#I Nastri
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I Nastri; Steven Kenny
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if my legs don’t stop
*deep inhale*
FUCKING MOVING
i am genuinely going to punch a hole in the wall I AM SO FUCKING UNCOMFORTABLE
#AAAAYHERCEGRVRHFHFBCBDHSHDHSHHDHDBFJSBFHFHDHDH#RLS I WILL FUCKING STRANGLE YOU YOU NASTRY ASS PIECE KF SHIT WANNABE BITCH MOTHER F U C K#ahem. anyways
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Nastri d’argento 2023: tutti i premiati e le foto
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Campomarino - Palio delle oche:
il tifo delle contrade
#pensieri per la testa#persa tra i miei pensieri#fotografia#foto#scatto fotografico#contrada#contrade#Campomarino#molise#palio delle oche#tifo#colori#stemma#nastri#fiocchi#oca#oche#stendardo
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There's many benefits to being a celebrity in your hometown
Domenico sta impegnato sennò se la sarebbe fatta lui da solo sul palco space time
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Fabergé
L'Uovo del palazzo di Gatčina è una delle uova imperiali Fabergé, un uovo di Pasqua gioiello che l'ultimo Zar di Russia, Nicola II donò a sua madre l'Imperatrice vedova Marija, nel 1901.
Fu fabbricato a San Pietroburgo nel 1901 sotto la supervisione di Michael Perkhin,per conto del gioielliere russo Peter Carl Fabergé.
L'uovo d'oro è coperto da vari strati di smaltato bianco traslucido su un fondo arabescato con tecnica ghiglioscé e dipinto con un delicato disegno di rose rosa e ghirlande di foglie verdi e oro legate con fiocchi di nastri rossi in una varietà di festoni.
File di perline dividono l'uovo in dodici pannelli: verticalmente in sei spicchi ed orizzontalmente lungo il bordo dell'apertura. Alle due estremità sono fissati diamanti tagliati come lastre sottili, probabilmente per coprire il monogramma e l'anno del dono, che però sono stati rimossi. L'interno è foderato in velluto.
La parte superiore dell'uovo si apre per rivelare una riproduzione in miniatura, in oro di quattro colori, della residenza invernale principale dell'Imperatrice vedova: il palazzo costruito a Gatchina, un villaggio 45 chilometri a sud-ovest di San Pietroburgo, per il conte Grigorij Grigor'evič Orlov ed in seguito acquistato dallo Zar Paolo I.
La miniatura riproduce nei dettagli anche l'area attorno al palazzo, sono presenti cannoni, una bandiera, una statua di Paolo I, ed elementi del paesaggio.
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Storia Di Musica #347 - Sonny Rollins, Tenor Madness, 1956
Le Storie Di Musica toccheranno il traguardo delle 350 puntate questo mese. Come ormai da prassi, il numero tondo è dedicato ad un disco di Miles Davis. E questa volta, in ossequio al filo rosso degli album legati tra loro, ho deciso di raccontare il rapporto tra Davis e una grande etichetta discografica, la Prestige Records. La Prestige fu fondata da Bob Weinstock nel 1949: appassionato di musica jazz, vendeva dei dischi per corrispondenza in maniera così incisiva che ben presto affittò un locale e lo trasformò in un grande negozio di dischi, il Jazz Record Center, sulla quarantasettesima strada di New York. Frequentando i locali jazz che lì vicino iniziavano a diventare famosi, legò con molti musicisti fino a fondare prima la New Jazz Records che dopo pochi mesi diventa la Prestige Records. Weinstock è stato un personaggio leggendario, dalle mille manie, alcune delle quali racconterò in questi appuntamenti novembrini, ed è stato negli anni '50 uno dei fari della musica jazz mondiale con la sua etichetta indipendente, insieme alla Blue Note, alla Riverside, alla Impulse! prima che anche i grandi gruppi discografici entrassero nel jazz in maniera decisa.
Weinstock era oltre che un appassionato un grande uomo d'affari, capace di intuire le potenzialità degli artisti e di essere per loro trampolino di lancio e di ottimizzare tempi e costi delle produzioni: pochissime prove per le registrazioni, e leggenda vuole che si registrasse due volte sui nastri di alcune take per risparmiare, leggenda nata dal fatto che per quanto la produzione Prestige fosse numericamente grandiosa, esistono pochissime alternative takes dei loro lavori. Nonostante come ingegnere del suono ci fosse una leggenda: Rudy Van Gelder, che non lavorava solo per lui ma anche per la Blue Note, famoso per la sua accuratezza e maniacalità. Le prime registrazioni avvenivano nel garage della casa di famiglia di Hackensack, nel New Jersey, luogo che divenne mitico tanto che Thelonious Monk dedicò al grande ingegnere un brano, Hackensack, per poi spostarsi di qualche km a Englewood Cliffs, sempre nel New Jersey.
In quello studio a Hackensack Sonny Rollins registra il 24 Maggio del 1956 il disco di oggi. Rollins all'epoca è già riconosciuto un gigante del sassofono, tanto che è famosa il commento di Max Gordon, leggendario proprietario del jazz club più famoso del mondo, Il Village Vanguard, che sosteneva: I critici e gli appassionati hanno pareri molto discordi sulla bravura di alcuni musicisti jazz, ma non su Sonny Rollins. Lui è il più grande, il più grande sax della sua generazione. Theodore Walter Rollins nasce a New York nel 1930 da una famiglia di origini caraibiche, i cui "suoni" influenzeranno la sua carriera futura. Fa un apprendistato breve ma intensissimo, suonando con i più grandi: J.J Johnson, Monk, Bud Powell, Max Roach e soprattutto Miles Davis e Charlie Parker. È il primo che trasporta la rivoluzione del bop sul sax tenore. Con Davis dimostra anche le sue già ottime capacità compositive scrivendo pezzi diventati famosi, come Airgin e Oleo. Però ha un difetto: ad un certo punto sparisce, per i motivi più strani. Nel 1954 si ritira a Chicago, per non cadere in tentazione tra soldi e droga, per continuare a studiare facendo lavori manuali. Quando ritorna a New York, suona per la Prestige in uno dei primi 33 giri del jazz, Dig. Nel 1955, tornato nel gruppo di Davis, poco prima di un'importante serie di concerti al Teatro Bohemia, sparisce di nuovo, stavolta per disintossicarsi. Ritorna nel 1956, quando sempre l'amico Roach lo scrittura per un disco portentoso: Sonny Rollins Plus 4 è all'apice della creatività, tanto che ancora come innovatore impone nel jazz il tempo in tre quarti (la storica Valse Hot). Nel frattempo però il suo posto nel gruppo di Davis è preso da un giovane che di lì a poco diventerà un gigante, John Coltrane, ma Davis gli vuole bene e per delle registrazioni del 1956 per la Prestige gli offre la sua sezione ritmica, che nel jazz è ricordata come "The rhythm section" per quanto iconica e grande è stata, e con questa registra il disco di oggi. Rollins è insieme a Red Garland al pianoforte, Paul Chambers al contrabbasso e Philly Joe Jones alla batteria quando inizia a suonare Tenor Madness, che contiene nella title track un incontro unico ed eccezionale. Essendo lì per una sessione con il quintetto di Davis, in quello che diventerà il più famoso chase della storia del jazz, John Coltrane si unisce a Rollins in quel brano, da allora uno dei capisaldi del jazz. Cos'è però un chase? è un incontro dove due strumentisti colloquiano con lo stesso strumento su un dato canovaccio, una sorta di dialogo musicale dove si fronteggiano a suon di assoli. Tenor Madness è un piccolo blues, che si rifà a Royal Roost di Kenny Clarke and His 52nd Street Boys, registrato nel 1946, ma qui diviene il brano che mette insieme i due più grandi e influenti sassofonisti della storia del jazz, con il timbro squillante e luminoso del primo Coltrane (che debutterà come solista solo l'anno successivo nel 1957) e il suono più cupo e leggero di Rollins, che all'epoca aveva già più esperienza. Il resto di Tenor Madness è altrettanto iconico: When Your Lover Has Gone, classico di Einar Aaron Swan, divenuto famosissimo per la sua apparizione nel film La Bionda E L'Avventuriero del 1931 di Roy Del Ruth e interpretato da James Cagney e Joan Blondell, che solo nel 1956 ebbe una ventina di incisioni; Paul's Pal è un omaggio di Rollins a Paul Chambers, uno dei più geniali bassisti di tutti tempi, uno che ha suonato in almeno 100 capolavori del jazz; My Reverie è la ripresa dell'arrangiamento che nel 1938 Larry Clinton fece si un brano di Claude Debussy, Rêverie, del 1890; chiude il disco una cover spettacolare di The Most Beautiful Girl In The World, opera del magico duo Rodgers and Hart e presente nel musical Jumbo, che trasformava un teatro di Broadway in un mega circo con acrobati, trapezisti e giocolieri durante lo spettacolo. Il disco, un capolavoro, ne anticipa un altro, Saxophone Colossus, dello stesso anno, uno degli apici creativi di quegli anni incredibili e altro gioiello della collezione Prestige.
Rollins fu attivo per la lotta dei diritti civili e politici degli afroamericani, tanco che nel 1958 firma in trio con Oscar Pettiford e Max Roach, il disco The Freedom Suite, uno dei primi album-manifesto sulle discriminazioni razziali del jazz, e continuò ad avere costanti le sparizioni dalle scene. Sempre dovute alle sue dipendenze dalle droghe, la più famosa riguarda un suo disco, il suo maggior successo commerciale, The Bridge del 1962: ancora insoddisfatto della sua musica, decide si andare a suonare sotto il ponte Williamsburg, quello che divide Manhattan da Brooklyn, provando per 12-13 ore al giorno, in tutte le stagioni.
Scontroso (si dice che abbia licenziato il maggior numero di colleghi, più di Mingus), dalla personalità labirintica, non seguì le rivoluzioni degli anni '60 e '70, scriverà ancora grandi album (What's New con Jim Hall, un altro gioiello) e parteciperà con attenzione anche a contaminazioni con altri generi, e famosissimo è il suo assolo per i Rolling Stones in Waitin' On a Friend, da Tattoo You del 1981. È l'ultimo dei grandi a sopravvivere, ritiratosi nel 2012 dalle scene, un gigante che ha segnato un periodo irripetibile della musica.
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Sai cos'è che mi piace?
Mi piacciono i nuovi inizi con il turbinio di emozioni che regalano.
Mi piace quando mi sento utile e quando riesco a strappare un sorriso.
Mi piace sedermi su un prato e respirare il profumo dell'erba appena tagliata.
Mi piace il silenzio, quello che ti fa sentire le parole che contano e vedere i colori che brillano.
Mi piace la sera, quel momento in cui so che tutto ciò che amo è al sicuro.
Mi piace ogni tanto ricordare la felicità dei giochi dell' infanzia e riassaporarne per un attimo la spensieratezza e la leggerezza.
Mi piacciono le persone gentili che chiedono permesso prima di entrare in casa d'altri come nella vita altrui.
Mi piace il tocco delle sciarpe di lana che accarezzano la pelle e i nastri di velluto da intrecciare fra i capelli.
Mi piacciono gli abbracci che parlano senza le parole.
Mi piace la semplicità che profuma di umiltà.
E soprattutto mi piace pensare che in questo viaggio quello che doni ritorna e che tutti possano avere la propria fetta di felicità... prima o poi.
- Patrizia Bannò - L.633/1941
Modella: Emily Rudd
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Ti hanno visto vegliare su di loro
Mentre finalmente chiudevano gli occhi
Hanno sentito il tuo profumo mentre respiravano
per l'ultima volta.
Hanno sentito il modo in cui si è rotta la tua voce
Come hai detto loro che erano amati.
Ti hanno sentito mentre li stringevi
Con il tuo delicato tocco di addio
E ora guardano ogni mattina
Mentre passi davanti alla loro cuccia vuota.
Ti guardano perdere la compostezza
E vedono le lacrime che stai versando.
Ti sentono sopportare il silenzio
Dei passi che non ci sono più,
Quella passeggiata di ogni giorno
Come l'eco di una canzone.
Ma nel loro momento più buio
Eri lì a tenerli stretti
E vogliono solo lo stesso per te.
Quindi ti stanno cucendo un arcobaleno,
Intrecciando nastri nel cielo
Così possono farti sapere
Che la vita è bella oltre l'addio.
Quindi la prossima volta che piove
E appare anche il sole
Basta sentire, guardare e ascoltare
quello che stanno cercando di dirti.
Ti dicono che lì è primavera
Dove ci sono campi infiniti
Per giocare e correre.
Ti dicono che dormono su
letti più grandi e morbidi.
Ti dicono che non sono soli
Perché ce ne sono molti altri
E si sono riuniti
Con i loro genitori, sorelle, fratelli.
Ti stanno mostrando il loro arcobaleno
Così sai che non ti dimenticheranno
E per dirti che ci saranno sempre.
Sono così felici che ti abbiano incontrato
E ti dicono che ti vogliono bene
E anche se mancheranno tantissimo,
Non preoccuparti, perché è bellissimo
Oltre il ponte dell'arcobaleno
- Becky Hemsley
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L'AUTONOMIA CON IL CULO DEGLI ALTRI
In una intervista al Corriere Graziano Delrio racconta che nel 2016, quando era ministro delle infrastrutture disse a Zaia che il progetto della Pedemontana non stava in piedi. Come noi diciamo da anni, avevano gonfiato i flussi di traffico. In poche parole se tu prevedi il passaggio del doppio delle vetture al giorno rispetto alla realtà l'opera non sta in piedi. L' aveva segnalato un rapporto di Cassa depositi e prestiti e uno studio di Jp Morgan. Non occorre una laurea a Cambridge, basta saper fare due più due. Delrio suggerì a Zaia di cambiare il progetto. Zaia decise di andare avanti da solo. Lui sa come si fa. Così abbiamo distrutto il territorio, abbiamo consumato suolo in una Regione ridotta ad una colata di cemento e dobbiamo pagare 300 milioni all'anno al Consorzio.
Da anni è tutta una foto di inaugurazioni di tratti dell'autostrada divina, della panacea di tutti i mali, del miracolo zaiano. Una autostrada inaugurata infinite volte. Non si trovano più nastri da tagliare. La stampa genuflessa esalta il Doge. Lui sorride, sardonico, esulta, spesso assieme al compare Salvini. Il gatto e la volpe. O forse il gatto e il somaro, perché uno che fa queste cagate non è di sicuro una volpe. Eppure in molti lo diciamo da anni. Lo abbiamo continuato a ripetere. Il buco, il disastro della finanza pubblica non era prevedibile, era previsto. Abbiamo assistito anche alla tragedia comica, di Zaia, il grande amministratore, che invitava i veneti ad essere solidali, ad usare la Pedemontana. Una barzelletta davvero bizzarra. Vuoi essere buono oggi? Ti senti fedele agli oppressi? Senti una autentica empatia per gli ultimi? Fatti un giro nella Pedemontana. Dal Vangelo secondo Zaia, il vangelo dell'asfalto.
Adesso i nodi sono venuti al pettine. La realtà ha squarciato il velo della propaganda. I conti non tornano, i conti scoppiano. Era scritto. Cosa fa Zaia? Va a Roma chiedendo che l'opera venga nazionalizzata.
Ricapitolando: la Regione fa un'opera che non regge, lo Stato con il ministro Delrio dice a Zaia di cambiare progetto o di andare avanti da solo. Zaia si prende la responsabilità di andare avanti e fallisce. E adesso, a fallimento appurato, certo, indubitabile, chiede a Roma di ripagare i suoi danni. È proprio un bravo amministratore. Mi prendo la responsabilità di fare pagare agli altri i miei vergognosi errori. Autonomia è una parola molto bella. Deriva dal greco e significa "essere legislatori di sé stessi". Questa però è l'autonomia dei leghisti, l'autonomia con il culo degli altri.
Carlo Cunegato, Facebook
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Non posso dire che la stagione 7B non mi piaccia, trovo che qui siamo stati defraudati da qualcosa di magico!!!!
Legami di sangue
Capitolo 24
«Non dirò che non m’importa di quello che è successo, perché mentirei. E non dirò che non scatenerò il caos, per questo, perché è probabile che lo farò. Ma ti dirò che non c’è niente in questo mondo, o in quello che verrà, che possa allontanarti da me... o che possa allontanare me da te.» Sollevò un sopracciglio. «Ti trovi in disaccordo?» «Oh, no», dissi, ardente. Prese un altro respiro, e abbassò appena le spalle. «Be’, meglio così, perché non sarebbe un bene, per te. Un’ultima domanda», aggiunse, «sei mia moglie?» «Certo che lo sono», gli risposi, attonita. «Come potrei non esserlo?» A quelle parole, il suo viso cambiò; inspirò profondamente e mi prese tra le braccia. Io lo strinsi, forte, e insieme ci lasciammo andare a un enorme sospiro, e ci tranquillizzammo, la sua testa che si chinava sulla mia. Mi baciò i capelli, e io girai la faccia verso la sua spalla, la bocca aperta sulla scollatura della camicia aperta, le ginocchia di entrambi che cedevano lentamente, in preda a un sollievo reciproco. Un attimo dopo eravamo in ginocchio nella terra appena rivoltata, aggrappati l’una all’altro, radicati come un albero, senza foglie e con tanti rami, ma con un unico tronco molto solido. E arrivarono le prime gocce di pioggia. Il suo viso era aperto, adesso, e i suoi occhi erano di un blu limpido, senza preoccupazioni... per il momento, almeno. «Dove possiamo trovare un letto? Ho bisogno di stare con te nudo.» La sua proposta mi trovò perfettamente d’accordo, ma la domanda mi colse alla sprovvista.
…….
«Troverò un posto.» Con un calcio sonoro aprì la porta del nuovo capanno degli attrezzi, e all’improvviso ci ritrovammo immersi in un’oscurità striata di luce, che odorava di tavole scaldate dal sole, di terra, di acqua, di argilla umida e di piante. «Cosa... qui?» Era chiarissimo che non stava cercando un po’ di intimità per altre domande, per discussioni o rimproveri. A tal riguardo, la mia domanda suonò parecchio retorica. In piedi, mi fece girare e cominciò a slacciarmi il corsetto. Sentii il suo alito sul collo nudo, e mi venne la pelle d’oca. «Sei...» cominciai, solo per essere interrotta da uno conciso «Shhh». Tacqui. E sentii quello che aveva sentito lui: i Bartram, che conversavano tra loro.
Erano a una certa distanza, sulla veranda posteriore della casa, immaginai, riparata dal sentiero lungo il fiume da una spessa siepe di tassi inglesi. «Non possono sentirci», dissi, anche se abbassai la voce. «Basta parlare», sussurrò lui e, chinandosi in avanti, mi morsicò delicatamente la carne del collo ora esposta. «Shhh», fece ancora, ma dolcemente. In realtà non avevo detto niente, e il suono che avevo emesso era troppo acuto per attirare l’attenzione di una creatura che non fosse un pipistrello di passaggio. Espirai vigorosamente dal naso, e lo sentii ridacchiare con la gola. Un risolino basso, profondo. Il corsetto si aprì, e l’aria fresca attraversò la mussolina umida della sottoveste. Si fermò, una mano sui nastri delle sottogonne, mentre l’altra mi sollevava delicatamente un seno, pesante e libero, e il pollice mi accarezzava il capezzolo duro e tondo come il nocciolo di una ciliegia. Emisi un altro suono, questa volta più basso. Pensai che era una fortuna che fosse mancino, perché era con la sinistra che stava slacciando abilmente i nastri delle sottogonne. Queste caddero in mucchio frusciante attorno ai miei piedi, e d’un tratto – mentre la sua mano sinistra mi sollevava il seno e la sottoveste saliva alle orecchie – ebbi una visione del Giovane Mr Bartram che all’improvviso decideva di aver bisogno di invasare una partita di pianticelle di rosmarino. Probabilmente lo shock non l’avrebbe ucciso, ma... «Se dobbiamo essere puniti», disse Jamie, che evidentemente mi aveva letto nel pensiero, dal momento che mi ero girata e mi stavo coprendo le parti intime come la Venere del Botticelli, «allora ti prenderò nudo.» Con un sorriso si tolse la camicia sporca di terra – la giacca se l’era levata quando mi aveva presa – e si calò i calzoni senza fermarsi a sbottonare la patta. Era abbastanza magro da poterlo fare: i calzoni gli stavano appesi alle anche, e non gli cadevano per miracolo; e intravidi l’ombra delle costole sotto la pelle, quando si chinò per sfilarsi le calze. Si tirò su, e gli misi una mano sul petto. Era umido e caldo, e sotto il mio tocco vidi rizzarsi i pelli rossastri. Sentii il suo profumo caldo, avido, nonostante l’odore agricolo del capanno e il perdurante tanfo di cavolo. «Non così in fretta», sussurrai. Emise un verso scozzese, interrogativo, tese le braccia verso di me e io affondai le dita nei muscoli del suo petto. «Voglio un bacio, prima.» Mise la bocca sul mio orecchio, e le mani sulle mie natiche. «Credi di essere nella posizione di avanzare richieste?» mormorò, stringendo la presa. Non potei non cogliere il tono pungente di quella domanda. «Sì, maledizione», dissi, spostando la mia mano un po’ più in basso. Lui non attirerebbe mai i pipistrelli, pensai. Eravamo occhi negli occhi, avvinghiati, respiravamo l’una il respiro dell’altro, così vicini da vedere le più piccole sfumature di espressione, nonostante la luce debole. Notai quanto fosse serio, al di sotto delle risate... e capii che la sua spavalderia celava un dubbio. «Sono tua moglie», gli sussurrai, sfiorando le sue labbra con le mie. «Lo so», disse sommessamente, e mi baciò. Teneramente. Poi chiuse gli occhi e mi passò le labbra sul viso, senza baciarmi, ma tastando i contorni di zigomo, sopracciglio, mascella, e la pelle morbida sotto l’orecchio. Cercava di conoscermi di nuovo al di là della pelle e del respiro, di conoscermi fino al sangue e alle ossa, fino al cuore che batteva là sotto. Emisi un piccolo verso e cercai la sua bocca con la mia, premendomi contro di lui, i nostri corpi nudi freschi e umidi, i peli che raspavano dolcemente, e la deliziosa solidità di lui che rotolava tra di noi. Ma non si lasciò baciare. Afferrò i miei capelli legati, alla base del collo, mise la mano a coppa attorno alla mia nuca, mentre con l’altra giocava a mosca cieca.
Un rumore sordo, seguito da un tintinnio; indietreggiando, ero finita addosso a una panchina per l’invasamento, e avevo fatto vibrare un vassoio di minuscoli vasetti; le foglie speziate del basilico dolce stavano tremando, agitate. Jamie spinse il vassoio da una parte, poi mi afferrò per i gomiti e mi sollevò, facendomi mettere sulla panchina. «Adesso», disse, senza fiato. «Devo averti adesso.» Mi prese, e io smisi di preoccuparmi del fatto che potessero esserci delle schegge. Lo avvolsi con le gambe, e lui mi fece sdraiare e si chinò sopra di me, le mani appoggiate alla panca, con un verso a metà tra l’estasi e il dolore. Si mosse lentamente, dentro di me, e io ansimai. Il ticchettio della pioggia sul tetto di lamiera lasciò il posto a un rumore assordante, che copriva qualunque verso uscisse dalla mia bocca – ed era una buona cosa, pensai confusa. L’aria era più fresca, ma anche umida; i nostri corpi erano scivolosi, e si sprigionava un calore bruciante laddove la carne toccava altra carne. I suoi movimenti erano lenti, deliberati, e io inarcai la schiena, incitandolo. Per tutta risposta, lui mi afferrò per le spalle, si chinò di più e mi baciò con delicatezza, muovendosi appena. «Non lo farò», sussurrò, e tenne duro quando mi opposi, cercando di spronarlo a quella reazione violenta che desideravo, e di cui avevo bisogno. «Non farai che cosa?» Stavo ansimando. «Non ti punirò», disse, talmente piano che lo udii a malapena, nonostante fosse sopra di me. «Non lo farò, hai capito?» «Non voglio che tu mi punisca, bastardo.» Grugnii per lo sforzo, e sentii scricchiolare l’articolazione della spalla quando provai a liberarmi dalla sua stretta. «Voglio che... Dio, lo sai che cosa voglio!» «Aye.» La mano sinistra lasciò la spalla e scese ad afferrarmi una natica, toccando la carne nel punto in cui eravamo uniti, tesa e scivolosa. Emisi un piccolo verso di resa, e sentii cedere le ginocchia. Lui si tirò fuori, e poi mi penetrò ancora, con tanto vigore da strapparmi un piccolo, acuto grido di sollievo. «Chiedimi di venire nel tuo letto», disse, senza fiato, le mani sulle mie braccia. «E io verrò da te. A tal riguardo, verrò che tu me lo chieda o no. Ma ricorda, Sassenach: io sono il tuo uomo. Sono io che decido come servirti.» «Fallo», dissi. «Ti prego, Jamie. Voglio che tu lo faccia!» Mi afferrò il sedere con entrambe le mani, con tanta forza da lasciarmi dei lividi, e io inarcai la schiena, spingendo il pube verso di lui, mentre tentavo di afferrarlo, le mani che scivolavano sulla sua pelle sudata. «Dio, Claire. Ho bisogno di te!» La pioggia picchiettava forte sul tetto di lamiera, ormai, e un lampo cadde vicino a noi, bianco-blu, dal pungente odore di ozono. Lo cavalcammo insieme, inforcandolo, accecati dalla sua luce, senza fiato, mentre il tuono rombava nelle nostre ossa.
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C'erano parecchie cose che mi facevano diventare sentimentale le scarpe di una donna sotto il letto una forcina dimenticata sul tavolo quel loro modo di dire "vado a fare pipì" i nastri per capelli due persone un uomo e una donna insieme le lunghe notti passate a bere e a fumare a parlare le liti mangiare insieme e star bene le battute le risate senza senso sentire la magia nell'aria star chiusi in una macchina parcheggiata parlare dei propri amori finiti alle 3 di notte sentirsi dire che si russa sentirla russare i suoi amici noiosi il tuo bere il suo ballare dormire insieme
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Se tu fossi qui, a parlare di tante cose,
sicuramente sarebbe l'alba.
Ma la mia vicina sono secoli che annaffia le sue piante
la sera, che continua con lo stesso colore.
C'è una zanzara pesante, sonnolenta,
ferma sulla finestra.
Forse tutto è solo una cartolina
o il coperchio di una scatola di cioccolatini
con tanti nastri.
Cecilia Casanova, da I giochi del sole, 1963
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Cosa voleva dire essere adolescenti negli anni ottanta e novanta?
Non esistevano i cellulari e i social non sapevamo nemmeno cosa fossero. L'unica cosa veramente "social(e)" era stare assieme agli altri. Per davvero, nella vita reale.
Si stava a giocare a pallone in strada con gli amici fino a quando tua madre non ti urlava che era pronto. E il sabato e la domenica ogni con la propria compagnia sui muretti o al pub.
Le strade erano piene di gente. I bar erano pieni di gente. Alla domenica, nel giorno di riposo per tutti, l'appuntamento al bar dello sport era un rito fisso. Erano tutti ammassati perché i bar una volta erano dei microcosmi pieni di vita e di umanità.E tutti, giovani e non, si intrattenevano in quei locali pieni di fumo (già, perché allora si poteva fumare anche dentro ai bar), aspettando il proprio turno per poter scommettere sulle partite.E non si giocava la "bolletta", quella è nata dopo. Ma si giocava la schedina. Ricordo ancora la scritta “Totocalcio” in verde, sulla sinistra l’elenco delle partite che si sarebbero disputate ed in rosa gli “1 x 2”. C’era la possibilità di vincite milionarie con “facendo il 13” o di vincite più discrete con il 12. Si discuteva, si parlava e ci si confrontava per cercare il pronostico giusto per "azzeccare" il risultato. Alla mattina c'erano i cartoni animati, quelli belli, pixel sfocati dello schermo della tv a tubo catodico. Su Italia 1 davano "Hello! Spank", "Doraemon", "Georgie", "Sui monti con Annette", "L'incantevole Creamy", "Il mio nome è Jem". Altrimenti, se andavi sulle reti private potevi trovare "Ken il Guerriero", "Mazinga", "Sampei", "Ransie la strega", "Bia la sfida della magia", "Chuck, castoro" e tanti altri.
I film erano dei veri e propri capolavori: da Indiana Jones a Terminator, da Guerre stellari a Rocky, da Lo squalo ai film horror che tutti i mercoledì davano in doppio appuntamento a "Notte Horror" su Italia 1. E siccome il primo film cominciava alle 22:30, quello di mezzanotte e mezza toccava videoregistrarlo perché poi il giorno dopo c'era la scuola. Le VHS: oggetti oramai quasi introvabili e diventati vintage: funzionavano con nastri magnetici che giravano dentro e ci si poteva registrare sopra anche sei, sette, otto volte. L'unico modo per non sovraregistrarle era rimuovere la linguetta in plastica. Ma se poi cambiavi idea ci potevi applicare lo schotch ed ecco che si ripristinava.Ascoltavamo Vasco, gli 883 e Claudio Baglioni. Ma poi anche Michael Jackson, Prince ed i Queen. Ma c'erano anche i Guns'n'Roses ed i Duran Duran. Capitava di vedere in giro gente con lo stereo a palla e le All Stars ai piedi. Magari anche su uno skateboard.Tutto era diverso: anche l'aria che si respirava. Sia per strada che nei luoghi pubblici. Degli odori che oggi non ci sono più.
-Web
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Potevi prendere il caffè solo in piedi, poi solo seduto, poi seduto ma dopo le 18:00, poi in piedi fuori, poi solo fuori. La vendita di alcolici dopo le 18.00.E altalene e scivoli nastrati tipo scena del crimine. E dei nastri al supermercato che sbarravano gli scaffali delle pentole, dei giocattoli per i bambini. E le istruzioni in tv di come dovevamo lavarci le mani che manco se fossimo decerebrati trattati peggio dei delinquenti.
Ricordatelo tutto questo bimbe e bimbi di Giuseppe Conte quando lo osannate come il miglior presidente in Italia!😏
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I pacchi
Odio fare i regali, spendere tutto quel tempo a stare in giro per i negozi e associare facce agli oggetti che compro ( ciò non toglie che amo riceverli ahahaha )
In genere inizio a novembre e infatti i primi che acquisto sono i più azzeccati.
E ancor peggio di scegliere i regali è l'impacchettarli, per questo io ci metto tutto l'impegno, ogni anno compro nastri nastrini e decorazioni, il risultato ...osceni.
Ciò nonostante quando li dono, riconosco il mio impegno e mi gratifica e mentre li porgo mi viene anche da ridere e penso a quante parolacce e bestemmie ho gettato mentre li facevo e dentro di me le ripeto con più intensità quando vedo con quale non curanza li scartano strappandoli e rendendo inutile il mio tempo.
Oggi sono un Grinch
AUGURI DI BUON NATALE ANCHE A VOI.
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