato, con una gamba gonfia, la febbre che lo brucia, la testa che scoppia. Va a letto, senza dir nulla, ma l’indomani non regge più. Lo zio gli dà come “medicina”, quella di riprendere il lavoro, perché “se non lavori, non mangi”. Si trova con una terribile piaga a un piede, che presto andrà in cancrena. La piaga ha bisogno di continua pulizia e Nunzio si trascina fino alla grande fontana del paese per pulirsi, ma di lì viene presto cacciato come un cane rognoso, dalle donne che, venendo lì a lavare i panni, temono che inquini l’acqua. Trova allora una vena d’acqua a Riparossa, dove può provvedere a se stesso, impreziosendo il tempo lì trascorso con molti Rosari alla Madonna. A un certo punto fu ricoverato per tre mesi all’ospedale “San Salvatore” dell’Aquila, ma le cure sono impotenti. Tradizioni Barcellona Pozzo di Gotto - Sicilia (presso Pescara, Italy) https://www.instagram.com/p/CdL4Y0WsQT6/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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ilgoblinverde · 3 years ago
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Tra i primi a sparire il fabbro Rerum!
Conosciuto fino a Rosprum per la qualità del suo lavoro, lascia la malinconica figlia Zarline a portare avanti da sola la bottega di famiglia!
Subito dopo anche Cyrel e Gabriell, una ricca coppia di allevatori, svanisce nel nulla!
Cosa si nasconde sotto le misteriose sparizioni delle genti di Nurzia?
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nerogetto · 4 years ago
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Bambini
Luca arrivò quel giorno con la dovuta calma. Al lavoro era solo e non doveva rientrare un quarto d’ora prima come di consueto. Poteva prendersi un’ora intera di pausa pranzo.
Al self-service tirava aria di venerdì: poca gente, mentre chi era addetto all’impiattamento tradiva un lieve nervosismo, come se gli avventori fossero di impiccio.
Luca ordinò il solito piatto: un’insalata grande di verdure cotte. Apprezzava la discrezione di chi lo serviva dietro la barriera di plexiglas, che gli preparava sempre lo stesso pasto ogni giorno, senza commentare.
Quel giorno il clima era ritornato afoso e preferì sedersi all’interno del self-service, dove c’era l’aria condizionata. Scelse un tavolino vicino alla cassa perché più isolato.
C’era però una coppia, probabilmente padre e figlia, seduti di fronte a lui, viso a viso. Il signore era anziano. I lineamenti gli ricordavano quelli di suo padre e ne immaginò l’età, che doveva superare gli ottanta.
Ma non furono solo i lineamenti a catturare la sua attenzione: quel signore guardava con una certa insistenza. La cosa potrebbe sembrare di poco conto, ma Luca non c’era abituato, per lo meno in quel self-service. Di solito riceveva sguardi distratti, come fosse una presenza diafana, in particolare dalle donne che pasteggiavano ai tavolini, da sole o in compagnia.
Fu colpito dallo quello sguardo: era uno sguardo indifeso, fragile, che conteneva una supplica implicita: quella di essere soccorso. Occhi tali non si vedono facilmente in una persona in età, molto più frequente vederli nei bambini o negli animali, in particolare nei cuccioli.
Eppure quel signore non era uno qualunque, per lo meno nella realtà bresciana. Era un uomo “che si era fatto da sé” come si suol dire. Aveva iniziato come fabbro verso metà degli anni ‘50 in una piccola bottega locale, per poi mettersi in società con altri due conoscenti.
L’officina specializzata in tornitura si era ingrandita nel corso degli anni ‘60 e aveva cominciato ad assumere personale, gente di fatica, che lavorava 10-12 ore al giorno senza sosta.
Nel giro di un decennio l’officina era diventata un’importante fabbrica di lavorazione metalli, che aveva clienti in tutto il Nord Italia, con macchine all’avanguardia e una cinquantina di dipendenti.
L’anziano in questione, una volta garzone di bottega, ora era un “padrone” che adottava uno stile di conduzione particolarmente duro nei confronti dei suoi sottoposti: ben diverso dalla figura che oggi siede a quel tavolo.
Era un capo che alzava spesso la voce o addirittura insultava chi era lento, poco produttivo o semplicemente non gli andava a genio. Tutto doveva funzionare per compiacerlo, e a volte questo nemmeno bastava: bisognava “conquistarlo”.
Luca, senza conoscerne il passato, non aveva intravisto alcuna eco di gioventù nel viso e nel corpo di quell’anziano, che gli sembrava semplicemente vecchio, come se fosse comparso oggi su quel tavolo e destinato ad andarsene domani.
Le movenze erano incerte e un lieve tremito alle mani era percettibile mentre si portava il cibo alla bocca o tagliava la carne. La polo a strisce blu e rosse era un po’ troppo larga per la sua figura, mentre i pantaloni di cotone lasciavano scoperte le caviglie, segnate da un reticolato di capillari violacei.
La donna di fronte a lui parlava raramente, facendo intendere che bastasse la sua presenza ad assolvere al proprio dovere di figlia. L’anziano sembrava più attratto dal tavolo dove Luca sedeva, anche se lo scambio di sguardi pareva turbarlo, come se venisse scoperto nudo.
Occorre dire che egli, una volta così arcigno, visse una grande tragedia alla soglia dei 35 anni. Il figlio maschio di appena 10 anni si ammalò e morì. Si trattò di un virus, una banale varicella, ma talmente potente che costrinse il bimbo a letto per giorni con febbre fuori controllo, fino a quando non intervenne una crisi respiratoria fatale.
Il padre si era rifiutato di farlo ricoverare, suscitando le proteste accorate del medico di base, che a nulla valsero. Sergio non aveva alcuna fiducia negli ospedali e nella medicina, così come in tutto l’apparato statale e, pur intuendo la gravità della situazione, voleva che il figlio rimanesse a casa fra volti famigliari.
Quella tragedia distrusse la madre, che aveva pregato fino all’ultimo che perché il figlio malato si riprendesse. Il rapporto di coppia esplose perché, per quanti sforzi Rossella facesse, non le riusciva di perdonare il marito per la sua decisione unilaterale, e un barlume di dignità ritrovata le impediva di essere completamente sottomessa, come in passato, ad ogni suo umore.
Ne nacquero litigi, particolarmente violenti, in cui Sergio rinfacciava alla moglie di avere mire sul suo patrimonio ma che in realtà nascondevano un sentimento di lesa maestà, perché lei aveva cominciato a dire dei no: no a una decisione non condivisa, no un'abitudine non più gradita, no a un’aspettativa illegittima.
Pomo della discordia era in particolare l’educazione della figlia Anna, che ora effettivamente sedeva di fronte a lui, in quel self-service: Sergio voleva che seguisse un percorso, un percorso prestabilito, che la portasse da adulta ad avere un ruolo direttivo nell’azienda, in assenza dell’erede maschio, per il quale questo futuro era stato precipuamente disegnato.
La madre invece tendeva a entrare in sintonia con le morbidezze caratteriali della figlia, a cercare la condivisione di sentimenti famigliari e persino di momenti di ilarità, ad assecondarne il temperamento fantasioso e le prime pulsioni artistiche. Questo scatenava litigi violenti, a cui la bambina spesso assisteva, restandone come interdetta.
Questo sentimento di impotenza, l’essere stretta fra due fuochi e l’intuizione dolorosa di rappresentare il motivo dello scontro fra i genitori, per quanto incolpevole, contribuirono a creare in Anna questa attitudine muta che è ben visibile anche oggi, un distacco auto-conservativo che la accompagnerà lungo tutta la sua esistenza. Lei continuerà diligentemente ad essere “figlia” e di supporto al padre nei momenti di bisogno, ma incapace di provare un attaccamento se non moderato, eppure bastante a farla sentire in pace con se stessa.
Gli affari del padre negli anni si erano sviluppati, tanto che l’azienda, nei primi anni’80, serviva ormai l’intero territorio italiano, aveva aperto due nuove sedi al Centro e al Sud, e iniziava ad approcciare i mercati esteri, intessendo rapporti con distributori dell’Est Europa.
Il rapporto col personale invece non era mutato: papà Sergio non amava delegare e tendeva a circondarsi di yes men, che eseguissero i suoi ordini senza troppo discutere. Aveva però acquisito una maggiore sensibilità verso le esigenze famigliari dei lavoratori, con una politica meno restrittiva sui permessi, quando adeguatamente motivati da necessità legate alla salute o all’istruzione dei figli.
All’interno della compagine sociale c’erano dei contrasti. Gli altri due soci, pur di minoranza, mal digerivano l’assenza di condivisione nelle decisioni aziendali, che riguardavano anche temi fondamentali come il reinvestimento dei profitti. Sergio voleva ingrandirsi, si era presto stancato della dimensione locale dell’azienda, ed era stato lui ad avviare il processo di internazionalizzazione. Ora, per gli altri, era arrivato il momento di guadagnarci, dopo tanti anni di sacrifici, mentre Sergio non conosceva sosta, e cercava di penetrare nuovi Paesi, nuovi mercati. La differenza di vedute diventerà insanabile e, dopo venti anni di convivenza, uno dopo l’altro, i soci se ne andranno sbattendo la porta e cedendo le proprie quote.
Un colpo di tosse fa sollevare lo sguardo a Luca. La figlia osserva il padre, a cui evidentemente qualcosa è andato di traverso, e verifica che non sia niente di grave, come si fa in questi casi. Il padre tossisce ripetutamente, con suoni sempre più sguaiati, poi finalmente si raschia la gola, cercando di ritornare a una situazione di normalità. Luca assiste con leggera apprensione.
Per tutti gli anni ‘80, allo sviluppo degli affari dell’uomo, corrispose un progressivo deterioramento della sua vita famigliare. I rapporti con la moglie divennero sempre più tesi. Dopo i primi no, le prime prese di posizione seguite alla loro tragedia famigliare, era come se si fosse aperto un portone, e Rossella non perdeva occasione per dire la sua e contrastare il marito su ogni argomento. Questa rinuncia al quieto vivere era il suo modo di espiare il senso di colpa per la morte del figlio, che le sembrava perito per la propria passività più che per la malattia.
Era cosa risaputa che Rossella avesse un amante, all’epoca: lui era uno scrittore noto, lo scrittore bresciano per eccellenza, autore di romanzi di media tiratura, racconti, storie per bambini, anche maestro burattinaio nelle scuole, quando occorreva; e soprattutto chiacchierone, fanfarone, tanto che la voce del loro affair si era diffusa rapidamente, anche in azienda, e Sergio era stato l’ultimo a saperlo. La sua reazione era stata violenta, come prevedibile, e la moglie ne fu terrorizzata, si rese conto che era stato oltrepassato un limite dal quale era impossibile tornare indietro, e decise di lasciarlo.
Sergio, come gran parte degli uomini, si accorse di essere innamorato quando tutto era finito, o semplicemente idealizzò il legame coniugale perduto, tanto che non si dava pace, la vita gli sembrava finita: per la prima volta si accorse di quanto insopportabile fosse la solitudine, quando nessuno bussa alla porta, bisogna cercare, darsi da fare ma non si ha né il tempo né la voglia, o semplicemente non si è in grado di relazionarsi agli altri. Gli mancavano i silenzi, la routine quotidiana, i litigi con la moglie, che erano diventati il loro codice di comportamento, ma che ora la moglie disconosceva. Sergio non ebbe più una donna né tanto meno cercò di recuperare il rapporto con Rossella: il meccanismo si era rotto e questo bastava a rovinargli la vita.
La figlia visse male la separazione e col tempo manifestò ingenti problemi di adattamento sociale. Era risultata diligente nello studio, diplomandosi al Liceo Calini di Brescia, e laureandosi a pieni voti presso la facoltà di Economia, ma era rimasta come inerte di fronte al mercato del lavoro, in preda all’ansia già dalla presentazione della propria candidatura, impaurita dall’idea di ritrovarsi sola in ambienti complessi, faticosi, se non ostili. Sergio ben presto realizzò come l’unica soluzione fosse quella di farla lavorare alle proprie dipendenze per superare l’empasse.
Inoltre Anna non aveva un fidanzato, non ne aveva mai avuto uno, ed erano già visibili i prodromi del suo destino di solitudine, di donna che non avrebbe avuto una famiglia, e quindi dei nipoti. Anna cresceva muta, debole, anaffettiva, ma fu solo dopo una grave crisi depressiva, che la costrinse immobilizzata a casa per tre mesi, che Sergio cominciò seriamente a preoccuparsi e riflettere sul suo ruolo di padre, sull’educazione fornita alla figlia.
Il self service si andava svuotando, erano le 13 e 45. Luca sorseggiava un caffè (anche se quello non si poteva certo definire di buona qualità) mentre dal tavolo di fronte ci si prendeva una breve pausa dopo il pasto, prima di alzarsi. Luca aveva smesso di incrociare lo sguardo con l'anziano, gli sembrava già di aver intuito quello che si celava dietro questo scambio, pur senza conoscere la storia personale dell'uomo. Non si può certo dire che gli mancassero intuito e intelligenza, forse difettava di volontà, e ad esempio gli risultava giá pesante il rientro pomeridiano al lavoro, nonostante la giornata più tranquilla del solito.
L’azienda di Sergio vide un decennio di consolidamento dei risultati aziendali, dagli anni ’90 fino ai primi 2000, in cui venne quotata in borsa e aprì varie sedi estere, anche negli Stati Uniti e Estremo Oriente. I clienti principali erano nel settore della componentistica automobilistica e nel settore edile, mentre numerose erano le commesse che si attivavano nella cantieristica navale, oltre che in ambito militare. Gli affari andavano a gonfie vele.
Al contempo però Sergio era sempre più solo. Si era trasferito in un casolare ristrutturato in provincia di Brescia con la figlia, ai piedi delle montagne, col primo centro urbano a 5 km di distanza. Tale scelta era dovuta al fatto che la sua vita era fin troppo satura di gente: clienti, fornitori, enti pubblici…persone. Anche un cane, animale da compagnia per il quale la figlia aveva espresso un vago desiderio, era di troppo. D’altronde Anna si turbò molto alla notizia del trasferimento dalla città in una zona isolata, ma fece in modo di non darlo a vedere.
Ormai l’assenza di una donna nella vita di Sergio era diventata una condizione cronica, una sorta di vedovanza in cui viveva di rimpianti e sensi di colpa, per quanto avrebbe potuto fare o evitare di fare per salvare il proprio matrimonio. Non era un brutto uomo e l’alone di potere che emanava gli faceva avvicinare occasionalmente alcune donne, anche molto belle. Tuttavia gli sembravano tutte superficiali e prive di valori, se confrontate con Rossella, di cui era ancora innamorato, e per cui bruciava di gelosia al pensiero che si fosse risposata – si dice - con il primo fidanzato: un uomo che aveva sentito nominare ai primi tempi della loro relazione e che evidentemente era rimasto segretamente innamorato di lei.
Ma se tutte le crisi portano a un cambiamento, Sergio non solo aveva iniziato per la prima volta a mettersi in discussione, ma i mutamenti erano visibili anche nel suo aspetto fisico. Alla volta del nuovo millennio ormai superava la sessantina e la sua massa muscolare, una tempo tonica e guizzante, aveva perso di volume e diventava flaccida, mentre le spalle si incurvavano miseramente a sopportare il peso di una condizione di vita greve, insoddisfacente. Lo sguardo era diventato triste, bastonato e il tempo in cui una risata viscerale l’aveva scosso era lontano. Era come se durante la convivenza avesse assorbito un po’ dell’apatia della figlia, che ormai quarantenne si era rassegnata ad essere subalterna rispetto a un padre una volta prevaricatore, ora semplicemente fragile.
“Andiamo papà?” chiese Anna al padre. “Si sono fatte le due”. L’anziano tremebondo si alzò lentamente facendosi leva su un bastone da zoppo, che Luca non aveva notato e che era stato infilato sotto la sedia. La figlia fece per aiutarlo ma l’uomo rifiutò, più per non scomodare la bambina che per dimostrare una ormai perduta autosufficienza. Le cameriere avevano cominciato a pulire i tavoli con la stessa frenesia delle ore di punta, quasi costituisse un modus operandi, anche senza avventori.
Luca pensò a se stesso, alla propria condizione. Da quando era stato licenziato, era tornato a vivere con gli anziani genitori a Brescia. Era rimasto senza lavorare alcuni mesi, in preda a una forte disagio psichico, poi il padre era riuscito a farlo assumere nell’azienda di un suo ex cliente, dei tempi in cui faceva l’assicuratore. Non c’erano donne nella sua vita, si può dire anzi che la madre rappresentasse il suo universo femminile, e osservava i rapporti altrui come qualcosa di portentoso, a lui precluso.
Luca pensò che lo sguardo di quell’anziano (che, non si è detto, convive da anni con il cancro) era simile al suo. Era proprio il suo stesso sguardo: uno sguardo di bambino.
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myanasatravelblog · 4 years ago
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🇺🇸The blacksmith’s shop at the medieval village. 🇮🇹La bottega del fabbro al borgo medievale. (presso Torino,Italy) https://www.instagram.com/p/CF2FNSqBctx/?igshid=548lina97wmo
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latinabiz · 5 years ago
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Il santo del 5 maggio: san Nunzio Sulprizio
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San Nunzio Sulprizio Nunzio nasce a Pescosansonesco, in provincia di Pescara, il 13 aprile del 1817, e a sei anni è già orfano di madre e di padre. Affidato all’amata nonna materna, con lei impara ad andare alla Messa e a conoscere Gesù, maturando dentro un desiderio forte di somigliargli sempre di più. Quando a nove anni muore anche la nonna, viene accontentato: lo zio a cui viene affidato, infatti, lo obbliga al lavoro nella sua bottega di fabbro-ferraio, assai poco adatta a un bambino di quell’età: è qui che la vita di Nunzio inizia a ricalcare la via dolorosa di Gesù verso la croce. Carichi pesanti da trasportare, lunghe distanze da coprire a piedi con sole, pioggia, vento o neve, ma soprattutto con gli stessi abiti in ogni stagione. Nunzio, però, non si lamenta: pensa a Gesù e inizia a offrire la sua fatica per redimere i peccati del mondo e per “guadagnarsi il paradiso”. Un giorno una ferita al piede sinistro si incancrenisce. Lo zio non ha pietà e neppure i paesani che gli proibiscono di usare la fonte del paese per medicarsi, per paura che possa infettarla. Nunzio trova un rivolo d’acqua a Riparossa – oggi considerata una fonte miracolosa – dove trascorre molto tempo nella recita del Rosario. Nel 1831, per le sue precarie condizioni di salute, affronta un primo ricovero all’Aquila e qui si fa conoscere da tutti i degenti per la sua fede, per le opere di carità verso gli altri ammalati e per le nozioni di catechismo impartite ai bambini. Un altro zio viene a sapere della sua situazione e gli presenta il colonnello Felice Wochinger, un alto militare di Napoli che lo prende a cuore e lo fa sottoporre a tutte le cure possibili per l’epoca per la sua malattia alle ossa, fino alle cure termali a Ischia. Rimane a lungo all’ospedale degli Incurabili a Napoli, dove finalmente riceve Gesù Eucaristia per la prima volta. Per un pò, Nunzio starà meglio. Uscito dall’ospedale si trasferisce dal colonnello, che vive nel Maschio Angioino di Napoli adibito a caserma. Tra i due s’instaura un bellissimo rapporto padre-figlio che consente a Nunzio di approfondire la propria fede. Sta pensando di consacrarsi, ma in attesa di diventare abbastanza grande, si fa approvare dal suo confessore una regola di vita che segue scrupolosamente e che prevede lunghe ore di preghiera, di meditazione e di studio, oltre alla Messa al mattino e al Rosario alla sera. Questo periodo di serenità, però, è interrotto dal riacutizzarsi della malattia e dalla diagnosi che per Nunzio è una condanna a morte: si tratta di cancro alle ossa. Nunzio si mostra forte, fino alla fine. Consola il colonnello – che ormai chiama “papà mio” – con la certezza della promessa che i due potranno un giorno riabbracciarsi in cielo. Nel 1835, dopo un nuova e dolorosissima malattia sopportata eroicamente, i medici decisero di amputargli una gamba.  Nunzio era però troppo debole per sopportare l'operazione ed essa venne posticipata.  Siamo nel 1836 e la situazione è ormai disperata: Nunzio soffre di febbri altissime che affronta pregando e offrendo la propria sofferenza per le conversioni e per la Chiesa. La morte lo libera dal dolore il 5 maggio, quando ha da poco compiuto 19 anni, ma non senza che prima abbia ricevuto i Sacramenti. Intorno al suo corpo, provato dalle piaghe, si spande un incredibile profumo di rose. Quando il suo corpo fu tumulato nella chiesa di S. Maria Avvocata Nostra a Napoli, il pittore Maldarelli ne eseguì il ritratto. Nel 1859 fu dichiarato venerabile; nel 1891 Leone XIII promulgò il decreto delle virtù eroiche e lo proclamò patrono della gioventù operaia, così come S. Luigi Gonzaga (21 lug. ) lo era degli studenti. Nel 1963 Giovanni XXIII riconobbe i suoi miracoli e un paio di anni dopo Paolo VI lo beatificò, invitando i credenti a farselo amico e a "seguire il suo celestiale modo di vivere nel nostro pellegrinaggio terreno". Il 14 ottobre 2018 Papa Francesco lo proclama Santo che dirà di lui nell'omelia che " Nunzio Sulprizio: il santo giovane, coraggioso, umile che ha saputo incontrare Gesù nella sofferenza, nel silenzio e nell'offerta di sé stesso." Read the full article
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aneddoticamagazinestuff · 11 years ago
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Il mercato del Baltico: intervista a Enrico Furia
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Il mercato del Baltico: intervista a Enrico Furia
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Il mercato del Baltico
  Quale tipo di sostegno offre alle aziende per aiutarle ad esportare?
Innanzitutto l’azienda, grande o piccolissima deve imparare ad internazionalizzarsi, che non è solo vendere fuori del proprio Stato, ma collocarsi fuori dal proprio Stato, e mettere in competizione tra loro tutte le opportunità che una vera internazionalizzazione concede. Questa è la vera rivoluzione silenziosa che l’imprenditoria deve compiere, la vera cultura imprenditoriale che vogliamo diffondere.
Direttamente, o tramite aziende collegate, possiamo offrire al cliente ogni tipo di aiuto, dal marketing inteso come analisi del mix di domanda e come capacità dell’azienda di dare risposte, all’innovazione di prodotto intesa sia come nuova tecnologia o nuovo uso del prodotto stesso.
Aiutiamo le imprese nello start-up, nel consolidamento o ristrutturazione, nella crescita del profitto, come indice di valore dell’utilità dei loro prodotti con strumenti finanziari Della U.E., locali, e di venture o financial capital.
Offriamo aiuto nel migliorare la produzione, la qualità, le relazioni umane aziendali e con l’esterno, e l’efficienza di tutte quelle azioni che servono per adeguarsi ai nuovi mercati. Offriamo assistenza contabile e fiscale tramite professionisti locali.
Offriamo al cliente contatti con nuovi clienti sia per la vendita con scambio di moneta sia in barter.
Qual è il profilo della azienda PMI italiana che oggi dovrebbe pensare seriamente all’export?
Tutte le aziende devono poter esportare, ma soprattutto internazionalizzarsi nel senso prima espresso. Il barista ad esempio e tutte le attività stagionali in generale possono esercitare il loro mestiere all’estero e fermarsi o continuare in patria a stagione finita. La PMI si stabilisce, così,  in un regime più favorevole e da li continua a lavorare in piena libertà anche in Italia. La grande impresa diventa multinazionale quando stabilisce uno o più regime favorevole quale sede dei propri affari.
Nella sua esperienza quali sono i più frequenti errori delle PMI che vogliono esportare?
La qualità italiana è riconosciuta ed imitata in tutto il mondo. Il “made in Italy” comunque, non deve indicare solo che un prodotto è fatto in Italia, ma che è fatto con la “qualità italiana”, anche se fatto in un altro qualsiasi luogo geografico fuori dell’Italia. Troppe PMI (costruzioni, artigianato, commercio, servizi) rimangono dell’idea “apro bottega ed appendo il cappello, aspettando il cliente”. Questa mentalità non ripaga più. Non si può esportare con la mentalità del muratore, del fabbro, del bottegaio, dell’avvocato o del notaio.
Quali di questi NON vanno commessi assolutamente?
Aprire bottega, appendere il cappello ed aspettare il cliente.
Che cosa dovrebbe invece fare una azienda che vuole esportare? ci può dare i 5 punti chiave?
Usare il marketing come filosofia d’impresa, sia nella sua forma di marketing mix per le aziende di manifattura, sia nella forma di marketing max per le aziende di know-how.
Il corridoio del Baltico: perché è interessante? ha qualche dato che aiuta a capire il valore di questo mercato?
Le merci, che entrano nel Mediterraneo da Suez, impiegano cinque giorni in meno ad arrivare al Baltico passando dal corridoio adriatico. In Italia invece si continua con la TAV Lione-Torino solo per distribuire mazzette e non per un vero e proprio valore economico. Il corridoio adriatico per il Baltico coinvolge sette paesi sovrani in via di sviluppo, ben dieci se includiamo anche Italia, Grecia e Turchia, e ben quindici se includiamo anche Austria,l Ungheria, Rep. Ceca, Slovacchia e Germania. Si tratta di un’area di ben 250 milioni di persone.
Quali prodotti hanno maggior mercato in quelle aree?
I prodotti di qualità. Ferrero vende in tutto il mondo non per il prezzo, ma per la sua qualità. Lasciate il prezzo ai Cinesi che, primo o poi pagheranno amaramente la loro politica economica e commerciale.
Che cosa viene apprezzato dell’italianità?
La qualità, lo stile, la fantasia, l’estro.
Come parlare a questi mercati?
Questi mercati conoscono già tutto dell’Italia. In Albania parlano tutti italiano perché vedono solo la TV italiana. In Croazia la mortadella è più buona che a Bologna. In Montenegro i bimbi aprono tutti con stupore e voglia l’ovetto Kinder. Non c’è bisogno di parlare, ma di approfittare della loro voglia di collaborare con le imprese italiane. In questi paesi la criminalità è quasi inesistente perché i loro delinquenti sono già tutti in Italia da tempo.
Il suo portale è molto interessante e ampio: quali sono i temi che tratta con maggiore frequenza?
Trattiamo soprattutto della “razionalità del comportamento umano nella produzione e nel consumo”, argomenti che la “sedicente scienza economica” confina solo nell’insulso “profitto monetario” creando perfino contraddizioni logiche.
Come siamo visti all’estero secondo lei?
Benissimo e con amore quando ci comportiamo da persone serie, con disprezzo quando ci comportiamo da idioti.
Quali altri mercati segue? quali altri aree geografiche andrebbero oggi privilegiate?
Tutte quelle aree dove esiste ancora l’impegno sociale, l’etica aziendale, l’amore per il prossimo: vale a dire tutti quei valori che hanno fatto grande l’imprenditoria italiana oggi mortificata da profittatori finanziari, politici nullafacenti e nullavolentifare.Il mercato del baltico
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Paolo Pugni
Enrico Furia  accademico e curatore del portale Aneddotica Magazine aiuta la aziende italiane a esportare nei mercati dell’est Europeo con particolare riferimento ai paesi del Baltico. Gli ho rivolto alcune domande sulla sua attività, sull’export e sulle possibilità per le nostre PMI di allargare la loro penetrazione fuori dai confini nazionali.
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aleadventure · 5 years ago
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J. Prévert - Il paese dei sosia
È un paese assai lontano, non sappiamo dov'è. Tutto ciò che sappiamo è che le piante verdi sono più verdi che altrove, e che gli occhi delle belle hanno tutti lo stesso colore. Laggiù sotto quel cielo blu si radunano tutti, si somigliano tutti, è davvero curioso.
Il farmacista ha la stessa faccia del panettiere, e quando riceve una lettera è il dottore (che somiglia al postino) che va in giro a portarle.
Nella sua bottega, quando il barbiere rade un cliente e a un tratto lo ferisce maldestramente, subito prende paura e scappa via gridando "Ecco fatto! Mi sono tagliato, doveva capitare!".
Invecchiano tutti insieme, hanno gli stessi amori, si somigliano si pigliano, sono nati lo stesso giorno.
Chi non ha pagato l'affitto e somiglia all'usciere, ha pignorato il padrone di casa che gli somiglia come un fratello.
E quando il notaio vuole suicidarsi, tira un colpo di pistola sul pasticcere e torna ai suoi affari come in passato.
La moglie del pasticcere crede che abbiano sparato al droghiere, e se ne va a teatro col fabbro ferraio.
Il traditore a teatro ha la stessa faccia dell'attor giovane, mentre il suggeritore come sorella a sorella somiglia al pompiere, che ha l'identica faccia dell'incendiario, che somiglia al lattaio.
L'ultimo atto somiglia talmente al primo che non lo recitano mai, così la commedia è subito finita prima di cominciare.
E quando la commedia è terminata se ne vanno tutti al guardaroba, ma nella strada è il libraio che ha preso la pelliccia del militare, e il beccamorto il berretto del pasticcere.
Invecchiano tutti insieme, hanno gli stessi amori, si somigliano si pigliano, sono nati lo stesso giorno.
Quando un militare salta il muro o se ne va senza permesso, è il generale che ne paga le spese.
Il domatore somiglia al leone, e il verme solitario al veterinario, il presidente di tribunale al cavallo del capitano.
Decisamente poco banale è il tribunale: il boia e i giurati si somigliano come tredici gocce d'acqua, e il condannato e il giudice come gemelli; così quando tagliano una testa, non si sa mai la testa di chi è, non si sa chi l'ha tagliata, così non ne tagliano più.
Invecchiano tutti insieme, hanno gli stessi amori, si somigliano si pigliano, sono nati lo stesso giorno.
È il paese dei sosia, laggiù sotto il cielo blu d'una dolcezza estrema, le donne si somigliano come sorelle, e gli uomini è ben curioso hanno lo stesso volto, lo stesso colore degli occhi.
È un paese assai lontano, non sappiamo dov'è. Tutto ciò che sappiamo è che le piante verdi sono più verdi che altrove. Dalle finestre spalancate si vede il cielo molto blu, tutti si somigliano ed è molto curioso.
È un paese inaudito, è il paese dei sosia. Io che ci sono andato non ci sono restato. Da tutto ciò che amo non sono invece mai tornato.
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gazzettadimodena · 6 years ago
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Il fabbro Mazzini ha creato la copertina del libro “maledetto” «Lo considero un onore e un premio al lavoro quotidiano» https://ift.tt/2OzwIHy
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tmnotizie · 6 years ago
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ASCOLI PICENO – E’ stata prorogata al 31 maggio la mostra “Radici. Lavori e socialità nella civiltà rurale“. voluta dal Picchio e Integra, gestori dei Musei della Cartiera Papale e dall’Amministrazione Provinciale. Là dove un tempo si produceva carta bambagina, si macinavano grano ed olive e si lavoravano ferro e rame, si potranno rivivere anche altri mestieri, alcuni dimenticati, altri trasformati dall’avvento dell’industria e da irreversibili mutamenti sociali.
Tanti sono gli strumenti da lavoro, provenienti dal Museo delle Tradizioni contadine di Campolungo (Ap), le preziose fonti orali hanno  permesso di allestire nell’antico opificio, spaccati di botteghe e spazi agricoli. Sono presenti attrezzi del lattaio, del calzolaio, del fornaio, del saponaio, della filatrice, del maestro, dell’arrotino, del fabbro, dell’impagliatore, del viticoltore, del falegname e del carradore.
Il lavoro era vissuto non solo come attività produttiva ma anche come momento di socializzazione. É questo aspetto che si vuole approfondire: la sacralità della vita di bottega, la ritualità della vita dei campi che rendevano lavoratori e clienti parte di un’unica e fortemente sentita comunità. Sarà un’occasione per i grandi di ricordare e per i piccoli di conoscere ed imparare quello che sui libri di storia è difficile da trovare.
La mostra potrà essere visitata nei seguenti giorni: martedì e giovedì dalle 10.00 alle 13.00; mercoledì e venerdì dalle 15.00 alle 18.00; sabato, domenica e festivi dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 15.00 alle 18.00. Per info e prenotazioni 333 32761329
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pangeanews · 6 years ago
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“Sono tutte stronza@@ quelle dei giornali super partes!”: Alessandro Sallusti dialoga con Matteo Fais di giornalismo, Montanelli, Travaglio, Feltri, Berlusconi…
Parlandogli, ho come la sensazione di conoscerlo da sempre. Ma è solo dopo, ripensandoci, che comprendo: in realtà lo frequento a sua insaputa da anni, da che lo leggo sui fondi di “Il Giornale” e “Libero”. Ho studiato la sua prosa, le sue frasi, i punti e le virgole. Non so se se ne renda conto, ma c’è un qualcosa di intimo e bonario nel modo in cui mi si rivolge, un senso di comprensione paterna. Per una volta penso che sia bello entrare in contatto con uno dei propri miti, “di solito sempre deludenti” dice lui. Non è questo il caso. L’uomo che si definisce noioso, chiuso, poco propenso al contatto e per niente brillante come nei suoi scritti, ha invece in sé una forza inscalfibile che manifesta con compostezza e insolita umiltà. Come spesso mi capita quando incontro qualcuno che, pur senza averlo fatto intenzionalmente, mi ha dato molto, sento una strana forma di gratitudine nei suoi confronti di cui un po’ mi vergogno. In fondo, sono pochi quelli, almeno tra i giornalisti, verso cui senta di avere un debito: lui, Indro Montanelli, Oriana Fallaci, Vittorio Feltri. Degli altri salverei forse Travaglio e Scanzi. Quando finalmente riesco a mettermi in contatto con Alessandro Sallusti, lo travolgo con una mitragliata di domande. Non so dove abbia trovato la pazienza per starmi dietro. Scusandomi, senza che mi venisse chiesto, gli ho detto che mi serviva per tracciare un ritratto umano a tutto tondo. Era vero. Ancora di più, però, desideravo semplicemente parlargli e così mi sono diviso tra il ruolo di intervistatore e quello di spettatore di un momento che aspettavo da tempo.
Direttore, non le viene mai la voglia di mollare tutto? La criticano, la insultano, le danno del servo, la costringono agli arresti domiciliari. Come fa a sopportare tutto questo odio? Non si ritrova mai esausto e privo delle forze necessarie per continuare?
No, mai. Ho avuto una grande fortuna nella vita, fare il mestiere che sognavo fin da bambino. Di solito a quell’età si desidera diventare un astronauta, un calciatore, un attore. Io sognavo di fare il giornalista. E, per tutta una serie di fortuite coincidenze, ci sono riuscito. Conosco invece molte persone, amici, che nella vita hanno avuto successo, ben più di me, eppure quasi tutti sono tormentati dal pensiero di non aver fatto esattamente ciò che avrebbero voluto. Io, al contrario, ho avuto questo privilegio. Se mi dovessero chiedere “Hai mai lavorato un giorno in tutta la tua vita?”, risponderei di no. Essere pagati per ciò che si sognava di fare, non è un lavoro. Infatti, in sessant’anni, non mi sono mai alzato la mattina pensando “Oddio, devo andare a lavorare”. Una passione così forte non può che farti da corazza contro qualsiasi avversità.
Quando ha sentito per la prima volta la pulsione alla scrittura, prima o dopo essere entrato nella sede di un giornale?
In principio ci fu un grande equivoco, perché io immaginavo che fare il giornalista non consistesse nello scrivere, ma nel trovarsi nei posti giusti al momento giusto ed essere testimone degli accadimenti, dalla guerra a una partita di calcio. Mi piaceva l’idea di trovarmi sul posto e non avevo molto chiaro che poi, a un certo punto, il giornalista deve smettere di girovagare e cominciare a scrivere. Sicché, prima di un certo periodo, non avevo mai esercitato la scrittura. La mia storia è quella di una modesta famiglia di Como, una città di provincia, in cui il primogenito veniva mandato a studiare per fare da ascensore sociale alla famiglia. È il caso, per esempio, di mio fratello, che ha seguito tutto l’iter fino a diventare medico. Il secondogenito, cioè io, veniva solitamente mandato a lavorare. Pertanto i miei mi iscrissero all’Istituto Tecnico – sono perito chimico –, cosicché avrei poi avuto un posto sicuro in fabbrica. Io, però, che sognavo e brigavo per fare il giornalista, in quel periodo in cui nascevano le prime radio e tv private, nella seconda metà degli anni ’70, invece di andare a scuola, andavo a fare il galoppino. Addirittura portavo il caffè nelle redazioni, in particolare alla sede distaccata che “La Notte” di Milano aveva a Como. Morale della favola, marinavo la scuola e non aprivo libro. Così non fui ammesso alla Maturità… A furia di bazzicare nei posti giusti, cominciarono ad affidarmi i primi articoli e mi ritrovai nella situazione che, quando dovevo scrivere la parola “scienza”, non sapevo se ci andasse la “i” o meno. Avevo anche dei seri problemi con i congiuntivi. Mi ricordo che stavo alla scrivania, con davanti la macchina da scrivere, tenendo il vocabolario aperto sulle ginocchia per non farmi vedere dai colleghi. A quel tempo non ero ancora assunto, ero abusivo – realtà diffusissima allora. Ogni due parole controllavo se ci volesse o meno una doppia. Per cui, in principio, scrivere per me fu una sofferenza – proprio non sapevo farlo. Il rovescio della medaglia di tanta ignoranza è che sei portato a semplificare i problemi più articolati, non essendo in grado di trattarli nella loro complessità. Che cosa mi è rimasto di quell’inizio traumatico? Per cominciare, ancora oggi, quando mi siedo al pc per scrivere, soffro: una specie di trauma infantile, come quando si viene morsi da un cane e si continua di conseguenza a serbarne la paura a vita. La seconda cosa è che, in ragione della mia tendenza a semplificare, spesso mi capita che, quando qualche lettore mi incontra, la prima cosa che mi fa notare di un articolo non è tanto il fatto che sia interessante, quanto che sia scritto in modo chiaro. E questa chiarezza che mi è riconosciuta è, appunto, figlia dell’ignoranza, del non poter scrivere complesso a causa delle mie carenze. In ultimo, la semplicità è diventata un valore per me – la mia personale risposta a questo mondo in cui tutti complicano tutto, compresa la scrittura. Per fortuna, a quanto pare, qualcuno apprezza la mia scelta.
Su quali letture ha formato il suo stile?
Non sono state tante, perché da giovane non leggevo molto. Diciamo che la lettura è diventata solo dopo un dovere e una passione, con la maturità. Da ragazzino lessi comunque Salgari, interamente, perché accendeva le mie fantasie di poter essere un giorno un inviato in luoghi esotici. Da adolescente, credo di essere stato uno dei pochi ad aver letto tutto Buzzati. È un autore dotato di una semplicità di scrittura e una malinconia nelle quali mi ritrovo particolarmente. Non so se sia tanto o poco ma, se ho avuto un maestro di scrittura, quello è stato lui. Poi, un po’ più avanti con l’età, quando iniziai a bazzicare i giornali, presi a leggere le grandi firme come Montanelli, Prezzolini, Brera. Insomma, sono cresciuto leggendo “Il Giornale”.
Qual è il collega da cui ha imparato maggiormente?
In assoluto Vittorio Feltri, che è anche quello a cui mi sento maggiormente affine. Vittorio è ineguagliabile. Ho lavorato dodici anni con lui ed è stato un po’ il mio fratello maggiore. Devo a lui la mia maturazione finale. Tra gli altri citerei Paolo Mieli, del “Corriere”. Mi ha aperto gli occhi. È l’opposto di me, ma vedere in faccia l’opposto ti aiuta a capire chi sei e cosa vuoi.
Cosa legge Alessandro Sallusti oggi, quando non legge giornali o ricontrolla articoli altrui?
Per lavoro un po’ di tutto, ma nel tempo libero mi appassiona la saggistica, quella storica. Più che dal punto di vista degli eventi, però, la storia mi interessa come sguardo su alcune figure da Giulio Cesare a Napoleone, dagli Sforza a Benito Mussolini e così via. Mi piacciono molto anche le vite di matematici e filosofi.
Ho letto in una sua intervista che lei si definisce una persona scarsamente propensa all’affettività, a causa di una madre piuttosto fredda. I suoi editoriali, però, sembrano tutto fuorché algidi, distaccati e poco partecipati. A tal proposito mi chiedevo se per lei la scrittura, anche se giornalistica, sia una forma di terapia, cioè un modo per trasporre all’esterno quel che altrimenti la consumerebbe non trovando un altro canale di espressione?
Povera mamma, non essendo più qui, non può smentire��� Guarda, non saprei dirti perché non sono uno psicologo. Non mi pongo mai domande di questo tipo, essendo un individuo molto pragmatico. Probabilmente è come dici tu, ma io non la vivo così. Nella realtà, sono molto più noioso di quanto possa apparire a volte leggendomi. Noioso e chiuso… In effetti, nella scrittura, mi concedo delle libertà che nella vita non mi prenderei. Però, sai, ognuno è figlio della sua storia, quindi… Forse hai ragione, ma non me ne faccio un problema.
Lei una volta ha dichiarato “Il giornalismo per tanti è una professione intellettuale, per me è un mestiere, nel senso più nobile della parola. È come fare l’artigiano, il fabbro, il calzolaio”. Le vorrei chiedere se sottoscriverebbe sul serio una simile affermazione. Non le pare che, nel suo caso – ma potrei citare anche quello di Vittorio Feltri –, ci sia un qualcosa che va oltre, diciamo una misura di dote artistica?
I talenti si esprimono in un mestiere. Quando dico che il giornalismo non è una professione, dico insomma che le lauree in giornalismo sono un’invenzione sciocca, un fatto di business. In che cosa dovrebbe essere laureato un giornalista? Un giornalista si occupa di sport, di cronaca nera, di economia. Non c’è una laurea che possa fornire tutti questi strumenti. Se uno vuole fare il medico, si deve laureare è ovvio. Così per l’ingegnere, o l’avvocato. Ma il giornalista!? Non è un caso che Vittorio Feltri non sia laureato, che io non sia laureato e che tanti bravi giornalisti di successo non lo siano. Perché il giornalismo è un talento che si seleziona e si esprime nella bottega e la bottega è il giornale. È come per lo chef. Non c’è un percorso di studi da giornalista. La professione, invece, presuppone una preparazione specifica. Il nostro mestiere è un mix tra capacità nelle pubbliche relazioni, nel senso che per fare il giornalista tu devi avere un network, qualcuno che ti passi le notizie, e una mentalità investigativa, perché devi saper vedere oltre ciò che appare – quello che appare è spesso una sceneggiata, è quello che accade dietro a essere interessante. Ci vuole inoltre capacità di sintesi e devi essere veloce, scrivere un articolo in tempi e spazi che non decidi tu. Tutte queste doti presuppongono un talento che o si ha o non si ha. I giovani che arrivano dalle scuole di giornalismo, e che non hanno frequentato la bottega, spesso non hanno questo talento. Potrebbero essere degli ottimi assistenti universitari o docenti, ma la furbizia e la velocità di fare il giornalista secondo me non ce l’hanno come ce l’avevano quelli che uscivano dalle redazioni dei giornali.
Lei come lo scrive un articolo? Prende appunti prima, butta giù di getto? E, soprattutto, quanto lavora su un pezzo prima di giudicarlo valido per la pubblicazione?
No, non ci lavoro granché. Tra il trauma di cui parlavo prima, per cui per me iniziare un pezzo è una sofferenza, e una certa pigrizia, mi metto a lavorare sempre all’ultimo momento utile. Di solito non ho idea di cosa scriverò. Quando inizio, poi, spesso non so come svilupperò il pezzo, o come lo concluderò. Mi metto lì e scrivo tutto di getto, cercando di essere breve. È uno degli insegnamenti che mi ha trasmesso Montanelli: “Alessandro, quello che non riesci a dire in 60 righe è inutile che lo scrivi, perché non riuscirai a dirlo neanche in seimila”. Un altro suo consiglio, che sempre seguo, diceva invece: “Se scrivi di una persona, devi dire che è una testa di cazzo. Se scrivi di un paese, devi dire che è un paese di merda”. Quindi, per intenderci, prendiamo il fondo di domani. Ho deciso che lo farò io. Sono le 17:45. Tra un’ora, mi siederò davanti alla tastiera e non ho la più pallida idea di cosa scriverò. Se mi dovessi chiedere: “Ma almeno l’argomento di cui parlerà?”. Niente, non ne ho la minima idea.
Volevo chiederle, giustappunto, di Montanelli. Ci racconterebbe qualcosa del grande giornalista che lei conobbe nei primi anni di lavoro a “Il Giornale”?
Mah, guarda… È inutile che lo dica io, Montanelli è Montanelli. L’ho conosciuto perché venni a lavorare qui a “Il Giornale”, verso la fine degli anni ’80. Immagina l’emozione. Ero cresciuto, come ti ho detto, con il suo giornale in tasca. Era l’unico quotidiano che leggessi, quindi lui per me era una specie di mito. Però, lascia che te lo dica, i propri miti è meglio non conoscerli. Perché scopri che sono degli uomini come tutti noi, con le loro debolezze, le loro furbizie, i loro egoismi, le loro cattiverie… Sono degli uomini, straordinari, ma pur sempre uomini. E lui, che per me era un monumento, una specie di Dio, dopo averci lavorato un anno… non è che cambiai il giudizio di merito, ma era anche un po’ stronzo, un dio stronzo.
Un giornalista della parte avversa che apprezza particolarmente e perché?
Marco Travaglio. Ho in corso ventisette cause con lui e ci diamo reciprocamente del figlio di puttana in televisione, ma trovo che sia molto bravo. Secondo me recita una parte e crede forse al cinquanta percento di quello che scrive, se non a niente, però devo dire che ciò che fa lo fa bene. È un po’ come Gianfranco Fini. Mio padre, che era un suo ammiratore, mi disse che gli piaceva perché non dice niente, ma lo dice benissimo. Secondo me Travaglio è della stessa pasta: non dice un cazzo, ma lo dice talmente bene che sembra tutto interessantissimo.
Anche Vittorio Feltri mi ha confessato di ammirarlo. In generale, direi che Travaglio è ben visto dai giornalisti di destra.
Non solo dai giornalisti! Ti dirò di più. Una delle mie più grandi frustrazioni è che il Presidente Berlusconi, al mattino, non manca mai di leggere per primo “Il Fatto Quotidiano”. Ma, giustamente, le persone intelligenti piacciono alle persone intelligenti. Ci tengo comunque a dire che io non odio Travaglio e non ho nemici personali, solo politici. Altrettanto dicasi per Santoro, che adesso sembra bollito, una specie di guru che vaga per il mondo senza sapere cosa fare. Ma il Santoro di dieci anni fa era tutta un’altra cosa! Di recente l’ho incontrato al Quirinale, per la festa del 2 giugno. Gli sono andato vicino per salutarlo e per domandargli come stesse. Mi ha risposto: “Sto male, sono malato, molto malato”. “Oh cielo”, gli ho chiesto, “ma cos’hai?”. “Una malattia tremenda”, mi ha fatto lui, “comincio a pensarla come te”.
Lei come ha cominciato, con la macchina da scrivere? Com’è stato, poi, il passaggio al computer? Feltri mi ha detto che scriveva con l’Olivetti fino all’anno scorso, poi è stato costretto a passare all’iPad perché nessuno gli trascriveva più gli articoli…
Vittorio ha appena dieci anni più di me, però quei dieci anni hanno segnato una differenza di prospettiva fondamentale. Io ho avuto l’onore di essere tra i primissimi giornalisti in Italia a usare le nuove tecnologie. “Avvenire”, dove ero andato a fare danni, prima di approdare a “Il Giornale”, fu all’avanguardia in tal senso, sostituendo fin da allora le macchine da scrivere con i computer. Devo dire che comunque io non sono mai stato contrario, perché li trovo di una comodità unica. Questo a differenza di Vittorio che ci ha fatti impazzire per anni con quella cazzo di macchina da scrivere! Anche lui, come me, ha la tendenza a tirarla fino all’ultimo minuto. Poi, dopo che ha scritto, deve far sistemare il pezzo dal suo correttore di bozze personale, poi torna indietro e poi lo rilegge e poi deve essere ribattuto, ma la battitura deve essere riletta – roba che, per pubblicare un suo pezzo, ci vogliono tre ore di lavoro. Io glielo dicevo, ma non c’era verso. Adesso, ha confessato anche a me di essersi convertito.
L’impressione che ho, quando vedo una sua apparizione televisiva, è che lei si senta vagamente a disagio. Si trova meglio a scrivere, giusto? C’è qualcosa che le dà in più la scrittura rispetto al trovarsi sul piccolo schermo?
Sì, perché la scrittura esclude la fisicità. Io sono molto timido, un po’ orso, introverso, e quindi la televisione per me è una sofferenza. Mi pesa dover cercare di apparire vivace, brillante. È molto faticoso. Tant’è vero che ritengo più interessante la radio, malgrado ne faccia poca, perché è più simile alla scrittura, escludendo anch’essa, completamente, la dimensione fisica. Sai, in tivù non è importante solo quello che dici, ma conta la postura, l’inquadratura, la faccia che fai. È un lavoro, un lavoro che io non so fare, ma che riesce invece benissimo per esempio a Marco Travaglio, un attore nato. Quindi vado in tivù soprattutto per dovere, oramai. Malgrado ciò, ti dirò, all’inizio è anche gratificante, perché il grande pubblico ti riconosce soprattutto attraverso il piccolo schermo e non certo per gli articoli. Ma, insomma, mentirei se ti dicessi che non provo ogni volta una pena terribile.
Come si trovava al “Corriere della Sera”? Ha qualche episodio particolare da raccontare?
Beh, per un giornalista, entrare al “Corriere”, è come per un pilota salire sulla Ferrari – è il coronamento di una vita, un traguardo pazzesco. Di quei tempi ho tre ricordi, in particolare. Il primo è che, quando arrivai, il Direttore Stille mi rovinò il sogno che attendevo da una vita. Il giorno in cui mi doveva assumere, aspettavo nel corridoio della direzione. Dopo mezz’ora spuntò questo ometto, Ugo Stille appunto, con due borse dell’Esselunga piene di frutta, verdura e quant’altro. La segretaria mi disse di accomodarmi. Aveva appoggiato le due borse sulla scrivania. Lo odiai, perché non è possibile, mi capisci, che tu aspetti tutta una vita di essere assunto al “Corriere” e questo ti mette le buste della spesa sulla scrivania che fu di Albertini. Ciò per quel che riguarda il mio ingresso. Il durante, tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, fu molto avvincente perché, quando alzavi il telefono e dicevi “Buongiorno, sono Sallusti del ‘Corriere della Sera’”, dall’altra parte sentivi sbattere i tacchi. L’Italia, chiunque, politici e non, si mettevano sull’attenti. È certamente vero che i colleghi del “Corriere” sono molto bravi e molto professionali, perché selezionati bene, ma è anche vero che hanno un biglietto da visita che da solo fa il settanta percento del lavoro. Vorrei far osservare, comunque, che non si tratta di un giornale indipendente come vorrebbero far credere. Ho avuto più problemi lì che non a “Il Giornale”, in quanto a indipendenza dall’editore. Ma non solo io, anche i colleghi più alti in grado e i direttori. Il terzo ricordo è quello del mio abbandono, dopo tangentopoli. Avevo capito che, entro quella linea giustizialista, non mi ritrovavo. Mi sentivo a disagio, e te lo dice quello che allora tirò fuori l’avviso di garanzia per Berlusconi. Quando andai a dimettermi, non ci volevano credere, perché nessuno si dimette dal “Corriere”. Pensavano scherzassi e, quando alla fine si convinsero – e questo è uno dei momenti che ricordo con maggior orgoglio –, alla sera dell’ultimo giorno, mi chiamarono in sala Albertini, la sala grande delle riunioni, con una scusa e… Non dico ci sia stato tutto il “Corriere”, ma c’era tanta gente. I colleghi mi avevano fatto fare una targa, come regalo.
Che responsabilità comporta essere il Direttore di un grande quotidiano nazionale? Quanto deve lavorare ogni giorno e in coordinamento con quante persone?
Cominciamo con il dire che ognuno fa il direttore un po’ a modo suo. Personalmente, ne ho avuti tanti e ti posso garantire che non esiste una modalità standard per svolgere questo ruolo. Io, al di là della retorica, lo faccio come facevo il cronista. Certo, c’è una responsabilità maggiore, ma sai, i giornali medi e grandi hanno delle strutture tali per cui si fanno in buona parte da soli. Il direttore, più che altro, sceglie e coordina. Io, comunque, amo stare in redazione il più possibile e realizzarlo materialmente. Sono quasi più un caporedattore che un direttore. Partecipo a tutte le riunioni. Per quel che riguarda il lavoro in comune, sai, la cosa importante è, come in ogni staff, circondarsi di gente brava, in sintonia, che non ti crei problemi ma che te li risolva.
Dei giornali attualmente presenti sul mercato, secondo lei, qual è il peggiore e perché?
“La Repubblica”. Non che mi voglia ergere a loro giudice, ma un giornale deve avere un’anima, degli amici e dei nemici. Sono tutte stronzate quelle dei giornali super partes. I giornali sono sempre di qualcuno, quindi sono di una parte! Se mi dicono che io sono super partes mi incazzo, perché un uomo o tifa Inter o tifa Milan, o è etero o è gay, o crede in Dio o non crede in Dio, quindi non è super partes, bensì ha le sue idee. Un’altra cosa è dire che l’informazione deve essere onesta e leale… Quello sì, ma non super partes! “La Repubblica”, da diversi anni, diciamo dal tramonto del berlusconismo nel 2011, ha perso il suo baricentro. Adesso è un giornale che vaga, senza che si capisca dove, e lo fa in maniera retorica, a volte patetica. Ha fatto tutta la campagna elettorale parlando del pericolo di un fascismo di ritorno in Italia, con Casapound che poi ha preso lo 0,6 %. È un giornale radical chic che, avendo smarrito il suo nemico, ha perso la bussola. Io fatico anche a sfogliarlo.
“Il Giornale”, quando fu fondato da Montanelli, aveva nella sua rosa di collaboratori delle firme d’eccezione come Nicola Abbagnano per la filosofia, Mario Praz per la saggistica, Sergio Quinzio per la teologia. Secondo lei, la squadra attuale può ancora reggere il confronto con quella delle origini?
No, non può. Io mi vergogno profondamente di essere seduto in questo momento alla scrivania che fu di Montanelli, perché il paragone non tiene nella maniera più assoluta. Ma come mi salvo? Come salvo me e tutti i colleghi? Ognuno è figlio del suo tempo. Quel tempo lì, quella classe intellettuale e giornalistica di allora, figlia dell’Ottocento, formatasi alla scuola dell’Ottocento e che ha attraversato buona parte del Novecento, non c’è più; ma, se Dio vuole, è l’Ottocento a non esserci più. Siamo nel 2018 e non sussiste la possibilità di un paragone. In secondo luogo, se è pur vero che “Il Giornale” aveva tutto quel fior fiore di menti, non dimentichiamo che c’erano anche degli editori che a fine anno sanavano i bilanci, senza battere ciglio, qualsiasi fosse la cifra. Questo è stato un grande giornale, un giornale con firme importantissime, ma allora perdeva miliardi di lire e poi milioni di euro, per cui, per sistemare i conti, arrivava il perfido editore Berlusconi a staccare un assegno. Oggi nessuno stacca più l’assegno. Sono dei costi che non sono attualmente sostenibili e non solo dalla nostra redazione. Io ho fatto l’inviato in un’epoca in cui, per una sparatoria a Tripoli, partivano due giornalisti e tre fotografi. Adesso non è più così, ma non avrebbe nemmeno più senso, dal momento che la sparatoria la si può vedere in diretta su YouTube. Per rispondere alla tua domanda, dunque, se tu paragoni Montanelli a Sallusti viene da ridere e io sono il primo a farlo. Sallusti è un figlio del Novecento proiettato nel 2000, Montanelli è un figlio dell’Ottocento proiettato nel ’900.
Cosa è rimasto a “Il Giornale” dello spirito e delle motivazioni che animarono Montanelli al momento della fondazione?
Tanto! Lo so che può non sembrare così e che pochi ci crederanno, ma c’è ancora quello spirito liberale e liberista, quella volontà di contrapposizione al pensiero unico dominante. Questo patrimonio, sia pure in tempi e in modi diversi, la famiglia Berlusconi l’ha difeso con le unghie e con i denti. Tu dirai che non può essere, dato che a un certo punto Montanelli se ne andò… La vera storia di Montanelli, e del perché se ne sia andato, forse qualcuno la scriverà un giorno, ammesso che qualcuno la conosca realmente, perché ne girano talmente tante versioni. Quella a cui credo io è che, essendo il suo editore entrato in politica, lui si sia detto: “Se ne scrivo bene, mi diranno che sono un servo. Se ne scrivo male, mi diranno che sono un ingrato. Quindi, non posso più stare qui”. Quello però era un problema che si poneva lui. Io, sinceramente, non mi faccio remore né dello scrivere male né dello scrivere bene di Berlusconi. Se ne scrivo bene è perché la penso esattamente come la sua parte politica. Ho girato tredici giornali, grandi, piccoli e medi, per cui ho conosciuto almeno tredici editori e ti dico che, uno liberale e rispettoso come la famiglia Berlusconi, non l’ho mai incontrato. Quando racconto questa storia, qualcuno fa una smorfia e mi dice: “Ci credo, ti paga”. L’obiezione è lecita, ma non corrisponde al vero. Certo domani mattina non troverai un fondo in cui dico che Silvio Berlusconi è un mafioso testa di cazzo, ma non perché mi dà da mangiare, solamente perché quello non sarebbe un gesto di libertà ma piuttosto un’idiozia. Questo giornale, del resto, non è solo “Viva Forza Italia, abbasso il PD”, ma ha delle sue idee sulla cultura, la società, l’etica. Questa è la nostra libertà e il patrimonio che ci portiamo appresso tentando di difenderlo, grazie a un editore che ci permette di farlo. Chi ci compra ne è consapevole e, infatti, non lo fa per caso, ma perché si sente legato a tutto ciò che noi rappresentiamo e che va ben oltre il partito di Berlusconi. Guarda, ti confesso che, se io ho dei nemici nell’apparato politico della classe dirigente del paese, questi si trovano in Forza Italia, proprio perché un politico inevitabilmente concepisce il giornale di riferimento di quell’area come la house organ del suo partito. Ma chi se ne frega di Forza Italia! Noi la sosteniamo, ma fare il giornale non è solo sostenere Forza Italia, piuttosto si tratta di portare avanti un’idea liberale che attraversa tutti i settori della vita.
Se posso permettermi una riflessione sul caso di Montanelli: era abbastanza chiaro che, nel momento in cui il mio editore, quello che mi aveva sostenuto salvandomi da morte certa, fosse sceso in politica… Beh, parliamoci chiaro Direttore, era ovvio che avrebbe chiesto un sostegno.
Certamente, poi soprattutto in quel momento. Ma la cosa paradossale è che Montanelli, dopo aver passato la vita a combattere le sinistre e il comunismo, quando arriva uno che scende in politica con il suo stesso obiettivo che fa, gli dice di no? A me sembra più una lotta tra prime donne. Per logica avrebbe dovuto sostenerlo, dire: “Finalmente arriva uno che vuole portare in politica quelle stesse idee che io su ‘Il Giornale’ difendo da decenni”. E, invece, se ne andò. Ripeto, il fatto è che due galli in un pollaio non possono starci.
In quella contingenza storica, a prescindere da quel che se ne può pensare, era chiaro che bisognava sostenere Berlusconi. E Montanelli avrebbe dovuto farlo per lo stesso motivo per cui lui per primo, in passato, aveva invitato a votare Democrazia Cristiana turandosi il naso: bisognava fermare a qualsiasi costo l’avanzata dei comunisti che, anche se non si dichiaravano più tali, erano pur sempre gli stessi di sempre.
Esatto. È per questo che non capisco quella decisione di Montanelli, che così facendo andò a portare acqua al mulino della Sinistra. Sbagliò nella sua valutazione. Ma c’è da dire che, allora, l’uomo era già in decadenza, purtroppo.
Con tutto il dovuto rispetto, ma dimostrò anche una certa ingratitudine…
Direi bene, visto che Berlusconi arrivava a fine anno e staccava l’assegno, senza nemmeno preoccuparsi della cifra… e non era piccola. Comunque, volevo salutarti con un bel ricordo che conservo del Maestro. Andando via, lui passava sempre dalla stanza dei giovani caporedattori e si fermava per una chiacchierata, mentre noi puntualmente parlavamo di figa. Una volta ci disse: “Beati voi, ragazzi, perché, vedete, a me non è che non mi tira più, è che non so più quando mi tira”.
Matteo Fais
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ilgoblinverde · 3 years ago
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LA STORIA FINO AD ORA - 2 [B1 - ICDDS]
Lo scenario sulle Colline Nebbiose è deprimente. La devastazione degli incendi non ha risparmiato nulla e a distanza di mesi, nonostante le piogge autunnali, tutto è ancora coperto da un fitto manto di cenere nera. Gli avventurieri trovano delle carcasse di animali, mucche, pecore uccise da colpi di arma da taglio o frecce. Una delle frecce sembra provenire dalla bottega del fabbro di Nurzia.
Finalmente oltre un crinale, incastonato nel fianco roccioso di una rupe, si alza un alto portale biancastro incastonato tra due colonne di pietra scolpita.
Entrati nel portale, salita un’ampia scalinata in pietra gli avventurieri si trovano in una stanza rettangolare. Un portale scolpito ad est prende vita e pone agli avventurieri un quesito in una lingua sconosciuta ma che Simenon riconosce come lingua degli Uomini Lucertola o Uomini Serpente.
Gli avventurieri iniziano ad esplorare il labirinto alla ricerca di un modo per aprire il portale o una via alternativa ma scoprono a loro spese che il luogo è pericoloso e ricco di trappole. Primo incontro con degli scheletri non-morti in un angusto corridoio. Iris risce a scacciare buona parte dei non-morti ma lo scontro è duro e quasi mortale. Il gruppo temendo nuovi attacchi si riunisce in una stanza per il bivacco. Due statue di uomini Serpente troneggiano nella stanza e gli avventurieri trovano un passaggio segreto dietro una delle statue ma non riescono ad aprirlo. — Riposo —
Continua l’esplorazione di un livello sotterraneo oltre uno stretto cunicolo scavato da artigli. Una grande caverna naturale attraversata da un fiume sotterraneo. Un vecchio scrigno abbandonato rivela che qualcuno abbia già tentato in passato di esplorare questa zona.
I personaggi guadano il fiume verso nord, durante il guado Thoradin viene assalito da gruppi di topi che brulicano nelle acque del fiume. Passato il fiume il gruppo si avventura in altre sale del labirinto, una parzialmente coperta da una frana. Altri topi e alcuni Ratti Giganti assaltano il gruppo. Un uomo prigioniero dei topi chiede il loro aiuto. Inseguendo l’uomo portato via dai topi Thoradin attaccando uno dei ratti giganti apre con la sua ascia un breccia sul muro ovest rivelando un passaggio segreto pieno di ratti e una potenziale trappola/agguato.
Alla fine dello scontro l’uomo viene addormentato dalla magia di Simenon e legato. Portava con sé uno scettro dorato, una spada e una corona di ferro arrugginita. I personaggi trovano un altro portale scolpito. Questi pone la solita frase in lingua sconosciuta all’inizio ma ringrazia il gruppo per averlo liberato dai topi e lascia in qualche modo a intendere che l’uomo sia parte del branco e lo abbia torturato per anni cercando un modo di far aprire il portale. Il portale si presenta come Druller. Racconta che il labirinto era in un tempo lontano l’antica dimora di un potentissimo mago. Morto il mago il labirinto cadde in rovina prima di essere profanato da adoratori di Krushak il Dio Serpente. Nel tentativo di entrare nelle zone più profonde del labirinto i cultisti hanno provocato un crollo che ha chiuso buona parte della costruzione e seppellito purtroppo un altro portale suo compagno (Vonderull). Druller svela ai personaggi il significato della parola che serve ad aprire i portali e il nome di Righroll, il portale incontrato ai piani superiori.
Druller si apre per far passare i personaggi ma dietro di lui si spalanca un enorme abisso sotterraneo. Thoradin lo riconosce come un Torkok gli abissi delle montagne. Procedendo su un costone lungo la parete sud vengono attaccati da degli Uccelli Stigei attirati dalla luce delle torce. L’unica via di fuga un corridoio verso est mostra però i chiari segni di una trappola e Thordin conferma una piastra a pressione. Una statua di Uomo Serpente che sembra dover tenere qualcosa in mano affianco all’ingresso del corridoio attira l’attenzione di Allanon che sfidando le beccate dei famelici uccelli corre per mettere lo scettro dell’uomo topo nel pugno della statua.
Allanon riesce nell’impresa ma cade a terra esanime mentre due Uccelli Stigei attaccati al collo gli succhiano via il sangue e la vita. Vidunder e Thoradin riescono a scacciare gli uccelli e Iris lancia un incantesimo di Guarigione su Allanon sperando che non sia troppo tardi.
Allanon si riprende, ferito ed esangue e il gruppo scopre che l’uomo topo loro prigioniero è fuggito. Lo ritrovano nella stanza alla fine del corridoio sotto cumuli di mobili caduti in rovina. Braccato esce fuori mostrando la sua vera natura di Ratto Mannaro ma ha vita breve. Allanon trova un prezioso anello magico sul dito del Ratto Mannaro. — Riposo —
Il gruppo ritorna sui suoi passi, saluta il portale Druller che identifica l’anello di Allanon e cura i personaggi di tutte le loro ferite. I personaggi danno la soluzione al portale della stanza superiore e Righroll li lascia passare. Si dice contento di non dover più essere solo al servizio di “costoro” e chiede sibillinamente a personaggi di tornare da lui “prima della fine di tutto”.
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twofsas-blog · 7 years ago
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Come si esibisce un fabbro?
I fabbri sono professionisti, che lavorano con metalli come il ferro, formando forme decorative o utili. Il "nero" del fabbro è indicato come i metalli su cui lavorano i fabbri. I metalli accumulano strati di ossidi neri o scuri mentre vengono lavorati. "Smith" proveniva da "punire" che significa colpire; perciò il fabbro letteralmente significa qualcuno che colpisce i metalli neri. Gli strumenti utilizzati nel fabbro sono semplici e la bellezza del lavoro risiede nell'abilità del lavoratore. Un fabbro, per lo meno, ha una forma nel riscaldare il metallo fino a renderlo malleabile, insieme all'incudine, la superficie dura dove viene colpito il metallo. Il fabbro ha anche martelli e strumenti simili usati per colpire e rifinire i metalli.
 Arredi e ornamenti in ferro sagomati possono essere realizzati presso il negozio di fabbri e possono anche realizzare utensili. La maggior parte dei fabbri attuali si concentra sulla creazione di parti metalliche d'arte o tradizione eccellenti per i clienti. I visitatori che vanno alla bottega del fabbro osservano sempre le basse condizioni della luce. Il palco basso della luce può sembrare controintuitivo sul posto di lavoro di una persona abile, ma permette al fabbro di valutare il calore del pezzo di metallo su cui sta lavorando il colore. I metalli passano attraverso varie fasi mentre si scaldano ed è essenziale trovare la temperatura perfetta nel lavoro per produrre un pezzo di metallo solido e solido. Il negozio di un fabbro ha la tendenza a diventare rumoroso a causa del martellamento.
 Un fabbro professionista può fornirti i servizi di cambio serratura, serratura a doppia mappa, serratura di sicurezza, serratura apribile senza interruzioni, ecc.
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