#Iconografia Religiosa
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campadailyblog · 4 months ago
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El Greco: Espressività e Misticismo nell'Arte
El Greco, nato come Domínikos Theotokópoulos a Creta nel 1541, era un artista greco. Dopo aver studiato in Italia, a Venezia e Roma, si spostò in Spagna. Lì visse e lavorò fino al 1614. La sua arte, con figure allungate e colori vivaci, unisce l’arte bizantina a quella occidentale. El Greco è fondamentale nel tardo Rinascimento spagnolo. È visto come il precursore del Siglo de Oro. Punti…
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angelanatel · 11 months ago
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Em parte de um pilar em uma caverna perto de Khirbet el-Qom, identificada como Makkedah, foi descoberta uma inscrição hebraica arcaica de 6 linhas acima de um entalhe de uma mão que apontava para baixo, cinzelada na pedra. Cinco outras inscrições em hebraico também são conhecidas do local. Com base na forma das letras, a inscrição do "Túmulo 2" data de aproximadamente 750 AEC., durante o tempo do reinado do rei Uzias de Judá, antes dos assírios atacarem e conquistarem o Reino de Israel Norte. A inscrição menciona que o autor, Uriyahu (um nome que significa "minha luz é Yahweh"), foi abençoado "por Yahweh e por Sua Asherah", e "de seus inimigos ele o salvou". O símbolo da mão pode ter tido um significado como a "mão mágica" ligada à adoração da divindade de acordo com paralelos da iconografia religiosa encontrada no Sudoeste Asiático e Cartago. Esta inscrição é uma das evidências para adoração de uma Deusa chamada "Asherah" que era a esposa ou consorte de Yahweh no Israel antigo e Judá, uma vez que hoje já se sabe um objeto de madeira, como um poste ou árvore sagrada denominada asherah tanto em inscrições antigas como na própria Bíblia Hebraica referem-se ao entendimento da presença da Deusa, pois na antiguidade não havia essa concepção de separação da Deidade e de seu objeto de culto. Em Kuntillet ‘Ajrud na península do nordeste do Sinai, uma inscrição similar do século IX AEC. foi descoberta em um pedaço de cerâmica, referindo-se também a "Yahweh e sua Asherah". Estas inscrições confirmam que os povos de Israel e de Judá adorava o casal divino Yahweh e Asherah.
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lamilanomagazine · 1 year ago
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Triennale Milano, apre al pubblico la mostra Ron Mueck
Triennale Milano, apre al pubblico la mostra Ron Mueck Dal 5 dicembre 2023 al 10 marzo 2024, Triennale Milano e Fondation Cartier pour l’art contemporain presentano la prima personale in Italia dell’artista australiano Ron Mueck, con una selezione di opere mai esposte prima in Italia. La mostra in Triennale è un’evoluzione del progetto espositivo tenutosi a Parigi nell’estate 2023, concepito da Fondation Cartier in stretta collaborazione con l’artista, terza tappa di un dialogo incessante tra Ron Mueck e l’istituzione francese, avviato nel 2005 e proseguito nel 2013. Il percorso espositivo si compone di sei sculture e comprende la monumentale installazione Mass (2017, proveniente dalla National Gallery of Victoria, Melbourne), esposta per la prima volta fuori dall’Australia in occasione di questo progetto che illustra gli sviluppi più recenti della pratica artistica di Mueck, insieme a lavori iconici realizzati nel corso della sua carriera. In mostra anche due film del fotografo e regista francese Gautier Deblonde. La personale di Ron Mueck costituisce la settima mostra organizzata nell’ambito del parternariato della durata di otto anni tra Triennale Milano e Fondation Cartier pour l’art contemporain, istituzioni europee caratterizzate da un approccio multidisciplinare, che condividono la medesima visione sulla cultura contemporanea e la creazione artistica. L’opera di Ron Mueck (Melbourne, 1958; dal 1986 vive e lavora nel Regno Unito) evoca temi universali e ha rinnovato profondamente la scultura figurativa contemporanea. Per scolpire i suoi prodigiosi e realistici personaggi, sempre di dimensioni sorprendenti, impiega mesi, a volte anni. In venticinque anni di attività ha dato vita a 48 opere in totale, la più recente delle quali è stata completata poco prima dell’inaugurazione della mostra alla Fondation Cartier pour l’art contemporain a Parigi, nel mese di giugno 2023. L’opera di Ron Mueck, profondamente misteriosa ed estremamente genuina allo stesso tempo, spesso pervasa da un’aura surreale, invita a riflettere sulla propria relazione con il corpo e, più in generale, porta a confrontarsi con l’esistenza stessa. Esplorando un nuovo processo creativo Mass (2017), nella sua dimensione e ambizione monumentale, è l’opera dalla quale si dipana la mostra e rappresenta una pietra miliare nella carriera dell’artista. Commissionata dalla National Gallery of Victoria (Melbourne, Australia), Mass è un’installazione composta da cento gigantesche sculture di teschi umani disposti in mostra dall’artista, in dialogo con lo spazio espositivo. L’installazione offre un’esperienza fisica e psicologica che cattura i visitatori e li incoraggia a riflettere sugli aspetti fondamentali dell’esistenza umana. Il titolo offre un assaggio delle differenti interpretazioni cui l’opera si presta. La parola inglese mass è infatti riconducibile a molteplici significati, da “mucchio disordinato” a “funzione religiosa”, che costituiscono punti di partenza per l’esperienza personale di ciascun osservatore a confronto con l’opera. La stessa iconografia del teschio è ambigua: associata alla brevità della vita umana nella storia dell’arte e onnipresente nella cultura popolare. Per Mueck, “Il teschio umano è un oggetto complesso. Un’icona potente, grafica, che riconosciamo immediatamente. Allo stesso tempo familiare ed esotico, il teschio disgusta e affascina contemporaneamente. È impossibile da ignorare, richiede la nostra attenzione a un livello subconscio.” I teschi vengono mostrati in gruppo, un insieme di individui che si impone sul visitatore. In questo modo, Mass si differenzia dai precedenti lavori dell’artista, che raffiguravano sistematicamente gli esseri umani nella loro individualità. Mass segna un punto di svolta nella carriera di Mueck, l’espressione del suo desiderio di abbracciare nuovi modi di scolpire. Le opere più recenti esposte in mostra – appunto Mass (2017), En Garde (2023) e This Little Piggy – dimostrano come l’artista prosegua nella sua ricerca, allontanandosi progressivamente dalla sua pratica artistica iniziale che consisteva nel riprodurre meticolosamente tutti i dettagli che caratterizzano la pelle, i capelli e i vestiti. Senza trascurare l’attenzione nello scolpire le forme, Mueck avvicina l’osservatore all’essenza del proprio lavoro: l’immediatezza e la risonanza della presenza percepita dell’opera. En Garde (2023) e l’opera dal titolo This Little Piggy (2023 - in corso) dimostrano come questo nuovo approccio permetta all’artista di aprirsi a nuovi soggetti ed esplorare gruppi scultorei più ampi, con pose o movimenti dinamici. En Garde (2023) è uno spettacolare e minaccioso gruppo di cani di quasi tre metri di altezza. Qui la riduzione dei dettagli della superficie, a favore della concentrazione su forma e tensione, permette di mantenere l’immediatezza del primo approccio man mano che l’osservatore si avvicina. La scultura è un vivido riflesso dell’incertezza del presente e di come il futuro potrebbe rivelarsi. This Little Piggy è una scultura di piccole dimensioni ispirata a un passaggio del romanzo Pig Earth (1979) di John Berger ed è la prima volta che Mueck concede al pubblico la possibilità di vedere un lavoro in corso d’opera. This Little Piggy lascia trasparire la presenza della mano dell’artista che manipola l’argilla grezza mentre orchestra i movimenti e le tensioni di questo insolito grande gruppo di persone che lavora assieme per un obiettivo comune. Opere iconiche degli anni 2000 Baby (2000) è una scultura di piccole dimensioni che rappresenta un neonato e trae ispirazione dall’immagine di un libro di medicina che mostra un bambino tenuto per i piedi pochi attimi dopo il parto. In contrasto con il post-mortem Mass, questo piccolo ritratto dei primi momenti di vita focalizza l’attenzione su di un soggetto intenso. Capovolgendo l’immagine originale e fissando la scultura al muro, l’artista crea una forma a croce che invita alla contemplazione come se si trattasse di un’icona religiosa, segnata da quella che sembra essere, da un’analisi più ravvicinata, un’espressione dispettosa. In Bed (2005) è la gigantesca rappresentazione di una donna stesa a letto, con la testa sollevata contro i cuscini. Nonostante la taglia colossale, la scultura appare delicata e intima. Come sempre nelle opere di Ron Mueck, le dimensioni fuori scala sono centrali per l’approccio dell’osservatore. In questo caso le grandi dimensioni alterano la prospettiva, creando una sensazione di vicinanza con una persona i cui pensieri sembrano essere rivolti altrove. In Bed fa parte della Collezione della Fondation Cartier dal 2005. Woman with Sticks (2009) è una donna la cui schiena è piegata sotto lo sforzo di un lavoro non precisato, mentre i suoi piedi sono fermamente ancorati al suolo, creando una posizione dinamica che si contrappone all’elegante irregolarità dei bastoncini trattenuti a fatica tra le sue braccia. La morbidezza della sua pelle viene segnata dai legnetti secchi taglienti e l’espressione sul suo viso sembra indicare concentrazione verso ciò che la circonda. Le dimensioni, volutamente ridotte rispetto al reale, conferiscono alla scultura una stranezza inquietante, come se l’osservatore fronteggiasse un mondo fisicamente presente, ma allo stesso tempo allegorico. Woman with Sticks fa parte della Collezione della Fondation Cartier dal 2013. Still Life: Ron Mueck at Work (2013) e Three Dogs, a Pig and a Crow (2023) sono due film del fotografo e regista francese Gautier Deblonde, le cui immagini hanno catturato l’atmosfera dello studio di Mueck e il suo metodo di lavoro negli ultimi venticinque anni. Questi film, girati negli studi dell’artista e durante le installazioni delle sculture in occasione di mostre e presentazioni, offrono un raro approfondimento sulla creazione dei lavori e la loro trasformazione nelle opere finite visibili in mostra. Questi film sono stati commissionati nel corso del tempo dalla Fondation Cartier per accompagnare le mostre di Ron Mueck. A cura di: Hervé Chandès, Direttore Internazionale Fondation Cartier pour l’art contemporain Curatore associato: Charlie Clarke Curatore responsabile della mostra: Chiara Agradi, Fondation Cartier Ron Mueck - 5 dicembre 2023 – 10 marzo 2024 - Biglietto intero: 15 euro / ridotto 12 euro / studenti 7,50 euro - Biglietto giornaliero per visitare tutte le mostre di Triennale Milano: 25 euro Orari Triennale Milano - martedì – domenica, ore 11.00 – 20.00 (ultimo ingresso ore 19.00)... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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frpaolo-12 · 7 years ago
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Il sole e la luna
  Arte astratta, rappresenta il tempo che si incontra nel Presente (una possibilità dell’Eternità).
realizzata nel 2017 su vecchio asse di baita
Offerta minima: 400€
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hermeneutas · 3 years ago
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Deuses e Seus Epítetos - Poseidon
Continuando nossa série de postagens sobre os Deuses, prosseguimos para o segundo dos Olimpianos mais velhos, o Rei dos Mares e Treme-Terras: Poseidon!
Descrito como Deus de toda a extensão do oceano e soberano sobre o elemento líquido, Poseidon é um deus de domínio amplo e influente. Desde a antiguidade, o Deus é visto como fonte de bençãos, abundância e prosperidade marítima tanto como o Senhor de desastres naturais como maremotos, terremotos e secas. Ele também foi o criador dos cavalos e tem domínio sobre todos os seres do oceano e da água doce (uma vez que todos os rios encontram seu caminho para o mar), além de figurar como o líder de todo um panteão de Deuses marítimos (e de antemão avisamos, há muitos!).
Poseidon é frequentemente retratado como uma deidade de ânimo notável, feroz quando irritado e abundante quando propício. Em sua companhia há várias outras deidades do mar: Anfitrite, a Rainha dos Oceanos; Tritão, o deus-mensageiro do mar e seu filho; Além das inúmeras nereidas, as ninfas do mar.
Falaremos um pouco dele e de seus epítetos que o descrevem aqui.
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Poseidon tem numerosos mitos e epítetos, tanto de natureza poética como religiosa. Seu número de santuários também era bastante extenso, sendo cultuado por grande parte da costa do Peloponeso, na região Ática, Beócia e muitos outros. Ele era sempre representado com feições maduras bastante similares a Zeus, exceto por seus atributos característicos: O tridente, cavalos, golfinhos ou outra iconografia marítima.
É dito que Poseidon reina sobre as águas, concedendo boas viagens marítimas, fartura nas pescas ou engendrando os terríveis desastres naturais advindos do oceano.
Seus epítetos tendem a representá-lo nestas qualidades, então, listemos aqui alguns:
OCEANO
Basileus - "Rei", descreve-o na qualidade de Rei dos Mares, também é um epíteto de Zeus e Plutão.
Pelagaios/Aegaion - "Marítimo"/"Do [Mar] Egeu" descreve-o como Senhor dos mares, especialmente dominante sobre a região do Mar Egeu no Mediterrâneo.
Asphalios - "Que oferece segurança" neste epíteto, a qualidade de oferecer boas viagens marítimas é atestada.
Prosklystios - "Que se move em direção [�� terra]" este epíteto, o movimento da maré é representado.
TERRESTRE
Gaeokhos/Ennosigaios - "Sustentador da Terra"/"Sacudidor da Terra" Estes epítetos atestam o domínio terrestre do Senhor dos mares. Poseidon é descrito como aquele que tem domínio sobre terríveis abalos sísmicos e sobre o mar furioso. Como o mar "abraça" a terra ele é descrito como o sustentador dela.
Phytalmios - "Nutridor de Plantas" As bençãos das chuvas de Poseidon cobrem a terra com rios e a fecundam com fertilidade, sendo o Deus dos mares, tempestades e chuvas que vêm de lá também estão sobre seu domínio.
MISCELÂNEA
Patroos - "Pai/Ancestral" Muitos dos Deuses são descritos como pai ou mãe, seja de determinadas linhagens seja por uma titulagem de afeto dada por seus devotos.
Genethlios/Domatites/Laoites - "dos parentes/da casa/do povo" Poseidon aqui é descrito em qualidades mais domésticas e amplas.
Hippios/Hippokourios - "Dos cavalos/Cuidador de cavalos" aqui Poseidon é apresentado como deus que cuida e tem domínio sobre os cavalos, pois é dito que ele os criou da espuma do mar.
Poseidon é um poderoso Deus de amplo domínio, especialmente influente para nós aqui do Brasil que temos uma faixa literônea tão extensa. Honrá-lo por sua grande influência no clima, na abundância e prosperidade de nossas vidas é mais que justo.
Ele é geralmente honrado no oitavo dia lunar do mês helênico e seu mês, Poseideon, conta com um festival chamado Poseidea em sua honra. Na antiguidade haviam também os Jogos Ístimicos, celebrados em seu nome.
Encerramos este post dedicado a Poseidon com seu hino homérico. Que Poseidon olhe por todos nós!
Começo a cantar sobre Poseidon, o grande deus, movedor da terra e do mar infrutífero, deus das profundezas que é também senhor de Helicon e do vasto Egeu. Uma dupla repartição os deuses alocaram para ti, ó Sacudidor da Terra, de ser um domador de cavalos e um salvador de navios! Saúdo-te, Poseidon, Dono da Terra, deus de cabelos escuros! Ó abençoado, seja gentil de coração e ajude aqueles que viajam de navio!
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guia-de-sburb · 3 years ago
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Musas: A Glorificação do Martírio
Talvez isso seja uma surpresa, mas eu, o Lorde da Esperança, o cara que estuda anjos e demônios por diversão, o cara que sabe quantidades absurdas de informação sobre Gnosticismo, a Kabbalah, alquimia e tópicos relacionados ao ocultismo... Não sou a pessoa mais religiosa do mundo.
Honestamente, quem me conhece a nível pessoal pode confirmar que “Kill all gods/Mate todos os deuses” é uma das minhas frases favoritas por um motivo. Então eu imagino que eu vá ser tendencioso aqui. Especialmente considerando que essa é a classe oposta a minha.
[Disclaimer: por eu próprio ser de uma classe passiva e do aspecto de Espaço como o exemplo canon de Musa que temos na obra, e alguns tópicos tocados serem mais sensíveis para mim, meus comentários nesse post são um pouco mais frequentes. Isso provavelmente não vai ser regra em todos os posts, mas acho válido avisar para caso fique irritante. - Adm.L] (Você é a única pessoa que eu deixo mexer no que eu escrevo, eles sobrevivem. - Adm. S)
Assim como foi na minha última postagem, eu vou começar pela pergunta óbvia: “O que é uma musa?”
Musas são uma de duas classes mestras. Especificamente a classe mais ativa de passiva e, assim como o Lorde é o molde para todas as classes do seu lado da balança, a musa é também a árvore de onde crescem todos os galhos. Seu poder é o de Comandar seu aspecto ou através dele (Apesar da preferência por ação indireta e inspirar. Mas lembrem do buraco negro. “Preferência” não quer dizer exclusividade). Elas são, como demonstrados por Calliope o arquétipo do mártir. Alguém humilde, disposto a disposto a sacrificar-se. O tipo que é tido como santo e, a depender da fé que praticava em vida, passará a ser visto como um por todos que vierem depois.
É da natureza de uma Musa pensar primeiro no outro, querer ajudar, buscar uma causa ou grupo ao qual pertencer. E esse aparente apreço pelo outro é o que leva a ideia de que uma Musa sempre será boa. Mas eu serei o primeiro a bater na mesa dizendo que uma dessas pode ser tão ruim quanto o pior dos Lordes, a depender, pode ser ainda pior... Porque você nem saberia que foi ela quem fez tudo. Alguém perfeito para ser o famoso lobo em pele de cordeiro. 
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Mas da mesma forma que o Lorde tem o arquétipo maligno clássico, musas tem o oposto. Milênios de história e religião [especificamente, cristianismo e catolicismo, com a fetichização do sofrimento das massas como uma forma de assegurar submissão dos menos afortunados - Adm. L] nos ensinaram a ver o martírio e o auto sacrifício como traços positivos e, mesmo após abandonar a BUSCA constante por isso, a glorificação dos mártires permanece como parte central da experiência cristã (E, querendo ou não, o cristianismo é a maior religião do mundo, contando com 28% da população mundial. É impossível negar a influência dela, tanto boa quanto ruim, nas mais diversas partes da cultura ocidental).
Sendo o mais óbvio exemplo aquele que, imagino, todos já pensaram sobre à medida que eu fui digitando.
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A musa é o arquétipo de Jesus, principalmente quando comparamos a situação de Calliope. Da mesma forma que a figura messiânica de Jesus deu a vida em troca da absolver a humanidade de pecados, e, em seguida, derrotar tanto a morte quanto o diabo a um nível conceitual, é fácil traçar o paralelo óbvio que a Querubim de sangue verde faz: Ela escolhe sacrificar a própria vida (a morte na cruz), para dar aos outros jogadores uma chance (a absolvição dos pecados, uma chance para alcançar o céu) de derrotar um grande inimigo (Sendo o Lorde English, como eu já disse antes, facilmente associado ao papel de Diabo).
Até mesmo a parte de vencer a morte acontece. Duas vezes, diga-se de passagem. Tanto com sua versão ascendida existindo como um fantasma (como espírito), quanto uma segunda vez, retornando a carne como um ser vivo graças ao Anel da Vida (completando a imagem do retorno bíblico do messias, completo com a iconografia apocalíptica da batalha em Collide).
Ironicamente, esses são paralelos diretos que não vem a mente porque já existe, na história, alguém que soa claramente como Jesus.
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[O ��NICO VANTAS REALMENTE VÁLIDO. - Adm.L]
Mas, todos sabemos que ele é a versão post-scratch de Kankri Vantas. Que era Seer of Blood, e não uma musa. Como pode-se explicar isso? É mais simples do que parece, na verdade. Na postagem sobre lordes eu e adm. L sugerimos que Karkat era uma paródia torta do Caliborn, uma caricatura. Traços como ter o seu sangue, a agressividade desenfreada, falar sempre gritando [diminuir seus aliados, jogar a culpa de seus pecados neles... Tá eu vou parar de reclamar do Karkat... Nesse post - Adm.L]... tudo aquilo, porém, é uma fachada para o verdadeiro rosto por baixo. Então o que eu tenho como sugerir aqui é que Karkat é, em essência, como Calliope, mas apresenta sua face como a de Caliborn. Kankri, por sua vez, faz o contrário disso. [Uma analogia clara que pode ser feita é a de que Karkat usa sua agressividade como um chihuahua, por medo, uma vez que quer mascarar o quanto ele se importa. Já Kankri usa a fachada de Guerreiro Social pra mascarar o quão desértico seu campo de fodas se encontra... TW xingamentos - Adm.L]
Sufferer, entretanto, é a versão realizada. A apresentação completa que, no ato de parodiar, tornou-se real em si e espelhou-se completamente no que ele deveria imitar aos olhos do mundo. Isso se dá vendo os Dancestors e os Ancestrais. Os Ancestrais como sendo versões completas dos conceitos quebrados e piadas meta-narrativas que formavam os Dancestors [uma vez que eles foram lentamente se perdendo e esquecendo de si mesmos conceitualmente, já que as Bolhas dos Sonhos são a Morte Final, o esquecimento, e para sobreviver a este inferno, eles se seguraram naquilo que acreditavam ser seus traços mais importantes. No caso de Kankri, defender os menos afortunados. Mas uma vez que o resto foi consumido, se tornou uma luta vazia, e algo com a qual ele não genuinamente se importa].
Mas eu não vou entrar no mérito de detalhar mais a situação dos Vantas. Teremos tempo para isso no futuro. [Oops... Foi mal - Adm.L]
Outro detalhe importante é para relembrar que a presença da Calliope, apesar de não diretamente indicada desde cedo como a do Lorde English... Esteve lá a tanto tempo quanto ele. Talvez até mais frequentemente. Porque, apesar de não aparecer como um Querubim durante os primeiros atos de Homestuck, ela esteve lá em outra forma desde o começo.
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Mesmo antes de Colide (onde a conexão Caliope/Serenity ficou ainda mais óbvia com a luz tomando o formato do símbolo de Espaço e motivando todas as crianças a se levantar e lutar com força total mais uma vez após terem caído), outras pequenas coisas serviam como paralelo. Tanto o apoio constante apresentado pelo vagalume, como também sua capacidade de se comunicar por “código morse” usando sua luz. Não apenas isso, mas o símbolo de espaço está lá a ainda mais tempo.
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A influência constante da Musa tendo sido demonstrada, é importante agora que eu dê minhas palavras de aviso. Uma Musa pode ser ruim da mesma forma que um Lorde pode. Ser altruísta não torna você automaticamente bondoso, e, mais uma vez, precisamos nos voltar ao canon para apagar esse estereótipo perigoso, pois Calliope especificamente é um Querubim. Aquela que herdou o alinhamento moral do Cherub vitorioso, o lado bom, e mesmo sendo o arquétipo de bondade, sua inatividade custou vidas diversas vezes.
Desde tornar-se o tipo de pessoa que acredita que “sabe o que é melhor para você/ele/x”, ou o tipo que tenta mexer na sua vida, sempre com pequenas ações, mas que, no final, ainda está controlando tudo. A Musa pode ser mais sutil e os possíveis males são menos clássicos. Mas devemos lembrar que as táticas mais efetivas de abuso são as sutis.
Dá mesma forma que sua contraparte ativa, a Musa também sempre buscará conexão a algo ou alguém, porém a Musa, diferente do Lorde (que é incapaz de sequer imaginar algo assim), busca fazer parte de algo maior do que si. Uma comunidade na qual ela possa se sentir inserida. No caso da Calliope, esse grupo do qual ela desejava fazer parte eram os Trolls [que, minha teoria pessoal diz, se dá pelo fato de ela ter sido criada por Gamzee, e Gamzee ser genuinamente um guardião incrível... Quando permitido - Adm. L].
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Mais até do que seu irmão com seu desejo de substituir Jake English, Calliope mantinha um desejo de se tornar parte do grupo maior. Não se tornando em um dos que lá estavam, mas inserindo-se em seu meio e participando. Aceita como ela é. Não apenas imaginando um OC, como indo além e fazendo cosplay, criando fanfic e muito mais. E seu desejo por companhia corria tão profundo que isso a levou a jogar o jogo do irmão ao escolher trapacear contando seu nome para Roxy.
Algo diretamente responsável por sua morte... porque Caliborn era um trapaceiro melhor. E usou o tempo para adquirir os serviços dos agentes de Derse, que mataram o dreamself de irmã. Garantindo assim que, da próxima vez que ela dormisse... Ela nunca iria acordar.
Então essa é a musa, alguém que, em seu melhor é inspiradora, criativa e boa de se manter por perto, mas que em seu pior afundara no pessimismo (como a versão ascendida da Calliope fez) e pode ser o pior e mais difícil de reconhecer tipo de pessoa tóxica.
Também é importante lembrar o que foi dito várias vezes quanto a relação de Lordes e Musas. Um tem muito a aprender com o outro. Para a Musa, uma atitude decidida, autoconfiança, e desejo para mover-se são coisas essenciais que elas deveriam aprender a assimilar. [Todo extremo é ruim e perigoso. Equilíbrio é a chave, gafanhotos. - Adm. L]
Adm. S (Lord of Hope) e Adm. L (Rogue of Space)
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vele-e-vento · 4 years ago
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Storicamente,  per convenzione, si stabilisce di far partire il medioevo dal 4 settembre 476 d.C. , data in cui Odoacre l’unno depone l’ultimo Imperatore di Roma, Romolo Augustolo,  e si dichiara Re di Italia, segnando  così anche la fine e “la morte” del termine giuridico di “Imperator di occidente”.
Se è indubbiamente vero che questo atto segna la fine dell’impero, in modo certo, o quasi, a mio vedere il medioevo invece va fatto cominciare da molto prima, ed esattamente con Costantino, il noto fondatore di Costantinopoli. Costantino non solo non si recò quasi mai a Roma nella sua vita se non in tre occasioni, una ricordata dal famoso arco ancora presente davanti al Colosseo, ma spostò ufficialmente  la sede imperiale,  cioè  spostò la capitale dell’impero di occidente a Milano (ma già Massenzio imperava da lì dal 286 d.C.). A Milano nel 313 d.C. con il famoso editto rese  il cristianesimo religione riconosciuta, e anni dopo Teodosio nel 380 d.C. la rese religione di stato.
L’eliminazione degli dei Romani  dalla vita pubblica è un fatto che segna un cambiamento epocale: e avviene prima de facto, e poi de iure (appunto nel 380 d.C.).  Costantino e S.Ambrogio vivono già spalla a spalla per motivi politici. Ma la figura di S.Ambrogio conviverà anche coi successivi imperatori, in un periodo in cui il primato petrino era ancora da venire, influenzando e marcando decisioni e azioni, in un intreccio complesso tra istituzioni religiose, politiche e civili. La capitale dell’impero di oriente è Bisanzio, quella di occidente Milano. E non Roma.
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Comincia il secolo in cui l‘opinione e il peso politico di vescovi, Papi, e di uomini di religione si fa centrale e determinante alla vita civile e privata, e questo è testimoniato anche archeologicamente nelle ville dell’epoca da cui comincia a scomparire, o meglio a convivere nelle rappresentazioni domestiche i segni del Cristianesimo con quelle degli Ercole o delle divinità romane che vengono soppiantate e ridotte a mera “superstizione”. Si venerano, per abitudine. La vera religione è quella cristiana e gli dei romani sono ridotti a “scaramanzia”. Si è sempre tenuto un Ercole in casa, teniamolo ancora non si sa mai. Si modifica la società, la sua struttura, anche l′iconografia, l’arte, la letteratura, il pensiero giuridico (si va verso l’abolizione della schiavitù),  e il pensiero filosofico, che si fa pensiero umanocentrico, cristocentrico, dominato da lotte di potere tra fazioni di cristiani, e partecipa di una visione finalistica ed  entelistica  (pensiamo alle Confessioni di S.Agostino, scritte nel 398  d.C.) che è una  caratteristica chiave del pensiero del medioevo.  Si entra quindi a tutto vapore nel medioevo ancora prima che l’impero crolli. Il medioevo in un certo senso è costruito, è stabilito, sulle lapidi e le forti colonne e gli istituti giuridici e civili stessi di Roma, e non sul suo crollo. Il mediovevo è    - o meglio  andrebbe - visto, come l’ultima fase della storia dell’impero di Roma.
Riporto quanto segue:
“Il comportamento di Costantino in tema di religione ha dato spazio a molte controversie fra gli storici; controversie aspre quando hanno preteso di valutare non solo il comportamento pubblico, ma le sue convinzioni interiori. In alternativa all'opinione tradizionale, secondo cui Costantino si sarebbe convertito al cristianesimo poco prima della battaglia di Ponte Milvio, è stata anche asserita una sua costante adesione al culto solare, mettendo in dubbio perfino il battesimo in punto di morte.
Secondo altri, invece,  la religione sarebbe stata per Costantino un puro e semplice instrumentum regni. Lo storico svizzero Jacob Burckhardt afferma: «Nel caso di un uomo geniale, al quale l'ambizione e la sete di dominio non concedono un'ora di tregua, non si può parlare di cristianesimo o paganesimo, di religiosità o irreligiosità consapevoli: un uomo simile è essenzialmente areligioso, e lo sarebbe anche se egli immaginasse di far parte integrante di una comunità religiosa». Secondo altri ancora, poi, occorre distinguere fra convinzioni private e comportamento pubblico, vincolato dalla necessità di conservare il consenso delle proprie truppe (se non dei propri sudditi). Da questo punto di vista è utile distinguere fra il comportamento di Costantino antecedente e quello successivo alla battaglia di Crisopoli, grazie alla quale conseguì il dominio assoluto sull'impero.
Che Costantino si sia progressivamente avvicinato al cristianesimo trova comunque d'accordo molti studiosi. Tra costoro, il grande archeologo e storico di estrazione marxista Paul Veyne sostiene con sicurezza l'autenticità della conversione di Costantino, ricordando, con J.B. Bury, che la sua «rivoluzione [...] fu forse l'atto più audace mai compiuto da un autocrate in spregio alla grande maggioranza dei suoi sudditi». E ciò in considerazione del fatto che la popolazione cristiana era circa il 10% del totale nel futuro Impero Romano d'Occidente.
Paul Veyne ha proposto un'interessante teoria per tentare di spiegare in modo razionale il fenomeno leggendario della visione che potrebbe aver spinto Costantino a una conversione solo apparentemente improvvisa. L'eminente studioso ipotizza che un sogno abbia potuto avere azione catalitica su un terreno psicologico predisposto da esperienze e suggestioni vissute precedentemente.
È comunque fuori di dubbio la sincerità costantiniana nella ricerca dell'unità e concordia della Chiesa, la cui necessità derivava da un preciso disegno politico che considerava l'unità del mondo cristiano condizione indispensabile alla stabilità della potenza imperiale. Costantino infatti interpretava in senso cristiano l'antico tema, caro alla Roma imperiale pagana, della pax deorum, nel senso che la forza dell'impero non derivava semplicemente dalle azioni di un principe illuminato, da una saggia amministrazione e dall'efficienza di un ben strutturato e disciplinato esercito, ma direttamente dalla benevolenza di Dio. Mentre però nella religione romana vi era un diretto rapporto tra il potere imperiale e le divinità, l'imperatore cristiano non poteva ignorare la Chiesa, un'istituzione che, tramite i suoi vescovi, era l'unica mediatrice della fonte divina del potere, e Costantino non poteva fare a meno di essere coinvolto nelle lotte teologiche della Chiesa. Su una tale base ideologica, questa ricerca dell'unità e della concordia dei cristiani comportava anche interventi molto duri nei confronti di coloro che lo stesso imperatore considerava eretici, che erano trattati come, se non più duramente, dei pagani. I conflitti teologici si trovarono dunque ad avere una ricaduta politica, mentre d'altra parte le sorti interne dell'Impero erano sempre più dipendenti dai risultati delle lotte teologiche; gli stessi vescovi, infatti, sollecitavano continuamente l'intervento dell'imperatore per la corretta applicazione delle decisioni dei concili, per la convocazione dei sinodi e anche per la definizione di controversie teologiche: ogni successo di una fazione comportava la deposizione e l'esilio dei capi della fazione opposta, con i metodi tipici della lotta politica.”
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afroscorpion · 4 years ago
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É PRECISO RE-EMPRETECER, RE-CABOCLIZAR, RE-ENCRUZAR A UMBANDA E A COMPREENSÃO DE SEUS ENCANTADOS. A Umbanda pode ser entendida como um produto da modernidade. Ela é resultado da marginalização da população negra, principalmente nos processos de urbanização, industrialização e migração no Brasil a partir da virada do século XIX para o XX. Na Umbanda encontramos a estratificação social brasileira transposta ao imaginário religioso. A grande riqueza da Umbanda é justamente preservar, na modernidade, elementos originários de diversas práticas afro-brasileiras, como o candomblé de tradição Congo-angola-caboclo, o catimbó-jurema, o terecô e a encantaria, bem como práticas da bruxaria tradicional ibérica e do catolicismo popular. Podemos encontrar em todo país as mais diversas práticas afro-religiosas que se auto-nomeiam Umbanda. É compreensível que entre a tamanha diversidade de cultos de origem africana no Brasil, tenha sido a Umbanda a que mais se popularizou, não somente por ser um fenômeno característico do sudeste territorialmente privilegiado, mas por ter se embranquecido, se tornado mais palatável ao gosto de uma sociedade que se imagina cristã e branca. Neste processo de busca de sobrevivência e legitimação social, a adoção de uma cosmologia evolucionista, progressista, emprestada do espiritismo kardecista francês, sistematizou e reduziu as requintadas narrativas míticas e mágicas encontradas nas Umbandas à uma parábola hospitalária, baseada no conceito cristão de caridade, na compreensão do Mundo como um lugar de expiação e provas e nos conceitos de espírito sofredor e iluminação espiritual. Esta cosmovisão, que divide tudo entre trevas e luz, é racista desde a sua base e é alheia às tradições africanas e ameríndias. Conhecemos bem os lugares reservados ao preto e ao branco nessa organização do mundo espiritual: quanto mais preto, mais primitivo e mais trevoso e quanto mais branco, mais evoluído e mais luminoso. A iconografia umbandista está intrinsicamente ligada à performance do transe mediúnico de seus adeptos. As entidades em terra e as imagens que a elas representam, espelham-se. Isto pode determinar atributos, indumentária, movimentos corporais e também as narrativas presentes nos pontos cantados. Neste processo de branqueamento, a representação iconográfica mais controversa e que vem sofrendo mais modificações é a de nossos compadres e comadres, do povo de Ganga, da rua, da estrada, da calunga, da encruzilhada: nossos Exus e Pombagiras. Os Exus que hoje são cultuados na Umbanda são espíritos ancestrais herdeiros de uma mítica associada às divindades primordiais africanas ligadas ao mercado, às trocas, à comunicação e aos caminhos, como o Esù dos yorubá, Legba dos jeje e Pambu Njila dos bantu. Inclusive em algumas tradições como o Tambor de Mina e o próprio Candomblé de Angola, os limites entre o que é exu-vodum/orixá/inquice e o exu-encantado, chamado catiço (um termo a se repensar) são muito tênues ou impossíveis de identificar. SABEMOS QUE EXU NÃO É O DIABO CRISTÃO! Porém, as representações mais antigas dos Exus de Umbanda (ainda encontradas nos mercados mais tradicionais) incluíam garfo, chifre, pés de bode, rabo, falo ereto e pintura vermelha. Atributos estes que podem ser lidos para além da reconhecida demonização de Exu por parte das igrejas cristãs, de satanizam não só Exu, mas tudo o que tenha origem preta no Brasil. A perseguição religiosa antes de ser doutrinária é racial. EXU NÃO É O DIABO! O chifre, os cascos e a barbicha pontuda metamorfoseiam Exu no bode, animal que lhe é consagrado. O bode, assim como todo animal de chifre, encontra-se em diversas culturas associado a insígnias de poder e virilidade. O Velocino de Ouro dos gregos, os cornos na cabeça de Moisés e até mesmo o carneiro no logo da marca de carros Dodge carregam esse significado. O bode em específico é o animal símbolo de fertilidade e resistência. Ele consegue fertilizar diversas cabras em um mesmo rebanho e resistir a longos períodos de estiagem. Ora, Exu não é o diabo da igreja, personificação do mal absoluto em oposição maniqueísta ao bem. Exu, a entidade que bebe, que fuma, que dança e dá gargalhada, não é, nós sabemos, o que as igrejas querem exorcizar. O que as igrejas sempre quiseram exorcizar, na verdade, são os corpos pretos (e tudo que à eles possa se associar) que sim, recebem Tranca-Ruas, Tiriri, Marabô, Maria Padilha ou Tata Caveira. De certa forma, ter Exu vestido como o diabo do outro, em algum momento nos protegeu. Fez o outro nos temer, pensar que não se deve mexer com o macumbeiro, e nisso há um certo poder. Hoje temos pleno entendimento que EXU NÃO É O DIABO CRISTÃO, mas até mesmo em momentos no passado onde essas duas figuras se entrecruzaram eu consigo compreender e confiar na inteligência e na capacidade criativa do povo de terreiro, que soube reinterpretar a seu favor o léxico simbólico da cultura hegemônica. Essa é a mesma lógica inclusive das práticas religiosas brasileiras populares para além dos terreiros, dos livros de reza brava, que ensinam como amansar o patrão chamando por Santanás, Caifás e Ferrabrás, como rezar o credo de trás para frente para que o inimigo não te veja, como fazer feitiço com chave de sacrário e pedra-d’ara de igreja, entre outras peripécias que desafiam, assim como Exu, toda e qualquer ortodoxia, invertendo a ordem imposta. É PRECISO REABILITAR O ENTENDIMENTO QUE EXU É NOSSO ANCESTRAL! Nas últimas décadas, atendendo à uma lógica de mercado que demanda por espiritualidades mais customizáveis e mais higienizadas, Exu ganhou um sabor de personagem de ficção científica, recebendo roupagens que o aproximam mais de um avatar de jogos de RPG, com capas e espadas medievais, do que dos ngangas bantu com seus ferros e ossos de advinhação ou dos antigos fidalgos lusitanos com seus capotes e cartolas pretas. O Exu de Umbanda perdeu sua cor vermelho-telúrico, igual o ejé que esguicha do pescoço do aquicó, para virar uma espécie de policial ou office-boy do astral: executor da lei do Karma e mensageiro dos espíritos de luz. Mesmo passando por esta palatalização e sendo cada vez mais popular, Exu continua localizado à margem. Ele não é mais vermelho, nem tem mais chifre. Foi pintado de um tom de pele que não é preto, mas também não é alvo o suficiente para fazê-lo ascender às esferas superiores da Aruanda, versão Cósmica, que vê energia e não vê cor, mas que no fundo todo mundo sabe que é mais um céu de branco. Criaram teorias para justificar os gostos de exu. Pseudo-ciência para explicar o bom marafo, o whisky doze anos, a velha macieira e até mesmo aquela bebida inglesa gostosa e perfumada, o gin, que descobrimos ser do agrado dos Exus depois que vieram para cá os sacerdotes ifaístas. O mesmo se aplica às variedades de tabaco que Exu sempre fumou: charuto, cigarro, palheiro. Tudo seria somente uma forma de dispersar os miasmas encrustados em nossos períspiritos por meio da fluidificação do álcool e da fumaça, etc, etc, etc. É inegável que uma boa baforada do charuto de Exu ou um gole de seu curiador pode mandar embora qualquer demanda, mas convenhamos, Exu vem em terra antes de mais nada para congraçar-se com os seus, visitar seus amigos e protegidos que o tratam por compadre. Apesar de muito trabalhar, Exu não é operário na fábrica da salvação das almas para bater seu ponto regularmente no terreiro e não ter direito de nem ao menos saborear uma caninha e um cubano apenas porque gosta. Esta lógica de santo de igreja, de mestre iluminado do estrangeiro que não precisa satisfazer nenhuma vontade humana não nos pertence. Nós cultuamos nossa ancestralidade alimentando-a, literalmente e dando-lhe satisfação. Os cultos de tradição africana estão baseados sobretudo em relações de bem-querença e reciprocidade. Cuidamos deles e eles cuidam de nós. Elaboraram mil teorias para fundamentar o uso do garfo de três pontas, de homenagem a Iemanjá por meio do cetro de Netuno, à trishula shivaísta. Tudo para esquecer que Exu, seja orixá ou encantado, pertence ao legado cultural africano no Brasil e que em determinado momento sua iconografia e mítica entrecruzaram-se com a do diabo católico. E está tudo bem, nós sabemos que EXU NÃO É O DIABO e não precisamos apagar o passado, achando que somos mais evoluídos do que os que nos antecederam ou que eles eram desprovidos de inteligência e não sabiam negociar socialmente. A relação dos Exus com o ejé – o sangue animal, símbolo da vida, tornou-se um grande tabu nas Umbandas de maior influência positivista/kardecista, as chamadas “Umbandas brancas” onde os trabalhos com Exu são muito pontuais e reforçam o estereótipo servil do espírito endividado que vem apenas para labutar em trabalhos de limpeza espiritual. A ojeriza ao ejé/menga animal, bem como outras substâncias entendidas com mais “fortes/pesadas” como o azeite de dendê e a aguardente coincide com o apagamento de elementos de cariz mais africano no culto umbandista. Um fato curioso é que a interdição ao abate ritual parece não poder se efetivar diante de um padê com bife cru ou uma farofa de miúdos, ainda servidos, mesmo pelas umbandas que não “cortam” para as entidades. A única diferença neste caso é que o “ejé xorô” foi cantado no frigorífico e não sobre o ibá e o ibosé foi limpo no açougue e não na cozinha do terreiro. A indústria cultural norte-americana abarrota nosso imaginário de economia em desenvolvimento com centenas de filmes, seriados, histórias em quadrinhos que louvam os feitos de sua ancestralidade céltica, anglo-saxônica e nórdica. No Brasil, o apagamento de memória constitui-se, desde o 1500, uma política pública e celebrar nossos antepassados não-europeus era considerado crime até algumas décadas atrás. Exu e Pombagira são nossos ancestrais. Se não o são sanguineamente, o são por algum laço firmado por algum mistério da existência. Eles, homens e mulheres que um dia existiram, são parte importante da ancestralidade coletiva do Brasil. É preciso reabilitar esta concepção do encantado ancestral, familiar, compadre, comadre que foi sufocada pela atitude branca extrativista que coloca a entidade como servidora de suas necessidades. É preciso parar de querer desculpar Exu, de justificar Exu. Exu é! E ponto. Exu e Pombagira, da gargalhada, do calor do fogo, do ejé, da pimenta, do marafo, do dendê, do gozo, da vontade, da satisfação, do falo rijo, da vagina úmida e do seio entumecido, da fumaça, do estouro da fundanga. Exu e Pombagira de tudo que nos faz lembrar que somos humanos e estamos vivos, nos protejam e continuem em nosso meio, nos visitando, nos orientando e celebrando conosco. LAROYÊ! Texto e imagem: Vieira Andrade, 2020
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campadailyblog · 4 months ago
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Hieronymus Bosch: Visioni del Paradiso e dell'Inferno
Hieronymus Bosch è un maestro della pittura fiamminga rinascimentale. Le sue opere allegoriche e visionarie esplorano il Paradiso e l’Inferno. Tra le sue opere più famose ci sono “Il giardino delle delizie” e il “Trittico delle Tentazioni di Sant’Antonio”. Queste opere sono piene di simbolismo religioso e surrealismo antico. Le “Quattro visioni dell’Aldilà” sono conservate alle Gallerie…
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historiamedieval · 2 years ago
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A iconoclastia é um período da história bizantina geralmente situado cronologicamente entre 730 e 843. Durante esses 113 anos, com um curto intervalo entre 787 e 815, iconografia, a tradição artística de mais de 4 séculos do Império Romano do Oriente sofreu grandes perdas. Isso significava que, por decreto imperial, a produção de imagens religiosas não só foi proibida, mas as obras de arte já existentes foram ativamente destruídas. Enraizando-se nas elites políticas e religiosas de Constantinopla, esse movimento teve um efeito duradouro no mundo medieval. Muitas vezes descrito como uma “idade das trevas” da arte bizantina, o iconoclasmo deixou uma marca inegável não apenas no futuro da arte do Império Bizantino, mas na Europa medieval em geral. Acesse nosso site (link no perfil ou nos destaques) e confira o artigo. https://www.historiamedieval.com.br/post/iconoclastia #curitiba #idademedia #medieval #middleages #historia #history #historiamedieval #medievalart #art #arte #iconoclastia #Iconoclasm (em Umbará, Parana, Brazil) https://www.instagram.com/p/ClHPUL8u2cs/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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altamontpt · 2 years ago
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"Mary On a Cross" - Ghost
Iconografia religiosa, adoração do diabo e riffs contagiosos - eis os Ghost
A banda mais estranha desta playlist semanal de música engraçada ou com piada, é Ghost. Uma banda hardcore ou hard-rock sueca, onde a banda usa máscaras que torna impossível reconhecer os músicos. O vocalista, também de máscara, é o Papa, que vai mudando de disco a disco. Iconografia religiosa, adoração do diabo e riffs contagiosos. Mas a banda de Tobias Forge é mais do que isso, um grupo de…
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caroline-gioia · 4 years ago
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Maio, mês da maternidade
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A maternidade é um tema bastante comum na iconografia religiosa, principalmente através da figura da Virgo Lactans, também conhecida, em italiano, como Madonna del Latte (”Madonna do Leite”). Muitas dessas representações acompanham grande parte da produção artística renascentista, com vários artistas de destaque. 
A imagem selecionada é de autoria do pintor francês Jean Fouquet, Madonna rodeada de serafins e querubins, de meados do século XV. A figura de Maria sentada no trono com anjos ao seu redor transmite elegância e magnificência à figura, no entanto, a questão da amamentação parece ter sido pouco relevada pelo artista. 
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genealogiadanudez-blog · 7 years ago
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A 'homoerotização' do martírio de São Sebastião
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Canonizado pela igreja, a figura de São Sebastião se configurou para o catolicismo como um grande símbolo de resistência cristã em tempos de perseguição religiosa durante parte do império Romano. Perseguido e alvejado a flechadas pelos soldados de Diocleciano, Sebastião não foi morto, porém assim fora eternizada sua imagem como mártir. Após insistir na pregação cristã, foi novamente sentenciado pelo imperador romano, desta vez culminando em sua morte a pedradas. Desde então, diversas representações de tal iconografia foram reproduzidas em diferentes momentos e espectros do campo das artes.
Foi durante o início do período medieval, entre 527 e 565, que surgiram as primeiras representações artísticas do santo. "A recorrência da representação do santo, seminu, voluptuoso e andrógino, desde o século XIV foi tolerada pela Igreja, considerando a influência da Antiguidade Clássica e também o fato de que São Sebastião era padroeiro das pestes, pois simbolizava o triunfo sobre a morte pelas flechadas" (SANTOS, 2016). Com o início do período da contrarreforma, a igreja decidiu substituir a imagem do santo pela figura de São Roque, por ser considerada mais decente e sábia na tarefa de protetor das pestes. Isso já elucidava o impacto dos pensamentos e representações estéticas da arte barroca que levaram a ver o "sexualmente explícito" na nudez.
“Num dos concílios provinciais realizados no continente americano ecoando essa virada— como o de Santo Domingo, em 1622 — determinou-se que nas pinturas sagradas se evite toda lascívia e se afaste toda superstição, e que tanto as representações como as relíquias dos santos não se adornem, nem se esculpam ou pintem com beleza torpe ou procaz” (SIBILIA, 2014). Foi apenas durante o período barroco que sua figura viria a ser dramatizada, e propositalmente erotizada, sintomaticamente já acompanhando a nova lógica de pensamento do período moderno. Não a toa, com as manifestações no final do século XX, são Sebastião viria a ser considerado um "santo gay" devido suas representações coincidirem com toda uma cultura de padrões estéticos da figura masculina homossexual criada no contemporâneo. É justamente nesta virada entre o período medieval e o moderno que se tornava cada vez mais perceptível nas representações das artes plásticas o início do fenômeno que viríamos a enxergar hoje como “pornificação” do corpo, mesmo tendo erotismo e religião coexistido na arte desde a Antiguidade Tardia. Isto se deve justamente às mudanças de lógica de pensamento advindo da construção e consolidação das regras que viriam a moldar as sociedades no mundo ocidental moderno e passariam a regir a nudez através da vergonha, não mais por uma lógica punitiva de coerção. 
Durante a efervescência cultural e libertária no final dos anos 60 nos Estados Unidos, diversos diretores LGBTs da cena underground - como Andy Warhol, Kenneth Anger e Jack Smith -, se propuseram a representar o corpo masculino no cinema experimental, fazendo críticas e sátiras com diversos arquétipos do universo gay masculino, como a figura dos motociclistas estadunidenses e cowboys, que perpassavam pelo imaginário popular. Derek Jarman, homossexual e politicamente ativo nas artes, se propôs a reproduzir a imagem do santo no polêmico “Sebastiane” de 1976, representando a vida de Sebastião sobre uma narrativa e estética "camp" bastante características de representação da figura masculina homossexual nas artes.
A construção desse ideal de corpo masculino viril e erotizado por artistas LGBTs já vinha sendo arquitetada por diversos outros artistas antecessores ao movimento no cinema, como os ilustradores Tom da Finlândia e George Quaintance, e fotógrafos como Bob Mizer e Bruce Bellas, que no início do século XX, moldariam toda uma forma de representação artística - os “beefcakes” -, em diversas revistas masculinas, tendo como grande influência a figura fisiculturista de atletas gregos, como Mílon de Crotona; cultura esta cujo ideias de representação foram perpetuadas até os dias de hoje, assolando diversas áreas como o campo da publicidade e da venda de um estilo de vida fitness e “saudável”.
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“[...] enfim libertados das severidades de outrora, porém suavemente intimados a se enquadrarem nos moldes do fítness para estarem à altura do que deles se espera. Ou seja: para poderem desfrutar dos sacrossantos prazeres da sua condição encarnada, deverão obedecer à reluzente moral da boa forma.” (SIBILIA, 2008)
Mesmo com alguns aspectos moralizantes ao redor da dessacralização de figuras religiosas, a chamada moral da boa forma ainda é um dos fatores principais para que algumas representações sejam melhor aceitas do que outras. A utilização de corpos fora de tais padrões de beleza ainda causam estranhamentos e repulsas devido a forte projeção histórica ao redor do corpo definido, malhado, padrão. As representações artísticas do atual universo LGBT masculino nada mais elucidam uma forte cultura moldada desde os períodos antigos, mas que apenas viriam a ter significados mais amplos com uma forte reivindicação dos direitos civis e igualitários do público LGBT, que ao finalmente se entenderem e apresentaram assim como indivíduos, foram estigmatizados e sujeitos a uma forte pressão social de performance e representação de seus corpos na mídia, em que, a fim de legitimar seu papel na mesma, acabaram por tornar-se cúmplices de seus parâmetros de controle, reproduzindo seu discurso coercitivo daquilo que pode ser ou não digno de ser exposto.
Referências Bibliográficas:
SIBILIA, Paula. O que é obsceno na nudez? Entre a Virgem medieval e as silhuetas contemporâneas. Revista FAMECOS, Porto Alegre, v. 21, n. 1, pp. 24-55, janeiro-abril de 2014.
SIBILIA, Paula. O corpo reinventado pela imagem. Revista Trópico, São Paulo, novembro de 2008.
SANTOS, Alexandre. Tensionamentos entre religião, erotismo e arte: o Martírio de São Sebastião. PPGAV/UFRGS, Porto Alegre, v. 21, n. 35, maio de 2016.
Luis Monteiro
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fondazioneterradotranto · 3 years ago
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Francavilla Fontana, città mariana per vocazione. Gli Imperiali e la chiesa di Santa Maria delle Grazie
1. Chiesa di Santa Maria delle Grazie (XVII secolo) (Foto di Alessandro Rodia)
  di Mirko Belfiore
Francavilla Fontana, città mariana per vocazione, contava ben nove luoghi di culto dedicati alla Vergine: chiese, complessi conventuali, santuari o piccole cappelle rurali, sparse fra il centro abitato e l’agro circostante. La constatazione di così numerosi siti religiosi dedicati a questa forma di devozione non deve risultare eccessivo, se si vanno a rintracciare tutte le chiavi di lettura di un contesto storico e antropologico così eterogeneo.
Il punto di partenza è sicuramente rappresentato dal mito fondativo, radicatosi fin dai primi anni del XIV secolo. Esso si basa su una tradizione che affonda le sue origini nel “miracoloso” rinvenimento di un’icona bizantina raffigurante la Vergine Odighítria (colei che conduce) e che sempre secondo la tradizione venne ritrovata in una chiesa diruta, durante una battuta di caccia a cui prese parte Filippo I d’Angiò principe di Taranto (14 settembre 1310).
Il culto di questa specifica iconografia cristiana ebbe molta fortuna in Puglia fin dai tempi della dominazione bizantina e in particolar modo fra la Valle d’Itria e il Salento. Questa affermazione è suffragata dalle molte analogie che la leggenda francavillese possiede con altri miti fondativi dell’area (es. Madonna della Scala di Massafra e la Vergine di Cerrate) ma deve essere comunque letta insieme a quella strategia di ripopolamento con fini giurisdizionali, di difesa e fiscali, voluta dalla dinastia angioina e volta a circoscrivere in aree più logisticamente accessibili, tutte quelle comunità “disperse” nei casali disseminati lungo l’Ager Uritanus.
Un disegno feudale ben orchestrato che venne realizzato tramite l’azione congiunta di due manovre politiche: da una parte, creando una narrazione leggendaria “in serie” che potesse fare da richiamo e spingere le popolazioni interessate a spostarsi verso il nuovo centro, dall’altra garantendo alle stesse una sequela di esenzioni in materia fiscale con l’aggiunta di concessioni e privilegi, da qui il toponimo “Franca-Villa”.
La sintesi architettonica di tutto questo processo è sicuramente da ricollegare nelle linee e nei volumi della Collegiata del Santissimo Rosario (modificata in quelle che erano le forme tardomedievali con gli stilemi baroccheggianti allora in voga, perché ricostruita dopo il terremoto del 1743), dove ancora oggi si conserva la succitata icona bizantina che, seppur controversa dal punto di vista storico-artistico, rimane sicuramente l’emblema principe della profonda devozione mariana del popolo francavillese e di quel lungo processo insediativo poc’anzi accennato.
Da non dimenticare l’apporto e il ruolo che ebbero gli ordini mendicanti nella costruzione di alcune strutture ancora oggi riscontrabili nel tessuto urbano, come i Frati francescani e i Padri carmelitani. Essi ubicarono le loro rispettive “case” fuori le mura cinquecentesche e fondarono con l’apporto feudale e il sostegno della popolazione due importanti complessi conventuali: Santa Maria del Carmine e Maria Santissima della Croce.
A tutto ciò, infine, dobbiamo aggiungere come fosse pratica diffusa invocare l’intercessione della Madre di Dio contro ogni tipo di calamità. Anche in questo caso non mancano gli esempi nelle comunità circostanti, una fra tutte Taranto, dove la Vergine venne eletta a patrona della città dopo i terremoti del 1710 e del 1743.
A Francavilla, la comunità innalzò piccoli siti devozionali come manifestazione religiosa e segno di fede, realizzati o sul luogo dell’accadimento stesso o in aree extramoenia che poi finirono per essere inglobate nel centro abitato in espansione: la chiesa di Santa Maria dei Grani, posta sulla strada per Villa Castelli, la chiesetta della Madonna degli Ulivi, sita nell’antico quartiere di Casalvetere e la piccola cappella della Madonna della Neve, incastonata nel centro storico. A conclusione di questo breve excursus trovo interessante menzionare un edificio che, oltre a sottolineare il rapporto fra la famiglia feudale degli Imperiali e il culto della Vergine, rappresenta un unicum architettonico poco approfondito fra quelli presenti: la chiesa di Santa Maria delle Grazie.
2. Madonna della Fontana (Icona bizantina, XIV secolo, affresco, Francavilla Fontana, chiesa Matrice).
  Il suo nome è legato a uno dei tanti eventi “miracolosi” che costellano la storia dell’abitato francavillese e che trova come protagonista un membro di quella dinastia feudale di origine genovese che per più di due secoli governò la città e l’area circostante: Aurelia Imperiali.
Nacque nel 1646 dal matrimonio fra Brigida Grimaldi e Michele II, primo principe di Francavilla e quarto marchese di Oria, e venne data in sposa a solo 16 anni (1662) all’ottavo duca di Martina Franca, Petraccone V Caracciolo, esponente di una delle più importanti dinastie nobiliari del Meridione.
Quest’unione matrimoniale presenta i classici connotati di un vero e proprio disegno dinastico, volto a stringere legami non solo di sangue ma anche di borsa con le famiglie più prestigiose del Vicereame napoletano. Parte di quella cospicua componente genovese radicatasi nel Mezzogiorno d’Italia, il casato degli Imperiali seppe ritagliarsi un ruolo di forza in un dei mercati fra i più prolifici del Sistema Imperiale spagnolo, anche legando i propri interessi a dinastie potenti e influenti come i Caracciolo, che potevano favorire un più rapido inserimento nel substrato sociale regnicolo.
Gli stessi Caracciolo avevano dignità di nobiltà fra i Sedili di Napoli (Seggio di Capuana), organo amministrativo a cui anche la famiglia Imperiali assurse autonomamente il 4 gennaio del 1743. Il raggiungimento di questo traguardo sociale decretò il compimento di un altro disegno di integrazione che li vide protagonisti nel Sud Italia fin dalla seconda metà del XVI secolo, evento quest’ultimo, suggellato dal trasferimento dei principi Michele IV ed Eleonora Borghese nella capitale partenopea. Al contempo non dimentichiamo che queste nozze portarono una boccata di ossigeno agli stessi Duchi di Martina Franca, i quali ricevettero in dote una cospicua somma (60.000 ducati), reimpiegata in buona parte per coprire i numerosi debiti contratti con l’acquisto del feudo di Mottola.
A differenza delle altre leggende cittadine, che in maniera diffusa vanno a comporre la genesi di alcuni degli eventi e degli edifici più rilevanti di Francavilla, la narrazione che vede protagonista la principessina Aurelia rimane una delle vulgate fra le più enigmatiche.
Poco dopo aver lasciato la città, la carrozza che conduceva lei e il suo seguito venne ostacolata lungo il suo percorso da un terreno paludoso particolarmente insidioso; Ed è proprio in questo frangente che la leggenda si fonde con il misticismo, perché solo grazie all’intercessione della Vergine Maria, il gruppo di viaggiatori poté scampare da morte certa visto il gravoso pericolo accorso. Che verità e mito vadano a confondersi con la visione fortemente cristiana della quotidianità dell’epoca, questo non deve sorprenderci, visto che molti sono quegli elementi che possono far presupporre come questa piccola “epopea” possa essere stata creata ad hoc come possibile tentativo di “santificazione” di un’area ben precisa. Il sito dell’accadimento miracoloso si ricollega indubbiamente al luogo dove oggi sorge l’edificio, posto lungo una delle vie di comunicazione che portano all’insediamento di Ceglie Messapica (Viale delle Grazie) e a meno di un chilometro da una delle porte di accesso delle mura settecentesche (Porta Cappuccini o Porta Nuova), il tutto inserito lungo la direttrice che conduce a Martina Franca.
Per quanto riguarda il contesto temporale, grazie a una serie di disegni conservati presso l’Archivio di Stato di Napoli e di probabile mano dello scultore francavillese Carlo Francesco Centonze, possiamo inserire il tutto in un lasso di tempo compreso fra la prima metà e la seconda metà del XVII secolo, nella fattispecie tra il 1649 e il 1662. Ciò comunque non dissipa i dubbi sulle suddette tempistiche, visto che tra la possibile fase costruttiva e la narrazione stessa i tempi non coincidono, dal momento che alla prima data rilevata (1649) Aurelia non aveva che solo 3 anni.
Bisogna aggiungere poi che dall’analisi dei suddetti prospetti, i dubbi che essi non siano dei veri e propri progetti ma dei rilievi di qualcosa di già esistente, aumentano inevitabilmente gli interrogativi in materia. Ragionando in maniera del tutto ipotetica, possiamo provare a dire che o il mito si sia sviluppato successivamente all’edificazione della struttura o che lo stesso nasca e si perda fra i meandri della tradizione cittadina come parte di quel gruppo di racconti difficilmente verificabili.
Se invece vogliamo rintracciare elementi a sostegno della veridicità della narrazione possiamo constatare alcuni dati fattuali. In primis, le croniche difficoltà che i viaggi dell’epoca erano soliti avere, il fatto che la stessa Aurelia si recò frequentemente a Martina Franca o viceversa a Francavilla in visita ai suoi familiari e infine, che l’area in cui l’edificio si posiziona presenta tutte le caratteristiche morfologiche dei terreni argillosi, condizione quest’ultima che viene avvalorata non solo dall’idrografia dell’agro francavillese, particolarmente ricca di falde acquifere, ma anche dalla presenza del Canale Reale, posto a pochi km dal luogo preso in esame e che all’epoca contava su di una portata sicuramente più consistente di quella attuale.
Tutto questo discorso storico-dinastico, seppure molto interessante, non può distogliere dal forte fascino che questo piccolo gioiello architettonico alimenta, se valutiamo anche il contesto feudale e artistico in cui esso si generò. A sostegno della commissione artistica voluta da Casa Imperiali, possiamo evidenziare di come il Centonze, scultore e progettista molto attivo in Terra d’Otranto, lo si possa ricollegare anche alle famose vedute a “volo d’uccello” realizzate nel 1643, sempre su commissione di Michele II, e che ritraggono le Terre di Francavilla, Oria e Casalnuovo, documentazione quest’ultima che conferma ulteriormente l’attività dell’artista presso la corte feudale.
Ciò che stupisce più di tutti è sicuramente la struttura, un’inedita pianta ottagonale sviluppata su due livelli, su cui poggia l’elegante cupola, chiusa in alto da un sobrio lanternino cieco. L’ampio tamburo si posiziona su di un basamento leggermente aggettante, da cui si dipana un piccolo ballatoio perimetrato da una ringhiera in metallo. Due eleganti scalinate poste sul lato sud mettono in collegamento l’edificio con il piano strada. A questo livello si aprono le quattro aperture con arcate a tutto sesto che in maniera simmetrica si raccordano con la serie di portali posti al primo piano, racchiusi fra eleganti cornici quadrangolari con motivi alla greca. A rendere il complesso meno compatto contribuiscono sia le quattro nicchie contenenti statue di santi che le quattro monofore strombate, decorazioni che con la loro semplicità regalano armoniosità al prospetto.
Nella ricostruzione della genesi costruttiva del plesso bisogna tenere a mente di come il progettista o i progettisti, tennero sicuramente in considerazione l’opera di Sebastiano Serlio: “I Sette libri dell’architettura” (XV secolo). Questo trattato di architettura ebbe molta risonanza all’epoca e grazia alla sua ampia tiratura a stampa, ebbe la capacità di diffondere con uno stile pratico e facilmente assimilabile oltre che gli schemi della tradizione classica anche gli elementi di novità portati dalla moderna architettura quattro-cinquecentesca, risultando molto utile nel reperire tipi di strutture non molto diffuse in determinate regioni. Seppur interessante per la comprensione dei motivi che portarono alla costruzione di questo edificio, bisogna sicuramente ridimensionare l’ipotesi dello studioso Giorgio Martucci, il quale ipotizza l’utilizzo di questa struttura come mausoleo dove raccogliere le spoglie dei defunti di Casa Imperiali.
Ciò non può trovare riscontro, visto che le fonti d’archivio attestano con certezza di come l’antica chiesa dei Padri francescani conventuali (poi intitolata a Sant’Alfonso Maria de’ Liguori) ospitasse la cappella di Sant’Antonio, oggi non più identificabile ma che durante il governo feudale, accolse alcune importanti figure come: Michele II (morto nel 1664), Andrea I (1678), Michele III (1738) con sua moglie Irene Delfina Simiana, e Michele IV (1782).
A ciò dobbiamo aggiungere di come altri luoghi situati lontani dai feudi atavici, divennero l’ultima dimora di altri componenti: Andrea II (1734, Santuario dei Padri agostiniani a Pianezza, Torino), Davide I (1575, Abbazia di San Benigno, Genova, oggi scomparsa) e i Cardinali Lorenzo (1673), Giuseppe Renato (1737) (Chiesa di Sant’Agostino, Roma) e Cosimo (1764) (chiesa di Santa Cecilia in Trastevere, Roma).
3. Palazzo ducale di Martina Franca (XVII secolo)
3. Palazzo ducale di Martina Franca (XVII secolo)
  Lo studio qui intrapreso vuole essere punto di partenza per un’analisi più approfondita del tempio religioso in questione, con lo scopo di fare un po’ di luce su alcuni dei quesiti ancora esistenti, uno su tutti la scelta costruttiva che ha portato all’utilizzo della pianta ottagonale. Questo tipo di configurazione architettonica si inserisce nel nugolo di quegli edifici a pianta centrale tanto diffusi in Italia, ma che in un’area come quella salentina presenta una certa unicità, ancor di più se osserviamo un territorio come la Terra d’Otranto.
A noi francavillesi, che fra i tanti capolavori del nostro cospicuo patrimonio artistico abbiamo ereditato anche quest’insolito quanto straordinario edificio, non rimane che perseguire l’importante compito di salvaguardia e valorizzazione che ci aspetta.
L’obiettivo che ci dobbiamo prefiggere non deve rimanere esulato solo al riappropriarsi di un bene culturale così importante, ma deve diventare uno degli elementi imprescindibili dell’offerta turistica locale, la quale potrà avvalersi della fruizione di questa struttura per poter meglio spiegare come Francavilla divenne vero centro pulsante di tutta la Terra d’Otranto, punto di incontro fra le province del Nord e del Sud della Puglia e sede di una delle corti fra le più vivaci di tutto il Regno di Napoli.
4. Prospetto_ pianta datata 1649_ particolare delle scalinate (Carlo Francesco Centonze, XVII secolo, Napoli, Archivio di Stato).
  APPENDICE DOCUMENTARIA
Archivio di Stato di Napoli (=ASN), Allodiali, I serie, Inventario delle carte del già “Archivio de Stati Allodiali esistenti in detto archivio”, f. 42, cc. 16,18,26.
BIBLIOGRAFIA
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pluravictor · 5 years ago
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Árvore e floresta
O Natal é uma armadilha. Como estudo antropológico, naturalmente. Algo tão dentro de nós, pertencentes à sociedade cristã ocidental e, neste contexto particular, membros da comunidade portuguesa, o olhar torna-se cego pela proximidade. O grande desafio é conseguirmos ter o olhar distanciado para analisar uma manifestação onde religião, cultura e modernidade se interligam tão fortemente, e são constitutivos das nossas identidades plurais (1). E por causa da modernidade, muitos fogem pelo esmagamento que provoca, independentemente de reconhecer a relevância e história do Natal. É um assunto com tanta matéria para desbravar que a entrega de presentes pelo Pai Natal parece um trabalho menos hercúleo. 
"(...) é mais fácil e ao mesmo tempo mais difícil estudar factos que se desenrolam sob nossos olhos, tendo como palco nossa própria sociedade. Mais fácil, porque a continuidade da experiência está salvaguardada, com todos os seus momentos e cada uma de suas nuances; e também mais difícil, porque são nessas raríssimas ocasiões que percebemos a extrema complexidade das transformações sociais, mesmo as mais tênues; e porque as razões aparentes que atribuímos aos acontecimentos nos quais somos atores são muito diferentes das causas reais que neles nos determinam algum papel.” — LÉVI-STRAUSS, Claude O Suplício do Papai Noel, p.14 
Tempo, modo e transformação. Há mais de dois mil anos, o nascimento de Emanuel, o Jesus que todos conhecemos tornar-se-ia o Cristo que mudou a história do mundo; as origens e adaptações religiosas deste nascimento; as celebrações do advento, desde o rito à culinária; a simbologia e a fé; as transformações, pagãs e comerciais; a crença e a normalidade. E a lista poderia continuar. Já muito se escreveu sobre cada uma destas características do Natal, e tanto (e tão bem) está exposto no “Suplício do Pai Natal”, de Lévi-Strauss. Sondei a questão do nascimento e do renascimento (Ano Novo), mas enveredar por este exercício necessitaria de mais tempo, e seguramente mais conhecimento, para desenvolver um trabalho correcto. 
Mas há que saber ler a árvore e entender a floresta. Na procura exaustiva de tema, encontrei na simbologia uma janela com vista curiosa. 
(1)  Não somos uma “coisa” só. Definimo-mos com tantos conceitos que um não funciona sem o outro. Homem, filho, pai, benfiquista, cristão, europeu, são apenas alguns elementos que identificam e, podendo nalguns casos isolar-se em determinado contexto, todos têm influência no modo e ideia do que somos.
ÁRVORE E FLORESTA Simbologia e conhecimento  Como um ornamento de Natal de origem pagã foi incorporado na cultura cristã 
RESUMO Árvore é vida, sim. Mas um pinheiro como símbolo de um evento ocorrido no Médio Oriente? As origens pagãs e “apropriação” cristã. A evolução da simbologia e da tradição. O conhecimento do simbólico até à ignorância por ser tradição. Experiência familiar.
PALAVRAS-CHAVE Árvore de Natal, Natal, simbologia, crença, paganismo, magia, tradição, história, marketing, cultura, ignorância, transformação, família
PARTE I
Florestas de símbolos O mundo está coberto de representações físicas, visuais e literárias de ideias e linguagem. Estão presentes na história e na cultura de povos antigos e actuais. São fruto da imaginação e da necessidade de comunicar. Criatividade e comunicação são irmãs gémeas da inventividade humana. Símbolos, signos e significados revelam mensagens específicas ou metafóricas, são caixas de segredos ou rostos de comportamento. A expressividade é espantosa pois temos um legado imenso de explicações do universo até o design-thinking criador de sinais de trânsito. Ou seja, “é dizer muito pouco que vivemos num mundo de símbolos, um mundo de símbolos vive em nós” (2). Em tantos momentos ou circunstâncias há uma mensagem, qualquer que seja a linguagem haverá sempre um receptor.
A ascensão vertiginosa do design e da publicidade após a Segunda Guerra Mundial, criou novos métodos de comunicação e uma presença cada vez mais constante no nosso tempo. Estamos sucumbidos ao branding, no seu conceito mais lato, bem para lá da sua génese que era a simples iconografia. A mensagem foi trabalhada, tendo a oralidade e a escrita ganho outros contornos que transformaram a semiologia da comunicação. Um dos maiores motores de criatividade e produção  de riqueza das sociedades industrializadas é o Natal. Modificou a preparação, criou uma antecipação próxima da ansiedade e alterações/adaptações no modo de celebração (nomeadamente nas iluminações de rua e, qualquer marca ou produto está “inundado” de tema natalício). Mas, não querendo entrar na crítica ao mercantilismo do Natal, mantendo-se como um evento social importante, é notório que a simbologia religiosa diminuiu. Do mistério do Natal passámos à magia do Natal. Dois conceitos bem diferentes, duas simbologias para a mesma efeméride.
Mergulhando em alguns livros sobre simbologia, a natação entre conceitos e observações brilhantes deixou-me muitas vezes sem ar. No fim de contas, não sou anfíbio. A necessidade de regressar à tona para respirar apenas me conduziu a mais leitura e igualmente mais assombro face à magnitude do tema. "Não será o símbolo o factor de socialização ou de endoculturação mais importante da vida dos homens?”, pergunta Mesquitela Lima (3). Muita da pesquisa e recolha de informação veio confirmá-lo. E uma quase urgência de entender melhor, saber mais. Talvez uma plataforma de salto interessante para esta piscina é a expressão artística de 1880-90s, que ficou conhecida como Simbolismo. Longe de serem os primeiros na história de arte (mas talvez, os últimos), pintores, músicos e escritores orientaram a sua criatividade com o uso de signos para uma nova percepção e valorização da nossa realidade interior. Os pintores Gauguin, Munch e os Pré-Rafaelitas e, os escritores Baudelaire e Verlaine, talvez sejam hoje os mais mediáticos intérpretes dos símbolos e dos significados. Lendo o antropólogo francês Dan Sperber (4), fico com uma noção que simbolismo e interpretação são alvo de animada discussão.
(2)  in Dicionário dos Símbolos, p.9 (3)  in Antropologia do Simbólico, p.54 (4)  "(...) symbolic interpretation is not a matter of decoding, but an improvisation that rests on an implicit knowledge and obeys unconscious rules.” do Prefácio, página xi da edição inglesa do livro Rethinking symbolism
Quo vadis? Embrulhado na temática do Natal, desdobrando perguntas para outras questões pertinentes, descubro que the devil is in the detail. Perdoe-me a introdução do belzebu, mas até o sujeito desta frase se alterou a certa altura de Deus para Diabo. A imaginação é inesgotável e as transformações são intermináveis. Qual, então, o caminho a tomar? 
Formulei um conjunto de questões (no fim desta Parte I) que enderecei a 54 amigos, via e-mail, e obtive respostas de 14 deles. Curiosamente 7 homens e 7 mulheres. Idades entre 21 e 55. Solteiros, casados, divorciados. Com e sem filhos. Ocupação desde universidade, medicina, criatividade e serviços. 
As respostas revelaram dois aspectos fundamentais. A primeira: esta época, de origem e fundamento religioso, é hoje vivido apenas como congregação de família. Segundo, que existe um desconhecimento do significado dos símbolos do Natal, em concreto da árvore.
A árvore (des)conhecida Segundo o Dicionário dos Símbolos, a árvore “é um dos temas simbólicos mais ricos e mais difundidos, e só a sua bibliografia daria para fazer um livro” (p.88). Em qualquer ponto do mundo representa sempre uma ideia de cosmos e vida, e especificamente para o Natal, é um símbolo forte mas cuja origem tem pouco de cristão. 
O verde das árvores inverno dentro possuía uma enorme conotação de vida, e as festividades do Solstício personificavam a renovação e o regresso próximo do Sol, dos dias quentes e das novas colheitas. Embelezar as casas com galhos reforçava todos estes desejos de um bom futuro. Muitos séculos se passaram e lentas transformações ocorreram até chegarmos à cristianização de uma tradição de vários povos pagãos da Europa central, nomeadamente no séc. XVI na actual Alemanha. De Árvore do Paraíso (honrando Adão e Eva a 24) até árvore de redenção pela vinda do Salvador, o caminho não deverá ter sido muito complicado uma vez que fé e devoção estavam diariamente presentes. Trazer pinheiros para o calor das casas e embelezá-las com velas, a representação da luz da vida, é outro elemento simbólico fundamental que podemos reconhecemos em celebrações luminosas de outras religiões em data similar, como o judaico Hanukkah ou mais distante indiano Diwali. O costume virou tradição mas a árvore de Natal nos territórios anglófonos (Grã-Bretanha e futuras colónias norte-americanas) eram entendidas pelas congregações cristãs mais puritanas como símbolo de paganismo, havendo diversos episódios de repúdio e punição. 
O pinheiro tal como hoje o conhecemos apenas no séc. XIX iniciaria a sua marcha para o sucesso com relevância central na celebração do Advento. Curiosamente, na corte inglesa. Se Catarina de Bragança, rainha emigrante introduziu o hábito do consumo de chá no reinado de Charles II, seria outro royal igualmente emigrante que levaria a tradição do pinheiro de Natal para Londres. O Príncipe-Consorte Albert, alemão, marido da poderosa Rainha Victoria, inseriu na cultura britânica o que na sua terra de origem era comum há alguns séculos. A publicação no Illustrated London News, em Dezembro de 1848, de uma ilustração da rainha e a sua família à volta de uma árvore de Natal, influenciaria para sempre a moda a seguir pelos seus súbditos. Antes do final do século, o sucesso de uma velha tradição medieval agora chic entre as mais variadas famílias inglesas, conduziria à exponencial implantação entre os “primos” da sociedade norte-americana. Se as cada vez maiores catedrais góticas eram competição entre dioceses na Velha Europa, nos EUA cada cidade tinha de ter a maior árvore de Natal, sendo a anual iluminação da árvore na praça do Rockefeller Center, em Nova Iorque, o mais representativo desta corrida desenfreada que pouco mais de um século depois ainda assistimos.
As origens pagãs e a “apropriação” cristã. A evolução da simbologia e da tradição. O conhecimento do simbólico até à ignorância por ser tradição. O cruzamento de culturas e mero costume de praticar o habitual fez muitos esquecer o porquê das coisas. O estranho(?) é como a curiosidade se ausenta. Algumas igrejas manifestam-se contra o crescente paganismo (5) do Natal e descristianização da sociedade. Não discordo por inteiro, pois o elemento central parece cada vez mais invisível: antes havia o Menino Jesus e o presépio, agora temos o mágico Pai Natal e as renas. Mas isso é outra conversa. Contudo, leio a crítica igualmente como um não-reconhecimento da evolução das celebrações, e não entenderem o modo como o humano sempre produziu cultura, juntando vários elementos espelhos da sua própria diversidade.
As respostas quanto à importância das simbologias demonstra a necessidade de perpetuar objectos representativos do que se celebra. Não para se saber onde estamos, mas para nos sentirmos inteiros nesse lugar especial. “Quanto mais um símbolo é vivo, mais ele é a melhor expressão possível de um facto” (6). A Árvore de Natal é hoje esse símbolo vivo, um microcosmos de um mundo maior, uma representação essencial de uma realidade concreta do indivíduo e do colectivo, dos valores de (re)união, amor, partilha e felicidade, uma parte de nós próprios e da família a que pertencemos.
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(5) A católica Canção Nova no artigo avisa contra “Os perigos de trocar os símbolos cristãos pelos pagãos no Natal” https://formacao.cancaonova.com/liturgia/tempo-liturgico/advento/os-perigos-de-trocar-os-simbolos-cristaos-pelos-pagaos-no-natal/ (6) JUNG, Carl Gustav, “Types psychologiques“, Genebra, 1950, p.492 como enunciado na introdução de Dicionário dos Símbolos
— QUESTIONÁRIO E RESPOSTAS
1. A época de Natal é um momento especial. Uma delas é o nascimento de Jesus. O período do Advento significa chegada, tempo novo. a) O que significa para ti o nascimento de Jesus? b) Nesta época, o que é mais forte: a fé, a família ou a cultura? c) Para lá da religião, qual a simbologia de um nascimento?
2. A simbologia da Árvore de Natal  a) É importante para ti? b) Porque achas que um pinheiro possa ser um símbolo de um evento ocorrido no Médio Oriente?  c) Será tão importante assim expor/usar objectos simbólicos?
1. a) 
O nascimento de Jesus Cristo, há muitos anos tinha um grande impacto e simbologia, devido à minha educação maioritariamente cristã. Contudo, com o passar dos anos penso que acabei por ceder à ideologia capitalista do Natal. Por diversas razões.
Uma data para relembrar que todos temos o mesmo valor independentemente da nossa origem, contexto, aspirações.
Para mim o nascimento de Jesus é um marco na história da igreja e na sociedade que eu revivo com uma reflexão de que podemos voltar a acreditar na igualdade, um momento de serenidade sobre a sociedade e aceitar as diferenças. Tudo isto porque sinto que os princípios da doutrina religiosa me fazem reflectir desta forma.
Do ponto de vista da religião cristã o nascimento de Jesus representa a chegada do salvador. No entanto, para mim, o nascimento de Jesus representa o Natal, uma época de Paz, Amor, Partilha e Solidariedade. 
Jesus foi descrito como um ser humano excecional, então, poderia dizer que significa o amor mais puro. Tal como quando nasce um filho que se deseja torna-se num bom ser humano.
O nascimento de um homem importante na história da humanidade que marcou a vida de milhões de pessoas.
O nascimento de Jesus significa esperança num dia melhor e renovação.
Absolutamente nada. Ou talvez o momento em que espero pela nova música da Rádio Comercial.
Como católico pouco praticante/crente acredito que Jesus nasceu, filho de Maria e José. Era um líder de convicções fortes que mobilizou uma série de seguidores... O que significa o seu nascimento... Natal, celebração do nascimento de uma figura história central na maneira como a história é contada na Bíblia.
Um evento histórico.
Celebração religiosa de uma história de esperança.
Facto histórico usado por religiões para conduzir pessoas ao longo dos tempos no corredor estreitinho do obscurantismo.
Hoje em dia para mim nada. Mas ajuda a ensinar os mais pequenos a terem mais parcimónia, mais igualdade, mais vontade de ajudar o próximo. A serem mais humanos dentro de um espírito de bondade. 
Acredito em Deus Universal, em fé. Jesus é uma figura “forte” mas acima de tudo é cultural. Ainda somos um povo maioritariamente católico mesmo que não praticantes.
1. b)
Para mim, o Natal acabou por perder simbologia a partir do momento que a minha família foi minguando de tamanho. Apesar disso, penso que provavelmente a família.
Por esta ordem: família, cultura, fé. 
Na minha opinião, o que é mais forte é a família. É o encontro, um momento de proximidade entre todos, fazendo-nos sentir que pertencemos a uma comunidade que está ligada por laços de sangue.
A família.
A família.
A família e os amigos.
A fé e a família.
A família. É uma altura em que conseguimos e nos esforçamos para estar todos juntos. A desculpa? É Natal!
Família.
A família.
A família.
Definitivamente a Família.
Família.
Estão interligados e não independentes.
1. c)
O nascimento está sempre ligado com a noção de começo. Em parte, acho que existe uma grande ligação entre esperança e nascimento. Esperança de que a criança tenha melhores oportunidades, que qualquer que seja o projecto, corra bem. Esperança, em geral e positivismo.
Continuidade e renovação.
A simbologia de um nascimento é uma descendência familiar, uma nova geração. Pessoalmente é uma vivência, aprendizagem, uma nova fase da vida.
O nascimento representa a vida, a continuidade da prole, o futuro. 
É o fruto do amor entre duas pessoas, um momento muito especial de certeza.
O nascimento é um marco do que é novo. E tudo o que é novo pode influenciar os outros.
Esperança e continuidade da família.
Recomeço, renovar da esperança na humanidade. Os que temos cá poucos prestam. Talvez tenha nascido um "messias"? Para quem não acredita vai aqui uma grande confusão…)
Vida, possibilidades, oportunidades, futuro.
Uma dádiva. Suponho eu, que não tenho filhos.
Esperança.
Prova provada da atracção que dois adultos sentiram. A crença no Futuro. O gene egoísta.
Nascimento é vida, é renovação, é ciclo. Natureza viva.
2. a)
Sim.
Sim é importante. Um símbolo da alegria da infância, dos presentes, da magia da luzes, do calor das reuniões de família, doces de natal…
Não.
É. Há alguma magia nas luzes, nas cores e na alegria das crianças. É o espirito no geral, sem cultura, só pela beleza.
Sim.
Nem por isso. 
A Árvore de Natal é um símbolo importantíssimo de uma época securizante chamada infância. Devolve-nos a crença mágica num mundo bom e belo que - apesar de não existir realmente - gostamos de acreditar que existe. E se calhar existe mesmo...
2. b)
Não sei.
Nunca tinha pensado nisso. Não faço a menor ideia.
Nunca questionei...é pinheiro, já não é dos verdadeiros porque não se pode, mas é verde, nada cá de cores. E se tivesse alguém que me fizesse um presépio à antiga, com musgo verdadeiro e tudo era o delírio. Voltava a ser aquela menina pequenina que ficava no colo do avô a ver o moinho de água a funcionar e imaginar uma vida onde tudo era perfeito (ao contrário da minha na altura…)
Nunca tinha pensado nisso! Por aquilo que me apercebi é uma tradição que começou há 500-600 anos no norte da Europa (Alemanha, Estónia, Latvia). Aparentemente quem deu um empurrão valente em termos de marketing à árvore de natal foi uma rainha inglesa, em 1800. O seu uso tornou-se popular a partir daí no Reino Unido, Estados Unidos e presumo, no resto do mundo.
Sei que faz parte da bandeira do Líbano.
Não faço ideia. Fenómenos de aculturação? Falta de google na época? Influências de um Norte europeu rico e poderoso?
2. c)
Não é muito importante, mas ainda assim importa sempre…
Sim! Ajuda-nos a fazer sentido da nossa história, pessoal, como comunidade, como humanidade.
Sim. Todas as culturas exprimem as suas características através de objectos, imagens, desenhos que contêm uma carga simbólica. Sejam árvores, máscaras, bandeiras, músicas, ou qualquer outra forma. São tudo caminhos para uma comunidade expressar a sua identidade e os seus valores culturais. Sendo em simultâneo fonte de identificação, agregação e comunhão individual e colectiva.
Para mim, pela magia a que me leva, pela tranquilidade. Porque nos é permitido estar em família, sem pressas, todos de férias. Até do mundo podemos mesmo “relaxar".
Sim. Objectos simbólicos/símbolos fazem parte da nossa cultura. Através daquilo que representam movem-se massas, para o bem e para o mal…
Sim, faz parte da nossa identidade.
Claro que sim, o que seria de nós sem símbolos? Imaginem o que seria ter de explicar, chegada a época de Natal, a toda a gente lá em casa: Chegou a época de sermos melhores e desejarmos boas festas, engendrar presentes misteriosos que dirão a quem os oferecermos que nos lembrámos dessa pessoa, ou seja que essa pessoa é importante para nós, chegou a altura de descermos à infância e celebrarmos com os mais pequenos a magia e acreditar num mundo melhor, está a chegar a época de nos reunirmos com todos os que gostamos. Dizer isto todos os dias a toda a hora? Nah... Enfeita-se a árvore de Natal, ligam-se as luzinhas coruscantes e pronto, está tudo dito.
PARTE II
Christmas em London (7) Se o Natal é uma regularidade cumprida de forma mais ou menos generalizada, entre nós não. Todos os anos realiza-se de forma diferente. Talvez a única consistência celebratória aconteceu quando criança, em casa da minha avó paterna enquanto era viva (que incluía a Missa do Galo). A idade adulta trouxe lugares e pessoas diferentes à equação. Na casa dos pais ou dos sogros. Ponto em comum, o bacalhau. Mas também um certo tédio, porque o Natal é para as crianças, como é costume dizer-se. Quando o meu filho era criança pré-escolar, a alegria dele encantava-nos. A magia do Natal entre adultos perde-se, torna-se um simples cumprir da tradição. O meu divórcio reduziu este tempo a nada, já lá vão 6 anos. A morte do meu Pai, em Novembro de 2018, para a minha mãe, menos que nada. Ambas as situações pessoais eliminaram a vontade de celebrar o Natal no seu todo, sendo a ausência de ornamentos e respectiva Árvore o mais evidente.
Este Natal de 2019, foi diferente. O meu irmão mais novo vive e trabalha em Londres. Com ele, a minha cunhada e a família dela, também da Madeira como a minha mãe, a semana do Advento foi inteiramente diferente e, pela primeira vez em muitos anos, vivido com alegria. Seguramente para a minha mãe estar de volta a uma terra que tão amou, na noite vespertina em conjunto com os seus dois filhos, a ausência física do meu pai foi apenas isso, física, pois em nenhum momento a sua existência foi esquecida apesar da diferença de lugar. Talvez a simbologia da família feliz se tenha reconstituído à volta de uma sala e mesa ricamente decoradas com ornamentos natalícios clássicos (árvore de Natal, velas, azevinho, o design da toalha verde, o vermelho de pequenos fatos de Father Christmas que continham talheres especiais), o luso bolo-rei (curiosamente não havia o bolo de mel, delícia madeirense própria do Natal), todos de chapéu de cone (9) (que aqui em Portugal se acontecer agora será pela internacionalização comercial), os famosos Christmas crackers (9) ingleses que há tantos anos não via e, como o bacalhau que levámos de Portugal não demolhou a tempo, jantámos o madeirense Carne de Vinha d’Alhos (10) que se come no almoço de 25 de Dezembro. Uma conjugação de elementos culturais, de dois territórios lusos (Portugal continental e Madeira), de Inglaterra (dizer britânico aqui seria um abuso, pois estas ilhas são igualmente diversas), dois idiomas e, um calor humano e físico notórios (casas quentes, fosse assim tão bom em Portugal no inverno). Toda uma experiência nova, ao que se juntou a troca de presentes e um longo fim de serão jogando board games (jogos de tabuleiro, como diversão tradicional inglesa).
Talvez seja isto a simbologia do Natal que prevalece e que obtive nas respostas ao meu questionário: que a família é o mais importante. Não há referências a Jesus, a Missa do Galo é de outra época; estas tradições e culturas religiosas desvaneceram. A geração da minha mãe vivia o Natal em plena religiosidade, passadas tantas décadas a laicização do Natal predomina e sem confronto com o passado. O denominador comum são as pessoas que aprecia manter este vínculo social que é a família e, quanto mais gosto houver em estarem juntas, mais feliz será esse momento de uma noite santa e o festivo dia seguinte.
(7)  Mistura de idiomas é propositado. Tradições de dois lugares reunidos em alegria. (8)  Enfeitar a cabeça era um costume antigo no Império Romano, que nestes dias de Dezembro celebrava Saturno, culminando as festas a 25. O início da Cristandade para melhor implementar a nova crença usou esta data para evocar o nascimento de Jesus Cristo. (9)  Christmas crackers: cilindros como se fossem embalagens de rebuçados gigantes, cerca de 3cm de diâmetro que, todos à mesa puxam as pontas em uníssono, rebentam e revelam do seu interior um brinde ou texto de boas novas ou humorístico. (10)  Esta tradição gastronómica da Madeira tem, naturalmente, origens anteriores. Levada por colonos do Minho, a carne de porco (em virtude das matanças deste animal para esta época) é marinada em vinho e alho durante alguns dias. Os “toques” regionais são os condimentos, especiarias e o acompanhamento de pão banhado na água da cozedura, uma forma de aproveitar pão duro para nada desperdiçar, face às carências de tempos antigos mas igualmente da inventividade para se comer bem.
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SPERBER, Dan (1975) Rethinking symbolism, Cambridge: Cambridge University Press, 1977 2ª Ed.
— Online
History of Christmas Trees https://www.history.com/topics/christmas/history-of-christmas-trees Artigo do canal de televisão History, de 27.10.2009 e actualizado a 9.12.2019
“Os perigos de trocar os símbolos cristãos pelos pagãos no Natal” https://formacao.cancaonova.com/liturgia/tempo-liturgico/advento/os-perigos-de-trocar-os-simbolos-cristaos-pelos-pagaos-no-natal/ Artigo da autoria de Canção Nova, comunidade católica brasileira / lido 14.01.2020 
— Ensaio Final para  PROBLEMÁTICAS CENTRAIS DA REFLEXÃO ANTROPOLÓGICA 1º ano, 1º semestre • 2019/2020 15 Janeiro 2020 — Avaliação: 18 Nota Final de Semestre: 18 Licenciatura de Antropologia  |  Iscte-IUL, Lisboa
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freedomtripitaly · 5 years ago
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Il Tempio Espiatorio della Sagrada Familia, in spagnolo Templo Expiatorio de la Sagrada Familia, è il monumento più visitato di tutta la Spagna e uno dei monumenti simbolo della città catalana di Barcellona. Una delle particolarità di questo affascinante edificio religioso, consacrato soltanto nel 2010, è quella di essere a tutt’oggi in via di ultimazione, come spesso avveniva per le grandi cattedrali erette nel Medioevo. La storia della Sagrada Familia, il capolavoro di Antoni Gaudì Il primo progetto, mai messo in opera, per erigere una grande chiesa nel quartiere allora ancora periferico dell’Eixample nasce nel 1881 e doveva prendere come modello il santuario italiano di Loreto, nelle Marche. I lavori, cominciati l’anno dopo, vengono affidati all’architetto Francisco de Paula del Villar y Lozano (1828-1901), che subito modifica il progetto originale in favore di una chiesa in stile neogotico. A causa di forti divergenze interne, Lozano abbandona il progetto nel 1883: neanche un anno dopo la posa della prima pietra. Al suo posto viene scelto un giovane architetto di nome Antoni Gaudì, che rivede completamente il progetto e vi si dedica per oltre 40 anni fino alla sua morte, nel 1926. Negli ultimi 15 anni della vita si dedica esclusivamente alla costruzione di questa grande chiesa. La sua presenza nel cantiere era quotidiana, tuttavia i lavori procedevano a rilento, in parte per l’irregolare flusso delle donazioni necessarie alla realizzazione e in parte perché numerosi dettagli del progetto Gaudì li ha definiti man mano che si procedeva con la costruzione. Consapevole del fatto che i lavori avrebbero proseguito anche dopo la sua morte per decenni, e forse per secoli, l’architetto catalano preferì completare intere sezioni dell’edificio, anziché esaurire tutte le risorse a disposizione per impostarne il perimetro, per lasciare un’idea tangibile del progetto originale a chi si sarebbe fatto carico di proseguire. Gaudì muore all’improvviso travolto da un tram a Barcellona nel 1926 riuscendo a realizzare soltanto la facciata della Natività e la torre di San Barnaba. Dieci anni dopo esplode la guerra civile spagnola e un gruppo di anarchici catalani danno fuoco alla cripta distruggendo il laboratorio di Gaudì, i suoi disegni, i suoi appunti e alcuni modelli in scala delle future sezioni della chiesa. Soltanto dopo a un lungo lavoro di recupero e di restauro di questi modelli, dal 1944, terminata la guerra, è stato possibile riprendere i lavori, la cui fine è prevista per il 2026. Scoprire la Sagrada Familia Man mano che la costruzione si innalza, il modernismo naturale di Gaudì si arricchisce sempre di più di particolari fantastici. Un grandioso superamento del neogotico in favore di linee e forme sempre più organiche e ispirate a quelle della natura. Una concezione che è cambiata nel corso degli anni, adattandosi alla sensibilità del suo creatore e alla sua costante ricerca di nuove soluzioni, paradossalmente aiutata dalle periodiche interruzioni dovute alla mancanza di fondi. La pianta della Sagrada Familia è a croce latina. Al di sopra della cripta si trova l’altare maggiore attorniato da sette cappelle; poi il transetto a tre navate con le rispettive facciate laterali della Natività e della Passione, mentre il corpo centrale di ben cinque navate terminerà con la facciata della Gloria, ancora in costruzione. La Sagrada Familia, una volta ultimata, potrà contenere circa 14 mila persone. La Sagrada Familia: le facciate e le torri L’esterno del complesso della Sagrada Familia è impreziosito da una complessa e a dir poco vertiginosa iconografia legata ai culti e alle festività connesse alla religione cattolica attraverso gli Apostoli, gli Evangelisti, la Vergine Maria e Gesù. Gran parte delle sculture dell’esterno sono state disegnate da Gaudì in persona, realizzando prima dei modellini e poi dei calchi in gesso, sui quali adattava le proporzioni che avrebbero dovuto avere una volta scolpite nella pietra. Più in alto si trovano le figure, più aumentano le loro dimensioni. Dal complesso si innalzeranno in totale diciotto torri dal profilo parabolico: quattro per ogni facciata, una torre-cupola posta sopra all’abside dedicata alla Vergine e un’altra al centro intitolata a Gesù, alta 170 m. e attorniata a sua volta dalle quattro torri degli Evengelisti. Le torri hanno altezze differenti secondo la posizione gerarchica del personaggio da ciascuna rappresentato. La torre del Cristo sarà a sua volta sormontata da una croce a sei bracci alta 15 m., mentre quella della Madonna avrà al suo apice una grande stella a dodici punte: la stella di San Martino. L’edificio nel suo complesso però non supererà una volta terminato l’altezza della celebre collina cittadina di Barcellona, il Montjuic, perché come lo stesso Gaudì sosteneva: “l’opera dell’uomo non deve in nessun modo superare quella di Dio”. Si consiglia, ancora prima di entrare a visitare l’interno, di trovare un posto tranquillo, dove sedersi comodamente e ammirare, proprio come si farebbe con un dipinto, le grandi e meravigliose facciate della chiesa: Facciata della Natività (nord-est) Il suo aspetto neogotico è movimentato dai portali decorati con motivi vegetali e dedicati alle virtù teologali (Speranza, Fede e Carità). Il portale della Carità, al centro, è sovrastata da un’immenso Albero della Vita. Decorazioni di giubilo evocano gli episodi della vita di Gesù, esaltandone la componente umana e famigliare. La facciata, costruita tra il 1894 e il 1930, è sovrastata da quattro torri campanarie decorate con parole come Hosanna, Excelsis e Sanctus, e dedicate rispettivamente ai santi Mattia, Giuda, Simone e Barnaba. Le sculture sono state terminate soltanto nel 2000 dall’artista giapponese Etsurō Sotoo (1953). Una curiosità legata a queste sculture è il fatto che Gaudì, nel realizzare i calchi in gesso, prese a modello cittadini barcellonesi vivi e morti, ritratti direttamente presso l’obitorio locale. Facciata della Passione (sud-ovest) Del tutto differente dalla precedente, questa facciata non comunica gioia bensì terrore, per riflettere al meglio l’agonia del Cristo durante la crocifissione. L’effetto drammatico è cupamente sottolineato dalle sculture dell’artista barcellonese Josep Maria Subirachs (1927-2014). Sei pilastri obliqui incorniciano le porte d’accesso alla chiesa, sovrastate da un frontone piramidale con colonne a forma di osso, bordato in alto da una corona di spine. Tra le decorazioni spuntano parole tratte dalla Bibbia in svariate lingue, tra cui ovviamente il catalano. Anche qui i portali sono dedicati rispettivamente a Fede, Speranza e Carità, mentre nella parte terminale della facciata si allungano quattro torri dedicate ai santi Giacomo il Minore, Tommaso, Filippo e Bartolomeo. Facciata della Gloria (sud-est) I lavori di questa facciata sono iniziati soltanto nel 2002 e sarà la più grande di tutto il complesso e verrà dedicata alla gloria celeste di Gesù. Darà accesso alla navata centrale e rappresenterà la Morte, il Giudizio Finale, la Gloria e, per contrappasso, all’Inferno. Solamente abbozzata da Gaudì, sapendo che non avrebbe potuto vederla realizzata, sarà quella sulla quale gli architetti avranno carta bianca per quanto riguarda l’esecuzione. Avrà un portico preceduto da una grande scalinata, rappresentando così l’apoteosi della Sagrada Familia. Se nel 2026 sarà completata come dicono, non resterà che venire a Barcellona per ammirarla in tutto il suo splendore. La Sagrada Familia: interno, cripta e abside Gaudì sosteneva che “nulla è arte se non proviene dalla natura”. L’interno della Sagrada Familia di Barcellona è stato infatti pensato come un bosco fatto di pietra e di luce. Le colonne ricordano la forma degli alberi, con i rami che si dividono sinuosi a sorreggere le volte intrecciate e iperboliche del soffitto. La luce che entra dalle vetrate multicolori muovono ed esaltano lo spazio, amplificando il connubio tra la natura e la spiritualità religiosa. Al di sotto dell’abside centrale si trova la cripta, la sezione più antica del complesso, modificata però da Gaudì sostanzialmente. I capitelli, per esempio, dai motivi classici hanno assunto le attuali forme vegetali, mentre la volta è stata enormemente rialzata. Gaudì circonda inoltre la cripta da un fossato, utile per la luce e la ventilazione. Al di sotto della volta sono disposte a semicerchio sette cappelle dedicate alla sacra famiglia di Gesù (il Sacro Cuore, l’Immacolata Concezione, San Giuseppe, San Gioacchino, Sant’Anna, Sant’Elisabetta e San Zaccaria). Di fronte a queste in linea retta vi sono altre cinque cappelle, tra le quali, al centro, quella dedicata alla Sacra Famiglia con l’altare e quella di Nostra Signora del Carmelo con la tomba di Gaudì. Al centro dell’abside sovrastante la cripta merita attenzione la cappella dell’Assunta: una lettiera di pietra che una volta ultimata sarà impreziosita da una lanterna alta 30 m. e un mosaico nella cupola con la Santissima Trinità. Tutte e sette le cappelle che circondano l’abside maggiore sono alte 35 m., finemente decorate e hanno la cupola decorata a mosaico. L’abside invece è impreziosito da un tripudio di decorazioni scultoree: i santi fondatori dei principali ordini religiosi, le iniziali della Sacra Famiglia, elementi della natura che fanno parte della simbologia religiosa e animali al posto dei gotici gargoyles. Visitare la Sagrada Familia: prezzo dei biglietti L’ingresso alla Sagrada Familia di Barcellona ha un prezzo accessibile e sarebbe un vero peccato perderselo, senza godere della magnifica atmosfera che pervade i visitatori di tutto il mondo una volta entrati. La Sagrada Familia ha davvero qualcosa di magico e il suggestivo bosco di pietra pervaso di luce che costituisce l’interno non ha rivali al mondo, per bellezza e suggestione. Una spiritualità del tutto moderna, in sintonia con il nostro presente, che cresce direttamente nel futuro e, per una volta, non nel passato. L’ingresso costa 17€ per gli adulti (33 se si abbina la salita alle torri e l’eccezionale panorama che si vede da esse), è gratuito per i bambini, ridotto per studenti e pensionati (rispettivamente 13 e 11€. Per chi non vuole perdersi nessun dettaglio delle magnifiche strutture che adornano l’esterno e l’interno della chiesa si consiglia inoltre la visita guidata, che costa 47€. Si ricorda infine che il biglietto per la visita della Sagrada Familia non è compreso nella Barcellona Card. https://ift.tt/2UySmjQ Visita alla Sagrada Familia di Barcellona Il Tempio Espiatorio della Sagrada Familia, in spagnolo Templo Expiatorio de la Sagrada Familia, è il monumento più visitato di tutta la Spagna e uno dei monumenti simbolo della città catalana di Barcellona. Una delle particolarità di questo affascinante edificio religioso, consacrato soltanto nel 2010, è quella di essere a tutt’oggi in via di ultimazione, come spesso avveniva per le grandi cattedrali erette nel Medioevo. La storia della Sagrada Familia, il capolavoro di Antoni Gaudì Il primo progetto, mai messo in opera, per erigere una grande chiesa nel quartiere allora ancora periferico dell’Eixample nasce nel 1881 e doveva prendere come modello il santuario italiano di Loreto, nelle Marche. I lavori, cominciati l’anno dopo, vengono affidati all’architetto Francisco de Paula del Villar y Lozano (1828-1901), che subito modifica il progetto originale in favore di una chiesa in stile neogotico. A causa di forti divergenze interne, Lozano abbandona il progetto nel 1883: neanche un anno dopo la posa della prima pietra. Al suo posto viene scelto un giovane architetto di nome Antoni Gaudì, che rivede completamente il progetto e vi si dedica per oltre 40 anni fino alla sua morte, nel 1926. Negli ultimi 15 anni della vita si dedica esclusivamente alla costruzione di questa grande chiesa. La sua presenza nel cantiere era quotidiana, tuttavia i lavori procedevano a rilento, in parte per l’irregolare flusso delle donazioni necessarie alla realizzazione e in parte perché numerosi dettagli del progetto Gaudì li ha definiti man mano che si procedeva con la costruzione. Consapevole del fatto che i lavori avrebbero proseguito anche dopo la sua morte per decenni, e forse per secoli, l’architetto catalano preferì completare intere sezioni dell’edificio, anziché esaurire tutte le risorse a disposizione per impostarne il perimetro, per lasciare un’idea tangibile del progetto originale a chi si sarebbe fatto carico di proseguire. Gaudì muore all’improvviso travolto da un tram a Barcellona nel 1926 riuscendo a realizzare soltanto la facciata della Natività e la torre di San Barnaba. Dieci anni dopo esplode la guerra civile spagnola e un gruppo di anarchici catalani danno fuoco alla cripta distruggendo il laboratorio di Gaudì, i suoi disegni, i suoi appunti e alcuni modelli in scala delle future sezioni della chiesa. Soltanto dopo a un lungo lavoro di recupero e di restauro di questi modelli, dal 1944, terminata la guerra, è stato possibile riprendere i lavori, la cui fine è prevista per il 2026. Scoprire la Sagrada Familia Man mano che la costruzione si innalza, il modernismo naturale di Gaudì si arricchisce sempre di più di particolari fantastici. Un grandioso superamento del neogotico in favore di linee e forme sempre più organiche e ispirate a quelle della natura. Una concezione che è cambiata nel corso degli anni, adattandosi alla sensibilità del suo creatore e alla sua costante ricerca di nuove soluzioni, paradossalmente aiutata dalle periodiche interruzioni dovute alla mancanza di fondi. La pianta della Sagrada Familia è a croce latina. Al di sopra della cripta si trova l’altare maggiore attorniato da sette cappelle; poi il transetto a tre navate con le rispettive facciate laterali della Natività e della Passione, mentre il corpo centrale di ben cinque navate terminerà con la facciata della Gloria, ancora in costruzione. La Sagrada Familia, una volta ultimata, potrà contenere circa 14 mila persone. La Sagrada Familia: le facciate e le torri L’esterno del complesso della Sagrada Familia è impreziosito da una complessa e a dir poco vertiginosa iconografia legata ai culti e alle festività connesse alla religione cattolica attraverso gli Apostoli, gli Evangelisti, la Vergine Maria e Gesù. Gran parte delle sculture dell’esterno sono state disegnate da Gaudì in persona, realizzando prima dei modellini e poi dei calchi in gesso, sui quali adattava le proporzioni che avrebbero dovuto avere una volta scolpite nella pietra. Più in alto si trovano le figure, più aumentano le loro dimensioni. Dal complesso si innalzeranno in totale diciotto torri dal profilo parabolico: quattro per ogni facciata, una torre-cupola posta sopra all’abside dedicata alla Vergine e un’altra al centro intitolata a Gesù, alta 170 m. e attorniata a sua volta dalle quattro torri degli Evengelisti. Le torri hanno altezze differenti secondo la posizione gerarchica del personaggio da ciascuna rappresentato. La torre del Cristo sarà a sua volta sormontata da una croce a sei bracci alta 15 m., mentre quella della Madonna avrà al suo apice una grande stella a dodici punte: la stella di San Martino. L’edificio nel suo complesso però non supererà una volta terminato l’altezza della celebre collina cittadina di Barcellona, il Montjuic, perché come lo stesso Gaudì sosteneva: “l’opera dell’uomo non deve in nessun modo superare quella di Dio”. Si consiglia, ancora prima di entrare a visitare l’interno, di trovare un posto tranquillo, dove sedersi comodamente e ammirare, proprio come si farebbe con un dipinto, le grandi e meravigliose facciate della chiesa: Facciata della Natività (nord-est) Il suo aspetto neogotico è movimentato dai portali decorati con motivi vegetali e dedicati alle virtù teologali (Speranza, Fede e Carità). Il portale della Carità, al centro, è sovrastata da un’immenso Albero della Vita. Decorazioni di giubilo evocano gli episodi della vita di Gesù, esaltandone la componente umana e famigliare. La facciata, costruita tra il 1894 e il 1930, è sovrastata da quattro torri campanarie decorate con parole come Hosanna, Excelsis e Sanctus, e dedicate rispettivamente ai santi Mattia, Giuda, Simone e Barnaba. Le sculture sono state terminate soltanto nel 2000 dall’artista giapponese Etsurō Sotoo (1953). Una curiosità legata a queste sculture è il fatto che Gaudì, nel realizzare i calchi in gesso, prese a modello cittadini barcellonesi vivi e morti, ritratti direttamente presso l’obitorio locale. Facciata della Passione (sud-ovest) Del tutto differente dalla precedente, questa facciata non comunica gioia bensì terrore, per riflettere al meglio l’agonia del Cristo durante la crocifissione. L’effetto drammatico è cupamente sottolineato dalle sculture dell’artista barcellonese Josep Maria Subirachs (1927-2014). Sei pilastri obliqui incorniciano le porte d’accesso alla chiesa, sovrastate da un frontone piramidale con colonne a forma di osso, bordato in alto da una corona di spine. Tra le decorazioni spuntano parole tratte dalla Bibbia in svariate lingue, tra cui ovviamente il catalano. Anche qui i portali sono dedicati rispettivamente a Fede, Speranza e Carità, mentre nella parte terminale della facciata si allungano quattro torri dedicate ai santi Giacomo il Minore, Tommaso, Filippo e Bartolomeo. Facciata della Gloria (sud-est) I lavori di questa facciata sono iniziati soltanto nel 2002 e sarà la più grande di tutto il complesso e verrà dedicata alla gloria celeste di Gesù. Darà accesso alla navata centrale e rappresenterà la Morte, il Giudizio Finale, la Gloria e, per contrappasso, all’Inferno. Solamente abbozzata da Gaudì, sapendo che non avrebbe potuto vederla realizzata, sarà quella sulla quale gli architetti avranno carta bianca per quanto riguarda l’esecuzione. Avrà un portico preceduto da una grande scalinata, rappresentando così l’apoteosi della Sagrada Familia. Se nel 2026 sarà completata come dicono, non resterà che venire a Barcellona per ammirarla in tutto il suo splendore. La Sagrada Familia: interno, cripta e abside Gaudì sosteneva che “nulla è arte se non proviene dalla natura”. L’interno della Sagrada Familia di Barcellona è stato infatti pensato come un bosco fatto di pietra e di luce. Le colonne ricordano la forma degli alberi, con i rami che si dividono sinuosi a sorreggere le volte intrecciate e iperboliche del soffitto. La luce che entra dalle vetrate multicolori muovono ed esaltano lo spazio, amplificando il connubio tra la natura e la spiritualità religiosa. Al di sotto dell’abside centrale si trova la cripta, la sezione più antica del complesso, modificata però da Gaudì sostanzialmente. I capitelli, per esempio, dai motivi classici hanno assunto le attuali forme vegetali, mentre la volta è stata enormemente rialzata. Gaudì circonda inoltre la cripta da un fossato, utile per la luce e la ventilazione. Al di sotto della volta sono disposte a semicerchio sette cappelle dedicate alla sacra famiglia di Gesù (il Sacro Cuore, l’Immacolata Concezione, San Giuseppe, San Gioacchino, Sant’Anna, Sant’Elisabetta e San Zaccaria). Di fronte a queste in linea retta vi sono altre cinque cappelle, tra le quali, al centro, quella dedicata alla Sacra Famiglia con l’altare e quella di Nostra Signora del Carmelo con la tomba di Gaudì. Al centro dell’abside sovrastante la cripta merita attenzione la cappella dell’Assunta: una lettiera di pietra che una volta ultimata sarà impreziosita da una lanterna alta 30 m. e un mosaico nella cupola con la Santissima Trinità. Tutte e sette le cappelle che circondano l’abside maggiore sono alte 35 m., finemente decorate e hanno la cupola decorata a mosaico. L’abside invece è impreziosito da un tripudio di decorazioni scultoree: i santi fondatori dei principali ordini religiosi, le iniziali della Sacra Famiglia, elementi della natura che fanno parte della simbologia religiosa e animali al posto dei gotici gargoyles. Visitare la Sagrada Familia: prezzo dei biglietti L’ingresso alla Sagrada Familia di Barcellona ha un prezzo accessibile e sarebbe un vero peccato perderselo, senza godere della magnifica atmosfera che pervade i visitatori di tutto il mondo una volta entrati. La Sagrada Familia ha davvero qualcosa di magico e il suggestivo bosco di pietra pervaso di luce che costituisce l’interno non ha rivali al mondo, per bellezza e suggestione. Una spiritualità del tutto moderna, in sintonia con il nostro presente, che cresce direttamente nel futuro e, per una volta, non nel passato. L’ingresso costa 17€ per gli adulti (33 se si abbina la salita alle torri e l’eccezionale panorama che si vede da esse), è gratuito per i bambini, ridotto per studenti e pensionati (rispettivamente 13 e 11€. Per chi non vuole perdersi nessun dettaglio delle magnifiche strutture che adornano l’esterno e l’interno della chiesa si consiglia inoltre la visita guidata, che costa 47€. Si ricorda infine che il biglietto per la visita della Sagrada Familia non è compreso nella Barcellona Card. La Sagrada Familia è una delle più grandi opere di tutti i tempi, nonché simbolo della Spagna e, grazie alle sua maestosità, affascina davvero tutti.
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