#Istituto Beccaria
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pier-carlo-universe · 3 months ago
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"A Scuola di… Genitori": Un Progetto per Sostenere le Famiglie a Casale Monferrato
Prossimo Incontro il 15 Novembre per Approfondire il Disagio dei Giovani con Esperti e Professionisti
Prossimo Incontro il 15 Novembre per Approfondire il Disagio dei Giovani con Esperti e Professionisti Il Progetto “A Scuola di… Genitori”: Un Supporto per le Famiglie di Casale Monferrato Nell’ambito delle iniziative a sostegno della genitorialità e della crescita familiare, l’associazione I Care Family, guidata dalla dottoressa Renza Marinone, ha lanciato il progetto “A Scuola di… Genitori”.…
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m2024a · 5 months ago
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Paderno Dugnano, il 17enne racconta la notte della strage Emergono sempre più dettagli sulla strage di Paderno Dugnano, alle porte di Milano, dove un 17enne, nella notte tra il 31 agosto e il primo settembre, ha ucciso con 68 contellate il padre, la madre e il fratello di 12 anni. A raccontare quei terribili momenti è stato proprio il giovane, detenuto in carcere Emergono sempre più dettagli sulla strage di Paderno Dugnano, alle porte di Milano, dove un 17enne, nella notte tra il 31 agosto e il primo settembre, ha ucciso con 68 contellate il padre, la madre e il fratello di 12 anni. A raccontare quei terribili momenti è stato proprio il giovane, detenuto in carcere. Il compleanno del padre Gli omicidi sono avvenuti poche ore dopo i festeggiamenti per il 51esimo compleanno del papà. «È stata la sera della festa che ho pensato di farlo, non avevo ancora ideato questo piano, però avevo pensato di usare comunque il coltello perché era l'unica arma che avevo a disposizione in casa", ha messo a verbale l'adolescente. «Se ci avessi pensato di più non l'avrei mai fatto, perché è una cosa assurda», ha aggiunto. Ferocia e premeditazione Il racconto della strage è avvenuto durante l'interrogatorio di un'ora e mezza nel carcere minorile Beccaria di Milano, al termine del quale la gip Laura Margherita Pietrasanta ha convalidato l'arresto e disposto la custodia cautelare detentiva, con la possibilità di trasferimento anche in altro istituto penitenziario minorile. La giudice ha evidenziato la «singolare ferocia e l'accanimento nei confronti delle vittime», ma anche la «preordinazione dei mezzi» e la «propensione a cambiare e aggiustare la versione dei fatti». Oltre alla «pericolosità sociale» e alla sua «incapacità a controllare i propri impulsi». Da qui il pericolo di reiterazione del reato, ossia che possa ancora uccidere, e pure la conferma del quadro accusatorio, nell'inchiesta dei carabinieri e della procuratrice facente funzione Sabrina Ditaranto e della pm Elisa Salatino, e dell'imputazione di triplice omicidio pluriaggravato anche dalla premeditazione. L'enigma del movente Riguardo all'enigma sul movente, le parole del giovane girano ancora attorno a quel malessere per il quale lui voleva trovare una «soluzione». Ha raccontato che già da «qualche anno» aveva maturato «l'idea di vivere più a lungo delle persone normali, anche per conoscere il futuro dell'umanità» e aveva iniziato a «sentirsi un estraneo». Aveva pensato di scappare, di andare in Ucraina, ma non gli sembravano soluzioni utili per il suo «scopo». La strage causata dal «malessere» «Volevo proprio cancellare tutta la mia vita di prima", ha cercato di chiarire il ragazzo, dicendo, però, pure che non ce l'aveva con la famiglia nello specifico. «È da quest'estate che sto male, ma già negli anni scorsi mi sentivo distaccato dagli altri. Forse il debito in matematica può avere influito». Sentiva, comunque, la pressione della famiglia. E ancora: «Ogni tanto i miei genitori mi chiedevano se c'era qualcosa che non andava, perché mi vedevano silenzioso, ma io dicevo che andava tutto bene». Percepiva «gli altri come meno intelligenti e spesso non mi trovavo bene in certi ragionamenti o ritenevo che si occupassero e preoccupassero di cose inutili». Le ultime parole del padre Negli atti si legge tutta l'atroce ricostruzione della strage. «I miei genitori - ha affermato - sicuramente mi hanno parlato chiedendomi cosa fosse successo e perché avessi l'arma in mano. Io però non ricordo se li ho colpiti anche in camera loro». Sono stati «svegliati dalle urla di mio fratello». Nelle relazioni degli esperti il giovane ha detto che lui pensava «alle guerre e mi commuovevo pensando a queste situazioni», mentre «questo non lo vedevo in amici e familiari». La testimonianza del nonno materno Il nonno materno, che testimoniando ha parlato di una «famiglia perfetta» all'apparenza e che ora può incontrarlo con gli altri familiari, ha spiegato che il nipote gli ha detto che l'aveva fatto perché voleva «lasciare i beni materiali» e lui aveva inteso che voleva «staccarsi dai genitori». Gli ha chiesto pure perché se la fosse presa anche col fratello di 12 anni, fino ad ucciderlo, e il 17enne ha risposto: «Non sarei riuscito ad abbandonarlo».
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paoloxl · 6 years ago
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Il contributo di Paola Altrui in occasione della presentazione del dossier “Repressione e diritto al dissenso“
All’inizio di febbraio, il Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha pubblicato un “Rapporto tematico sul regime detentivo speciale ex art. 41-bis dell’Ordinamento penitenziario”, contenente le risultanze delle 14 visite effettuate da tale organo collegiale, tra il 2016 e il 2018, presso le 12 Sezioni per detenuti in regime speciale previste dal predetto art. 41-bis.
In tali Sezioni risultavano detenuti 738 uominie 10 donne; al 19 gennaio del 2019, solo 363 su 748 di essi – di cui 4 donne – avevano una posizione giuridica definitiva (erano cioè stati condannati con una sentenza penale passata in giudicato); 51 di esse risultavano detenute in “Aree riservate”.
Il Rapporto reca 18 Raccomandazioni in ordine ad altrettanti profili di criticità riscontrati; esse tengono conto, fra l’altro, delle pronunce della Corte costituzionale che hanno riguardato l’art. 41-bis e delle prescrizioni impartite in materia dal Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura (CPT), della quale lo stesso Presidente dell’Autorità Garante, Mauro Palma, ha fatto parte fino al 2011.
È bene ricordare che la Corte costituzionale, più volte interpellata sul punto, ha ritenuto il regime detentivo speciale ex art. 41-bis non incompatibile con i principi costituzionali in materia di diritti fondamentali della persona (art. 2), di inviolabilità della libertà personale (art. 13) e di finalità rieducativa della pena (art. 27) a due precise condizioni:
che nessuna misura sospensiva dell’ordinario trattamento penitenziario (quale l’art. 41-bis) comporti restrizioni della libertà ulteriori rispetto a quelle derivanti dalla detenzione;che, in ogni caso, la relativa applicazione non determini mai la violazione del divieto di trattamenti disumani e degradanti, ovvero vanifichi la finalità rieducativa della pena.
È importante tener presenti tali presupposti perché è proprio l’eventuale conflitto con gli stessi, empiricamente verificato, a chiarire se ed in quali casi una misura cui è assegnata una funzione asseritamente cautelare assolva, in realtà, ad una finalità ulteriormente —ed illegittimamente— afflittiva nei confronti del detenuto.
Il regime detentivo speciale noto come “41-bis” nasce nel 1995 come misura emergenziale e provvisoria, al fine dichiarato di impedire che i capi e i gregari delle associazioni criminali possano continuare a svolgere, ancorché in stato di detenzione, funzioni di comando e direzione rispetto ad attività criminali poste in essere da altri criminali in libertà.
Nella formulazione originaria, pertanto, era prevista la sospensione temporanea del trattamento detentivo ordinario “quando ricorrano gravi ed eccezionali motivi di ordine e di sicurezza”; tuttavia, dopo una serie di proroghe, nel 2002 il 41-bis è entrato a regime nell’Ordinamento penitenziario, trasformandosi pertanto da misura straordinaria in istituto ordinario.
Tale normalizzazione ha trovato uno straordinario —e probabilmente calcolato— supporto nella valenza simbolica assunta presso l’opinione pubblica dal c.d. “carcere duro”, quasi che dichiararsi a favore o contro di esso implicasse, per ciò solo, lo schierarsi contro la criminalità organizzata ovvero il non prenderne sufficientemente le distanze. Plausibilmente, è proprio la difficoltà di ricondurre la trattazione del tema su un piano razionale a rendere arduo e impopolare ogni tentativo di affrontarne le ricadute sul versante della legittimità: ne ha fatto le spese lo stesso Presidente dell’Autorità Garante, il quale, a seguito della pubblicazione sulla pagina Facebook “Polizia penitenziaria – Società, Giustizia e Sicurezza” di un articolo che richiamava alcune criticità da lui evidenziate nel Rapporto sul regime detentivo speciale del 41-bis, è divenuto bersaglio di minacce e intimidazioni.
Tra le prassi carcerarie rispetto alle quali l’Autorità Garante ha formulato specifiche Raccomandazioni troviamo, a titolo esemplificativo: la presenza di sezioni o raggruppamenti costituiti da meno di tre persone detenute (n. 3); la ritardata esecuzione dei provvedimenti della Magistratura di sorveglianza (n. 7); l’apposizione di schermature stratificate alle finestre, sì da ridurre al minimo il passaggio di luce e aria fresca (n. 8); l’irrogazione di misure disciplinari ai detenuti che salutino un’altra persona ristretta chiamandola per nome (n. 12); il ricorso eccessivo alla misura dell’isolamento (n. 13); la concorrenza fra il tempo destinato alla lettura per mezzo del computer fisso e quello riservato ad attività esterne, sì da renderli alternativi fra loro (n. 15); l’imposizione di preclusioni eccessivamente rigorose alla fruizione dei canali televisivi (n. 6) e all’acquisto e alla disponibilità di organi di stampa e pubblicazioni (n. 16).
Nessuna, fra le predette prassi, risulta funzionale all’esigenza cautelare che costituisce presupposto e limite all’applicazione del regime detentivo speciale del 41-bis; molte di esse, al contrario, interferiscono con il percorso di recupero cui la Riforma del 1975 finalizza la detenzione, di fatto precludendo la rieducazione del condannato.
Il contrasto stridente tra la finalità dichiarata e quella effettivamente perseguita dal c.d. “carcere duro” (di fatto, indurre il detenuto alla collaborazione, fungendo altresì da deterrente nei confronti di coloro che operano nell’ambito della stessa o di altre associazioni criminali) impone pertanto, se non la totale espunzione dall’ordinamento del regime detentivo speciale ex art. 41-bis, quantomeno una significativa rivisitazione delle sue concrete modalità applicative, affinché le stesse non si traducano in una afflizione aggiuntiva e lesiva della dignità umana, oltre che confliggente con i principi costituzionali in materia di responsabilità penale e finalità rieducativa della pena.
Non sfugge, difatti, che una simile modalità di espiazione della pena (estesa, ricordiamolo, anche a soggetti la cui posizione giuridica non è ancora definitiva) prescinde da ogni valutazione in concreto circa il percorso di recupero più idoneo alla rieducazione del detenuto: giungendo addirittura a vanificarla quando, come spesso avviene, la cessazione del 41-bis e quella della pena detentiva avvengono contestualmente o a breve distanza l’una dall’altra. In tale ottica, ogni automatismo che correli la pena al reato anziché al reo, impedendo la sua individualizzazione, la priva, per ciò stesso, della sua finalità rieducativa, finendo per assolvere a una funzione meramente retributiva.
Ammesso, poi, che possa stilarsi una graduatoria delle pratiche degradanti, è la prassi richiamata dalla Raccomandazione n. 1 a suscitare la maggiore esecrazione: la previsione di apposite sezioni di “Area riservata” all’interno degli Istituti che ospitano Sezioni di regime detentivo speciale.
Tali Aree sono separate dalle altre che accolgono detenuti sottoposti al 41-bis, e sono destinate alle persone ritenute “apicali” dell’organizzazione criminale di appartenenza; vi si applica un regime detentivo ancora più rigoroso e al limite della tollerabilità, con limitazioni che talora comportano il quasi sostanziale isolamento della persona detenuta.
Proprio per evitare di incorrere nella violazione formale delle norme che regolano l’istituto dell’isolamento, viene spesso collocato nell’Area riservata anche un altro detenuto che non avrebbe titolo a starvi, ma che —nel crudo e spietato gergo carcerario— assolve alla funzione di “Dama di compagnia” nei momenti di “socialità binaria” e durante i passeggi.
La legittimazione formale di tale segregazione risiederebbe, secondo il Governo italiano (interpellato al riguardo dal CPT), nell’art. 32 del dPR 230/2000, che tuttavia concerne “la collocazione più idonea di quei detenuti e internati per i quali si possano temere aggressioni o sopraffazioni da parte dei compagni”. Tale esigenza cautelare, tuttavia, non risulta allegata né comprovata rispetto ai detenuti collocati nelle Aree riservate; e, men che meno, nei confronti dei detenuti loro assegnati per compagnia, i quali si trovano pertanto assoggettati a un regime detentivo di estremo rigore in modo del tutto ingiustificato (oltre che lesivo del principio di personalità della responsabilità penale).
Come ricordato dall’insigne giurista Andrea Pugiotto, Cesare Beccaria ebbe ad affermare che “Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa”.
Se ciò è vero, un sistema detentivo incentrato solo sul contenimento delle persone in uno spazio e nella loro sottoposizione a limiti e obblighi (aggiuntivi alla pena detentiva e non giustificati da esigenze concrete) riduce le persone a cose, ed è offensivo della dignità umana tanto nella sua accezione statica quanto nella sua proiezione dinamica, come meta da riconquistare. È un sistema, dunque, di per sé destinato a inverare quel “trattamento disumano e degradante” che l’art. 27 della Costituzione e l’art. 3 della CEDU espressamente vietano.
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tmnotizie · 6 years ago
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URBINO – Rebecca Bertolini del Liceo Scientifico Fanti di Carpi (MO) per la lingua inglese, Stefania Massimo del Liceo Nervi-Ferrari di Morbegno (SO) per la lingua francese, Alan Poggio dell’Istituto Superiore Curie-Vittorini di Grugliasco (TO) per la lingua tedesca e Chiara Fassoli del Liceo Scientifico Leonardo di Brescia per la lingua spagnola sono i vincitori della nona edizione del campionato nazionale delle lingue organizzato dall’università degli studi di Urbino Carlo Bo con il sostegno di UBI Banca.
I vincitori hanno superato una selezione fra i 18mila studenti del quinto anno delle superiori provenienti da tutta Italia iscritti a questa edizione del campionato. Le prove per l’accesso alla fase finale, iniziate lo scorso 15 ottobre e durate un mese, si sono svolte, tramite una piattaforma online realizzata dal Centro linguistico d’ateneo dell’università, direttamente nei laboratori linguistici delle scuole di provenienza, alla presenza dei docenti.
I 120 primi classificati di questa selezione, 30 per ogni lingua, si sono sfidati giovedì 14 febbraio a Urbino nelle semifinali, dove hanno dovuto affrontare un test al computer e un colloquio. I 10 migliori semifinalisti di ogni categoria si sono poi scontrati venerdì 15 febbraio nelle finali, dove hanno dovuto preparare un testo di scrittura creativa.
Oltre ai quattro vincitori assoluti per ciascuna lingua, è stato anche assegnato il premio speciale UBI Banca per prova di scrittura creativa più fantasiosa, estrosa e originale, che è andato a Noemi Albesano del Liceo Vasco-Beccaria di Govone-Mondovì (CN). Al secondo e terzo posto nella lingua inglese si sono classificati Lea Vergallo del Liceo Scientifico Aldo Moro di Reggio Emilia e Antonia Baresani Varini del Liceo Scientifico Calini di Brescia, nella lingua francese Sofia Basso dell’Educandato Femminile Setti Carraro di Milano e Sara Mombelli del Liceo Gambara di Brescia, nella lingua tedesca Sveva Federica Tecchia dell’Istituto Superiore Sella di Biella e Anna Russi dell’Educandato Femminile Uccellis di Udine, nella lingua spagnola Giulia Picchi del Liceo Galilei-Grattoni di Voghera (PV) e Maria Alice Grossi del Liceo Virgilio di Mantova.
I vincitori di ogni categoria avranno la possibilità il prossimo anno di iscriversi all’Università di Urbino con il totale abbuono, per il primo anno, delle tasse universitarie. Il campionato nazionale delle lingue di Urbino è stato riconosciuto, per il secondo anno consecutivo, dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR) come competizione inserita nel programma annuale per la valorizzazione delle eccellenze scolastiche.
Sono oltre 50mila gli studenti che, a partire dalla prima edizione del 2011, hanno partecipato alle varie edizioni del campionato nazionale delle lingue.
“Il campionato nazionale delle lingue rappresenta una delle iniziative più prestigiose e di successo che contraddistinguono questa università- ha spiegato Vilberto Stocchi, Rettore dell’Università Carlo Bo di Urbino- il successo di questa manifestazione, che ha visto la partecipazione in questa nona edizione di ben 18mila studenti, conferma la bontà del nostro progetto che tende a mettere in luce i migliori talenti fra le nuove generazioni e ad avvicinarli in modo graduale al mondo dell’università e a quello del lavoro”.
“L’Università di Urbino è particolarmente soddisfatta per la collaborazione con UBI Banca -ha dichiarato Enrica Rossi, coordinatrice scientifico-didattica del campionato nazionale delle lingue- si consolida un rapporto di reciproca collaborazione fra l’università e il principale istituto di credito delle Marche che ci consente di proseguire nel comune percorso di valorizzazione delle eccellenze scolastiche”.
“Il supporto a questa importante iniziativa fa parte di un ampio progetto di UBI Banca dedicato ai giovani e sviluppato a livello nazionale- ha dichiarato Vincenzo Algeri, Responsabile dell’Area UBI Comunità, la divisione di UBI Banca specializzata nel no profit e nei rapporti con il territorio- sono infatti molte le iniziative che ogni anno vengono realizzate nei territori di presenza della Banca, per esempio nell’ambito dell’Educazione Finanziaria: solo nello scorso anno scolastico, sono stati coinvolti circa 16.800 studenti in 25 province d’Italia attraverso attività specifiche mirate ad offrire loro strumenti di alfabetizzazione economica utili a formare cittadini responsabili”.
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allmadamevrath-blog · 6 years ago
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La Tortura. L'abolizione della tortura
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LA TORTURA
L'abolizione della tortura
Il 30 novembre 1786 Leopoldo di Lorena, granduca di Toscana dak 1765 al 1790, promulgò una Riforma Penale con la quale abolì la pena di morte, la tortura e la mutiliazione delle membra. <<Abbiamo veduto con qaunta facilità nella passata legislazione era decretata la pena di Morte per i Delitti anco non gravi, ed avendo considerato che l'oggetto della Pena deve essere la soddisfazione al privato, ed al pubblico danno, La correzione del Reo figlio anche esso della Società e dello Stato, della di cui emenda non può mai disperarsi la sicureza nei Rei dei più gravi ed atroci Delitti che non restino in libertà di commetterne altri, e finalmente il Pubblico esempio; che il Governo nella punizione dei Delitti, e nel servire agli oggetti ai quali questa unicamente è diretta, è tenuo sempre a valersi dei mezi più efficaci col minor male possibile al Reo...avendo altresì considerato, che una ben diversa legislazione della pena di morte ha termine l'uso della tortura e della mutilazione delle membra>>. A suggello di quanto stabilito nella Riforma, il granduca ordinò <<la demolizione delle Forche ovunque si trovino>>, ed è uno strano e incredibile contrappasso il fatto che finirono al rogo le forche e gli strumenti di tortura, bruciati davanti alla folla in tutta la Toscana, a Firenze, lo spettacolo fu organizzato nelle Prigioni del Bargello. Questa legge, trovava la sua isppirazione nelle concezioni filosofiche dell'Illuminismo e soprattutto nell'opera più famosa dell'Illuminismo italiano Dei delitti e delle pene, che Cesare Beccaria pubblicò proprio nel Granducato di Toscana, esattamente a Livorno nel 1764. La polemica illuminista contro i giureconsulti trovò fertile humus nelle corti europee dei sovrani riformatori. Gli scritti del Muratori, del Verri, del Beccaria e di molti altri riuscirono finalmente  dimostrare l'infondatezza della concezione inquisitoria, secondo la quale la tortura è uno strumento indispensabile per ottenere presunte verità, con il quale si può agevolmente piegare il suddito a volere del potere, quale che sia. Il processo inquisitoriale venne quindi ritenuto un luogo dove non poteva esistere la certezza della legge e dove l'arbirio dei giudici era l'unico modo per assicurare il colpevole alla giustizia. Nello Stato pontificio questo istituto decadde solamente con l'arrivo dei rivluzionari francesi nel 1799, per essere ripristinata subito dopo la loro cacciata; nell'opinione dei giuristi pontiici la tortura era l'ultimo baluardo contro il disordine dei <<tempi nuovi>>. Quella dello Stato della Chiesa era tuttavia una battaglia persa, poiché l'incalzare delle riforme avrebbe portato Pio VII a promulgare il Motu Prorio del 6 luglio 1816, a seguito dell'Editto del 5 luglio 1815 nel quale affermava: <<In una gran parte dei domini distaccati da lungo tempo dal Pontificio governo, il ripristino degli antichi metodi si rende pressocché impossibile o tale almeno, che non possa attenersi senza un notevole disgusto delle popolazioni. Nell'articolo 96 il papa stabiliva: <<L'uso dei tormenti e la pena della corda... rimangono perpetuamente aboliti>>. Nelle osservazioni sulla strutura e sinngolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno  1630. Pietro Verri mette in luce i limiti di una concezione del diritto arbitraria e irrazionale attraverso lo studio di documenti relativi alla pestilenza del 1630.Secondo la vox populi la malattia era dovuta a: sicari incaricati di spargere il morbo, usando unguenti infetti. Le prime vittime di questa folle idea furono due cittadini che, sottoposti a tortura, confermarono la loro presunta colpa e i nomi dei complici. Verri rivela come la tortura non sia affatto valida per appurare la verità, ma consenta l'assoluzione del colpevole nel caso in cui costui possieda doti di resistenza al dolore notevoli, e vicceversa porti alla condanna di innocenti che non resistono ai tormenti o hanno una debole costituzione fisica. La Storia della colonna infame del Manzoni, che approfondisce le motivazioni del rifiuto della tortura sottolineando, anchhe l'aspetto sociale del problema: su dieci accusati, cinque vengono condannati, gli altri assolti perché favoriti da una migliore condizione sociale. Ma il rischio più grave è che il toerturato, per terrore, incolpi degli innocenti pur di fsr cessare la tortura. Si innesca un circolo vizioso che non porta a ricostruire la verità dei fatti. quindi annulla l'originaria motivazione del processo inquisitorio. Naturalismo e uguaglianza sono alla base Dei delitti e delle pene. Secondo Beccaria il diritto autentico e la politica morale durevole devono, infatti essere fondati su <<sentimenti indelebili dell'uomo>>; sono pertanto inutili la tortura e la pena di morte mentre le pene devono essere pubbliche, rapide e dolci per non scatenare la ferocia della folla. In particolare Beccaria si scaglia contro la pena di morte, considerato il massimo grado di inciviltà al quale può giungere uno stato civile, e contro la tortura. Se ilcompito della giustizia è la punizionde delle ingiustizie e la cattura dei colpevoli, la tortura fa l'esatto opposto perché colpisce tanto i criminali quanto gli innocenti, costrngendoli con la forza ad ammettere delitti dei quali, possono anche non essere gli autori, ed è evidente a chiunque che sotto tortura anche un innocente finirà per confessare reati che non ha commesso pur di porre fine al supplizio. La tortura è ingiusta perché finisce per essere una punizione che si applica prima della condanna: nessuno può essere definito reo prima della sentenza del giudice. E, una volta sottoposto a tortura, l'innocente è in una condizione peggiore del reo: infatti l'innocente, se viene assolto dopo avere subito la tortura, ha subito un ingiustizia, ma il reo  chi ha solo guadagnato, peché è stato torturato ma, non avendo confessato, è risultato innocente e si è salvato da pene ben più gravi. Dunque l'innocente non può  che perdere e il colpevole guadagnare, nel caso in cui venga assolto. Lo scritto del Beccaria venne stampato anonimo e, gli vennero molte critiche, soprattutto da parte della Chiesa cattolica, che nel 1766 inserì l'opera nell'Indice dei libri proibiti con questa motivazione: <<Autore del Trattato Dei delitti e delle pene. Carattere stravagante, borioso, il Beccaria ispirò il libro delle idee filantropiche e umanitariste del tempo, difendendo gli accusati a torto, le vittime degli errori giudiziari. Filosoficamente il trattato deriva dal Contratto Sociale del Rousseau...La tendenza al paradossale, al sensismo, la esaltazione dell'individuo contro la società, che è sempre imperfetta e tiranna le idee quindi dell'89, se esaltarono Beccaria, fecero però il suo libro riprovato, e dalla Chiesa condannato>>.
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