#L’uomo del labirinto
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"L’uomo del labirinto" di Donato Carrisi: un viaggio nella mente oscura dell’Uomo del Labirinto. Recensione di Alessandria today
Terzo capitolo della serie di Mila Vasquez, un thriller psicologico che scava nella memoria e nelle ombre del passato.
Terzo capitolo della serie di Mila Vasquez, un thriller psicologico che scava nella memoria e nelle ombre del passato. Recensione dettagliata del libro “L’uomo del labirinto” di Donato Carrisi Donato Carrisi torna a sorprendere i lettori con “L’uomo del labirinto”, il terzo volume della serie di Mila Vasquez. Un thriller che intreccia psicologia, suspense e introspezione, spingendo il lettore…
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Il toro di Pasifae e la tecnica
Nel mito di Pasifae, la donna che si fa costruire da Dedalo una vacca artificiale per potersi accoppiare con un toro, è lecito vedere un paradigma della tecnologia. La tecnica appare in questa prospettiva come il dispositivo attraverso cui l’uomo cerca di raggiungere – o di raggiungere nuovamente – l’animalità. Ma proprio questo è il rischio che l’umanità sta oggi correndo attraverso l’ipertrofia tecnologica. L’intelligenza artificiale, alla quale la tecnica sembra voler affidare il suo esito estremo, cerca di produrre un’intelligenza che, come l’istinto animale, funzioni per così dire da sola, senza l’intervento di un soggetto pensante. Essa è la vacca dedalica attraverso la quale l’intelligenza umana crede di potersi felicemente accoppiare all’istinto del toro, diventando o ridiventando animale. E non sorprende che da questa unione nasca un essere mostruoso, col corpo umano e il capo taurino, il Minotauro, che viene rinchiuso in un labirinto e nutrito di carne umana.
Nella tecnica – questa è la tesi che intendiamo suggerire – in questione è in realtà la relazione fra l’umano e l’animale. L’antropogenesi, il diventar umano del primate homo, non è, infatti, un evento compiuto un volta per tutte in un certo momento della cronologia: è un processo tuttora in corso, in cui l’uomo non cessa di diventare umano e, insieme, di restare animale. E se la natura umana è così difficile da definire, ciò è appunto perché essa ha la forma di un’articolazione fra due elementi eterogenei e, tuttavia, strettamente intrecciati. La loro assidua implicazione è ciò che chiamiamo storia, nella quale sono coinvolti fin dall’inizio tutti i saperi dell’Occidente, dalla filosofia alla grammatica, dalla logica alla scienza e, oggi, alla cibernetica e all’informatica.
La natura umana – è bene non dimenticarlo – non è un dato che possa mai essere acquisito o fissato normativamente secondo il proprio arbitrio: essa si dà piuttosto in una prassi storica, che –in quanto deve distinguere e articolare insieme, dentro e fuori dell’uomo, il vivente e il parlante, l’umano e l’animale – non può che essere incessantemente attuata e ogni volta differita e aggiornata. Ciò significa che in essa è in gioco un problema essenzialmente politico, in cui ne va della decisione di ciò che è umano e di ciò che non lo è. Il luogo dell’uomo è in questo scarto e in questa tensione tra l’umano e l’animale, il linguaggio e la vita, la natura e la storia. E se, come Pasifae, egli dimentica la propria dimora vitale e cerca di appiattire l’uno sull’altro gli estremi fra i quali deve restare teso, non potrà che generare dei mostri e, con essi, imprigionarsi in un labirinto senza via d’uscita.
8 luglio 2024
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VERGOGNOSO QUANTO ABBIA SOFFERTO
Ero una sposa e una madre felice
«Quando venni ricoverata per la prima volta in manicomio, ero poco più di una bambina, avevo sì due figlie e qualche esperienza alle spalle, ma il mio animo era rimasto semplice, pulito, in attesa che qualche cosa di bello si configurasse al mio orizzonte; del resto, ero poeta e trascorrevo il mio tempo tra le cure delle mie figlie e il dare ripetizione a qualche alunno, e molti ne avevo che venivano e rallegravano la mia casa con la loro presenza e le loro grida gioiose.
Insomma, ero una sposa e una madre felice, anche se talvolta davo segni di stanchezza e mi si intorpidiva la mente. Provai a parlare di queste cose a mio marito, ma lui non fece cenno di comprenderle e così il mio esaurimento si aggravò e, morendo mia madre, alla quale io tenevo sommamente, le cose andarono di male in peggio, tanto che un giorno, esasperata dall’immenso lavoro e dalla continua povertà e poi, chissà, in preda ai fumi del male, diedi in escandescenze e mio marito non trovò di meglio che chiamare un’ambulanza, non prevedendo certo che mi avrebbero portata in manicomio.
Fu lì che credetti di impazzire
Ma allora le leggi erano precise e stava di fatto che ancora nel 1965 la donna era soggetta all’uomo e che l’uomo poteva prendere delle decisioni per ciò che riguardava il suo avvenire.
Fui quindi internata a mia insaputa, e io nemmeno sapevo dell’esistenza degli ospedali psichiatrici perché non li avevo mai veduti, ma quando mi ci trovai nel mezzo credo che impazzii sul momento stesso: mi resi conto di essere entrata in un labirinto dal quale avrei fatto molta fatica a uscire.
Mi ribellai. E fu molto peggio
La sera vennero abbassate le sbarre di protezione e si produsse un caos infernale. Dai miei visceri partì un urlo lancinante, una invocazione spasmodica diretta ai miei figli e mi misi a urlare e a calciare con tutta la forza che avevo dentro, con il risultato che fui legata e martellata di iniezioni calmanti.
Non era forse la mia una ribellione umana? Non chiedevo io di entrare nel mondo che mi apparteneva? Perché quella ribellione fu scambiata per un atto di insubordinazione? Un po’ per l’effetto delle medicine e un po’ per il grave shock che avevo subito, rimasi in istato di coma per tre giorni e avvertivo solo qualche voce, ma la paura era scomparsa e mi sentivo rassegnata alla morte.
Quella scarica senza anestesia
Dopo qualche giorno, mio marito venne a prendermi, ma io non volli seguirlo. Avevo imparato a risconoscere in lui un nemico e poi ero così debole e confusa che a casa non avrei potuto far nulla.
E quella dissero che era stata una mia seconda scelta, scelta che pagai con dieci anni di coercitiva punizione. Il manicomio era sempre saturo di fortissimi odori. Molta gente addirittura orinava e defecava per terra. Dappertutto era il finimondo. Gente che si strappava i capelli, gente che si lacerava le vesti o che cantava sconce canzoni.
Noi sole, io e la Z., sedevamo su di una pancaccia bassa, con le mani raccolte in grembo, gli occhi fissi e rassegnati e in cuore una folle paura di diventare come quelle là.
In quel manicomio esistevano gli orrori degli elettroshock. Ogni tanto ci assiepavano dentro una stanza e ci facevano quelle orribili fatture. Io le chiamavo fatture perché non servivano che ad abbrutire il nostro spirito e le nostre menti. La stanzetta degli elettroshock era una stanzetta quanto mai angusta e terribile; e più terribile ancora era l’anticamera, dove ci preparavano per il triste evento.
Ci facevano una premorfina, e poi ci davano del curaro, perché gli arti non prendessero ad agitarsi in modo sproporzionato durante la scarica elettrica. L’attesa era angosciosa. Molte piangevano. Qualcuna orinava per terra.
Una volta arrivai a prendere la caposala per la gola, a nome di tutte le mie compagne. Il risultato fu che fui sottoposta all’elettroshock per prima, e senza anestesia preliminare, di modo che sentii ogni cosa. E ancora ne conservo l’atroce ricordo».
Alda Merini
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In partenza il “Diversa Tour” della cantautrice Gea
Parte con location internazionali il “Diversa Tour” di Gaia Daria Miolla, in arte GEA, la cantautrice barese che porta il pubblico nell’esperienza unica ed imprevedibile del suo progetto artistico. Dopo i Live-preview del tour dei mesi scorsi a Genova e a Taranto, Gea aprirà il suo tour in Spagna, a Valencia. Gli appuntamenti del 20 giugno h 21, al MAT32 per i 10 years of Disruptiòn records, the decennal showcase by Berklee Artist; del 21 giugno h20 al THE ARTIST e del 22 giugno allo Special Event BEACH JAM, sono realizzati con collaborazione di “Stargazer Club” e a cura di Jeremy Feng e Colin Shea. Di ritorno in Italia, ancora un’altra collaborazione di taglio internazionale la vedrà impegnata il 26 luglio, come opening artist dei Creeedence Cleaneweare Revived per l’ULTRASUONI Festival di Taranto. Il “Diversa tour” è finanziato da Nuovo IMAIE nell'ambito del “Bando art. 7 Audio anno 2022 - Premi e Concorsi” vinto da Gea in quanto vincitrice di MArteLive 2022.
In una dimensione acustica, elegante e libera dagli schemi Gea, cantautrice polistrumentista, trasporterà gli ascoltatori in un viaggio emozionale senza confini, attraverso un “fare musica” che amalgama e unisce elementi di soul, indie, country, elettronica, pop e influenze arabe; le sue canzoni, scritte in italiano, francese ed inglese, sono un labirinto di ritmo e sonorità coinvolgenti che toccano ii cuore e l'anima.
All’interno del tour, Gea si avvarrà di uno strumento di nome “Plants Play” che è di una magica collaborazione con il creatore stesso, Edoardo Taori, capace di tradurre gli impulsi elettrici delle piante e degli esseri viventi, ovvero il loro bioritmo, in musica. Il connubio perfetto per riunire l’uomo con la natura in una chiave onirica e fuori dagli schemi.
Nata come batterista, Gea compone e produce i suoi brani anche con chitarra e voce e ii suo talento si esprime nella sua completezza nel condurre il pubblico in una dimensione dove le emozioni risultano protagoniste indiscusse, e che l'artista ha voluto chiamare “Fantàsia” in omaggio al poeta Michel Ende.
Anche il suo curriculum è stato sino ad ora un viaggio molto vario e pieno, giocato tra formazione, palchi e sale di registrazione; passato dall'esperienza di varie band, di un duo e di differenti collaborazioni con altri artisti e approdato, da qualche anno, al suo progetto personale come solista; tra le sue esperienze troviamo la realizzazione di una colonna sonora per Mediaset RTI, un concerto al Teatro Forma di Bari, la partecipazione a talent come Amici e The Voice e le più recenti presenze con live musicali al Salone Internazionale del Libro di Torino 2024 nell’incontro dei 1200 fan con Jeff Kinney e come ospite del programma di Radio24 “Non mi capisci” di Federico Taddia e Matteo Bussola.
Vincitrice al recente “Apulia Voice 2024” di Taranto e della Biennale “Martelive” 2022 di Roma, nello scorso anno è stata finalista: al contest per cantautrici “Permette Signorina” di Lunatika a Roma, al “New Generation Award Life” - Premio per giovani musicisti pugliesi del Medimex e menzione d'onore al “Music for Phest” di Monopoli, nonchè selezionata al “Music for Change” tra novecento musicisti di tutta Italia.
Batterista selezionata per l'esperienza delle Clinic di “Umbria Jazz”, ha partecipato come cantautrice ad alcuni Festival tra cui: Festival “Green&Blu 2024” di Milano, il “Corviale Urban Lab” di Roma, il “Festival dei Buskers” di Mirabello Sannitico (Cb), l'Urban Lab al Parco di Loseto (Ba), il “Pax Festival della Pace” a Bari, due edizioni del Festival “In the Land” a Locorotondo e Monopoli, il “Gipsyland Festival itinerante internazionale” di Noci, il “Mannaggia alla musica” a Terlizzi e il Concerto del “1° Maggio barese 2023”.
Ha inoltre suonato al Roxybar del Barone Rosso di Red Ronnie, all’Alexanderplatz Jazz Club Roma, all'Apollo
di Milano e al Rockin 1000 allo Stadio dei Marmi di Roma nel 2023.
I suoi live hanno portato ii suo progetto musicale anche a Lecce, Ascoli Piceno, Andria e Trani e ha portato il suo innovativo Laboratorio di Songwriting musicale al I Convegno internazionale “Creatività e plus- dotazione” del Lab Talento dell'Università di Pavia, con cui collabora per i Laboratori SteamA.
Vivere un concerto all'insegna della diversità e dell'arte dell'improvvisazione con ii pubblico, attraverso la musica di GEA, farà viaggiare in una linea del tempo che non traccerà limiti alle emozioni e all'immaginazione e che trasporterà tutti in un mondo di musica e poesia.
GEA la si può ascoltare sulle piattaforme musicali online e, per scoprire le date del suo tour, seguirla sui social come Gea o @gea_official. Le foto sono di Giorgio Amato, le grafiche di Giulia Iaquinta, il booking a cura di Artmosfera di Roma. Spotify:https://open.spotify.com/intl-it/album/39ykm9ViUm2oEwqbisTkwx?si=q5QnjeijQJqaAMMJ9FpoBw
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Il labirinto di ghiaccio di Valerio Varesi: analogia con Dissipatio H. G. di Guido Morselli
Il labirinto di ghiaccio del maestro di thriller Valerio Varesi, che molto si differenzia dai suoi romanzi precedenti. Il labirinto di ghiaccio di Valerio Varesi Ho assistito alla sua presentazione alcuni giorni fa presso Librerie. Coop All’Arco di Reggio Emilia. Nel corso di essa l’autore ha accennato a Ötzi che è il nome con cui si indica l’uomo ritrovato nel 1991 sul ghiacciaio della Val…
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QUESTO VISIBILE PARLARE – PARTE QUINDICESIMA - SOLO ARIANNA PUÒ UCCIDERE DIONISO
Questa storia la raccontavamo, qui nel Mediterraneo, molto tempo prima che i greci calassero sulle nostre sponde e fondassero la famosa civiltà occidentale. Quando i greci fondarono la famosa civiltà occidentale decisero di continuare a raccontarla, questa storia, ma la verità è che non la capivano. Siamo a Creta. Arianna, la Grande Signora, era la sposa di Dioniso, il Grande Dio, che si manifestava, rinchiuso in forma di toro al centro di un labirinto, come un’assenza. Un giorno sbarcò sull’isola Teseo, un piccolo uomo che incarnava l’immagine divina di Apollo. Arianna si innamorò di Teseo, e, così, lo aiutò a entrare nel labirinto e a uccidere Dioniso: poi, scappò con lui. Dioniso, allora, rincorse Arianna, e, trovatala, la uccise e la tramutò in una stella. Non poteva andare altrimenti: infatti, se vogliamo vivere la nostra esistenza di piccoli uomini è necessario che Dioniso, che è la vita in sé, infinita, sia ucciso a favore di Apollo, che della vita è la forma ben delimitata e armonica e finita. Solo Arianna può uccidere Dioniso, perché Arianna, perennemente mutevole, è quella facoltà, piena di malizia e ardimento, sensuale e peccaminosa, ricca dei beni della ragione, viva nei sentimenti e nei sensi e nell’intelletto, e quindi sempre pronta al raggiro e al crimine, propria di tutto ciò che ha nascimento, e che chiamiamo immaginazione. Inevitabile quindi che Dioniso abbia a sua volta ucciso Arianna: doveva farne una stella, divina e perennemente mutevole nel giro infinito del cielo: altrimenti Arianna sarebbe rimasta con Teseo, piccolo e limitato, e si sarebbe ammalata di paralisi; che sarebbe come a dire che l’immaginazione si sarebbe fermata, congelata, rattrappita: sarebbe degradata a immaginario. E, se l’immaginazione degrada a immaginario; se non abbiamo più immaginazione, ma solo un immaginario, allora nessuno può più uccidere Dioniso, e l’uomo deve smettere di esistere.
Nell'immagine, "Uscire dal labirinto", una figurazione di Veronica Leffe, pittura acrilica su carta incollata su tavola.
Testo di Pier Paolo Di Mino
Ricerca iconografica a cura di Veronica Leffe.
https://www.libroazzurro.it/index.php/note/questo-visibile-parlare/224
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Into the Labyrinth https://bit.ly/2PQHb6r Dustin Hoffman and Toni Servillo in the same film? Into the Labyrinth (aka L’uomo del labirinto) is a properly intriguing prospect. Hoffman a madness-in-his-Method actor since his breakthrough in 1967’s The Graduate, Servillo the king of the hangdog deapan – or is that the deadpan hangdog? – and long-time collaborator with Paolo Sorrentino (in films … Read more
#Donato Carrisi#Dustin Hoffman#Into the Labyrinth#L’uomo del labirinto#toni servillo#Valentina Bellè
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«Quando venni ricoverata per la prima volta in manicomio, ero poco più di una bambina, avevo sì due figlie e qualche esperienza alle spalle, ma il mio animo era rimasto semplice, pulito, in attesa che qualche cosa di bello si configurasse al mio orizzonte; del resto, ero poeta e trascorrevo il mio tempo tra le cure delle mie figlie e il dare ripetizione a qualche alunno, e molti ne avevo che venivano e rallegravano la mia casa con la loro presenza e le loro grida gioiose. Insomma, ero una sposa e una madre felice, anche se talvolta davo segni di stanchezza e mi si intorpidiva la mente. Provai a parlare di queste cose a mio marito, ma lui non fece cenno di comprenderle e così il mio esaurimento si aggravò e, morendo mia madre, alla quale io tenevo sommamente, le cose andarono di male in peggio, tanto che un giorno, esasperata dall’immenso lavoro e dalla continua povertà e poi, chissà, in preda ai fumi del male, diedi in escandescenze e mio marito non trovò di meglio che chiamare un’ambulanza, non prevedendo certo che mi avrebbero portata in manicomio. Fu lì che credetti di impazzire Ma allora le leggi erano precise e stava di fatto che ancora nel 1965 la donna era soggetta all’uomo e che l’uomo poteva prendere delle decisioni per ciò che riguardava il suo avvenire. Fui quindi internata a mia insaputa, e io nemmeno sapevo dell’esistenza degli ospedali psichiatrici perché non li avevo mai veduti, ma quando mi ci trovai nel mezzo credo che impazzii sul momento stesso: mi resi conto di essere entrata in un labirinto dal quale avrei fatto molta fatica a uscire. Mi ribellai. E fu molto peggio La sera vennero abbassate le sbarre di protezione e si produsse un caos infernale. Dai miei visceri partì un urlo lancinante, una invocazione spasmodica diretta ai miei figli e mi misi a urlare e a calciare con tutta la forza che avevo dentro, con il risultato che fui legata e martellata di iniezioni calmanti. Non era forse la mia una ribellione umana? Non chiedevo io di entrare nel mondo che mi apparteneva? Perché quella ribellione fu scambiata per un atto di insubordinazione? Un po’ per l’effetto delle medicine e un po’ per il grave shock che avevo subito, rimasi in istato di coma per tre giorni e avvertivo solo qualche voce, ma la paura era scomparsa e mi sentivo rassegnata alla morte. Quella scarica senza anestesia Dopo qualche giorno, mio marito venne a prendermi, ma io non volli seguirlo. Avevo imparato a risconoscere in lui un nemico e poi ero così debole e confusa che a casa non avrei potuto far nulla. E quella dissero che era stata una mia seconda scelta, scelta che pagai con dieci anni di coercitiva punizione. Il manicomio era sempre saturo di fortissimi odori. Molta gente addirittura orinava e defecava per terra. Dappertutto era il finimondo. Gente che si strappava i capelli, gente che si lacerava le vesti o che cantava sconce canzoni. Noi sole, io e la Z., sedevamo su di una pancaccia bassa, con le mani raccolte in grembo, gli occhi fissi e rassegnati e in cuore una folle paura di diventare come quelle là. In quel manicomio esistevano gli orrori degli elettroshock. Ogni tanto ci assiepavano dentro una stanza e ci facevano quelle orribili fatture. Io le chiamavo fatture perché non servivano che ad abbrutire il nostro spirito e le nostre menti. La stanzetta degli elettroshock era una stanzetta quanto mai angusta e terribile; e più terribile ancora era l’anticamera, dove ci preparavano per il triste evento. Ci facevano una premorfina, e poi ci davano del curaro, perché gli arti non prendessero ad agitarsi in modo sproporzionato durante la scarica elettrica. L’attesa era angosciosa. Molte piangevano. Qualcuna orinava per terra. Una volta arrivai a prendere la caposala per la gola, a nome di tutte le mie compagne. Il risultato fu che fui sottoposta all’elettroshock per prima, e senza anestesia preliminare, di modo che sentii ogni cosa. E ancora ne conservo l’atroce ricordo».
Alda Merini scritto per OK La salute prima di tutto nel maggio 2006
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Che ne sarà della solitudine
Mauro Portello
E ora che ne sarà della solitudine? Dopo più di un anno di distanziamenti sociali e clausure, oltre centomila morti (ad oggi quasi tre milioni nel mondo), e tanta angoscia perché non è ancora finita, che ne sarà del sentimento costitutivo della solitudine? Vorremo continuare a scegliere di stare da soli, accetteremo ancora una società che ci spinge a vivere tra gli altri ma non con gli altri? L’individualismo, figlio malato della solitudine, sarà di nuovo una categoria fondante dei nostri comportamenti?
Nell’epoca in cui stiamo vivendo la solitudine è un problema sociale prioritario. In certi Paesi si è ormai da tempo pensato di istituzionalizzarlo facendone il contenuto esclusivo dell’impegno di Ministeri dedicati. La soglia d’allarme è evidentemente stata superata nel momento in cui si è affermata una sorta di “solitudine a una dimensione”, tutta euforica. Costruendo una “comunità” fatta di individui “profilati” per un’esistenza di prestazioni-che-producono-guadagno-che-porta-felicità (vedi qui gli articoli Il sale della solitudine e Happycracy. Socrate contento o maiale soddisfatto), abbiamo trasformato i nostri Sé in qualcosa da poter persino mettere in vendita, sotto forma di stili di vita definiti da altri. Nei rapporti personali stessi seguiamo la logica delle opportunità, della convenienza, della libertà assoluta dai legami, in uno scenario in cui, per dirla con lo psicoanalista, “tutto è revocabile, dove anche le identità possono essere indossate e dismesse come un abito, nessuna identità esprime più il senso e la storia di una vita che fa riferimento a un mondo comune, rassicurante e durevole.” (Umberto Galimberti, Critica all’individualismo, Repubblica-D, 11.04.2021)
Abbiamo orientato all’esterno le nostre vite e l’esteriorità è divenuta la dimensione prevalente a scapito della capacità di stare con noi stessi. E la rinuncia all’introspezione è il prezzo altissimo che abbiamo pagato: ora viviamo nell’epoca delle “intimità fredde”, secondo la definizione che ha usato tempo fa Eva Illouz (Intimità fredde, Fertrinelli, 2007). Il gioco equilibrato tra la paura dell’esclusione sociale e il sano bisogno di isolarsi di tanto in tanto per dialogare con se stessi si è complicato, la rete ne ha confuso i contorni se non lo ha addirittura scardinato. La solitudine del singolo è divenuta monadica perché perfettamente inserita nel sistema di consumo o, per chi non è integrato, è diventata un vero abbandono al proprio destino di emarginazione materiale, senza vie di fuga o salvezza nell’interiorità. Diciamo che questo è l’esito ultimo di un lunghissimo percorso storico e non è molto confortante. È difficile vederlo come il frutto di una evoluzione in senso progressivo perché la solitudine, che per millenni è stata una delle nostre caratteristiche psico-sociali fondanti, è diventata, sotto forma di individualismo, alienandosi da noi, una oggettività addirittura merceologica. Come dire, il fordismo che produce il postfordismo.
Di nuovo: ma adesso, dopo la pandemia, che ne sarà della solitudine? Di questa solitudine così come l’abbiamo realizzata? Credo che ricostruirne le vicende nel tempo sia forse l’idea migliore per provare a immaginarne un futuro. Certo, quando si tratta di sentimenti umani bisogna stare sempre molto attenti a parlarne, da ogni punto di vista: sono troppo ambigui, fluttuanti, cambiano nello spazio e nel tempo per la semplice e fondamentale ragione che gli esseri che ne sono portatori sono vivi. Se poi se ne vuole fare la storia le cose diventano ancora più complesse: qual è la soglia di oggettività raggiungibile nella ricostruzione storica di un sentimento? Oggi, ad esempio, noi possiamo contare su una vita media molto più lunga, di fronte a questo è naturale pensare che anche la nostra “abilità di sentire” stia subendo una qualche trasformazione rispetto al passato. Quindi quelle dei sentimenti non possono che essere storie di ambiguità, meglio, di ambivalenze.
Di sicuro tra i sentimenti umani la solitudine è tra i più rappresentativi, molto adatto a raccontarci quanto e come gli individui si misurino con “l’altro” e a darci, come vedremo, delle chiavi di lettura della nostra contemporaneità. Ben venga dunque la Storia della solitudine (Neri Pozza 2021) di Aurelio Musi, uno studio che ci fa vedere nitidamente come sia cambiato questo sentimento, come la solitudine abbia risentito dei mutamenti delle società in generale, e in modo più radicale, per un’accelerazione progressiva, nel corso degli ultimi duecento anni.
La solitudine, dice lo storico, è qualcosa che appartiene agli uomini, non agli eroi: questa è la lezione che nel V secolo a.C. arriva dalle tragedie di Euripide. E’ un sentimento che sta dentro al perimetro del quotidiano non dell’oltre umano, è parte costitutiva della natura umana. Mentre per gli eroi di Eschilo e Sofocle era un castigo degli dei, con Euripide è l’uomo che nel momento in cui assume su di sé il destino, il dolore, e la solitudine conquista “i veri requisiti di una condotta eroica”. Questo fa dire a Nietzsche che “la solitudine è l’essenza della tragedia greca”. Nel mondo romano è un continuo oscillare della solitudine fra condizione di negatività e condizione di positività. Seneca mette in guardia dalla solitudine, ma vede nel ritiro dell’otium un’affermazione di autentica libertà, un’occasione di perfezionamento della vita interiore, e un rimedio alle socialità ripetitive della vita mondana.
Nell’era cristiana Agostino coniuga la vicenda umana a quella divina, l’uomo non è più solo, ciò che fa è sempre e comunque “la realizzazione della missione divina”. E tuttavia, scrive l’autore riprendendo Heidegger, la vita rimane un affanno, è ricerca del piacere e comporta l’insicurezza della decisione, la solitudine. Di nuovo l’oscillazione dal positivo al negativo. Come in Petrarca, precursore della modernità, che si ritrae dal “mercato” del mondo per dedicarsi a sé, ma consapevole dei limiti della sua solitudine. Così sarà, nel Cinquecento, la concezione della solitudine come necessaria e allo stesso tempo insidiosa di Montaigne e di Pascal. E per Robert Burton (Anatomia della malinconia, 1621) la solitudine non sarà che il sintomo della malinconia. Secondo Musi è con Burton che “la beata e maledetta solitudine entra nel labirinto della malinconia, in un regime di ambiguità che è all’origine dell’inquietudine dell’uomo moderno e dell’oscillazione tra delirio e delizia”.
Nel Seicento si esplicita la natura psichica del sentimento della solitudine. È il momento della nascita della nostra sensibilità contemporanea, in cui la solitudine appare più un sintomo che uno status. Il Barocco, dice l’autore, “la civiltà dell’apparenza, dell’artificio, della simulazione e della dissimulazione”, ci porta “nella malinconica solitudine o nella solitaria malinconia, stadio preliminare verso la disperazione e la catastrofe”. Il 1656 è l’anno di fondazione dell’Hôpital Général di Parigi dove si pensava di poter rinchiudere poveri e folli per ripulire la società, un evento che per Michel Foucault costituisce una vera cesura epocale. La solitudine finisce per essere considerata la condizione umana tout-court, come dimostra Don Chisciotte, opera a cui Musi dedica uno dei suoi capitoli più belli. L’esistenza solitaria immersa nel tormento psicopatologico di Jean-Jaques Rousseau (1712-1778) ne sarà una ulteriore, emblematica testimonianza. Per Giacomo Leopardi, che vive nell’epoca del regresso storico della Restaurazione, l’uomo moderno è disilluso dal potere politico, dalla nazione-patria e sperimenta una “solitudine di ritorno” in cui la riconquista interiore di sé diviene l’alternativa a una società “della miseria e del vuoto”. Scrive nello Zibaldone: “L’uomo disingannato, stanco, esperto, esaurito, nella solitudine appoco appoco si rifà, recupera se stesso, ripiglia quasi carne e lena, e più o meno vivamente, a ogni modo risorge”.
“O beata solitudo, o sola beatitudo!”, scriveva il poeta Corneille Muys nel 1566, una specie di motto ineffabile, un chiasmo che è un nodo inscindibile nel quale il sentimento della solitudine sembra racchiuso, ancora oggi. Questo è forse il punto cruciale: nel momento in cui la solitudine è stata cristallizzata in una dimensione prevalente, quella dell’esteriorità, si è smarrita la componente interiore che rende fertile questo sentimento. Forse è questo il necessario passaggio che dovremmo recuperare: la dimensione di loneliness dovrebbe sempre accompagnarsi a quella di solitude, per usare l’utile distinzione linguistica degli inglesi, ossia il senso di emarginazione e isolamento con la capacità di stare con noi stessi. Come dire, proprio l’oscillare tra la negatività e la positività può ridare di nuovo l’equilibrio per stare nel mondo. Un movimento che deve riprendere perché è nel muoversi che gli uomini trovano stabilità.
In questa condizione di “solitudine di massa” spesso la persona si sente estranea al punto, insopportabile, di non riconoscere nemmeno se stessa. Diceva Hannah Arendt nel 1951 (sembra tanto tempo fa, ma non è così): “quel che rende l’estraneazione così insopportabile è la perdita del proprio io, che può essere realizzato nella solitudine, ma confermato nella sua identità soltanto dalla compagnia fidata e fiduciosa dei propri simili”. È un pensiero contenuto ne Le origini del totalitarismo che giustamente Musi ritiene “la riflessione più compiuta e matura sulla solitudine, adatta anche ad affrontare la questione nella nostra vita e attualità contemporanea”.
Poi venne la pandemia… Non riesco a immaginare metafora più potente per la pandemia della nave, la portacontainer Ever Given, che con la sua abnormità nel marzo scorso ha letteralmente bloccato i traffici commerciali del pianeta mettendosi di traverso nel canale di Suez. Un tappo! Una nuova pressione nelle vene del mondo che costringe tutti i sistemi cardiaci a rivedere e ridimensionare le loro potenzialità. Per ora, in attesa di un’altra concretezza, non si può andare molto oltre le metafore. Anche per la solitudine: disincagliarsi e riprendere a muoversi.
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Qualcosa si stava rompendo, qualcosa s'è rotto. Non ti senti più - come dire? - sorretto: qualcosa che ti sembrava, e ti sembra, t'avesse finora confortato, scaldato il cuore, restituito il sentimento della tua esistenza, quasi della tua stessa importanza, dandoti l'impressione di aderire al mondo e di esservi come immerso, comincia a venir meno. [...] E tuttavia niente resta di quella traiettoria saettante, di quel movimento proiettato in avanti che da sempre sei stato portato a identificare con la tua vita, cioè con il suo senso, la sua verità e la sua tensione: un passato ricco di esperienze feconde, di lezioni ben assimilate, di radiosi ricordi d'infanzia, di luminose felicità campagnole, di sferzanti venti dal largo, un presente denso, compatto e caricato a molla, un futuro generoso, verdeggiante e arioso. [...] Sei seduto e vuoi soltanto aspettare, aspettare solamente finché non ci sia più niente da aspettare: che venga la notte, che suonino le ore, che i giorni fuggano, che sfumino i ricordi. [...] Le pietose menzogne che cullano i sogni di quelli che si sono impantanati e girano a vuoto, le illusioni smarrite dei milioni di reietti, quelli che sono arrivati troppo tardi, quelli che hanno poggiato la valigia sul marciapiede e ci si sono seduti sopra ad asciugarsi la fronte. Ma tu non hai più bisogno di scuse, né di rimpianti, né di nostalgie. Tu non respingi niente, non rifiuti niente. Tu hai smesso la marcia in avanti, ma già da prima avevi smesso di andare avanti, ora non ti metti in moto semplicemente perché sei arrivato a destinazione, e non vedi proprio cosa ci andresti a fare più avanti: è bastata, o quasi, in un giorno di maggio in cui faceva troppo caldo, l'inopportuna congiunzione tra un testo di cui avevi perso il filo, una tazza di Nescafé dall'improvviso gusto troppo amaro, e una bacinella di plastica rosa piena di acqua nerastra al cui interno galleggiavano sei calzini, perché qualcosa si rompesse, si alterasse, si disfacesse; perché venisse alla splendente luce del sole - ma la luce del sole non splende mai nella soffitta di rue Saint-Honoré - questa verità deludente, triste e ridicola come un cappello da asino, pesante come un dizionario Gaffiot: tu non hai più voglia di proseguire, né di difenderti, né di attaccare. [...] ...questo nello specchio incrinato non è il tuo nuovo volto, sono le maschere a essere cadute... _______________________ Hai solo venticinque anni, ma la tua strada è tracciata. Tutti i ruoli sono pronti, e così le etichette: dal vasino della prima infanzia alla sedia a rotelle della vecchiaia tutti i sedili sono lì che aspettano il tuo turno. Le tue avventure così ben dettagliate che anche davanti alla più violenta delle ribellioni nessuno batterebbe ciglio. [...] Tutto è previsto, preparato nei minimi particolari: i grandi slanci del cuore, la fredda ironia, la lacerazione, la pienezza, l'esotismo, la grande avventura, la disperazione. _______________________ Non voler più niente. Aspettare finché non ci sia più nulla da aspettare. Vagare, dormire. Lasciarsi portare dalla folla, dalle vie. Seguire i canaletti di scolo, le inferriate, l'acqua lungo le sponde. Camminare lungo il fiume, rasente i muri. Perdere tempo. Tenersi lontano da ogni progetto, da ogni smania. Essere senza desideri, senza risentimenti, senza ribellione. _______________________ Hai tutto da imparare: tutto quello che non si può imparare: la solitudine, l'indifferenza, la pazienza, il silenzio. Devi disabituarti a tutto: [...] disabituarti a tirar per le lunghe la scialba complicità delle amicizie che non cessano mai di sopravvivere a se stesse, nel vile e opportunista rancore dei legami che si sfilacciano. [...] ...non vai più in biblioteca a elemosinare un saluto, un sorriso, un cenno di riconoscimento. [...] il tuo abbigliamento, il tuo cibo e le tue letture non parleranno più al tuo posto, non te ne servirai più per fare il furbo. Non gli affiderai più l'estenuante, impossibile, mortale compito di rappresentarti. ______________________ Non spezzerai il cerchio magico della tua solitudine. Sei solo e non conosci nessuno; non conosci nessuno e sei solo. Vedi gli altri accalcarsi, stringersi, proteggersi, abbracciarsi. Tu invece, lo sguardo vitreo, non sei che un fantasma trasparente, un cinereo lebbroso, una sagoma già restituita alla polvere, un posto occupato cui nessuno si avvicina Ti sforzi di sperare in incontri imprevisti. Ma non è certo per te che cuoio, rame e legno di metteranno a brillare, che le luci si abbasseranno, e che i rumori si attutiranno. Sei solo, nonostante il fumo che si appesantisce, nonostante Lester Young o Coltrane, sei solo nel calore ovattato dei bar, nelle strade deserte in cui risuonano i tuoi passi, nella complicità mezzo addormentata degli unici pochi bar rimasti aperti. [...] L'infelicità non ti è piombata addosso di colpo, non si è abbattuta su di te all'improvviso; si è piuttosto infiltrata, insinuata lentamente, quasi soavemente. Ha impregnato minuziosamente la tua vita, i tuoi gesti, le tue ore e la tua stanza, come una verità a lungo camuffata, come un'evidenza negata; tenace e paziente, tenue, accanita, si è impadronita delle crepe sul soffitto, delle righe sul tuo viso nello specchio incrinato, delle carte da gioco distese sulla panca; si è infilata nella goccia d'acqua dell'acquaio sul pianerottolo, è risuonata ogni quarto d'ora al campanile di Saint-Roch. La trappola era questa sensazione, talvolta al limite dell'esaltante, quest'orgoglio, questa specie di ebbrezza; credevi di non aver bisogno che della città, delle pietre e delle strade, della folla che ti trascinava, soltanto un pezzetto di bancone alle Petite Source, di un posto davanti in un cinema di quartiere; della tua stanza, il tuo antro, la tua gabbia, la tana in cui torni ogni giorno, e da cui esci di nuovo ogni giorno, questo luogo quasi magico dove ormai non si offre più niente alla tua pazienza, nemmeno una crepa sul soffitto, una venatura nel legno dello scaffale, un fiore dipinto sulla carta da parati. Disponi per l'ennesima volta le cinquantadue carte sulla panca; per l'ennesima volta cerchi l'improbabile soluzione di un labirinto informe. [...] La trappola: quest'illusione pericolosa di essere - come dire? - inespugnabile, di non offrire alcuna presa al mondo esterno, di scivolare sulle cose, intoccabile, gli occhi sbarrati che guardano avanti, tutto percependo, fino ai minimi particolari, ma nulla conservando. Sonnambulo sveglio, cieco, che può vedere. Essere senza memoria, senza spavento. Ma non ci sono vie d'uscita, niente miracoli, nessuna verità. Armature, schermature. [...] Ti sono venuti incontro, ti si sono aggrappati al braccio. Quasi che, sconosciuto perso nella tua città, tu non potessi incontrare che altri sconosciuti comete; quasi che, tu solitario, ti vedessi piombare addosso le altre solitudini. Quasi che, il tempo di un bicchiere di vino bevuto al banco, solo potessero incontrarsi quelli che non parlano mai, quelli che parlano da soli. I vecchi pazzi, le vecchie ubriacone, gli esaltati, gli esiliati. [...] È come se, in ogni momento, ti aspettassi che un tuo minimo cedimento ti trascinasse troppo lontano. Come se, in ogni momento, avessi bisogno di dirti: è così perché io l'ho voluto così, l'ho voluto così o altrimenti sono morto. _______________________ Forse anche lui tenta disperatamente di conoscerti, facendo infinite interpretazioni su ogni segno percepito: che sei, cosa fai? tu che sfogli i giornali, tu che resti parecchi giorni senza uscire, o vari giorni senza tornare? _______________________ (e la benevolenza d'uno sguardo è forse anche la peggiore di tutte le armi, quella che ti disarmerà laddove l'odio non avrebbe fatto niente) _______________________ Non hai imparato niente, tranne che la solitudine non insegna niente, che l'indifferenza non insegna niente: era un'impostura, una fascinosa e ingannevole illusione. Eri solo, tutto qui, e volevi proteggerti; volevi tagliare per sempre i ponti tra te e il mondo. Ma tu sei così poca cosa, e il mondo un tal parolone: alla fine, il tuo non è stato altro che un errare in una grande città, e costeggiare chilometri di facciate, vetrine, parchi e lungofiume. L'indifferenza è inutile. [...] Ma il tuo rifiuto è inutile. La tua neutralità non significa niente. La tua inerzia è altrettanto vana della tua rabbia. [...] Ma niente è accaduto: nessun miracolo, nessuna esplosione. Ogni giorno sgranato non ha fatto che erodere la tua pazienza, che mettere a nudo l'ipocrisia dei tuoi ridicoli sforzi. Bisognava che il tempo si fermasse completamente, ma niente e nessuno è così forte da poter lottare contro il tempo. [...] Il tempo, che su tutto veglia, ha trovato tuo malgrado la soluzione. Il tempo, che conosce la risposta, ha continuato a scorrere. Poi in un giorno del genere, un po' più tardi, o un po' più presto, tutto ricomincia, tutto comincia, tutto continua.
Georges Perec, L’uomo che dorme
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Piranesi di Susanna Clarke
Ma io non capisco quale sia il motivo.
Non ha importanza che tu non lo capisca. Tu sei l’Amato Figlio della Casa. Fatti coraggio.
E io mi sono fatto coraggio.
“Piranesi” di Susanna Clarke è un fantasy circondato da una marea di recensioni positive e edito in Italia da Fazi Editore. Nonostante non avessi ben approfondito la trama, ne ero rimasta affascinata da molto tempo, ma ho aspettato la traduzione made in Fazi per leggerlo. Ero in libreria, alla ricerca di un altro volume, quando mi sono lasciata incantare dalla copertina con i dettagli in rilievo color bronzo e ho deciso di comprarlo e leggerlo. E vi posso assicurare che ne è valsa la pena.
Piranesi vive nella Casa. Forse da sempre. Giorno dopo giorno ne esplora gli infiniti saloni, mentre nei suoi diari tiene traccia di tutte le meraviglie e i misteri che questo mondo labirintico custodisce. I corridoi abbandonati conducono in un vestibolo dopo l’altro, dove sono esposte migliaia di bellissime statue di marmo. Imponenti scalinate in rovina portano invece ai piani dove è troppo rischioso addentrarsi: fitte coltri di nubi nascondono allo sguardo il livello superiore, mentre delle maree imprevedibili che risalgono da chissà quali abissi sommergono i saloni inferiori. Ogni martedì e venerdì Piranesi si incontra con l’Altro per raccontargli le sue ultime scoperte. Quest’uomo enigmatico è l’unica persona con cui parla, perché i pochi che sono stati nella Casa prima di lui sono ora soltanto scheletri che si confondono tra il marmo. Improvvisamente appaiono dei messaggi misteriosi: qualcuno è arrivato nella Casa e sta cercando di mettersi in contatto proprio con Piranesi. Di chi si tratta? Lo studioso spera in un nuovo amico, mentre per l’Altro è solo una terribile minaccia. Piranesi legge e rilegge i suoi diari ma i ricordi non combaciano, il tempo sembra scorrere per conto proprio e l’Altro gli confonde solo le idee con le sue risposte sfuggenti. Piranesi adora la Casa, è la sua divinità protettrice e l’unica realtà di cui ha memoria. È disposto a tutto per proteggerla, ma il mondo che credeva di conoscere nasconde ancora troppi segreti e sta diventando, suo malgrado, pericoloso.
Con i titoli molto discussi e in pieni di hype c’è sempre il rischio di crearsi troppe aspettative, di iniziare la lettura con la paura di rimanere delusi. “Piranesi” è uno di quei libri non facilmente catalogabili, che sfugge alle definizioni e che va affrontato con il minor numero possibile di informazioni, tanto, quando lo inizi a leggere finisci per rimanerne folgorato. La Clarke ha la capacità di manipolare le istanze che crea, e plasma la trama e l’impianto del suo libro come un fabbro, generando scintille a mano a mano che si voltano le pagine. Al centro della storia c’è Piranesi, un uomo che vive nella Casa e che annota meticolosamente le sue giornate con un complesso calendario decodificato da lui stesso e non si perde d’animo neanche quando le sue stesse certezze vengono messe in discussione. È pieno di risorse e di idee e studiare come si sviluppa la Casa in cui vive è l’attività che consuma gran parte del suo tempo e delle sue energie. Di fatti il posto in cui vive fa da contraddittorio a tutte le sue esperienze, anche ai suoi incontri con l’Altro, il suo collega interessato a capire come si sviluppa il labirinto in cui si muovono, interessato a capirne le implicazioni e gli sviluppi. Ogni tassello diventa fondamentale per capire dove la storia vuole andare a parare, apparentemente l’intrigo scalza il mistero, e resta veicolato ai percorsi non solo concreti ma anche immaginifici che Piranesi compie all’interno dei vari vestiboli e delle varie stanze. Lo spazio infatti non è solo un contenitore vuoto, non è solo uno sfondo, ma una vera e propria dimensione fondamentale per la storia. Le statue che riempiono lo spazio infatti sono gli indizi necessari alla comprensione del mondo, gli esseri viventi come gli uccelli e i pesci, la compagnia alla mente di Piranesi che si accavalla al tempo e alle sue conoscenze. Sembra mancare completamente un punto di riferimento, ma di fatti è il nodo che tiene insieme tutte le vicende. Anche il tempo che avanza in maniera discontinua crea un nuovo percorso di conoscenza, disegna i confini della mente di Piranesi che si affaccia timoroso da ogni lato pur di aiutare l’Altro, pur di aiutare sé stesso. Conta, analizza, studia, classifica, documenta al fine di conservare memoria e conoscenza, ma soprattutto per creare un contatto vero con chi lo circonda. I pezzi si sovrappongono per creare un quadro finale che sembra completamente svincolato da tutto, ma il centro è sempre Piranesi, l’uomo che studia, l’uomo che avanza. L’atto della ricerca sembra diventare più importante dell’oggetto della ricerca, eppure Piranesi ha chiaro in mente il suo obiettivo, capire, conoscere, sapere. È proprio questo stimolo continuo che affascina il lettore, vivo nella Casa, quello scavare dentro ai fatti, iniziare a dubitare, incerto sempre a chi credere, in una corsa contro il tempo per scoprire la verità.
Il particolare da non dimenticare? Dei pezzetti di carta…
Una storia onirica e misteriosa, che scava nei meandri della mente e si annida in un luogo straniante e alieno in cui continuare a interrogarsi sulla verità. Un viaggio metafisico descritto dettagliatamente dalla penna di Susanne Clarke.
Buona lettura guys!
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L’ARRIVO DI GWEN A VENEZIA
Nelle giornate autunnali la nebbia copriva il canale come un velo. A Gabriel dava la sensazione di essersi nascosto sotto un lenzuolo. La mamma e il papà erano agitati, lo aveva capito persino lui che aveva solo dodici anni.
«Vai a cercare Axel, per favore.»
Sua madre gli accarezzò i capelli sistemandoglieli. Gabriel annuì energicamente e lasciò il salotto. Trovare Axel non sarebbe stato facile, suo fratello era bravo a nascondersi, per questo odiava giocare a nascondino con lui. Axel conosceva tutti i nascondigli e lo trovava sempre, mentre lui non lo trovava mai. Suo fratello era capace di rimanere nascosto per ore, senza annoiarsi. Si portava sempre dietro una delle sue macchinine, la sua preferita: una macchina da corsa grigia con le fiamme dipinte sui lati. Papà gliel’aveva comprata qualche anno prima, Axel aveva insistito per averla, se ne era innamorato a prima vista.
«Axeeeeeel!» Gabriel provò a chiamare il suo fratellino e ovviamente non ricevette risposta. Corse nella biblioteca e iniziò a guardare tra gli scaffali, continuando a cantilenare il suo nome.
La biblioteca era enorme, sembrava un labirinto. Gabriel era l’eroe che lo sfidava. A volte lui e Axel giocavano a fingersi Teseo e il Minotauro, una storia che la mamma gli raccontava spesso. Era spaventosa, ma l’eroe sconfiggeva il mostro e poi Rachel li riempiva di baci – lui iniziava a essere troppo grande per certe cose, continuava a ripeterselo, però gli piacevano le coccole di sua madre. Axel faceva Teseo, solo perché era più basso di Gabriel e non sarebbe stato credibile come mostro, anche se la maggior parte delle volte si incantava a guardare i libri e finiva a gambe all’aria in pochi secondi.
Finse di sconfiggere un mostro immaginario e arrivò alla fine dell’ultimo corridoio, nessuna traccia di suo fratello.
Uscì dalla biblioteca, la prossima fermata era la cucina. Avrebbe chiesto ad Agata se lo avesse visto e magari avrebbe potuto rubare anche qualche biscotto. Axel andava matto per i biscotti al cioccolato. Entrò in cucina di soppiatto, cercò di fare meno rumore possibile e scivolò vicino al bancone dove era appoggiato un vassoio di biscotti appena sfornati.
«Gabriel, giù le zampe dai biscotti» lo sgridò Agata. «Scottano, non vorrai bruciarti.»
La donna gli sorrise e lui fece un sorriso innocente. I biscotti avevano un odore buonissimo. «Axel è qui?» le chiese allungando di nuovo una mano.
Agata gli diede un colpetto con il cucchiaio di legno. «No, non lo visto. Hai guardato in camera sua?»
Gabriel non ci aveva guardato, ma era certo che suo fratello non fosse nella sua camera, era un nascondiglio troppo scontato.
«Vieni» Agata gli fece segno di avvicinarsi, prese un tovagliolo e ci mise dentro qualche biscotto al cioccolato, poi lo chiuse come un fagotto e lo diede a Gabriel. «Questi si sono già raffreddati. Ora fuori dalla cucina, non è un posto per voi bambini.»
Lo cacciò con muovendo il cucchiaio di legno. Gabriel prese un biscotto e sorrise contento quando ne prese un morso mentre andava verso la sala da pranzo.
Entrò nella stanza ciondolando e saltando qualche passo. «Axel! Ho i biscotti al cioccolato! Dove ti sei cacciato?» gridò. I biscotti erano l’esca perfetta, infatti Axel sbucò da dietro una tenda e si precipitò verso di lui. Gabriel salì sul tavolo aiutandosi con una sedia e Axel lo seguì.
«Dammi un biscotto!»
Gabriel saltò giù dal tavolo e ci si infilò sotto sedendosi a gambe incrociate sul pavimento. La testa di suo fratello sbucò dal tavolo, lo guardò con i suoi occhi azzurri. I capelli gli circondavano il viso come una specie di corona, erano attirati verso il basso dalla gravità. Gabriel si mise a ridere.
«Posso avere un biscotto?» gli chiese suo fratello.
«Vieni giù stupido, ti farai male» annuì e gli fece segno di scendere e sedersi accanto a lui.
Axel saltò prima su una sedia e poi sul pavimento, lo raggiunse sotto il tavolo e afferrò un biscotto con aria trionfante. Gli diede un gran bel morso sporcandosi di cioccolato e lasciando cadere delle briciole sul pavimento.
«Mamma mi ha detto di cercarti» gli disse Gabriel pulendogli la faccia con la manica della maglietta. Gli piaceva occuparsi di suo fratello, anche se lui si faceva sempre indietro e voleva fare le cose da solo.
«Mi hai trovato» rispose scompigliandosi i capelli scuri. Erano castani come quelli di Gabriel, ma molto più scuri, tanto che sembravano neri come quelli di Dominic. Sembravano un nido di uccelli, ma Axel si stava rifiutando categoricamente di tagliarli, come Gabriel si rifiutava di mangiare le verdure verdi. Che brutto colore il verde.
Lasciarono la sala da pranzo dopo aver fatto piazza pulita dei biscotti che Agata gli aveva dato e raggiunsero mamma e papà all’ingresso della residenza. Erano in piedi più o meno al centro. La mamma era bella come sempre. Indossava un paio di pantaloni larghi rosso scuro e una camicia bianca, e teneva i capelli legati. Papà invece era vestito come sempre, in completo scuro con anche il gilè, aveva l’aria importante.
Si voltò verso i figli quando li vide avvicinarsi, Gabriel cercò di mettersi più dritto come suo padre gli aveva detto di fare, Axel invece si strinse nelle spalle e serrò la presa sulla macchinina che teneva in mano.
Il portale apparve qualche metro davanti a loro. Come uno scoppio improvviso di colori. Sembrava uno specchio rotto colpito dai raggi del sole.
Ne uscirono un giovane uomo e una bambina. Axel si nascose dietro la gamba della mamma. Gabriel guardò prima l’uomo, il suo aspetto lo fece rabbrividire aveva i capelli bianchi che colpiti dalla luce del pomeriggio sembravano gialli, la pelle molto chiara e un’espressione autoritaria che associava sempre a suo padre. La bambina invece era a disagio e si era fatta piccola piccola, quasi potesse nascondersi nella felpa blu che indossava. Quella felpa era troppo grande per lei.
«Jericho» suo padre strinse la mano al giovane uomo, che ricambiò la stretta.
«Dominic, Rachel sono contento che abbiate accettato questo compito. Gwen non può continuare a vivere in una caverna da sola. Confido che con voi possa crescere in compagnia» disse rivolgendo quello che doveva essere un sorriso a Gabriel e Axel.
«Crescerà con tutto l’amore che possiamo offrirle» lo rassicurò sua madre. Quindi quella bambina sarebbe rimasta lì con loro. «Coraggio ragazzi, presentatevi.» La mamma li esortò con un sorriso amorevole.
Gabriel si mosse per primo, si avvicinò cercando di sembrare sicuro e tese la mano alla bambina, come gli aveva insegnato suo padre. «Ciao, io sono Gabriel Whitewalker.»
Lei fece un passo avanti e piegò la testa di lato scrutandolo con i suoi occhioni grigi. Aveva i capelli castani che le accarezzavano le spalle. Avrebbe potuto giocare con loro, finalmente avevano trovato la loro Arianna. Guardò la mano tesa di Gabriel, poi si sporse verso di lui per guardare Axel.
«Hai un fratello?» gli chiese.
Gabriel abbassò la mano, lei la stava ignorando. «Sì Axel! Lui ha dieci anni e io dodici» annuì energicamente. Axel fece un passo avanti e lo affiancò.
«Anche io ho dieci anni!» esclamò la bambina sorridendo contenta.
«Tu sei una femmina» disse invece Axel.
«È un problema?» gli chiese lei incrociando le braccia al petto e cambiando espressione.
«No» Axel scosse il capo imbarazzato. «Mi piacciono le femmine» accennò un sorriso.
«Sarà bello averti qui» aggiunse Gabriel.
La bambina sorrise di nuovo e lanciò un’occhiata sospetta ad Axel.
«Digli come ti chiami» il giovane uomo parlò con la bambina, che alzò la testa per guardarlo e annuì, come se si fosse appena ricordata di non aver ancora detto il suo nome.
«Mi chiamo Gwen, Gwen Lightshade.»
«Benvenuta Gwen.»
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Una cosa incredibile
Mi è successa una cosa che ha dell’incredibile. Ho visto L’uomo del labirinto. E dopo ho dovuto cercare spiegazioni in rete perché ne sono uscito vagamente confuso. Ma questo è un altro discorso. La cosa cui alludevo è che io a un certo punto ho intuito che qualcosa non andasse nella storia. Per quanto riguarda il film in sé, gli interpreti sono sicuramente bravi. E Carrisi sembra essere bravo, come regista. Anche se alla fine un po’ di casino lo fa. Senza contare che chi non ha letto i suoi libri non può cogliere certe finezze, né certi rimandi. Poi c’è un’altra cosa. Due ore sono troppe. Avrebbe fatto meglio ad asciugare un po’ la trama. Anche se dirlo adesso non serve a nulla. Perché ormai il film è uscito.
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“È stato l’ultimo dissidente, una specie di Teresa d’Avila della fantascienza”. Su Philip K. Dick
La postura sciamanica – anzi, religiosa. Questo affascina, contorce, conturba. Il fatto, ad esempio, che non si parli di opera aperta, ma continua. Un dato. Nel 1954 pubblica 28 racconti e scrive 3 romanzi. Se è per questo, nel 1964 di romanzi ne scrive 6, tra cui Le tre stimmate di Palmer Eldritch e Deus Irae con Roger Zelazny (a cui vanno aggiunti 11 racconti pubblicati). Il dato numerico, in questo caso, misura, parzialmente, l’entità mistica dell’opera di Philip K. Dick. Cosa intendo? Chiamatela “preghiera continua” – senza speculare troppo, pigliate i Racconti di un pellegrino russo (testo più che devoto, pericoloso, che fa pericolante l’anima, la volontà), edizione Bompiani o Città Nuova o Qiqajon o cosa vi va, e capite tutto. Insomma, Dick coltiva la scrittura perpetua, fino a frangerla in orazione, non tanto per forgiare il proprio “immaginario” – per viverlo, piuttosto. In effetti, chi legge Dick lo legge per quello: entrare nella sua testa, restare impaniato in un universo autonomo, autentico. E ciò si attua per dedizione e azzardo. Poligrafo, eremita del verbo, visionario, allucinato pioniere di verità arcaiche, Dick ha scritto cancellandosi. È stato, lentamente, riscoperto, dal cinema, dall’editoria: in Italia, l’editore Fanucci vive, con talento, sulle sue opere, ristampate con costanza monastica – già sei quest’anno, da Ma gli androidi sognano pecore elettriche? a Confessioni di un artista di merda. Negli Usa l’ultimo dei sovversivi, il dissidente letterario, l’uomo che ha capovolto l’icona dello scrittore ‘romantico’ – più che concentrarsi in una sola opera, rivelativa, si è frantumato in centinaia, frutto di un estremismo implacabile – è diventato un ‘classico’, che paradosso. Nella prestigiosa Library of America le sue opere stanno al fianco di Emily Dickinson e John Dos Passos, tra Raymond Carver e T.S. Eliot e Ralph Waldo Emerson. Ne sarebbe felice? Chissà, vero è che l’America ingurgita e partorisce miti. Dick è antologizzato in tre volumi della LOA, Four Novels of the 1960s (dove sono raccolti anche Ubik e Do Androids Dream of Electric Sheep?), Five Novels of the 1960s & 70s e Valis & Later Novels. I libri sono curati dallo scrittore Jonathan Lethem – ben tradotto da noi, ora in catalogo La Nave di Teseo – di cui minimum fax ha pubblicato la raccolta di saggi Crazy Friend. Io e Philip K. Dick. Qui Lethem dice qualcosa intorno al talento narrativo di Dick. Inesplicabile sottraendo i concetti di rischio e ossessione, che vanno percorsi con ferocia lunare. (d.b.)
***
Di tutti gli scrittori di fantascienza del ventesimo secolo, perché Philip K. Dick è colui che – a giudicare dalla ristampa dei suoi romanzi e dei film tratti dalle sue opere – ha catturato maggiormente l’immaginazione popolare?
È popolare in un modo diverso rispetto a qualsiasi altro scrittore. L’ho battezzato come il Lenny Bruce della fantascienza. Venendo dalla stessa tradizione e usando gli stessi materiali di altri scrittori di fantascienza era, in un certo senso, la risposta di quest’ultima alla Beat Generation. Era l’ultimo outsider, l’anticonformista, il dissidente. All’epoca in cui entrò nell’ambiente, la fantascienza era interessata ai veri sviluppi scientifici, al potenziamento dell’esplorazione spaziale e a una cognizione super-razionale. Al contrario, Dick era in sintonia con l’inconscio, l’irrazionale, il paranoico, l’impulsivo. Le sue storie avevano una natura selvaggiamente allucinatoria che trattava come se fosse razionale. Oggigiorno le storie degli altri scrittori di fantascienza non sono così razionali come si sosteneva. Erano, piuttosto, in preda a un’immaginazione favolosa o alla realizzazione del proprio desiderio. Stavano scrivendo fiabe, per lo più. Ma Dick si è impegnato nel modo più diretto narrando il ritorno del terrore e dell’irrazionale nella società tecnologica contemporanea. Ecco perché la fantascienza era importante per cominciare: la fantascienza nel suo modo goffo, sdolcinato e parziale stava prendendo il toro per le corna.
Era solo in questo ruolo oppure faceva parte di un movimento?
All’inizio faceva parte di un gruppo di scrittori piuttosto noti, i Galaxy writers, chiamati così perché avevano pubblicato i loro racconti sulla rivista Galaxy. Robert Sheckley, Frederick Pohl, Cyril Kornbluth, William Tenn e molti altri, stavano spingendo la fantascienza verso un uso maggiore del commento satirico e sociale. Usavano la satira per mostrare alcune trappole, paradossi e perversità del capitalismo di consumo. Dick partecipò a questo movimento e continuò a essere un acuto critico del tardo capitalismo. Intuì la potenza pervasiva dell’era della pubblicità per la coscienza, ad esempio. Quello che ha fatto Dick è stato prendere le tendenze di questo movimento attratte dalle critiche sociali e aggiungere ad esse questa qualità quasi insopportabilmente personale, emotiva, intima. I suoi personaggi non vivono solo in futuri paranoici, ne sono completamente in balia. Un universo assurdo e surreale, come talvolta potevano essere le immagini e le idee dei suoi libri, che Dick analizzava sempre in modo accurato. Le difficoltà dei suoi personaggi non sono mai state divertenti per lui, bensì straordinariamente terrificanti. Questo è ciò che lo rende così distinto, non solo da altri scrittori di fantascienza, ma anche da altri scrittori postmoderni a cui potrebbe essere associato, come Thomas Pynchon, Kurt Vonnegut, Donald Barthelme e Richard Brautigan, che hanno lavorato su materiali paradossali e fantastici. Dick si dedica alle sue visioni con un’intensità emotiva diversa da qualsiasi altro scrittore. Scava più a fondo fino ad arrivare, nelle situazioni narrative edificate nei suoi romanzi, a una scelta di vita o di morte. I suoi libri hanno sempre questa duplicità: c’è uno strato di inventiva satirica o fantastica – una tra le più grandi idee di tutta la storia letteraria – ma c’è anche questo interesse emotivo e personale. Mette sempre a rischio tutto ciò che ha. I personaggi sono profondamente vulnerabili, imperfetti e in balia delle situazioni che vivono.
Questo accade perché c’è meno distacco tra Dick e i suoi personaggi?
C’è un sottile distacco tra Dick e i suoi personaggi. Tutto questo riguarda il fatto che Dick era uno scrittore impulsivo, esplosivo, prolifico e non aveva assolutamente il controllo della scrittura. Questo è il motivo per cui c’è una variazione nella prosa ed è anche il motivo per cui alcune persone trovano in qualche modo imbarazzante la sua scrittura. Scriveva con una sorta di intensità visionaria priva di convenevoli, ripensamenti e revisioni che si potrebbe desiderare che uno scrittore necessitato a fare.
Molti scrittori – penso a Robert Heinlein e Stephen King – ricevono questa critica: le loro idee sono migliori della loro scrittura. Eppure la prosa di Dick sembra godere di una cura speciale…
È uno scrittore così profondamente umano e intelligente, Dick, così impegnato, che la prosa trasmette un’enorme quantità di significati, anche nella sua forma più imbarazzante. Direi che i quattro romanzi raccolti in Four Novels of the 1960s sono tra i più realizzati, i meno infelici fra tutte le sue opere. Ubik, che potrebbe essere il suo capolavoro, ha nei primi capitoli del materiale dispersivo, che fa perdere tempo e un po’ scoraggia il lettore profano. Per questo motivo quando consiglio a qualcuno il lavoro di Dick, dico che il secondo libro diventerà il loro preferito. Per sempre. Qualunque esso sia. Ne hanno letto uno e dicono: “Oh, questo è un po’ strano, un po’ bizzarro. Voglio leggerne un altro”. Poi in qualche modo si spostano nell’ottica in cui lavora lo scrittore e diventano dei devoti.
Questi sono i quattro romanzi migliori di Dick?
Se si deve scegliere un solo decennio emblematico del suo lavoro, allora bisogna prediligere gli anni ’60. Questi anni rappresentano il vertice della sua carriera, ma in quel decennio ci sono almeno altri quattro romanzi affini ai quelli scelti: Cronache del dopobomba, Illusione di potere, Labirinto di morte, Noi marziani. Questi sono tutti romanzi superbi, singolari e completamente realizzati e tutti degli anni ’60, un decennio incredibilmente prolifico in cui Dick ha scritto altri dieci o dodici libri. Questo volume comincia con il miglior libro introduttivo: La svastica sul sole. È un libro che attira i lettori ed è il più avvincente, in particolare per un lettore non di genere. È un’opera straordinariamente appassionante e scrupolosa, ma non è il sogno ad occhi aperti di qualcuno che si è appena chiesto cosa succederebbe se i nazisti avessero vinto la guerra. Tutti i personaggi nazisti minori sono studiati. Dick ha scritto questa realtà quasi come un’alternativa agli studi accademici.
Come spiega la straordinaria produzione dello scrittore?
Merito, in parte, delle anfetamine. Pensare a Dick biograficamente e pensare alle sue abitudini di scrittore può essere affascinante e sconcertante perché nessuno potrebbe spiegare la qualità torrenziale del suo lavoro. Ci sono diverse cose che si possono indicare, ma sono tutte spiegazioni parziali. Le anfetamine sono una di queste spiegazioni. Ci sono buoni motivi per chiedersi se soffrisse di un raro disturbo neurologico chiamato epilessia del lobo temporale, che ha associato esperienze visionarie involontarie alla grafomania – scrittura frenetica, scrittura compulsiva. Se si vogliono fare alcune diagnosi speculative, ci sono delle connessioni con altri mistici e visionari religiosi sono noti per la loro scrittura ossessiva come, per esempio, Santa Teresa d’Avila. Ebbe visioni straordinarie e poi trascorse anni a scrivere infinite spiegazioni di queste visioni in crisi di grafomania. Dick è una figura molto provocatoria a cui pensare in questi termini. È un personaggio esemplare per la strana intensità auto-didattica del suo lavoro.
Nel suo saggio, “You Don’t Know Dick”, racconta le proprie esperienze giovanili rintracciando rare copie fuori stampa di libri tascabili di Dick nelle librerie di Brooklyn. Chi scopre Dick per la prima volta nell’edizione della Library of America vivrà chiaramente un’esperienza completamente diversa…
È una cosa incredibile pensare al viaggio che questo scrittore ha intrapreso. Non si può fare a meno di desiderare che possa in qualche modo sapere che cosa stia succedendo. Era la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, vivevamo in un mondo diverso, molto meno dickiano di ora. La cosa straordinaria del suo lavoro è quanto il mondo lo abbia raggiunto, aderendo alle sue visioni. Questo è vero in senso generale: l’iconografia della fantascienza, i tipi di materiali, le immagini e le metafore che Dick stava esplorando sono abbastanza comuni nella cultura di oggigiorno. Tutti sono al corrente su cosa sia un androide. Non è esotico. Fa semplicemente parte del vocabolario della cultura. Trenta o quarant’anni fa, non era così. Ma anche, in modi intensamente particolari e peculiari, le visioni di Dick – sebbene non fosse interessato ad essere uno scrittore profeta –, le sue intuizioni sul futuro media, sulla cultura commerciale, erano infallibili. Viviamo in un mondo pieno di pubblicità invasiva che colonizza la mente, nel pieno del marketing virale che aveva predetto quando sembrava assurdo farlo. Viviamo davvero nel suo universo e, in un certo senso, nel suo cervello. Chi lo leggerà per la prima volta, troverà così tanto sul mondo in cui viviamo, in una forma peculiare e strana, ma lo troverà assolutamente pertinente e attuale.
Come vedeva se stesso Dick?
Domanda molto complicata. Aveva tremende e contrastate aspirazioni di essere riconosciuto come scrittore letterario, letterato, tanto da considerarsi fallito in questo senso. Tuttavia, in altri modi, sentiva di aver realizzato – e giustamente – grandi cose in questa forma disprezzata e che non erano state riconosciute. A volte crede di aver compreso ciò che nessuno ha visto, altre di aver perso tutte le sue possibilità. Talvolta era provocatorio e orgoglioso della fantascienza, un antidoto al conformismo, alla docilità e alla tendenza del mainstream a non esaminare lo status quo. Si sentiva un ribelle ed era orgoglioso di esserlo. Non era particolarmente interessato a preparare le persone al futuro o a predire il futuro. Era un fantasista e un narratore e le sue estrapolazioni erano satire del presente piuttosto che previsioni. Eppure, paradossalmente, nella loro accuratezza, nella loro vividezza, nei suggerimenti della realtà che vide incorporati nel mondo degli anni ’50 e ’60, estrapolandoli e satirizzandoli, predisse il futuro in modo accurato.
Dick si considerava un innovatore?
Penso che il radicalismo nel suo lavoro non operi nel modo in cui gli scrittori o i critici di solito pensano allo stile. Ma c’è un radicalismo formale nel suo lavoro, nel modo in cui ha strutturato i suoi romanzi, in cui ha composto le scene, in cui fa evolvere i racconti, in cui confonde diversi tipi di materiale, toni differenti come la tragedia e la satira: questo è il livello nel quale c’è uno sforzo cosciente, orgoglioso, sperimentale, radicale e innovativo. Non è esattamente quello che si pensa normalmente come stile. È più una questione di forma.
Dick si considerava parte di una tradizione americana di scrittura fantastica risalente a H. P. Lovecraft?
Quando, a metà degli anni ’30, gli scrittori di fantascienza iniziarono ad articolare il genere, trassero un po’ di forza dalla consapevolezza degli scrittori horror e fantasy lovecraftiani. Si sono anche definiti in qualche modo in opposizione. L’horror era un tipo oscuro e onirico di scrittura, mentre gli scrittori di fantascienza pensavano che stessero facendo un tipo di scrittura lucido e ottimista. Questa opposizione potrebbe non sembrare così semplice in retrospettiva. Erano tradizioni alleate, alleate dalla loro differenza sulla credibilità letteraria. Dick non ha mai fatto commenti specifici su Lovecraft di cui sono a conoscenza. Ci sono alcune profonde tendenze che hanno in comune. Dick si dilettava in quello che gli scrittori di fantascienza dell’epoca consideravano il genere fantasy. C’è un romanzo, La città sostituita, e alcuni racconti abbastanza realizzati – in particolare, “Il re degli elfi” e “La cosa-padre” – dove Dick sta deliberatamente scrivendo come uno scrittore fantasy o horror piuttosto che come uno scrittore di fantascienza. Dick li avrebbe pensati più come una migrazione consapevole attraverso una “membrana” in un altro campo di operazioni. Queste tradizioni ora sembrano così correlate tra loro che queste distinzioni non sembrano così importanti.
Adesso Dick è molto popolare tra i produttori cinematografici. All’epoca, invece, lavorava con molti scrittori di fantascienza – come Ray Bradbury e Rod Serling – che stavano producendo sceneggiature per la televisione. Dick ha mai vissuto questa esperienza?
Ci ha provato alcune volte perché, per un artista affamato com’era, quello gli sembrava un buono pasto. Eppure non aveva la capacità di calzare il suo stile selvaggio e visionario nella trasposizione in formato televisivo di 30 minuti. I suoi pochi tentativi furono piacevolmente senza speranza. Ha scritto solo una sceneggiatura, un adattamento di Ubik. Ancora una volta, un esperimento senza speranza. Tra i suoi articoli sono stati trovate alcune sinossi per programmi tivù in cui stava ovviamente cercando di commercializzarsi, ma sono troppo eclettici, ellittici, pieni di dettagli. Non poteva semplificare il contenuto al livello che sarebbe stato necessario. Il suo stile compositivo non ha a che fare con le serie televisive di fantascienza degli anni ’60 che ricordiamo.
*L’intervista è stata originariamente pubblicata qui; la traduzione è di Caterina Rosa
L'articolo “È stato l’ultimo dissidente, una specie di Teresa d’Avila della fantascienza”. Su Philip K. Dick proviene da Pangea.
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LA PAURA, LA VIOLENZA, L’ELETTROSHOCK
ALDA MERINI RACCONTA I SUOI TERRIBILI OTTO ANNI IN UN OSPEDALE PSICHIATRICO
«Quando venni ricoverata per la prima volta in manicomio, ero poco più di una bambina, avevo sì due figlie e qualche esperienza alle spalle, ma il mio animo era rimasto semplice, pulito, in attesa che qualche cosa di bello si configurasse al mio orizzonte; del resto, ero poeta e trascorrevo il mio tempo tra le cure delle mie figlie e il dare ripetizione a qualche alunno, e molti ne avevo che venivano e rallegravano la mia casa con la loro presenza e le loro grida gioiose.
Insomma, ero una sposa e una madre felice, anche se talvolta davo segni di stanchezza e mi si intorpidiva la mente. Provai a parlare di queste cose a mio marito, ma lui non fece cenno di comprenderle e così il mio esaurimento si aggravò e, morendo mia madre, alla quale io tenevo sommamente, le cose andarono di male in peggio, tanto che un giorno, esasperata dall’immenso lavoro e dalla continua povertà e poi, chissà, in preda ai fumi del male, diedi in escandescenze e mio marito non trovò di meglio che chiamare un’ambulanza, non prevedendo certo che mi avrebbero portata in manicomio.
Fu lì che credetti di impazzire
Ma allora le leggi erano precise e stava di fatto che ancora nel 1965 la donna era soggetta all’uomo e che l’uomo poteva prendere delle decisioni per ciò che riguardava il suo avvenire.
Fui quindi internata a mia insaputa, e io nemmeno sapevo dell’esistenza degli ospedali psichiatrici perché non li avevo mai veduti, ma quando mi ci trovai nel mezzo credo che impazzii sul momento stesso: mi resi conto di essere entrata in un labirinto dal quale avrei fatto molta fatica a uscire.
Mi ribellai. E fu molto peggio
La sera vennero abbassate le sbarre di protezione e si produsse un caos infernale. Dai miei visceri partì un urlo lancinante, una invocazione spasmodica diretta ai miei figli e mi misi a urlare e a calciare con tutta la forza che avevo dentro, con il risultato che fui legata e martellata di iniezioni calmanti.
Non era forse la mia una ribellione umana? Non chiedevo io di entrare nel mondo che mi apparteneva? Perché quella ribellione fu scambiata per un atto di insubordinazione? Un po’ per l’effetto delle medicine e un po’ per il grave shock che avevo subito, rimasi in stato di coma per tre giorni e avvertivo solo qualche voce, ma la paura era scomparsa e mi sentivo rassegnata alla morte. [...]
Questo è un piccolo brano tratto da “L’altra verità. Diario di una diversa”, un’opera profonda e toccante in cui Alda Merini, scrittrice e poetessa straordinaria, racconta in maniera unica la terribile esperienza dell’internamento negli ospedali psichiatrici in cui passò dieci anni della sua esistenza.
Un’opera in cui attraverso pagine di diario, lettere e versi l’autrice cerca di trasmettere un mondo che difficilmente può comprendere chiunque non abbia avuto la sfortuna di viverlo.
Cannibali e Re
Cronache Ribelli
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