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#Il nichilismo e i giovani
princessofmistake · 6 months
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I giovani, anche se non sempre lo sanno, stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che costellano la giovinezza, ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive ed orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui. [...] Bisogna educare i giovani a essere se stessi, assolutamente se stessi. Questa è la forza d'animo. Ma per essere se stessi occorre accogliere a braccia aperte la propria ombra. Di forza d'animo hanno bisogno i giovani soprattutto oggi perché non sono più sostenuti da una tradizione, perché si sono rotte le tavole dove erano incise le leggi della morale, perché si è smarrito il senso dell'esistenza e incerta s'è fatta la sua direzione. [...] Alla base dell'assunzione delle droghe, di tutte le droghe, anche del tabacco e dell'alcol, c'è da considerare se la vita offre un margine di senso sufficiente per giustificare tutta la fatica che si fa per vivere. Se questo senso non si dà, se non c'è neppure la prospettiva di poterlo reperire, se i giorni si succedono solo per distribuire insensatezza e dosi massicce di insignificanza, allora si va alla ricerca di qualche anestetico capace di renderci insensibili alla vita.
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ma-come-mai · 3 months
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ATTUALITÀ
Omicidio di Thomas a Pescara: i figli del nulla che vogliono tutto, e quando non basta... Ecco perché aveva ragione Pasolini
28 giugno 2024
Chi sono i (presunti) assassini di Thomas Luciani, il ragazzino colpito da una scarica di coltellate e lasciato morire per un presunto debito di droga di pochi euro? Sono i figli della borghesia, della “Pescara bene”, se questa ancora esiste, ma sono anche i figli del nulla. Quelli che vogliono. Non sanno cosa vogliono, ma vogliono tutto. E quando l’esibire le sneakers, il cellulare, le magliette e le immagini non basta, la risposta è solo una: la violenza. Aveva ragione Pier Paolo Pasolini nei suoi “Scritti corsari”: si regredisce, e…
di Ottavio Cappellani
“Facevano parte della ‘Pescara bene’”, scrivono a proposito dei due sedicenni accusati dell’omicidio di Christopher Thomas Luciani, detto Crox, diciassette anni, albanese, i cui genitori lo avevano affidato alla nonna. “Nessun disagio sociale”, scrivono. I presunti assassini (si scrive così) sono figli di un sottufficiale dei carabinieri e di un avvocato che però insegna. Una lettura da paniere Istat. Quasi che si trattasse dell’omicidio del Circeo: due di destra che uccidono un povero per una questione di rispetto. 25 coltellate contro 250 euro. Ogni dieci euro si ha diritto a infliggere una coltellata, perché io sono il padrone e tu lo schiavo. Li frequento, questi giovani. Li conosco. Ci parlo. È il mio dannato mestiere (“dannato” non è un americanismo: scrivere, studiare, cercare di vedere anziché guardare, è una dannazione, nessuna vanità o compiacimento da intellettuali da queste parti). Con gli scrittori si confidano. Lo fanno in molti. Sperano tutti di finire in una pagina di un libro, un giorno o l’altro, con il nome cambiato, certo, ma con la loro storia ben riconoscibile, in modo da confidare a qualcuno: quello sono io. Io. Io. Io…
L’identità collettiva del consumismo, che all’apparenza dell’apparire si vende come capace di distinguere un io da un altro, cancella di fatto ogni distinzione. Non è più la qualità di un bene a fare la differenza, ma la quantità di danaro che esso vale in un mercato rivolto all’immagine, che oggi non dà più nessuna identità. Sia chiaro, un’identità costruita “per immagini” non è una vera identità; l’identità della classe operaia, con le sue tute da metalmeccanico, la tovaglia cerata, la serena stanchezza della giornata di lavoro; l’identità della borghesia, una volta gli elettrodomestici, l’enciclopedia, il completo dei grandi magazzini (Rinascente, Upim, Standa), oggi la domotica, i device, i brand. Erano e sono identità appiccicaticce, ma che svolgevano e hanno svolto, fino a ieri, il loro sporco lavoro: appartenere a una classe sociale, formare un’identità che nell’epoca del nichilismo non sa dove aggrapparsi.
Ricordo il pezzo di Pier Paolo Pasolini sui capelloni (in “Scritti Corsari”): sta apparendo un nuovo tipo di uomo, lo manifestiamo senza linguaggio, solo con il nostro manifestarci, solo con la nostra immagine, solo con i capelli lunghi. Niente parole. Pasolini procedeva poi, con una lungimiranza profetica, alla critica di questa nuova (per l’epoca) ribellione, contro la generazione dei genitori: i capelloni, non avendo un dialogo con la generazione precedente, non potevano ‘superarla’. Al contrario si trattava di una regressione. Li invitava al dialogo, Pasolini. Parlatene, parlateci. I capelli lunghi, essendo un ‘segno’ senza parole, potevano essere di Sinistra come di Destra (tra gli autori del massacro del Circeo, 1975, uno era capellone).
Parlano invece. Si aprono. Certo, non con i genitori che disprezzano. Parlano con gli amici. Anche solo con i ‘segni’: ‘mostrano’ (da ‘mostro’) il brand di una sneaker, il numero dei follower, un coltello da sub – segni distintivi senza parole. Ed è come parcheggiare lo yacht a Montecarlo: non è mai abbastanza. Non ci sono soldi che bastano. Non esistono più le “Pescara” o le “Milano” o le “Voghera” “bene”. Esiste un mondo dove ci sono gli ultraricchi – italiani, americani, indiani, asiatici, russi – e poi ci sono gli altri. Che non sanno cosa dire. Esseri desideranti. Ultradesideranti. C’era un termine un tempo, e in tanti ne conoscevano il significato, era quasi di uso comune. Significava una bramosia senza oggetto il cui fine non era il possedere qualcosa, ma il possesso in sé, il possesso senza oggetto, il potere (astratto) in luogo della possibilità (concreta). Si chiamava “volontà di potenza” ed era una forma di isteria dell’identità. Oggi se ne parla sempre meno, significherebbe mettere in discussione il modello stesso entro il quale il mondo vive. La ‘volontà di potenza’ viene relegata all’epoca nazifascista, come se fosse il motore di una ideologia autoritaria e bestiale. Ma noi siamo dentro un modello di mondo ideologico e autoritario: quello del denaro, che non solo uccide – anche fisicamente – chi non ne possiede, ma al quale è affidato la creazione dell’identità. E il denaro non parla.
Loro parlano come possono a chi sa ascoltarli, anche se non è un bel sentire. Sì, è una dannazione. Non esiste – e forse non è mai esistita – una società “bene”, se non nelle speranze, nelle pie illusioni. La società è un fagocitarsi a vicenda. Pasolini ci credeva, nel modello identitario passatista: piccoli mondi antichi in cui l’identità era data dal luogo in cui si nasceva e in cui si restava, dai codici di un paese, da una fatalità della classe, di piccoli sogni realizzabili. Ma la ruralità reca con sé una bestialità violenta (di cui, è bene dirlo, Pasolini era vorace). Oggi questi mondi piccoli e violentissimi non esistono più se non nella facciata. Dietro scorre un serpente gigante che chiamiamo rete. La creazione di un’identità attraverso le immagini e le parole è impossibile. I social ci sommergono di modelli, di aspirazioni, di ‘cose’, di ragionamenti, di complotti, di interpretazioni, di lusso, di esibizionismo, di piccole e grandi follie, di tanti punti di vista quanti sono gli account. E così, parlando con loro, parlando con i giovani, parlando con questo “nuovo umano” (non è nuovo, è come sempre è stato, ma adesso lo ‘vediamo’ meglio) ci dicono che “vogliono”. Cosa vogliono? Vogliono e basta. Volontà di potenza: andiamo a comandare.
L’assenza di parole e l’eccesso di parole sono la stessa, identica cosa. La sovra informazione, l’ultra informazione del mondo contemporaneo diventa un rumore bianco. Come diceva Pasolini: si regredisce. L’espressione della propria identità diventa un suono. Non si parla, si emettono suoni. Si mostrano ‘cose’ come code di pavoni. Si torna allo stato di natura. Sopravvive il più forte. Quando l’esibizione di una sneaker, di una maglietta, di un device, di un’auto, di una opinione, non valgono più nulla nel mare magnum delle altre sneaker, delle altre magliette, degli altri device, delle altre auto, delle altre opinioni, resta solo una cosa a dare Potere: la violenza. Voglio il rispetto. Io sono io. Io. Io. Io… I commentatori restano rimminchioniti di fronte a questi episodi di violenza estrema. Tutti a sottolineare che “non c’era disagio sociale”. No? La “Pescara bene” sarebbe quella di una povera (in senso compassionevole) famiglia di impiegati statali? Sì, ragionando secondo i canoni del paniere Istat gli impiegati statali se la passerebbero bene. Se fossimo nel piccolo paese antico senza device, dove già la televisione era una fonte di disturbo e squilibro e liberava sogni deliranti di successo e famosità e volontà di potenza. Ma siamo nell’epoca dei social, dove non c’è ‘bene’ che basti.
Io ci parlo e capisco che vogliono. Non sanno cosa vogliono, ma lo vogliono. A volte, quando le birre diventano troppe, si picchiano tra i tavolini dei bar. I soldi della famiglia ‘bene’ se ne sono andati da un pezzo, nei cristalli di crack, nel fumo, nelle pere, nell’alcol che dà speranze brevi e vane e che alla fine ottunde, nei discorsi che alimentano speranze immancabilmente deluse. Se ne vanno in smartphone, nella droga offerta alle ragazzine sempre più disponibili per una sniffatina, così ci si apre un Of o si inizia a spacciare. Tutti possono fare qualunque cosa. Lo insegnano gli influencer. I social riprendono la televisione che riprende i social. I modelli non mancano. Si esibiscono ricchezze, nudità, e si esibisce anche la malavita. Studiano guardando Gomorra e Peaky Blinders. Funzionano perché vanno a toccare quelle corde lì, le corde della volontà di potenza.
Loro ‘vogliono’. E lo vogliono subito. Come gli influencer, come quelli di Of, come quelli delle serie. Denaro e sesso e violenza (volontà di potenza). Sangue, sesso e denaro: i tre punti cardine di ogni narrazione. E di ogni giornalismo a dire la verità. E vendetta: contro i genitori che non sono mai ricchi abbastanza, contro chi ha più follower, contro chi manca di rispetto. Risucchiati dagli schermi senza alcuna capacità di filtrare le immagini. Bambini che si muovono in un mondo che non sanno più interpretare se non attraverso denaro, sesso e violenza (volontà di potenza): i tre punti cardine per vendere qualcosa. Per vendere qualcosa che si spaccia per identità e che invece è lontanissima dall’esserlo. Loro parlano. Dicono di volere. Non sanno cosa vogliono ma lo vogliono. Non pensano. Appartengono a un gruppo. Vogliono primeggiare nel loro gruppo. Hanno l’identità dona loro il gruppo. Senza gruppo niente identità. A volte scatta la violenza. Non è vero che non li capite. Li capite benissimo anche se fingete sorpresa. Sapete benissimo che loro vogliono senza sapere cosa vogliono. E lo sapete perché voi siete uguali a loro. Non avete un io e disperatamente lo volete. Siete umani. E siete disperati.
P.s. Sono al contempo d’accordo e in totale disaccordo con Francesco Merlo, che oggi, a proposito di questo delitto scrive: “A Pescara è colpevole la solita gioventù bruciata e, in una gara di pensosità e di profondità, c'è chi accusa la scuola e chi biasima i telefoni cellulari, e ovviamente i genitori non sanno educare, e poi ci sono le responsabilità della musica, delle serie tv, il vuoto dei modelli che non sarebbero più quelli di una volta, la società tutta. Mi creda, il sociologismo è una malattia ideologica infettiva”. Sì, concordo, ma Merlo, per così dire, taglia il nodo di Gordio e si macchia di ignavia. Bisogna sciogliere il ragionamento per consentirsi l’ignavia senza sensi di colpa. Il mondo è questo e lo è da sempre. Ragionarci su vuol dire soltanto cercare di metterci una pezza. Che è meglio di fottersene, come suggerisce il caro Francesco. Fottersene responsabilmente è una forma di ignavia più chic. Fottersene come Francesco è solo pigro snobismo.
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stunmewithyourlasers · 5 months
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Sono andato alle poste e giuro su qualsiasi cosa che al prossimo vecchio che mi dice col sorrisetto beffardo "eheheh in italia e in Sicilia non c'è niente,fanno bene i giovani ad andarsene,anche i miei figli lo fanno,qua è buono solo per il turismo"
IO DIVENTO WILLIAM FOSTER.
Lo dicono con un pietismo e un arrendevolezza vomitevole,ma l'Italia è così per colpa mia che voto a stento da 6 anni su 24 della mia vita o perché la loro generazione si è mangiata tutto e ha costruito dei castelli abusivi senza fognatura su ogni litorale tra anni 60/80,con una licenza media per essere dirigente e 20 impiegati pagati in nero in culo allo stato?
Questo paese è così per colpa dei cristi che negli anni 90' avevano 5 anni o perché loro sono 40 anni che votano la stessa gentaglia con 50 capi d'accusa a testa e che dopo tangentopoli si sono solo cambiati la casacca?
Almeno rispetto quelli che hanno la consapevolezza di dire " la mia generazione vi ha condannati,mi spiace",per il resto solo disprezzo.
Anche perché questo immobilismo determinista del cazzo da vinto di Verga poi ha due spiacevoli effetti: 1)lo passate come una tara genetica alle generazioni dopo,che si convincono che non possono fare più nulla e cadono nel nichilismo, perché tanto è sempre andata così. 2) non cambia le cose e non si inizia mai un processo che ci metterà anni(decine) a mostrare risultati.
Io me la posso prendere con la Sicilia,con a mentalità isolana,ma in realtà TUTTI ci lamentiamo delle stesse cose in questo paese(con gradi di gravità e degrado variabili) dal veneto in giù.
Ma poi se ce ne andiamo tutti chi cazzo ve le paga le pensioni,geni catastrofisti che non siete altro? possibile che una generazione sia così boriosa e presa dal suo orticello da doversi trovare al giorno in cui le mancherà il pane perché ha fatto scappare tutta la nuova guardia?
Ma vaffanculo, di cuore.
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I giovani, anche se non sempre ne sono consci, stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che caratterizzano la giovinezza, ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui.
Le famiglie si allarmano, la scuola non sa più cosa fare, solo il mercato si interessa di loro per condurli sulle vie del divertimento e del consumo, dove ciò che si consuma non sono tanto gli oggetti che di anno in anno diventano obsoleti, ma la loro stessa vita, che più non riesce a proiettarsi in un futuro capace di far intravedere una qualche promessa. Il presente diventa un assoluto da vivere con la massima intensità, non perché questa intensità procuri gioia, ma perché promette di seppellire l’angoscia che fa la sua comparsa ogni volta che il paesaggio assume i contorni del deserto di senso. Interrogati non sanno descrivere il loro malessere perché hanno ormai raggiunto quell’analfabetismo emotivo che non consente di riconoscere i propri sentimenti e soprattutto di chiamarli per nome
E del resto che nome dare a quel nulla che li pervade e che li affoga? Nel deserto della comunicazione, dove la famiglia non desta più alcun richiamo e la scuola non suscita alcun interesse, tutte le parole che invitano all’impegno e allo sguardo volto al futuro affondano in quell’inarticolato all’altezza del quale c’è solo il grido, che talvolta spezza la corazza opaca e spessa del silenzio che, massiccio, avvolge la solitudine della loro segreta depressione come stato d’animo senza tempo, governato da quell’ospite inquietante che Nietzsche definisce: «Nichilismo: manca il fine, manca la risposta al “perché?”. Che cosa significa nichilismo? – che i valori supremi perdono ogni valore».
E perciò le parole che alla speranza alludono, le parole di tutti più o meno sincere, le parole che insistono, le parole che promettono, le parole che vogliono lenire la loro segreta sofferenza languono intorno a loro come rumore insensato. Un po’ di musica sparata nelle orecchie per cancellare tutte le parole, un po’ di droga per anestetizzare il dolore o per provare una qualche emozione, tanta solitudine tipica di quell’individualismo esasperato, sconosciuto alle generazioni precedenti, indotto dalla persuasione che – stante l’inaridimento di tutti i legami affettivi – non ci si salva se non da soli, magari attaccandosi, nel deserto dei valori, a quell’unico generatore simbolico di tutti i valori che nella nostra cultura si chiama denaro.
Umberto Galimberti
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rideretremando · 6 months
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"Ieri sera sono andato a sentire Bifo (gli ho anche stretto la mano, cosa che ancora stamattina, a ripensarci, mi riempie di soddisfazione).
Adesso però mi sto ridicendo in testa tutte le cose che mi sono venute in mente ascoltandolo (come sempre mi succede, perché sono un polemico di merda e sviluppo pensieri solo in maniera parassitaria, quando qualcuno dice qualcosa a me viene in mente qualcosa di opposto o di diverso o di derivativo). Una la scrivo, perché c’entra col mio lavoro di insegnante e con le cose che vedo tutti i giorni.
L’incontro era pieno di vecchi (vecchi forse è troppo sprezzante come parola, diciamo anziani, o vegliardi, o senescenti, anche perché era un ottimo uditorio, composto da persone di buone letture, dal pensiero attivo) nonostante quella di Bifo fosse fondamentalmente un’invettiva contro il pensiero senile, il potere senile, la mentalità del novecento (paradosso denunciato da lui medesimo durante l’incontro: un uomo di 75anni che inveisce contro altri uomini di 75 anni, un europeista che inveisce contro l’europa, un militane che invita alla diserzione, un sostenitore di una lista politica che si augura che la sua lista politica non entri in parlamento ecc, il pensiero paradossale è una delle cose tante cose belle del pensiero di Bifo e ieri è stata una goduria).
Comunque torniamo al fatto che Bifo si rivolgeva alla gioventù, e in effetti l’incontro era stato organizzato da giovani di venti-trent’anni, e alcuni erano in sala ad ascoltare (credo più che altro l’entourage dell’organizzazione, diciamo che su 100 persone ce ne saranno state una trentina sotto i 40, e siccome quelli di questa età non facevano altro che muoversi per la stanza con telecamere, macchine fotografiche, telefoni, treppiedi ecc, ne ho dedotto che molti avessero a che fare con l’organizzazione) e ad annuire o sorridere sornioni a ogni imbeccata dell’oratore.
Gli interventi post-orazione, invece, come c’era da aspettarsi, sono stati monopolizzati da 60-70enni che replicavano al nichilismo di Bifo obiettando con le solite argomentazioni degli attivisti, di chi ha fatto la contestazione, ha vissuto gli anni 70, la speranza, la rivoluzione/il riformismo ecc ecc (nobilissime idee, dico “solite” tanto per spicciarci).
A un certo punto si alza finalmente un ragazzo e sembra la pubblicità delle Vigorsol quando finalmente arriva il fresco e l’aria si muove e suona la sveglia oppure si apre una finestra e una balena si schianta sulla scrivania, e insomma il ragazzo riconduce tutti al centro della riflessione di Bifo, o se non altro alla parte della sua riflessione che era stata negletta dall’uditorio e dagli interventi spontanei: “Siamo di fronte a una generazione [quella dei ventenni] che ha imparato più parole da una macchina che dalla propria madre”. Da questo postulato, a cascata, una serie di corollari: sono “socialmente anaffettivi”, “incapaci di solidarietà” (un po’ come i gatti: imparano a fare le fusa solo se non li togli troppo presto dalla cucciolata), “sono depressi di una depressione non patologica, ma anzi sana, essendo questa il sintomo della consapevolezza: se non fossero depressi sarebbero deficienti”.
Ora, vabbe’, il ragazzo che è intervenuto parlava con vigore e con chiarezza (per me è stato illuminante e allo stesso tempo avvilente accorgermi che anche per parlare serve il vigore della gioventù, anche per dire con la voce le cose in modo semplice ed efficace ci vuole l’energia di un corpo giovane, e che la mente tiene dietro al corpo e viceversa) e anche a me è venuto da applaudirlo fortissimo: finalmente uno che ci riporta al nocciolo della questione.
Bifo, visibilmente soddisfatto dell’intervento, che rimproverava la scarsa presenza dei giovani in sala e motivava il fatto che questi non prendessero parola proprio per conformità con quanto esposto dall’oratore stesso (i ragazzi hanno compreso che disertare è l’unica via, e si astengono, rinunciano consapevolmente, anche a esprimersi, specie in un consesso senile con il quale non condividono più nessun orizzonte), ha rafforzato questo pensiero e si è congedato.
Io invece mi rigiravo in testa il pensiero che per quanto energicamente espresse e teoreticamente ben motivate, avevo ascoltato idee che adesso mi lasciavano un sacco di perplessità che adesso mi dovevo risolvere da solo (lo so che lo scopo di ogni buona orazione è questo, però OGNI TANTO potreste anche prevedere che esistiamo NOI PIGRI).
Voglio leggere il libro di Bifo, perché di sicuro mi chiarirà questi dubbi, il primo dei quali riguarda proprio la proposizione -assioma: “Una generazione che ha imparato più parole da una macchina che dalla propria madre”.
Quando l’avevo sentita dire a Bifo, mi aveva confuso: ero convinto che parlasse della MIA generazione.
Io ho 50 anni, ho imparato più parole da una macchina (la tv) che da mia madre.
Se la mia generazione avesse imparato più parole dalla famiglia che dalla tv probabilmente avrebbe parlato prevalentemente il dialetto siciliano.
Sono anche abbastanza certo che eravamo esposti alla tv (e nella primissima infanzia alle favole ascoltate dai mangianastri, e intorno agli otto anni ai videogiochi, e alle vhs, e poi ai dvd, ecc) per tempi molto simili, se non più lunghi, di quelli cui i ventenni di oggi sono stati esposti al cellulare. Allora come oggi, le famiglie progressiste più avvertite si affannavano a disciplinare il consumo di televisione e videoregistratore e consolle di videogiochi (e poi computer) esattamente come è accaduto alle famiglie degli attuali ventenni con l’uso dei telefoni, dei tablet ecc.
Allora come oggi, il segno distintivo del progressismo di sinistra erano affermazioni come: mio figlio non ha la tv, o guarda la tv al massimo per un’ora al giorno e sotto la mia supervisione, stessa frase che ho sentito e sento dire ai genitori dei miei studenti riguardo ai cellulari, i tablet ecc.
Quindi sì, non dubito affatto che questa generazione di venti-trentenni abbia imparato più parole da una macchina che dalla madre, però dubito seriamente che sia la prima a cui sia accaduto, e dubito anche che sia quella a cui è accaduto in misura maggiore (molti della mia generazione e delle generazioni limitrofe alla mia sono stati letteralmente ALLEVATI dalla televisione).
Certo, può darsi che io stia cogliendo solo la lettera di quanto hanno sostenuto Bifo e il 20enne che ha parlato ieri sera, però appunto, se in questa affermazione c’è uno spirito che va oltre la lettera, lo scoprirò grazie al libro. Questa idea di novità assoluta (la prima generazione che ha imparato più parole da una macchina che dalla madre) ieri ha fatto ha fatto raggiungere al il ragazzo che ha fatto l’intervento una punta di lirismo. Non so se la ricordo bene, ma era una cosa tipo: io non posso nemmeno più guardare il sole come lo guardava mio padre. Qualcosa di simile, insomma, che credo sottintendesse cose come: il mio sguardo è inficiato dalla macchina anche quando mi trovo di fronte a un panorama naturale commovente, struggente, ecc, lo vedo e penso a fotografarlo o a riguardarlo in video ecc.
Ok, verissimo, ma pure questo, boh: è una novità? La mia generazione ha commentato miliardi di panorami e fenomeni naturali con la frase: sembra un film, o sembra Tomb Rider, o sembra finto, intendendole come dei grandissimi complimenti o comunque prendendole per quello che esattamente erano: la prima analogia che ci veniva in mente.
Nemmeno io ho potuto guardare il sole come lo guardava mio padre, e mio padre non l’ha guardato come lo guardava mio nonno.
Aggiungo anche che pure io sono stato depresso, e pure mio padre e pure mio nonno probabilmente lo sono stati, e che nella depressione mondiale e simultanea dei ventenni di oggi forse una novità c’è davvero: la facilità di diagnosi e di ricorso a cure o sostegno mai sperimentata prima nella storia dell’umanità.
Dopo Mark Fisher, l’ipotesi di essere depressi a causa del realismo capitalista si è diffusa tantissimo, però forse è plausibile solo in parte: come in ogni epoca, il capitalismo è di sicuro una delle concause della depressione, la macroeconomia c’entra sempre (e quindi un po’ non c’entra neanche nulla, almeno per chi poi deve curare il disagio, visto che bisogna curare l’individuo, ed è difficilotto guarire il pianeta dal capitalismo spinto).
Quindi non so, vedo ragazzi ogni giorno, e a me non sembrano depressi e nemmeno disperati (vorrei tanto che lo fossero, nel bel senso che ha dato ieri alla parola Bifo) e non mi pare nemmeno che i loro problemi possano derivare dall’avere imparato più parole da una macchina che dalla madre (in un certo numero di casi, I me contro te parlano meglio delle madri, conosco famiglie intere che per esprimersi usano un unico fonema: OHU!, il cui senso e significato dipendono unicamente da intonazione e volume ).
Forse invece vedremo presto una cosa davvero nuova (o almeno “più nuova”) in classe. Provo a dire quale.
Io e i ragazzi che finora ho avuto in classe abbiamo imparato parole da una macchina vecchio tipo. Io e loro abbiamo imparato parole da una macchina dentro la quale c’erano degli esseri umani che parlavano.
I prossimi impareranno parole da una macchina dentro la quale ci sarà UN’ALTRA MACCHINA CHE PARLA.
Se vogliamo guardare ancora più avanti, dentro questa macchina con dentro una macchina che parla, per un certo periodo di tempo ci sarà una macchina che parla attingendo parole dal repertorio umano, ma poi, a un certo punto, ci sarà una macchina che attingerà parole dal repertorio delle macchine.
Personalmente, credo che nemmeno a questo punto potremo dichiarare finita l’umanità, e che nemmeno a questo punto un ventenne potrà lagnarsi del fatto che ha diritto a essere depresso, anzi fa bene, perché se non lo fosse significherebbe che è deficiente. Anche se perfino sulla lagna sospendo il giudizio.
Il ragazzo di ieri sera si è lagnato bene, e per me se ti lagni bene, se ti lagni come Leopardi o come Nietzsche ti puoi lagnare quanto ti pare, anzi: lagnati per favore, che mi fai godere molto con le tue lagne. Se invece ti lagni come Giorgia Soleri, ecco, secondo me è più piacevole per tutti se non ti lagni."
Mario Filloley
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costancen · 1 year
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A volte provo ribrezzo per questa realtà rapida e superficiale.
Qualcuno ricorda quella canzone che iniziava così: "Tell me something, girl, are you happy in this modern world"?
Ecco, la mia risposta è: NO.
Non sono contenta delle mete che ci vengono imposte dalla società. Non sono contenta dell'assenza di lavoro per i giovani; degli orari che non consentono di avere una vita privata, del tempo per sé, libero, da trascorrere con i propri cari. Siamo sottoposti a un costante stress psico-fisico! Non è possibile passare l'intera vita inseguendo mete effimere; sì, effimere! Il tempo di raggiungerle e subito occorre passare alla meta successiva.
Il filosofo contemporaneo Galimberti sostiene che i giovani sono sempre di più oggetto di nichilismo sociale e lavorativo; non riescono a trovare la loro strada perché all'età di 30 anni, troppo spesso, si trovano ancora imbrigliati in percorsi di formazione talvolta sterili. Carichi di nozionismo e poca pratica.
Non siamo solo menti, ma anche corpi! Necessitiamo di empirismo per comprendere ciò che ci piace e ciò che non ci piace. Il tempo è denaro e gli anni migliori, nella società postmoderna he abbiamo tanto desiderato, rischiamo di perderli cercando il nostro posto, invece di crearne uno per le generazioni che verranno.
Porte sbarrate e menti imbrigliate. I corpi non passano, ma i soldi sì! Siamo sempre lì a pagare corsi, università, master, libri e dispense, ma i nostri corpi rimangono sempre fermi!
Manca la vita.
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1977...
il 16 Agosto a 42 anni, se ne andava Elvis Presly; debuttavano sulla scena musicale : Depeche Mode, Dire Straits;Peter Gabriel; Police. Al cinema, Saturday Fever con la colonna sonora dei Bee Gees, musica che ha fatto sognare un’intera generazione di giovani e di meno giovani, lancia nel mondo delle discoteche la disco music. È l'anno della Punk Music per antonomasia, un nuovo stile di vita e un nuovo modo di fare musica anticommerciale che porta ad un vero e proprio boom di etichette indipendenti.
Muore a 88 anni l’ultimo re del cinema: Charlot CHARLOT ( CHARLIE CHAPLIN )
I registi PAOLO E VITTORIO TAVIANI colgono il primo successo di pubblico e di critica presentando il film Padre padrone. E' tratto dal romanzo di Gavino Ledda, autobiografico. Un pastorello sardo è strappato dalla scuola dal padre brutale per farne un pastore di pecore. La caparbia volontà del ragazzo nel voler ad ogni costo conoscere lo porterà a sfidare il destino che lo attende, studiando, emancipandosi fino ad arrivare a diventare professore universitario. Se la lotta interiore per arrivare a questo traguardo è complessa, quella di ritornare, una volta adulto, a riappropriarsi della cultura della propria terra è ancora più sofferta. Il messaggio che porta è che l'uomo può attraverso la cultura modificare la realtà che lo circonda e abbattere pregiudizi arcaici.
TV - LA MALFA dopo aver lottato per anni per la non introduzione in Italia della televisione a colori ritenendola un incentivo alle spese voluttuarie degli italiani, é al capolinea. La televisione a colori così, prende l'avvio e, la RAI, inizia le trasmissioni regolari il 24 febbraio di quest'anno.
Insomma un’anno in divenire…(le previsioni del futuro sono le più difficili da fare – prima vengono le piccole bugie, poi quelle grandi infine viene la statistica, così si diceva in facoltà di matematica.)
il 1977 è stato forse il più burrascoso e travagliato del dopoguerra italiano. Nell'arco di pochi mesi, e in particolare tra il marzo e il maggio, decine di migliaia di giovani si sono presi la scena: hanno occupato università , fondato giornali, radio e fanzine, hanno contestato tutto ciò che era "vecchio", compresi i fratelli maggiori del 1968! sono scesi in piazza con la faccia dipinta da indiani metropolitani o con la P38 nel giubbino. Il cosiddetto movimento del '77 non è stata solo la più massiccia ondata di contestazione giovanile: E’ stato al tempo stesso un epilogo, il canto del cigno nella stagione politica inaugurata dell'autunno caldo del '69, e un prologo, la fine delle ideologie e di una vecchia Italia divisa (ancora per poco) tra Dc e Pci, impiegati e operai. Una miscela di violenza, estremismo, nichilismo, di cui faranno bottino i gruppi armati, ma anche di creatività , spontaneità , modernizzazione. Nei giorni turbolenti di quel movimento, aperto di fatto dalla contestazione alla prima della Scala del dicembre '76 e chiuso dalla grande adunata "contro la repressione" di Bologna, sono rimasti sull'asfalto giovani dimostranti e giovani poliziotti, hanno convissuto aspiranti terroristi e pubblicitari in erba, gli ultimi leninisti e i primi buddisti, "streghe" e disincantati dj, che con la creazione di slogan anti-conformisti e nuovi mezzi di comunicazione (le radio libere) hanno chiuso l'era del ciclostile e anticipato quella della tv commerciale e del marketing creativo. In due sole parole : gli anni ’80.
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simonettiwalter · 11 months
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La Linea Del Solipsismo**
Siamo condannati, e Walter Simonetti, affacciato alla finestra dell'ospedale in psichiatria , fissava la parete dei psicofarmaci e penso “nessuno nasce, nessuno muore”. Sotto un cielo senza stelle, ci ritroveremo senza nemmeno capire quel che ci accade; i giovani non possono più salvare il mondo. Artisti serial killer sospesi nel vuoto, uomini del fare, chiedevano il Paradiso in Terra. Mangiano le teste del buon selvaggio, uomini replicanti della moltitudine anti-nomina. "Brigate Rozze amano il sangue del Nichilismo!"
Il futuro dirà che gli unici chiaroveggenti erano il figlio di Simonetti Walter e gli Anarchici. Impero del complotto, dove Gesù vampiro dello spazio versa il suo sangue, un cappio al collo allo stupratore, la strage degli innocenti è la gloria degli Dei. Le pillole della memoria degli eroi dello Stato in una chiesa sconsacrata cancellano il sangue della vendetta. La sposa occidentale alza la bandiera degli arancioni. Il potere dichiara che la storia è finita, “nessuno nasce nessuno muore” iniettandosi neuroelettici con una spada nel cuore di plastica.
Il mostro ci dice miserabile l’obbedienza e stolta la credenza, ma Walter, solipsista militante, si chiede: “Possibile che il solipsismo abbia dei limiti?”. La voce rispose, "Sono Il tuo doppelganger!". Allora rivedremo ciò che videro i Conquistatori del Nuovo Mondo, noi aspettiamo che la scienza faccia miracoli e gli squadroni della morte bevono il sangue del Nichilismo. Il centro non può tenere, e la cerimonia dell'innocenza è annegata.
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marino222 · 1 year
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I giovani, anche se non sempre lo sanno, stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che costellano la giovinezza, ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive ed orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui. [...] Bisogna educare i giovani a essere se stessi, assolutamente se stessi.
Questa è la forza d'animo. Ma per essere se stessi occorre accogliere a braccia aperte la propria ombra. Di forza d'animo hanno bisogno i giovani soprattutto oggi perché non sono più sostenuti da una tradizione, perché si sono rotte le tavole dove erano incise le leggi della morale, perché si è smarrito il senso dell'esistenza e incerta s'è fatta la sua direzione. [...]
Alla base dell'assunzione delle droghe, di tutte le droghe, anche del tabacco e dell'alcol, c'è da considerare se la vita offre un margine di senso sufficiente per giustificare tutta la fatica che si fa per vivere. Se questo senso non si dà, se non c'è neppure la prospettiva di poterlo reperire, se i giorni si succedono solo per distribuire insensatezza e dosi massicce di insignificanza, allora si va alla ricerca di qualche anestetico capace di renderci insensibili alla vita.
Umberto Galimberti, Il nichilismo e i giovani
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spritzapeiron · 2 years
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Politica sfiduciata
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La gioventù nichilista alle prese con il voto
Parliamoci chiaro, la politica per i giovani rappresenta più un problema che un’opportunità e non lo dico io, ma i dati statistici che mettono in relazione la politica con le nuove generazioni. Sembra infatti mancare proprio l’interesse e la partecipazione alle tematiche politiche, elemento che coinvolge fino a 30% dei giovani tra 18 e 34 anni e fino al 50% di quelli tra i 14 e i 18 anni. Non sembra essere una tendenza solo italiana, anzi i dati sono in linea con le medie europee, con un occhio di riguardo per i “giovanissimi” della “Gen Z” (nati dopo il 1996).  I dati sull’affluenza alle europee del 2019 infatti hanno evidenziato infatti come di quest’ultimi solamente il 43% si è recato alle urne, dimostrando una scarsa partecipazione che desta preoccupazioni.
Sono dunque dati simbolo di una sfiducia che stenta a diminuire e di una classe politica incapace di far fronte alle necessità dei giovani. Ben lontani dagli antichi fasti di un’Italia piena di risorse e opportunità come quella nel pieno del boom economico dello scorso secolo, i ragazzi di oggi si trovano ad abitare una società divisa e spaccata dalle crisi economiche e sanitarie, in mezzo ad una tempesta di sconforto generale che non aiuta di certo a trovare una posizione “politica” in questo paese. Dall’altra parte una classe politica vecchia e impreparata che pensa che per far presa sui giovani basti farsi un profilo Tik Tok, non si rende realmente conto delle necessità e dei temi cari ai giovani. Se le tematiche ambientali iniziano a fare breccia nel dibattito politico, altri temi come i diritti civili e disoccupazione giovanile invece spariscono sotto il rumore mediatico di proposte quali flat tax e pensionamenti anticipati.
“Il disinteresse, così diffuso, delle nuove generazioni nei confronti della politica è fenomeno abbastanza nuovo. Nel secolo scorso le cose erano profondamente diverse. A ridosso della prima guerra mondiale, in tutto l'occidente europeo i neonati partiti di massa seppero coinvolgere molti giovani. […] Era la cosiddetta "Meglio Gioventù". Se oggi le cose sono cambiate, se i giovani migliori non mostrano alcun interesse per le cose della politica, il problema dovrebbe essere in cima alle preoccupazioni della politica stessa, come un'amara conferma che la mutazione genetica compiuta – fine delle ideologie, tv al posto della piazza, “contratti di governo” in luogo di programmi politico-culturali – ha ridotto la politica stessa a un mestiere e a una pratica privi di appeal»
Mauro Mazza
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Tutto questo potrebbe essere figlio di quel trionfo nichilista di cui ci parla spesso il filosofo Umberto Galimberti quando si esprime sulle giovani generazioni di oggi. La più grave mancanza che vivono i giovani infatti è quella di non vedere un futuro di fronte a loro e sentirsi costantemente minacciati da un mondo dove l’instabilità economica, le disuguaglianze sociali e i disastri ambientali la fanno da padroni. “Dal futuro-promessa al futuro-minaccia” le motivazioni dei giovani si deprimono, l’interesse scompare e ci si chiude in se stessi sprofondando in una dimensione nichilista che abbatte la forza vitale delle nuove generazioni.
“Vi siete mai chiesti perchè i giovani non fanno più la rivoluzione? Eppure ne avrebbero motivo. I nostri ragazzi stanno decisamente peggio di quelli, perlopiù figli della borghesia, che fecero quella pseudo rivoluzione che fu il ’68. La differenza è che adesso è subentrata la rassegnazione, quell’ospite inquietante che è il nichilismo, la mancanza di uno scopo, come lo definiva Nietzsche, della risposta al perché».
Una politica che non riesce più a comunicare con i giovani è una politica senza futuro, proprio quel futuro che sentono mancare sulla loro testa i giovani. Per questo tra le priorità della politica nazionale emerge la necessità di far uscire i giovani da questa spirale di sconforto e tornare ad essere attrattiva per coloro che dovrebbero essere la spinta più forte di rinnovamente di un paese. 
I giovani si allontanano e perdono fiducia perché la politica, spesso, si inaridisce. Perde il legame con i suoi fini oppure perde il coraggio di indicarli chiaramente. La politica smarrisce il suo senso se non è orientata a grandi obiettivi per la umanità, se non è orientata alla giustizia, alla pace, alla lotta contro le esclusioni e contro le diseguaglianze. La politica diventa poca cosa se non è sospinta dalla speranza di un mondo sempre migliore. Anzi, dal desiderio di realizzarlo. E di consegnarlo a chi verrà dopo, a chi è giovane, a chi deve ancora nascere. La politica, deve saper affrontare i problemi reali, ha bisogno di concretezza.“ 
Sergio Mattarella
Leonardo Mosole
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topaudiobooksit · 3 years
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L'ospite inquietante: Il nichilismo e i giovani - Umberto Galimberti https://ift.tt/JtrPoW2
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nonecosiimportante · 4 years
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BUZZCOCKS - SINGLES GOING STEADY (Irs/United Artists, 1975)
Succede che un giorno due ragazzi si incontrano. Uno è studente di ingegneria, intellettivamente dotato e amante dei poeti romantici del Regno Unito. L’altro è un appassionato di letteratura e filosofia e divoratore dei dischi degli Stooges, dei Velvet Underground e del mito del Cbgb. Ad unirli la passione per la musica e l’opportunità di metterla in pratica per comporre la colonna sonora di un video per la scuola che frequentano. Peter Shelley e Howard Devoto, i due giovani di cui sopra, leggono su Nme una recensione dei Sex Pistols e volano a Londra per vederli in concerto. Pochi mesi dopo saranno proprio loro ad aprirne un altro con la band nata dalla loro mente fervida e geniale, i Buzzcocks. Ed è rivoluzione fin dalla nascita. Perché il loro è punk ma i temi sono ben lontani dal nichilismo dei Pistols o dagli afflati rivoluzionari dei Clash. I Buzzcocks fanno punk, ma parlano di adolescenza, delle sue frustrazioni, del sesso e d’amore, in tutte le sue possibili declinazioni (ecco la vera rivoluzione). C’è poi la musica, il punk che diventa melodico, strizza l’occhio al pop pur restando pienamente punk (e dire che sono figli dei Ramones non è per nulla sbagliato) e molto, molto di più. Quel di più che fa sì che le 16 tracce qui raccolte resistano al tempo e divengano immortali. Poi Devoto, che è un tipo strano, decide che tutto funziona troppo, se ne va, fonda i Magazine e farà ancora la storia. Ma quei Buzzcocks restano e non amarli è pressoché impossibile.
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ma-come-mai · 19 days
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I giovani, anche se non sempre lo sanno, stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che costellano la giovinezza, ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, fiacca la loro anima, intristisce le passioni.
Le famiglie si allarmano, la scuola non sa più cosa fare, solo il mercato si interessa di loro per condurli sulle vie del divertimento e del consumo, dove ciò che si consuma non sono tanto gli oggetti che di anno in anno diventano obsoleti, ma la loro stessa vita.
Oggi molti ragazzi non sanno descrivere il loro malessere perché hanno ormai raggiunto quell’analfabetismo emotivo che non consente di riconoscere i propri sentimenti e soprattutto di chiamarli per nome. Bisogna perciò educare i giovani a essere se stessi, assolutamente se stessi.
Questa è la forza d'animo. Ma per essere se stessi occorre accogliere a braccia aperte la propria ombra. Di forza d'animo hanno bisogno i giovani soprattutto oggi perché non sono più sostenuti da una tradizione, perché si sono rotte le tavole dove erano incise le leggi della morale, perché si è smarrito il senso dell'esistenza e incerta s'è fatta la sua direzione.
Umberto Galimberti, Il nichilismo e i giovani.
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diceriadelluntore · 5 years
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Storia di Musica #71 - The Clash, London Calling, 1979
Partiamo dalla foto di copertina, uno degli scatti più celebri del rock. Paul Simonon, il bassista dei The Clash, sta suonando al The Palladium di New York. La band gira a mille in quel 1978 ma Simonon nota una cosa: il servizio di sicurezza del teatro impedisce agli spettatori di seguire il concerto in piedi. Questo fa imbestialire Simonon che ad un certo punto per frustrazione distrugge il suo Fender Precision Bass. Pennie Smith immortala quella foto, quasi di scatto, e in un primo momento la giovane fotografa londinese voleva scartarla per la non perfetta messa a fuoco. Invece fu convinta a mostrala alla band che entusiasta la scelse, divenendo l’emblema di uno dei dischi più importanti del rock, quello che chiude una fase e ne apre un’altra, opera di uno dei gruppi più dirompenti di tutti i tempi: The Clash. Nell’era del punk, fine anni ‘70 in Gran Bretagna, creare gruppi punk era piuttosto facile: serviva solo una bella energia, un po’ di sfacciataggine e non era necessario saper suonare. Dall’unione di due tra questi, i London SS di Mick Jones e Paul Simonon e i 101′ers di Joe Strummer. I primi due sono proletari arrabbiati e geniali, il terzo è figlio di ambasciatori, è nato ad Ankara ed è un borghese. Grazie al lavoro fondamentale di Guy Stevens, che diventerà il manager del futuro gruppo, Jones e Simonon si uniscono a Strummer e al chitarrista Keith Levine e formano gli Heartdrops, nome che poi cambieranno in The Clash. Il battessimo della nuova band avviene a Islington, il 26 agosto 1976. Poi si uniscono al Punk Rock Festival insieme alle altre due grandi band del punk, i Sex Pistols e i Siouxie & The Banshees, partecipando successivamente anche ad alcune tappe dello sgangherato ed irriverente Anarchy In The Uk Tour dei Pistols. Il gruppo però sin da subito si distacca dal nichilismo costruito ad arte dei Sex Pistols per abbracciare un impegno consapevole del ruolo sociale della musica: divengono di fatto un megafono di cronaca di un paese, l’Inghilterra thatcheriana, che sta andando in una certa direzione. Che non piace ai nostri ragazzi. Il primo grande brano è White Riot, ispirato agli scontri durante il carnevale del 1976 tra polizia e giovani di colore a Notting Hill. L’anno dopo il primo disco, The Clash. Jones diviene l’anima musicale del trio che piazza i primi grandi pezzi: Complete Control, Grageland, Police & Thieves. Il disco è un successo in patria ma non viene commercializzato negli Stati Uniti. Dove però vengono importante 100.000 copie, che finiscono in un lampo. La CBS ripubblica il disco per l’America con altre hit, tra cui I Fought The Law e (White Man) In Hammersmith Palais. Quello che già emerge è la capacità unica nel punk di contaminare i riff e le ritmiche del genere di rockabilly e di musica reggae-ska, in un mix unico e irresistibile.  Nel 1978 il grande successo dell’esordio porta al frettoloso Giv’em Enough Rope, album che è troppo iperprodotto da Sandy Pearlman, nella speranza di “pulire” la loro ruvidezza. A questo punto entra in formazione Topper Headon, alla batteria, già membro dei London SS con Jones e Simonon. Con più tempo a disposizione dopo la prima storica tournée negli Stati Uniti, i 4 si prendono un piccolo studio nella periferia di Londra, i Vanilla Studios, ed iniziano a ragionare su un disco che è centrato sull’amore-odio con l’America, sulle paure per il nucleare, dopo un incidente alla centrale di Three Mile Island in Pennsylvania, ma soprattutto con lo sguardo critico e attento sulla società dell’epoca. London Calling (il titolo prende spunto dallo slogan delle’inizio delle trasmissione di Radio Londra, la radio clandestina degli alleati, durante la Seconda Guerra Mondiale) esce nel Dicembre del 1979 e anticipa già gli anni ‘80. Seppur doppio, la band costrinse la Cbs a venderlo al prezzo di un disco singolo: Clampdown è ancora punk, ma la band ormai viaggia davvero nell’esplorazione della musica, dal rockabilly di Brand New Cadillac o addirittura uno ska pop alla Spector in Train In Vain (traccia fantasma del disco). C’è tempo per parlare della violenza urbana con The Guns Of Brixton, della Guerra Civile Spagnola con Spanish Bombs, il reggae rock di Rudi Can’t Fail fino ai due pezzi più famosi, il pop rock di Lost In The Supermakert e la storica, febbrile ed eccitante London Calling. Tornando alla copertina, va ricordato che il lettering per il titolo è un omaggio al disco di Elvis Presley omonimo uscito nel 1956. Questo è il disco della maturità, dell’impegno politico (che poi verrà ulteriormente ampliato in Sandinista, il triplo album del 1980) e che proietta nella storia del rock dei tipi che si ritenevano ribelli con una causa, e che hanno affascinato con la loro energia almeno due generazioni di fan e musicisti.
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I giovani, anche se non sempre lo sanno, stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che costellano la giovinezza, ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, fiacca la loro anima, intristisce le passioni. Bisogna perciò educare i giovani a essere se stessi, assolutamente se stessi.
Questa è la forza d'animo. Ma per essere se stessi occorre accogliere a braccia aperte la propria ombra. Di forza d'animo hanno bisogno i giovani soprattutto oggi perché non sono più sostenuti da una tradizione, perché si sono rotte le tavole dove erano incise le leggi della morale, perché si è smarrito il senso dell'esistenza e incerta s'è fatta la sua direzione.
Alla base dell'assunzione delle droghe, di tutte le droghe, anche del tabacco e dell'alcol, c'è da considerare se la vita offre un margine di senso sufficiente per giustificare tutta la fatica che si fa per vivere. Se questo senso non si dà, se non c'è neppure la prospettiva di poterlo reperire, se i giorni si succedono solo per distribuire insensatezza e dosi massicce di insignificanza, allora si va alla ricerca di qualche anestetico capace di renderci insensibili alla vita.
Umberto Galimberti, Il nichilismo e i giovani.
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corallorosso · 5 years
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Dalle sardine a Greta, giovani rappresentati ma senza rappresentanza: il corto circuito è la politica Di Roberto Bertoni Bisogna sempre ricordarsi di don Milani: sortirne insieme è politica, sortirne da soli è avarizia. Ma soprattutto: a che serve avere le mani pulite se poi le si tiene in tasca? Di fronte ai problemi enormi che affliggono non solo questo Paese ma diremmo questo pianeta, c’è una generazione, quella che Greta e le Sardine hanno avuto la forza e il coraggio di riportare in piazza, che deve cominciare ad assumersi le proprie responsabilità. (...) È giunto il momento di compiere un’analisi storica: spiace dirlo, ma nel disastro dell’umanità la sinistra c’entra eccom (...) duole dirlo, ma la meravigliosa Greta Thunberg e la sua battaglia ambientalista rischia di rivelarsi inutile, al pari delle piazze che ha saputo riempire, qualora questo movimento planetario non dovesse trovare uno sbocco politico. Se tu porti in piazza milioni di persone, risvegli i giovani dal torpore e restituisci loro una bandiera da sventolare e un argomento iper-politico da porre al centro del dibattito pubblico, meriti solo stima e gratitudine. Ma se nessuno si pone, nei partiti tradizionali come nei movimenti, il problema di passare dalla rappresentazione di ciò che non va alla rappresentanza delle innumerevoli categorie bisognose di diritti e considerazione sociale, lo sforzo, alla fine, risulterà vano. Se la COP di Madrid fallisce miseramente perché a rappresentare gli interessi di nazioni, lobby e multinazionali sono ancora coloro che credono che la Terra possa essere sfruttata senza ritegno, che esistano risorse illimitate e che le catastrofi naturali siano, al massimo, danni collaterali da sacrificare al profitto, in nome di un benessere collettivo che, in realtà, altro non è che accaparramento di risorse pubbliche, compresa l’aria che respiriamo, ad opera di predoni privati e ricchissimi, puoi aver riempito tutte le piazze di questo mondo ma nulla cambierà. “Perché qualche cosa cambi – scrisse Moro dalla prigione delle Brigate Rosse, rivolgendosi all’allora segretario della DC, Benigno Zaccagnini – dobbiamo cambiare anche noi”. È necessario che cambi il nostro stile di vita, il nostro paradigma economico e sociale, il nostro modello di sviluppo, che cambino i nostri comportamenti quotidiani fin nei minimi dettagli. Riempire le piazze, di questi tempi, è giusto e doveroso, e guai a chi irride Greta o le Sardine perché non tiene conto del valore democratico di queste organizzazioni spontanee e dell’aria fresca che esse portano a una discussione istituzionale per lo più asfittica e autoreferenziale. Guai anche a chi non si rende conto che il nichilismo non serve a nulla, che la mancanza di rispetto per il prossimo è una rovina e che segnalare i tanti aspetti negativi di una società sull’orlo dell’abisso è un dovere civico e morale. Ma adesso tocca a voi, cari manifestanti e cari organizzatori, e mi ci metto anch’io che in quelle piazze c’ero, che vi ho raccontato, intervistato e osservato da vicino. Tocca a noi, oserei dire, e comprendo in quest’analisi anche la nostra professione, troppe volte intenta a puntare il dito o a dare buoni consigli quando non può più dare il cattivo esempio. Tocca alla nostra generazione passare dalla rappresentazione alla rappresentanza, ossia porsi il problema della politica, di come diventare parte attiva dei processi globali, di come diventare davvero classe dirigente, di come arrivare, senza smanie rottamatorie di alcun tipo, a essere i decisori che si siedono ai tavoli che contano, là dove si può provare a invertire la rotta prima che sia troppo tardi. (...) L’opposizione al quarantennio liberista, oggi più che mai necessaria, sarà, dunque, completa quando i ventenni e i trentenni smetteranno di appellarsi alla politica e decideranno di essere essi stessi la politica e il cambiamento che vorrebbero vedere nel mondo, a cominciare dalle canzoni, dalle poesie, dai racconti e dai romanzi che non potranno essere in eterno solo quelli che hanno emozionato fino alle lacrime genitori e nonni nel ’68. Scrive Osvaldo Soriano in “Fúbol”, citando il grande Tesorieri: “Ci sono tre generi di calciatori. Quelli che vedono gli spazi liberi, gli stessi che qualunque fesso può vedere dalla tribuna e li vedi e sei contento e ti senti soddisfatto quando la palla cade dove deve cadere. Poi ci sono quelli che all’improvviso ti fanno vedere uno spazio libero, uno spazio che tu stesso e forse gli altri avreste potuto vedere se aveste osservato attentamente. Quelli ti prendono di sorpresa. E poi ci sono quelli che creano un nuovo spazio dove non avrebbe dovuto esserci nessuno spazio. Questi sono i profeti. I profeti del gioco”. Semplicemente voi, noi che quest’anno, almeno mediaticamente, abbiamo finalmente dettato l’agenda.
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