#Giovanni Cappa
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thebutcher-5 · 1 year ago
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Mean Streets
Benvenuti o bentornati sul nostro blog. Nello scorso articolo siamo tornati a parlare di cinema e lo abbiamo fatto attraverso un regista che amo profondamente, Steven Spielberg, attraverso quello che a tutti gli effetti è il suo primo lungometraggio per il grande cinema, Sugarland Express. La storia parla di Lou Jean, una donna che va a trovare suo marito in carcere per farlo evadere.…
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crownedinmarigolds · 3 months ago
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Obsessed with the fake naughty religious film in the Immortality game, based on a real book called "The Monk" by Matthew Gregory Lewis. I did a little study of my favorite shot with Noa - this book/faux film has inspired a VTM: Darks Ages AU of my girl so of course...
In the scene - a stabbed girl bursts into the halls of the church during a celebration to finger the abbot who had tried to trap her in the crypts beneath. His prized cross in her hands. SO good.
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jacopocioni · 6 months ago
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Per chi abita in… Via delle Lame
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Un tempo, prima che la Repubblica Fiorentina facesse eseguire i lavori di arginatura e le opere difensive lungo la riva del fiume, l’Arno dilagava nella campagna, si divideva formando due rami, tra i quali restava una lingua di terra, una specie di piccola isola, che prese il nome di Bisarno, che ha il significato di doppio Arno (bis-Arno). Nel terreno paludoso, l’acqua che ristagna forma pozze che sotto il sole appaiono lucenti come lame d’acciaio, ed ecco l’origine del nome Via delle Lame, che attraversa tutto il piano del Bisarno. La strada ha una storia antica, lungo il suo corso vi sono delle ville ed un Borgo esistenti fin dal Quattrocento. Diverse illustri famiglie fiorentine avevano case e terreni in questa zona, ad esempio i Cavalcanti, i Barducci, i Bardi, gli Alberti.
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In Via delle Lame, all’angolo col Viuzzo che porta lo stesso nome, delle Lame, si trova una villa, che ho scoperto di recente, in quel poco tempo che il maltempo ha concesso ad una passeggiata. Sulla facciata si trova una targa, che riporta il nome “Villa Barberina”, ma in passato si chiamava l’Arnino o Villa Arnina. Mi ci è cascato l’occhio perché, sull’alto muro di cinta, si trovano a decorazione tre statue in terracotta, ed un busto.
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In origine sembra si chiamasse “Il Limbo”, forse in contrasto con alcune zone limitrofe, conosciute come Inferno e Paradiso. La costruzione è di inizio Quattrocento, ed apparteneva ai Del Cappa, che avevano case in Firenze nella via che prendeva il nome dall’Albergo del Guanto; in seguito passò ai Nasi, quando nel 1491 Lionarda, vedova di Ser Niccolò del Cappa decise di vendere a Battista di Giovanni Nasi, famiglia che nella pianura di Ripoli aveva importanti possedimenti. Giusto per la cronaca, alla famiglia Nasi appartenne Bartolomea, una delle amanti di Lorenzo il Magnifico, che per lei aveva una discreta passione, nonostante non si trattasse di una donna particolarmente avvenente. Ne parleremo più diffusamente in un altro momento.
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Successivamente, la proprietà della Villa passò ai Pergolini, dopo la confisca dei beni operata su un discendente della famiglia Nasi, poi ai Gherardini e, ad inizio Settecento, agli Altoviti che la ricevettero in pagamento di crediti vantati nei confronti dei Gherardini. A metà dell’Ottocento fu acquistata dallo svizzero Enrico Stupan, il titolare del Caffè Elvetico, in Mercato Vecchio, nel quale artisti di ogni genere amavano ritrovarsi: “...orefici, cesellatori, gioiellieri, gettatori di metalli, lavoratori di brillanti, scultori, modellatori, pittori sbozzatori, tutti tipi schiettamente fiorentini, tutta gente allegra, spensierata, italianissima, pronta di lingua e, capitando il bisogno, anche di mano.
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Da questo caffè uscivano per il solito quei motti arguti, quegli epigrammi a due tagli e quelle satire corte e affilate, come rasoi, che passando di bocca in bocca, facevano il giro di tutte le case, di tutti i crocchi o di tutte le brigate, senza che nessuno arrivasse mai a poterne indicare con precisione il nome dell’autore: lampi spontanei e collettivi dell’antico spirito fiorentino.” (Carlo Collodi, Occhi e nasi). Il cortile della villa è rinascimentale, una volta con un portico a tre arcate, su un solo lato, che oggi risulta murato. L’alto muro su cui si trovano le statue in terracotta, delimita un giardino pensile, che mi sarebbe proprio piaciuto riuscire a vedere, ma… era troppo in alto! Bisogna accontentarsi di una veduta satellitare, anche se certo non rende l’idea… Purtroppo, l’addensarsi di nere nuvole promettenti un’altra bomba d’acqua, mi ha impedito di continuare la mia passeggiata, per ora… ma non può piovere sempre!
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Gabriella Bazzani Madonna delle Cerimonie Read the full article
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huariqueje · 4 years ago
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Still life with mushrooms   -  Giovanni Cappa Legora  
Italian, 1887-1970 
Oil on canvas ,  45 x 60 cm.
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lescuriositesdelafoire · 4 years ago
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Giovanni Cappa Legora
Terrazza della Villa Faraggiana di Albisola, 1939
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corallorosso · 3 years ago
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Orrore mafioso in Sicilia: la ferocia della “Stidda” La banda di Mazzarino ha imposto terrore e oppressione di Giovanni Burgio Nel cuore della Sicilia, tra Caltanissetta e Gela, si compiono gesti primitivi e torture indescrivibili. Sembra di essere rimasti indietro nel tempo. Stidda e Cosa Nostra s’impongono con violenza e forza bruta soffocando le popolazioni locali. Con l’operazione “Chimera” a Mazzarino, venerdì 24 settembre, sono state arrestate 37 persone, 13 sono andate ai domiciliari, due agli obblighi di firma, e sono state emesse tre interdittive a svolgere attività professionali. I Sanfilippo È il clan stiddaro dei Sanfilippo a essere stato colpito duramente, soprattutto nella sua componente familiare. Infatti, ben 20 persone tra quelle fermate hanno tra loro legami di parentela: sono fratelli, sorelle, coniugi, cognati e nipoti. Tutto il territorio dominato dai Sanfilippo viveva sotto una cappa di oppressione e paura. “Per loro era particolarmente importante mantenere un controllo del territorio – dice il Procuratore facente funzioni Roberto Condorelli – Era un modo per dire che sul territorio loro erano i padroni”. Per esempio, il titolare di una pescheria non poteva rifiutarsi di dare gratis il pesce agli affiliati del clan. E un barbiere è stato selvaggiamente pestato perché non voleva fornire gratuitamente il proprio lavoro. Ma sono due lupare bianche, del 1984 e del 1991, a rivelare la natura selvaggia degli stiddari. Quella dell’84 ha avuto per vittima un ragazzo di soli 22 anni. Bastonato e strangolato, viene seppellito una prima volta. Ma siccome il corpo emerge troppo in superfice, viene diseppellito e spostato altrove. Orrore mafioso: le atrocità Ed è soprattutto la descrizione della lupara bianca dell’agosto 1991 che ha quasi dell’incredibile, in tutti i suoi aspetti che mostrano fino a che punto può arrivare l’orrore mafioso in Sicilia. Accusato di custodire le armi di un clan rivale, Luigi La Bella di 28 anni viene orrendamente torturato e mutilato: prima delle orecchie, poi del naso, infine delle dita delle mani. Alla fine del lungo calvario si scopre che non sa nulla. Ma a quel punto non può che essere ucciso. All’orribile scena avrebbe assistito un bambino di 11 anni. È il nipote del boss che ha tagliato il corpo del ragazzo di 28 anni e che orgogliosamente si vanta di avere la laurea in “Chirurgia senza anestesia”. E, conclusione senza speranza dell’accaduto, il bambino proclamerà poi che anche lui vuole avere quella laurea, “la laurea del rispetto”. Truffe e droga Le indagini sono partite nel 2016 dal Comando politiche agricole e alimentari dei carabinieri. I Sanfilippo, con false dichiarazioni, avrebbero intascato contributi statali e comunitari per l’agricoltura. E in alcuni casi si sarebbero impadroniti di appezzamenti di terreni con atti intimidatori verso piccoli proprietari agricoli. Ma oltre alle estorsioni, agli omicidi e alle truffe agricole, il clan si arricchiva soprattutto con la droga. A Gela e Mazzarino arrivavano direttamente dalla Calabria e dalla Lombardia le partite di cocaina da vendere ai consumatori. Ed era in particolare con Vibo Valentia e con il clan Guerra di Cinisello Balsamo che gli stiddari avevano stretto lucrosi patti d’affari. Coinvolti nell’indagine pure tre insospettabili appartenenti ai colletti bianchi: due medici e un avvocato. Sono stati sospesi per sei e nove mesi dall’esercizio della professione. (maredolce.com)
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meme-streets · 4 years ago
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top 5 fictional gangsters you would punt into the sun
and
Top 5 fictional gangsters you wouldn’t punt into the sun and have a cup of coffee with
oh god this one’s difficult
would punt into the sun:
j*ey z*sa from godfather pt 3 literally one of the most obnoxious screen villains i’ve ever seen especially from a series with such good villains otherwise...i didn’t even hate him in a fun way i just wanted him gone asap i despised him
sport/matthew from taxi driver idk if he really counts as a gangster but he sucks
carlo rizzi from godfather pt 1 sonny should have gotten to kill him
giovanni from mean streets.  stop emotionally damaging your nephew!
michael corleone tbh
would not put into the sun and would have a cup of coffee with:
anyone from the main trios in mafia definitive edition or mafia 2 but especially tommy angelo my beloved <3
charlie cappa from mean streets
tom hagen from the godfather
johnny boy from mean streets
nicky godalin from mikey and nicky i think that would be an interesting conversation
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astockhatsopiace · 6 years ago
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Pezzi di storia #1
Massimo Volume - Alessandro
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“Alessandro tiene un diario Ci scrive i punteggi delle partite che fa al computer, il pomeriggio al bar I record che trova sul libro del Guinnes Dei Primati I risultati della squadra locale di basket I canestri, giocatore per giocatore Scrive dopo l'ora di ginnastica I ragazzi dell'autobus hanno visto in TV un vecchio film di fantascienza Ora lo chiamano 'Il Trifide' per il suo modo di camminare Scrive della giornata in piscina insieme agli altri ragazzi del centro civico Scrive i nomi di tutti quelli che c'erano Annalisa, Roberto, Mirko Bencivenni, Cappa Giovanni. Giovanni va a scuola con lui Imparano un lavoro come mettere scatole in certi scaffali o mettere etichette sopra barattoli di latta o rispondere al telefono e passare la comunicazione spingendo un pulsante Scrive del colore della cuffia di ogni ragazzo Scrive di come è riuscito a parare un rigore buttandosi a sinistra appena un attimo prima che Cappa tirasse Ma ci sono pensieri che non riesce a trattenere Ci sono pensieri che lo fanno sentire come se andasse a tutta velocità in un tunnel in equilibrio sopra un'asse di legno che corre su due rotaie Lo fanno restare senza fiato Allora cerca di ricordare Le marche di gelato disponibili nel chiosco all'entrata della piscina Una dopo l'altra Cerca di ricordare la distanza in chilometri tra la piscina e il paese Poi trasforma i chilometri in metri Cerca di ricordare il numero che aveva dietro il sedile sull'autobus all'andata quello che aveva al ritorno Da qualche parte nel mondo c'è un uomo che riesce a sollevare altri quattro uomini per un totale di 340 chili mentre pedala su una bicicletta ad una sola ruota Alessandro lo sa È successo nell'89, in aprile Ma quali erano le condizioni meteorologiche? E il numero degli spettatori? Era una piazza o aperta campagna? E quali sono state le prime parole che ha pronunciato l'atleta dopo aver stabilito il nuovo record? Alessandro tiene un diario... Giocatore per giocatore... Non riesce a trattenere... Passare la comunicazione... Non riesce a trattenere... Allora cerca di ricordare... Una parte del mondo... in Aprile.“
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goodbearblind · 6 years ago
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ACQUAFORMOSA, DOVE NESSUNO È STRANIERO
di Silvio Messinetti, il Manifesto 25.08.18
Vista da Acquaformosa, Firmoza in arbrèshe, sui contrafforti del Pollino che scivolano verso il Mar Jonio, l’immigrazione non è «un problema», men che meno «un’emergenza». Vista da Acquaformosa l’immigrazione è una ricchezza che si declina alla voce integrazione. Da 10 anni Acquaformosa accoglie, include, si apre a chi fugge da guerre, dittature, carestie. Dal 2008 è operativo un progetto Sprar che gli ispettori del Viminale hanno giudicato nel 2017 il migliore in Italia: 0 punti di penalità messi a referto dal ministero degli Interni, ora guidato da Salvini.
GIÀ, SALVINI. Nel dedalo di viuzze dai nomi bilingue italo-albanesi che si inerpicano fino a mille metri di altitudine, vanno a ruba le magliette, non proprio benevole, dedicate al capo del Viminale: No Salvini, Sì Ong. D’altronde, Acquaformosa dal 2012 è il primo comune «deleghistizzato» d’Italia, si legge nel cartello di benvenuto all’entrata del borgo, seguìto dal mega striscione bilingue
«Qui nessuno è straniero». Salvini, quando ancora era solo segretario della Lega, definì una «cazzata» il modello Acquaformosa, parlando di utilizzo illegale di fondi pubblici. Il sindaco di allora, attuale vicesindaco e delegato regionale ai fenomeni migratori, Giovanni Manoccio, lo invitò invano a venire in Calabria per scoprire un esempio virtuoso di trasparenza e onestà e «per vaccinarsi di cultura che gli manca» . Oggi tutto è cambiato da allora e Manoccio preferisce rispondere alla tracotanza del ministro snocciolando i numeri di accoglienza diffusa del suo paese: 120 migranti su 1120 abitanti di cui 57 adulti e 24 minori non accompagnati inseriti nel progetto Sprar oltre a 15 stanziali, rimasti anche al termine del progetto, e 10 stagionali che tornano in estate.
TRA GLI STANZIALI incontriamo Issiaka Tapsoba, ivoriano, sarto in una famiglia di sarti. Nel centro di accoglienza dedicato a Roberta Lanzino, cosentina uccisa dalla violenza maschile 30 anni fa, Issiaka cuce i vestiti che italiani e stranieri gli commissionano. «Il mio sogno è di aprire una bottega qui in paese dove sono benvoluto, tutti mi rispettano e c’è solidarietà reciproca. Per questo ho preferito restare al termine del progetto. Mio padre e mio nonno erano sarti ad Abidjan e mi piacerebbe esportare questa tradizione familiare qui in Calabria». Nella via principale che porta nella piazza centrale dedicata a Papàs Vincenzo Matrangolo, prete del paese ricordato per aver fondato un centro di assistenza preventiva giovanile che diede assistenza a oltre mille giovani, un cartello affisso all’ingresso di una trattoria recita: «Non serviamo pasti a i razzisti». Emilio Marchese detto don Mimì racconta: «Ho lavorato per 20 anni in Germania dagli anni ‘70 in poi, trovavo locali ‘pubblici’ dove era vietato l’ingresso ‘ai negri e agli italiani’. Nelle discoteche gli spaghettifresser, come con disprezzo ci chiamavano, li sbattevano fuori. E io mi chiedevo perché io non potevo entrare a divertirmi e un tedesco sì. Salvini, lo stesso che poco tempo fa ci chiamava tutti terroni, è venuto al sud e ha promesso tante cose ma vende solo odio e propaganda. Qui con i rifugiati abbiamo una risorsa, arrivano periodicamente, diventano miei clienti, sono benvoluti e davvero trovo inspiegabile perché tale cattiveria e rancore siano così generalizzati in Italia».
IN CALABRIA SONO ATTIVI oltre 100 progetti Sprar «che funzionano anche da un punto di vista economico, danno lavoro a giovani laureati, con buone capacità, con titoli di studio acquisiti nei paesi d’origine. E fanno bene anche culturalmente ai paesi che si ripopolano – ci spiega la ricercatrice all’Università della Calabria Checca D’Agostino – non cedono alla rassegnazione, all’oblio, alla periferizzazione. In 15 anni di sperimentazione gli Sprar calabresi sono diventati apripista per un nuovo modello d’accoglienza, di cui Riace e Acquaformosa sono i fiori agli occhiello. Grazie ad essi vengono mantenuti i servizi pubblici come scuole e uffici postali. Purtroppo già con Minniti il Viminale aveva ridotto i fondi Sprar distraendone parte a favore del controllo sociale e della repressione».
Dal 2011 ad Acquaformosa in estate si radunano attivisti, volontari e realtà antirazziste per il Festival delle Migrazioni, quest’anno dedicato alle Ong. «C’è proprio una bella atmosfera qui, in controtendenza rispetto alla cappa d’odio – ci dice Veronica Alfonsi della Ong spagnola Proactive Open Arms – Contro di noi hanno imbastito una campagna diffamatoria e ostracista senza precedenti. E hanno ottenuto quello che volevano: non avere testimoni scomodi in mare e legittimare la Libia come stato sicuro». «Dobbiamo spiegare bene il prezioso lavoro che queste organizzazioni svolgono in mare. Dobbiamo tenere aperti le menti e i porti anche con un’opera certosina di controinformazione di massa» spiega Manoccio. Il risultato è confortante: centinaia di persone da tutta Italia per dibattiti, concerti, laboratori. Dal vivo, nella piazza reale, lontana dai proclami quotidiani su Facebook di un bullo esagitato.
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https://ilmanifesto.it/acquaformosa-dove-nessuno-e-straniero/
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-Carlo Ghione-
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lescuriositesdelafoire · 4 years ago
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Giovanni Cappa Legora (Italian, 1887–1970)
Bardonecchia Guglia del Mezzodì , 1935
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corallorosso · 4 years ago
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Giovanni Paolo II, esaltato con toni quasi fantozziani come “moderno” e vicino alla gente, ha tracciato quel profondo solco di conservatorismo che Benedetto XVI ha continuato. E che Francesco, politicamente più vicino al presunto progressista Paolo VI e mediaticamente di ispirazione wojtyliana, di certo non ha chiuso. «È stato lo stile di #Wojtyla quello di far pesare la sua presenza scenica e l’ingerenza politica per schierarsi nettamente contro ogni possibile avanzamento sui temi etici, l’aborto, l’omosessualità e contro possibili riforme interne alla chiesa (come il sacerdozio femminile). Non a caso nella sua patria polacca, dove vige una pesante cappa di confessionalismo cattolico, ha lasciato un indelebile marchio». «Oggi si torna mettere in dubbio l’aura di “santità” di Giovanni Paolo II. Con l’uscita del rapporto vaticano sulla condotta del cardinale (ormai ex) Theodore E. #McCarrick, accusato di abusi sessuali, è venuto fuori che Wojtyla aveva promosso nel 2000 con la porpora il controverso prelato, nonostante le accuse. Il #NewYork Times, in un articolo del corrispondente in Italia Jason Horowitz che ha avuto subito la ribalta internazionale, si è chiesto se Wojtyla non sia stato «santificato troppo presto». «Ma l’opaco retaggio wojtylano non finisce qui. Oggi proprio #Dziwisz, potente ex segretario personale di Giovanni Paolo II, è accusato dai media polacchi di aver coperto abusi sessuali da parte di preti. Un’inchiesta mandata in onda dall’emittente TVN24 arriva a sostenere che abbia ricevuto dei #soldi» «La maggior parte degli scandali della pedofilia clericale insabbiati dalle gerarchie vaticane, che hanno poi investito la chiesa minandone pesantemente la credibilità, sono maturati proprio durante i quasi 27 anni di regno ininterrotto di Giovanni Paolo II. Scomparso il carismatico leader, sono iniziate a cedere le dighe». blog.uaar.it
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bonahead · 7 years ago
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Hello everyone! Here we are!
SATURDAY 28TH APRIL 2018... 9.00 PM - free offer !
THEATER "Cecilia Gallerani" - San Giovanni in Croce (CR - ITALY)
Let's go back with our new band:
- Roberto Bonazzoli "Bona Head" (voices, piano and acoustic guitar) - Diego "Roy Tinozza" Tininini (drums and percussion) - Gabriele Branca (mixing and effects) - Emanuele Cappa (guitars and effects) - Nicola Vicini (electric bass)
We'll play the new album "Noises from Melancholia" and the best songs taken from the albums "Colors Doors Planet (2011)", "The Path" (2012), "Keys for Healing" (February 2016) + some covers of the international scene.
We're waiting for you to share an evening dedicated to music ...!
LOVE <3
http://bonahead.wix.com/bonahead https://www.facebook.com/BonaHead https://soundcloud.com/bonahead/ https://bonahead.bandcamp.com/
https://open.spotify.com/album/0xvY1H3JTS5tG7zkET4u0M?si=28iZKFAjTFeQt70rMrK9KQ https://itunes.apple.com/it/album/noises-from-melancholia/1357176827
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vittoriamagnani · 5 years ago
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Dichiarazione d’amore per un cimitero.
Mi rivolgo agli abitanti di San Giovanni in Gallilea e alle autorità comunali, perché abbiano cura del loro incantevole Cimitero, quel tappeto volante sul Montefeltro, in modo che diventi un appuntamento obbligatorio per quanti in Romagna e fuori, cercano l’arte e la poesia. Il segreto, probabilmente, è togliere l’idea della morte a qualcosa che invece è il suo momento.
Eppure come mai in altre parti del mondo i giovani innamorati amano incontrarsi e stare nei cimiteri?
Ecco, bisogna sollevare la cappa nera che abbiamo gettato sulle tombe rendendo i nostri nonni, i bisnonni e a volte i figli, delle presenze inquietanti e spesso paurose.
Vorrei tanto che il cimitero di San Giovanni fosse il giardino aereo dove gli uccelli, i viaggiatori disorientati, la gente in vacanza, arrivino di proposito per godere un monumento d’incanto vicino a chi si crede definitivamente perduto.
p.s. Non solo fiori ma anche spighe di miglio per gli uccelli e luce più serena per tutti e non più quei lumini traballanti. Così la morte può sembrare più dolce”
Tonino Guerra
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pleaseanotherbook · 5 years ago
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Books on the road #4: Sotto la Mole
Ah, ricordo un tramonto a Torino, nei primi mesi di quella mia nuova vita, sul Lungo Po … l’aria era di una trasparenza meravigliosa; tutte le cose in ombra parevano smaltate in quella limpidezza
Luigi Pirandello
Novembre mi lascia sempre con un cumulo di malinconia addosso che non mi so spiegare. Sarà che le giornate sono così brevi da essere fagocitate dal buio alle cinque del pomeriggio, sarà questa pioggia incessante, il freddo pungente, la nebbiolina che ammanta la città, ma la voglia di essere produttiva mi finisce sotto i piedi. Alzarmi la mattina, mettere un piede dietro l’altro per andare in ufficio sono fatiche da Ercole che affronto con uno scazzo non indifferente. Sono meteoropatica e risento un sacco della mancanza di sole, e pure del lavoro monotono e alienante. In questo autunno però sto imparando a riscoprire la città che ormai da anni mi fa da casa e che ho imparato ad amare con una forza che non mi sarei mai immaginata. Grazie alla guida indiscussa di Amaranth del blog La Bella e il Cavaliere e alla straordinaria avventura che abbiamo intrapreso con le “Merendine in viaggio” stiamo imparando a riscoprire nuovi angoli e impressionanti scorci di Torino. E allora ho pensato bene di rendere il capoluogo sabaudo protagonista di una nuova puntata di “Books on the road”.
“Books on the road” muove i passi dalla rappresentazione citazionistica di città che ho visitato e che amo particolarmente in un tratteggiare di paesaggi tramite foto e brani tratti da libri che ho letto o che vorrei leggere e che sento rappresentare appieno le meraviglie che si nascondono nei luoghi che ho scelto.
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Panorama di Torino dal Monte dei Cappuccini
Torino mi sembrava una grande fortezza dalle mura ferrigne, pareti di un grigio gelato che il sole di primavera non riusciva a scaldare.
Elena Ferrante
Torino è stata la prima capitale del Regno d’Italia ma la sua è una storia più che millenaria, che inizia ancora prima dei Romani, pare infatti che il primo insediamento risalga al terzo secolo a.C. per opera dei Taurini una etnia di origine ligure fortemente influenzata dai Celti. Già nel primo secolo a.C. venne trasformata in una colonia romana da Augusto da cui prese il nome Iulia Augusta Taurinorum. Dominata dai barbari Ostrogoti e Longobardi e finì per essere una marca carolingia, dominata dai Franchi di Carlo Magno. Dal 1720 fu capitale del Regno di Sardegna capitanata dai Savoia, che favorirono la formazione del Regno d’Italia.
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Affaccio su Piazza Castello da Via Palazzo di Città
Torino è una città che invita al rigore, alla linearità, allo stile. Invita alla logica, e attraverso la logica apre alla follia.
Italo Calvino
Torino ha quel fascino risorgimentale, di città Mittle europea, con il clamore dei suoi palazzi ottocenteschi, i portici sotto cui rifugiarsi quando piove, il Po che emerge con i suoi odori caratteristici ad un passo. Ha conservato la pianta romana, così diversa dalla tipica pianta a cipolla dei borghi medievali che popolano le mie adorate colline. Torino è viva come lo può essere una città cosmopolita che cerca di adattarsi al momento storico che vive, con una folla di giovani, turisti e gente venuta all’avventura.
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Piazza Vittorio
Non si è nemmeno in una zona all'ultima moda - posto che Torino, con la sua allure regale e riservata, ne abbia di zone "all'ultima moda".
L'imprevedibile piano della scrittrice senza nome – Alice Basso
La parte più antica della città si muove intorno a Piazza Castello, nei cui pressi sorge ancora la Porta Palatina, con i resti delle mura romane. La porta Decumana è stata poi inglobata in Palazzo Madama, mentre dietro Palazzo reale è possibile visitare i resti del Teatro Romano. Si è sviluppata tantissimo durante l’età medievale e pur avendo in buona percentuale attraversato l’età barocca e il neo-classicismo è sicuramente l’Ottocento il periodo di massimo splendore. Molti degli edifici più simbolici di Torino infatti vengono costruiti in questo periodo: il Museo Egizio, la Cattedrale di San Giovanni Battista che custodisce la Sacra Sindone, Palazzo Carignano che è stato progettato da Guarini ed è stato la sede della Camera dei deputati del Parlamento italiano e l'imponente Palazzo Madama.
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Affaccio su Piazza Castello da Palazzo Madama
La nebbia si addice a Torino. Tutto assume un'aria da tardo Ottocento, da libro Cuore, e la Mole fora la cappa perlaceo come il dente di un narvalo. Il Po' diventa lo Stige e la luce dei lampioni si fa lattiginosa come in quei film su Jack lo Squartatore.
Adoro Torino quando c'è la nebbia.
Scrivere è un mestiere pericoloso – Alice Basso
Un capitolo a parte se lo merita sicuramente la Mole Antonelliana, la custode insostituibile di questa città, forse uno dei suoi simboli più famosi. Il nome “Mole” deriva dal fatto che originariamente con i suoi 167,5m era la struttura in muratura più alta del mondo (dal 1889 fino al 1908) mentre l’”Antonelliana” si riferisce all’architetto che l’ha progettata Alessandro Antonelli. Originariamente era stata concepita per diventare un nuovo tempio israelitico, ad oggi al suo interno si trova il Museo Nazionale del Cinema. E non si può approdare a Torino e non andare a renderle omaggio.
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Mole Antonelliana
La nostra città, del resto, è malinconica per sua natura. Nelle mattine d’inverno, ha un suo particolare odore di stazione e di fuliggine, diffuso in tutte le strade e in tutti i viali … Se c’è un po’ di sole … la città può anche sembrare, per un attimo, ridente e ospitale: ma è un’impressione sfuggevole.
Natalia Ginzburg
Torino può vantare anche la presenza di un nucleo di edifici in stile Liberty che svettano nel primo tratto di Corso Francia, in un quartiere residenziale chiamato Cit Turin (che sta per piccola Torino). Grazie infatti all'Esposizione internazionale d'arte decorativa moderna, un importante evento espositivo tenutosi nel 1902 nel Parco del Valentino sponsorizzato da Pietro Fenoglio e Gottardo Gussoni, Torino venne nominata capitale del Liberty. Vi segnalo Palazzo della Vittoria, e Casa Fenoglio-Lafleur, ma perdersi per le strade di Torino è sempre un’esperienza unica.
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Piazza Carlina
Altre città regalavano al primo venuto splendori e incantamenti, esaltanti proiezioni verso il passato o l'avvenire, febbrili pulsazioni, squisiti stimoli e diversivi; altre ancora offrivano riparo, consolazione, convivialità immediate. Ma per chi, come lui, preferiva vivere senza montarsi la testa, Torino, doveva riconoscerlo, era tagliata e squadrata su misura. A nessuno, qui, era consentito farsi illusioni: ci si ritrovava sempre, secondo la feroce immagine dei nativi, 'al pian dii babi', nient'altro, in fondo, pretendeva da te la città, che poi, una volta fatta la burbera tara del creato, stabilito il peso netto tuo e dell'universo, ti spalancava, se volevi profittarne, i suoi infiniti, deliranti spacchi prospettici.
La donna della domenica – Carlo Fruttero & Franco Lucentini
Torino è una città meravigliosa, che mi ha conquistato fin dal primo momento in cui ho iniziato a camminare per le sue strade perpendicolari, i suoi viali lunghissimi, il nucleo centrale che si irradia verso l’esterno e le stazioni e si propaga fino al Lingotto e oltre, con quella pianura così diversa dalle mie amate colline. Dal grattacielo dove lavoro, si uno dei pochi che ci sono, accanto alla stazione di Porta Susa, sembra quasi di toccare quelle Alpi che cingono da est il capoluogo piemontese. C’è tanta aria frizzante, quel freddo che ti penetra dentro, quell’atmosfera da città europea che tanto si discosta dalla fissità dei Borghi medievali di provincia a cui sono abituata.
Torino respira un multiculturalismo che si nutre anche di cibo, non solo il gianduiotto e la bagna cauda, ma la carne, quella Fassona che sembra fiorire ad ogni ristorante, i plin, gli agnolotti, il gelato e il bonet (che se vi piacciono i dolci liquorosi è un must have).
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Quadrilatero, scorcio della Cattedrale di San Giovanni Battista
Città della fantasticheria, per la sua aristocratica compiutezza composta di elementi nuovi e antichi; città della regola, per l’assenza assoluta di stonature nel materiale e nello spirituale; città della passione, per la sua benevola propizietà agli ozi; città dell’ironia, per il suo buon gusto nella vita; città esemplare, per la sua pacatezza ricca di tumulto. Città vergine in arte, come quella che ha già visto altri fare l’amore e, di suo, non ha tollerato sinora che carezze, ma è pronta ormai se trova l’uomo, a fare il passo. Città infine, dove sono nato spiritualmente, arrivando di fuori: mia amante e non madre né sorella. E molti altri sono con lei in questo rapporto. Non le può mancare una civiltà, ed io faccio parte di una schiera. Le condizioni ci sono tutte.
Il mestiere di vivere – Cesare Pavese
Mi sono innamorata di Torino, con quelle atmosfere da fin de siecle, le strade affollate, lo struscio lungo via Garibaldi della domenica pomeriggio, gli artisti di strada in piazza Castello, i negozi di lusso di via Roma e via Lagrange, quelle librerie meravigliose che ti sbucano da un angolo e le gelaterie. E anche se la mancanza di casa mia
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Superga
La Paola ora era venuta anche lei a stare a Torino. Stava in collina, in una grande casa bianca, con una terrazza circolare, che guardava sul Po. La Paola amava il Po, le strade e la collina di Torino, e i viali del Valentino, dove un tempo usava passeggiare col giovane piccolo. Ne aveva avuta sempre una grande nostalgia. Ma ora anche a lei Torino sembrava diventata più grigia, più noiosa, più triste. Tanta gente, tanti amici erano lontano, in carcere. La Paola non riconosceva le strade della sua giovinezza, quando aveva pochi vestiti, e leggeva Proust.
Lessico Familiare – Natalie Ginzburg
Libri citati:
Lessico Familiare – Natalie Ginzburg
L'imprevedibile piano della scrittrice senza nome – Alice Basso
Scrivere è un mestiere pericoloso – Alice Basso
La donna della domenica – Carlo Fruttero & Franco Lucentini
La giornata di uno scrutatore – Italo Calvino
Il mestiere di vivere – Cesare Pavese
E voi, siete mai stati a Torino?
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fondazioneterradotranto · 7 years ago
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Araldica carmelitana a Nardò (Lecce)
di Marcello Semeraro
Ripropongo in questa sede la versione integrale del mio saggio sull’iconografia araldica dei Carmelitani Calzati di Nardò, apparso sul volume Decor Carmeli. Il convento, la chiesa e la confraternita del Carmine di Nardò, a cura di Marcello Gaballo (Mario Congedo editore, Galatina 2017, pp. 259-264).
  ARALDICA CARMELITANA A NARDÒ
LO STEMMA CARMELITANO: ORIGINE E SVILUPPI
L’uso degli stemmi da parte dei membri della Chiesa risale alla prima metà del Duecento, un secolo dopo la comparsa delle prime armi in ambito militare e cavalleresco. Questo ritardo si spiega facilmente se si considera che il sistema araldico primitivo si elaborò interamente al di fuori dell’influenza di Roma, la quale in un primo momento si dimostrò refrattaria all’utilizzo di emblemi profani legati a guerre e tornei. Fu solo col prevalere di un più generico significato di distinzione sociale che l’uso degli stemmi troverà piena giustificazione negli ambienti ecclesiastici, soprattutto per via della sua utilità nei sigilli[1]. L’iniziale avversione della Chiesa nei confronti delle armi cadde quindi nel momento in cui esse persero il loro carattere esclusivamente militare, diffondendosi, tra il XIII e il XIV secolo, a tutte le classi e le categorie sociali. I vescovi furono i primi a fare uso di stemmi (ca. 1220-1230), seguiti dai canonici e dai chierici secolari (ca. 1260), dagli abati e, verso la fine del Duecento, dai cardinali[2]. Quanto ai papi, il primo a utilizzare uno stemma fu Niccolò III (1277-1280), ma è con Bonifacio VIII (1294-1303) che tale uso divenne sistematico[3]. Le comunità ecclesiastiche fecero lo stesso a partire dal XIV secolo: ordini religiosi, abbazie, priorati, conventi e case religiose faranno via via un uso sempre maggiore di emblemi araldici, con le dovute differenze, a seconda del particolare ordine e delle regioni di appartenenza[4]. Anche i Carmelitani si dotarono di proprie insegne araldiche, tuttora innalzate dagli appartenenti a due distinti ordini religiosi: i Carmelitani dell’antica osservanza (o Calzati) e i Carmelitani Scalzi (o Teresiani) (figg. 1 e 2).
Fig.1
Fig. 2
  Sulle origini dell’arma carmelitana non si hanno riferimenti cronologici certi. Quel che sappiamo è che l’insegna vanta una lunga storia, attestata sin dalla prima metà del XV secolo[5]. In origine i frati portarono uno scudo “di tanè, cappato di bianco (d’argento)”[6], composizione che rappresenta l’araldizzazione dell’abito carmelitano, formato dalla cappa bianca aperta sull’abito di colore tanè (marrone rossiccio)[7]. Questo fenomeno di araldizzazione dell’abito si ritrova, del resto, anche nello stemma innalzato dall’Ordine dei Frati Predicatori (Domenicani), nel quale però il cappato rappresenta la cappa nera aperta sull’abito bianco[8]. Il più antico esemplare a noi noto di stemma carmelitano si trova su un sigillo ogivale usato intorno al 1430 dal Capitolo Generale dell’Ordine (fig. 3).
Fig.3
  Il campo mostra la Vergine in trono – un tipo assai ricorrente nella sfragistica carmelitana, che perdurerà fino al XVIII secolo – dentro un edicola tardo-gotica e in basso un frate genuflesso, affiancato da due scudi: quello dell’Ordine, accollato a un pastorale posto in palo, e quello di famiglia[9]; attorno la legenda SIGILLUM COMMUNE CAPITULI GENERALIS CARMELITARUM. Un altro sigillo ogivale, datato 1478 e pubblicato dal Bascapè, ha il campo suddiviso in tre piani: in alto un sole raggiante, al centro l’Annunciazione, in basso un frate affiancato da due scudetti cappati dell’Ordine[10]. Nel corso dei tempo, tuttavia, questa forma grafica primitiva conobbe numerosi sviluppi e varianti, in linea con una tendenza riscontrabile anche in altri stemmi di ordini religiosi. Lo studio delle testimonianze araldiche dimostra che l’evoluzione dell’insegna carmelitana può essere fatta risalre al XVI secolo. Sul frontespizio del Jardín espiritual di Pedro de Padilla, pubblicato a Madrid nel 1585, si trova inciso uno scudo cappato che reca per la prima volta, nelle due metà del campo, tre stelle dell’uno nell’altro[11], figure allusive alla Vergine Maria e ai profeti Elia ed Eliseo (fig. 4).
Fig. 4
  Lo scudo è timbrato da una corona, formata da un cerchio rialzato da tre fioroni e da sei perle poste a trifoglio e diademato da un arco di dodici stelle: chiaro riferimento alla corona della “donna vestita di sole” di biblica memoria (cfr. Ap 12, 1). L’uso di questo tipo di corona quale timbro dello scudo è documentato già alcuni anni prima, come si vede nell’incisione presente sul frontespizio delle Costituzioni del 1573[12].
Nel 1595 furono pubblicati i decreti per i Carmelitani di Spagna e Portogallo, dove si trova inciso uno scudo ovale[13], timbrato da una corona con cinque fioroni alternati a quattro perle, dalla quale esce come cimiero un braccio sinistro impugnante una spada fiammeggiante; sopra, un cartiglio svolazzante reca il motto Zelo zelatus sum pro Domino Deo exercituum (“Ardo di zelo per il Signore Dio degli eserciti”) (fig. 5).
Fig. 5
  La spada e il motto alludono, chiaramente, al profeta Elia (cfr. 1Re 19, 10). Nei secoli seguenti, questa rappresentazione completa dell’arma carmelitana, costituita dallo scudo e dalle sue ornamentazioni esterne, godette, pur tra varianti, di una certa fortuna. La riforma dell’Ordine, avvenuta nella seconda metà del Cinquecento per opera di Santa Teresa d’Ávila e di San Giovanni della Croce, ebbe conseguenze anche dal punto di vista araldico.
I Carmelitani Scalzi, infatti, si differenziarono dai Calzati aggiungendo una crocetta[14] sulla sommità del triangolo, probabilmente per “denotare la vita più penitente che essi menano osservando la primitiva regola”[15]. Ne troviamo un esempio antico sul frontespizio dei Privilegia Sacrae Congregationis Fratrum Regulam primitivam Ordinis B. Mariae de Monte Carmeli profitentium, qui Discalceati nuncupantur, opera edita a Madrid nel 1591 (fig. 6).
Fig. 6
  Come si vede nell’illustrazione, la modifica operata dagli Scalzi, una sorta di brisura[16] araldica nel senso lato del termine, riguardò solo il contenuto dello scudo, lasciando inalterate le ornamentazioni esterne, vale a dire la corona nimbata, il cimiero e il motto eliani. A poco a poco il triangolo della partizione prese la forma di un monte stilizzato, probabilmente per effetto di una diversa interpretazione attribuita al cappato, considerato come rappresentazione simbolica del biblico Monte Carmelo – al quale le origini dell’Ordine sono ricondotte – piuttosto che come araldizzazione dell’abito religioso.
Una forma particolare di stemma fu poi quella adottata in epoca moderna dalla Congregazione Mantovana, dal Camine Maggiore di Napoli e, più in generale, dai Calzati delle Province del Sud Italia, che si caratterizza per l’aggiunta, nella metà inferiore del campo, di un ramo di palma e di giglio – attributi iconografici di S. Angelo di Sicilia e S. Alberto di Trapani, i primi due canonizzati dell’Ordine – spesso infilati in una corona e talora uscenti da un monte di tre cime all’italiana[17] (figg. 7, 8)[18].
Fig. 7
Fig. 8
  Le varianti a cui andò incontro l’insegna nel corso del tempo furono molteplici e riguardarono sia il contenuto dello scudo che le sue ornamentazioni esterne[19]. La corona, ad esempio, non compare in tutti gli stemmi e non sempre da essa esce il braccio d’Elia impugnante la spada. Anche il motto Zelo zelatus sum pro Domino Deo exercituum non è di uso costante. Gli smalti della metà inferiore del campo sono il tanè o il nero, ma vi sono casi eccezionali in cui esso è d’azzurro. Nel Settecento, al posto del cimiero col braccio di Elia, apparve sporadicamente un monogramma mariano dentro un sole raggiante. In linea generale si può sostenere che lo sviluppo grafico dello stemma è stato vario, condizionato, da una parte, dall’aggiunta di figure allusive alle origini e ai santi patroni dell’Ordine, e, dall’altra, da altri fattori propri della creazione artistica, quali il capriccio degli esecutori o il gusto del tempo.
L’arma carmelitana può anche comparire come quarto di religione all’interno dello scudo, dov’è associata, mediante una partizione (soprattutto il partito), all’arma (personale o familiare) dell’ecclesiastico proveniente da tale Ordine (fig. 9).
Fig. 9
L’uso del partito, in particolare, è documentato sin dal XVII secolo negli stemmi dei priori generali e dei Carmelitani divenuti cardinali o vescovi. Talora, l’insegna dell’Ordine è posta su uno scudetto, come si vede nello stemma del cardinale Joaquín Lluch y Garriga (†1882, O.C.D.) e in altri esempi[20]. Le suore del Secondo Ordine carmelitano, infine, portano le medesime insegne dei rispettivi ordini maschili[21].
  GLI STEMMI DEI CARMELITANI CALZATI DI NARDÒ
L’arrivo dei Carmelitani dell’antica osservanza a Nardò risale al 1568, come già trattato da diversi autori in questo lavoro. Dai documenti d’archivio risulta, infatti, che in quell’anno ai frati, rappresentati da Crisostomo Romano di Mesagne, con il beneplacito del vescovo Giovan Battista Acquaviva d’Aragona e del duca Giovan Bernardino II Acquaviva, fu assegnata provvisoriamente la chiesa dell’Annunziata, dimorando in un primitivo e ridotto insediamento che avrebbero ampliato negli anni seguenti. Alla fine del XVI secolo è databile l’esemplare araldico più antico giunto fino a noi, scolpito sulla facciata dell’ex convento (fig. 10).
Fig. 10 (foto Lino Rosponi)
  All’interno di uno scudo appuntato, col lato superiore sagomato a due punte, è rappresentato un monte[22] stilizzato e acuminato, accompagnato, nel cantone destro del capo, da una cometa di sette raggi (più la coda), ondeggiante in banda. Lo scudo è timbrato da una corona costituita da un cerchio gemmato di stelle, sostenente fioroni oggi quasi del tutto abrasi. La composizione araldica è posta su un medaglione circolare, attorno al quale corre la scritta INSIGNE CARMELI VEXILLUM. L’uso del termine “vexillum” con riferimento allo stemma carmelitano non è certo una novità (fig. 5) e si riferisce probabilmente all’origine vessillare dell’insegna dell’Ordine[23].
Come ho già ricordato sopra, fu solo alla fine del Cinquecento che lo stemma carmelitano assunse la forma col cappato (variamente interpretato) e le tre stelle, che sarebbe poi diventata classica (figg. 4 e 5). L’esemplare litico neretino si rivela, da questo punto di vista, una testimonianza di notevole interesse perché mostra una variante insolita nell’evoluzione dell’iconografia araldica dell’Ordine, ascrivibile a una fase transizione dello stemma dalla versione primitiva a quello classica. Probabilmente seicentesca è, invece, l’arma affrescata sulla volta dell’ingresso dell’ex convento (fig. 11), riconducibile alla variante con i rami di palma e di giglio, decussati e uscenti da una corona, usata in epoca moderna nel Meridione d’Italia (figg. 7, 8)[24].
Fig. 11 (foto Lino Rosponi)
  Lo scudo, di foggia semirotonda e con contorno a cartoccio, timbrato da una corona con cinque fioroni e quattro perle, appare ingentilito, ai lati, da un cordone di tanè terminante con due nappe e, al di sotto della punta, da un cherubino; il tutto è circondato da un serto di alloro. Alla stessa tipologia appartengono due altri esemplari presenti nell’ex convento. Uno di questi è dipinto sul trono su cui è assisa la Vergine nell’affresco della Madonna del Carmelo e reca uno scudo sagomato e accartocciato, timbrato da una corona all’antica[25] (fig. 12).
Fig. 12 (foto Lino Rosponi)
  L’altro si trova scolpito sulla volta del salone al pianterreno, racchiuso da uno scudo semirotondo e accartocciato, timbrato da una corona con perle sostenute da punte (fig. 13).
Fig. 13 (foto Paolo Giuri)
  Nella chiesa della Beata Vergine Maria del Carmelo (in origine chiesa dell’Annunziata) si conservano altri tre esemplari che invece rispecchiano, seppur con varianti, l’iconografia classica dello stemma dei Carmelitani Calzati. Il primo è raffigurato su una lastra marmorea che in origine copriva l’accesso della sepoltura dei frati e che attualmente si trova come pezzo erratico in un deposito della chiesa (fig. 14).
Fig. 14 (foto Lino Rosponi)
  Tale lastra mostra al centro l’emblema dei Calzati, racchiuso da uno scudo ovale e accartocciato, timbrato da una corona rialzata da cinque fioroni, alternati a quattro perle, sostenute da altrettante punte. Il secondo esemplare è uno stemma ligneo che fa bella mostra di sé sul fastigio dell’edicola centrale del coro (fig. 15).
Fig. 15 (foto Lino Rosponi)
  Uno scudo sagomato e accartocciato, dalla foggia tipicamente settecentesca, timbrato da una corona di cui resta solo il cerchio, contiene un’irregolare rappresentazione dell’arma dei Calzati, così blasonabile: “troncato in scaglione di tanè e di…?, a tre stelle di otto raggi d’oro”[26].
Chiude questa carrellata di stemmi l’esemplare che decora un drappo rosso conservato fra gli arredi sacri della chiesa[27]. L’insegna è contenuta in uno scudo sannitico accartocciato, munito di una punta nel lato superiore e timbrato da una corona all’antica (fig. 16).
Fig. 16 (foto Lino Rosponi)
  In conclusione, in base alle testimonianze superstiti si può affermare che la rappresentazione dello stemma innalzato dai Calzati di Nardò seguì, pur tra varianti, l’evoluzione dell’iconografia araldica dell’Ordine, caratterizzata dalla progressiva aggiunta sul cappato originario di figure e simboli allusivi agli ispiratori e ai santi patroni dell’Ordine. Se letti correttamente e in senso diacronico, gli esemplari neretini mostrano tre diverse fasi evolutive nella conformazione dell’insegna, che vanno dallo sviluppo della forma primitiva (fig. 10) alla forma classica (figg. 14, 15 e 16), passando attraverso la variante seicentesca adoperata nel Sud Italia (figg. 11, 12 e 13).
Riprodotti su supporti di vario tipo, questi stemmi furono impiegati dai frati con la duplice funzione di segni di appartenenza all’Ordine e motivi decorativi. Malgrado il notevole numero di varianti, i Calzati si riconobbero tutti nella propria insegna, professando orgogliosamente per mezzo di essa la propria fede e la propria appartenenza all’Ordine, con l’intento di trasmettere questo patrimonio ideale alle future generazioni. Sta a noi, dunque, decifrane il contenuto e diffonderne il messaggio: è questo, in fondo, l’obiettivo che il presente contributo, scevro da qualunque pretesta di esaustività, si propone di raggiungere.
  [1] B. B. Heim, L’araldica nella Chiesa Cattolica. Origini, usi, legislazione, Città del Vaticano 2000, pp. 23-24; M. Pastoureau, Le nom et l’armoirie. Histoire et géographie des armes parlantes dans l’Occident médiéval, in “L’identità genealogica e araldica. Fonti, metodologie, interdisciplinarità, prospettive”, Atti del XXIII Congresso internazionale di scienze genealogica e araldica (Torino, 1998), Roma 2000, pp. 78-79.
[2] M. Pastoureau, Medioevo simbolico, Bari 2014, pp. 201-202; E. Bouyé, Les armoiries pontificales à la fin du XIII siècle: construction d’une campagne de communication, in “Médiévales”, 44 (2003), pp. 173-198.
[3] Sulle origini dell’araldica papale, v. Bouyé, Les armoiries pontificales cit., pp. 173-198; Heim, L’araldica cit., p. 100.
[4] A. Cordero Lanza di Montezemolo, A. Pompili, Manuale di araldica ecclesiastica nella Chiesa Cattolica, Città del Vaticano 2014, pp. 17-18.
[5] Le fonti per lo studio dell’arma carmelitana antica sono costituite essenzialmente dai sigilli. Sulla sfragistica e sull’araldica carmelitane, v. G.C. Bascapè, Sigillografia: il sigillo nella diplomatica, nel diritto, nella storia, nell’arte, II, Milano 1969, pp. 180-186.
[6] Nel blasone il termine cappato designa una partizione formata da due linee curve o rette che partono dal centro del capo e terminano ognuna al centro dei fianchi dello scudo. Come vedremo, nel corso del tempo il cappato carmelitano venne reso in maniera diversa, fino ad assumere la forma di un troncato in scaglione o di un monte stilizzato.
[7] Tuttavia, negli stemmi disegnati e stampati il colore tanè, che non fa parte dei sette smalti convenzionali del blasone (oro, argento, rosso, azzurro, verde, nero e porpora), diventa spesso nero. Il Ménestrier, il più autorevole araldista dell’Ancien Régime, a proposito dello stemma carmelitano così scrive: “L’Ordre des Carmes porte un escu tanè ou noir, chappé ou mantelé d’argent, pour representer les couleurs de leur habit”. C.F. Ménestrier, Les recherches du blason. Seconde partie de l’usage des armoiries, Paris 1673, p. 182. L’uso di una formula bicroma negli abiti religiosi fu introdotto intorno al 1220 dai Domenicani (saio bianco e mantello nero, presentati come i colori della purezza e dell’austerità) e fu ripreso dagli stessi Carmelitani e da alcuni ordini monastici (Celestini, Bernardini, ecc.). Su tale questione, v. Pastoureau, Medioevo simbolico cit., p. 140.
[8] Sull’insegna domenicana e sulle sue varianti, v. Bascapè, Sigillografia cit., pp. 203-205.
[9] Nei sigilli ecclesiastici, l’uso di associare, ai lati della figura del religioso, due scudi (quello del vescovado, dell’abbazia o dell’ordine, da un lato, e quello familiare, dall’altro) è riscontrabile a partire dal XIV secolo. A. Coulon, Éléments de sigillographie ecclésiastique française, in “Revue d’histoire de l’Église de France”, 18 (1932), pp. 178-179.
[10] Bascapè, Sigillografia cit., tav. XXXI, n. 3.
[11] Si dice di più figure che, poste in campi contigui di smalti diversi, assumono lo smalto del campo opposto. Le stelle sono invece due nell’esemplare inciso sul frontespizio delle Costituzioni del 1573, pubblicato dal Bascapè. Cfr. ivi, tav. XXXII, n. 7.
[12] V. supra, nota 11.
[13] Si noti la presenza, attorno allo scudo, di una bordura composta, formata da triangoli alternati di nero e di bianco (d’argento), ripetizione degli smalti del cappato. Questo tipo di bordura è simile a quella che compare nello stemma domenicano, del tipo con la croce gigliata.
[14] La provincia di Sicilia poneva, invece, un altro tipo di croce, quella gerosolimitana, potenziata e accantonata da quattro crocette, il cui uso è attestato anche per i Carmelitani di Malta. G. Zamagni, Il valore del simbolo: stemmi, simboli, insegne e imprese degli Ordini religiosi, delle Congregazioni e degli altri Istituti di perfezione, Cesena 2003, p. 9.
[15] Bascapè, Sigillografia cit., p. 185; G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, X, Venezia 1841, p. 59.
[16] La brisura, stricto sensu, è una variante introdotta in uno stemma rispetto all’originale, per distinguere i diversi rami di una stessa famiglia. I procedimenti più impiegati per brisare un’arma sono tre: la modificazione degli smalti, la modificazione delle figure e l’aggiunta di altre figure.
[17] Figura stilizzata, costituita da un insieme di cilindri coperti da calotte sferiche, detti colli o cime, disposti, generalmente, a piramide.
[18] Zamagni, Il valore del simbolo cit., p. 10.
[19] Ibid.; Bascapè, Sigillografia cit., p. 186.
[20] Lo stemma del cardinale Joaquín Lluch y Garriga è riprodotto sul sito Araldica vaticana, al seguente indirizzo: <http://www.araldicavaticana.com/luch_y_garriga_fra_gioacchino_1.htm>. Altri esempi di stemmi prelatizi con lo scudetto dell’Ordine si trovano in G.C. Bascapè, M. Del Piazzo, con la cooperazione di L. Borgia, Insegne e simboli. Araldica pubblica e privata, medievale e moderna, Roma 1999, pp. 404, 409.
[21] Ivi, p. 363.
[22] Utilizzo volutamente il termine monte e non montagna (che sarebbe araldicamente più corretto) perché più allusivo alle origini dell’Ordine.
[23] Il termine vexillum si trova documentato per la prima volta sulla xilografia raffigurata sul frontespizio della Vita di Sant’Alberto, pubblicata nel 1499, dove compare una mandorla ogivale, raggiante e sostenuta da due angeli, che contiene nel campo superiore la Vergine assisa in trono, incoronata e nimbata, sul cui grembo sta il Bambino, mentre i piedi poggiano su una mezzaluna su cui è inciso il motto “luna sub pedibus eius”; nel campo inferiore, invece, si trova il cappato carmelitano. Secondo il Bascapè, si tratta della riproduzione del gonfalone dell’Ordine, della fine del Trecento o degli inizi del secolo successivo. Bascapè, Sigillografia cit., pp. 181-182.
[24] Di questa variante dello stemma carmelitano sono documentate versioni con una o con tre stelle. Cfr. <http://ocarm.org/pre09/alberto/images/alberto034.jpg>; <http://ocarm.org/pre09/alberto/images/alberto033.jpg>.
[25] Si dice della corona composta da un cerchio rialzato da punte aguzze. In araldica è detta anche corona radiata.
[26] V. supra, nota 6. Si noti anche la differenza rispetto agli smalti convenzionalmente usati nel blasone dei Carmelitani.
[27] Marcello Gaballo, che ringrazio, mi ha riferito che il drappo era applicato dietro la croce processionale della Confraternita dell’Annunziata e del Carmine.
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laquimeradegupta · 8 years ago
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LA QUIMERA DE RADHEY S. GUPTA: Las chaperonas y una hipótesis fascinante sobre el origen de la célula eucariota
En el siglo XV, en las provincias neerlandesas, de lo que hoy en día son los los Países Bajos, Zelanda y Holanda, un clase social, por aquel entonces residual, comenzaba a cobrar importancia en las ciudades portuarias de estas provincias. Estamos hablando de la burguesía: la acumulación del capital, propiciada por una demografía muy fuerte (era la zona de Europa más densamente poblada, incluso después de las sucesivas oleadas de peste del S.XIV), daba como resultado una amplia gama de mercancías producidas y un vivaz comercio entre estas ciudades y otras de las costa germana, inglesas y escandinava (constituyéndose estas ciudades con una poderosa burguesía en Liga, la famosa “Liga Hanseática”, a la cual se le han llegado a dedicar videojuegos, como la saga Patrician). Esta burguesía buscó destacarse del vulgo desposeído y de los señores privilegiados a través de la ostentación: entre los elementos típicos de la burguesía neerlandesa estaba el chaperón, un sombrero, en un inicio humilde, que fue haciéndose complejo, refinado y caro a medida que se fue incrementando su función distintiva de clase. Era, al fin y al cabo, un acompañamiento de la vestimenta de esta nueva clase social (Fig. 1).
Un chaperón o Chaperona es, también, una persona que acompaña a un joven para prevenir los comportamientos sociales poco morales para los contratantes del chaperón o chaperona. Tradicionalmente es una figura usada para las jóvenes féminas de la burguesía criolla latinoamericana durante los siglos XVII, XIX y XX. Normalmente, era una mujer madura, en la mayor parte de las ocasiones viuda, que acompañaba a las jóvenes en presencia de varones.
Para ambos casos (chaperona acompañante y chaperón sombrero) etimológicamente la palabra proviene del francés Chaperon, que a su vez deriva del latín cappa: capa, como suena. Otra vez, un acompañamiento.
Pero las chaperonas están mucho más distribuidas por el mundo de lo que queremos y no, no nos acompañan cuando tenemos una cita o cuando queremos demostrar nuestra posición social. Tampoco nos acompañan a nosotros, si no que acompañan a una parte de nosotros. Hoy vamos a hablar de qué son las chaperonas moleculares, de porqué nuestro blog se llama La Quimera de Gupta y sobre la relación de nuestro blog, las chaperonas moleculares y la biología evolutiva. Radhey S. Gupta es un bioquímico de enorme trayectoria, actualmente en la universidad de McMaster (Ontario, Canada), experto en metabolismo y filogenia bacteriana y que ha dedicado gran parte de su carrera profesional a estudiar el origen evolutivo de las mismas. Entre 1995 y 1996 propuso lo que, posteriormente (alrededor del año 2000) Lynn Margulis llamaría la “hipótesis Quimera de Gupta” (1-2). Todo sobrevino al interesarse Gupta por las proteínas chaperoninas y su implicación para la filogenia bacteriana. Una chaperona (de las cuales las chaperoninas son la familia mejor estudiada, entre otras cosas, porque fue de las primeras en descubrirse) es una proteína que se une a otra recién formada y, por el hecho de unirse y modificar así la globalidad de las interacciones moleculares entre los residuos de los aminoácidos que forman ambas proteínas (la proteína recién formada y la chaperona), ayudan al plegamiento correcto de la proteína (es decir, ayudan a que adopte su morfología molecular final). Las chaperoninas un tipo de estas proteínas, estudiadas inicialmente en Escherichia coli, y cuyos representantes más estudiados son Hsp60 y Hsp10: tiene formas tubulares y de domo donde se “acomodan” las proteínas a plegar correctamente. Las Hsp10 son las más grandes y, para lo que Gupta estudió, nos interesa nombrar dos proteínas Hsp10: Hsp70 y Hsp90 (lo reconozco, la nomenclatura excede, con mucho, el concepto de enrevesado. Habría que inventar uno nuevo para ser exactos, pero si queréis buscar más información tendréis que buscar estos nombres a la fuerza). Todas ellas son proteínas muy conservadas filogenéticamente (han cambiado poco con la evolución).
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Figura 1. Supuesto retrato del comerciante flamenco, integrante en la Liga Hanseática, Giovanni Arnolfini, pintado por el magistral Jan van Eyck en el siglo XV, probablemente, en la ciudad hanseática de Brujas, lugar donde apareció la primera bolsa financiera del mundo. Sobre la cabeza vemos el chaperón. Hay otros cuadros del mismo pintor donde se pueden ver más ejemplos de esta prenda, incluyendo un autorretrato.
En resumen, hay dos proteína que ayudan a plegar otras proteínas y que, para Gupta son importantes en la filogenia de las bacterias ¿Por qué consideraba Radley S. Gupta importantes estas proteínas? En primer lugar porque no se encuentran en un grupo bastante extraño de procariotas. En 1996 se sabía bastante poco de ellos. Hoy, no es que hayamos mejorado mucho nuestro conocimiento de ellas, pero sabemos lo suficiente como para afirmar que son una división de la naturaleza completamente distinta de las dos tradicionales (bacterias y eucariotas). Son conocidos como Arqueas. Pues en esas fechas la Hipótesis de Gupta proponía que los eucariotas (es decir, todos nosotros y el resto de animales, plantas, hongos y protistas) provenimos de una simbiosis ancestral entre una arquea y una bacteria gram negativa (que no tiene una gruesa pared protectora de una sustancia llamada mureina, aunque si que tienen mureína). Entre otras razones que le llevaron a postular esta hipótesis está el hecho de que las chaperoninas Hsp70 y Hsp90 están ausentes en las arqueobacterias y en el citoplasma de las células eucariotas. Es decir, solamente están presentes en las bacterias y en los orgánulos endosimbióticos (que tanto le costó demostrar su origen a Lynn Margulis) que habitan todas nuestras eucarióticas células: la mitocondria y el cloroplasto. Otras proteínas que intervienen en as síntesis proteica y la importación de aminoácidos hacia el interior celular sugieren el mismo origen.
La hipótesis es la siguiente: el núcleo de las células eucariotas y todo el sistema de endomembranas (retículo endoplasmático, liso y rugoso, y el aparato de Golgi) se habrían originado a partir de la endocitosis de una arquea por parte de una bacteria gram negativa. A medida que la membrana de la bacteria rodea a la arquea, la propia membrana de la arquea se habría vuelto redundante y se habría perdido. La otra membrana, la membrana con la que la bacteria envuelve a la arquea, condujo a la formación de la envoltura nuclear y el retículo endoplasmático. La formación de estos nuevos compartimentos fue precedida, en la evolución, por la duplicación de genes, la transferencia del genoma de la arquea la núcleo recién formado y su fusión con el DNA de la bacteria (ver Fig. 2). Entre los genes afectados estarían las proteínas chaperonas anteriormente comentadas (Hsp70 y Hsp90).
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Figura 2. Proceso evolutivo hipotetizado por Radhey S. Gupta. a) fase de fagocitosis, b) ase de asimilación y desaparición de la membrana reduntante y c) aparición del retículo endoplasmático, núcelo y fusión de DNA (1).
¿Por qué escogimos este nombre para nuestro blog? La teoría endosimbiótica de Lynn Margulis nos parece una metáfora perfecta de lo que es la biología evolutiva, la biología y la ciencia en general. La forma en la que la hipótesis no quiso ser publicada por hasta 13 revistas, la forma en la que, posteriormente, fue siendo respaldada por los datos empíricos y convirtiéndose en una teoría evolutiva por derecho propio, la forma en que una simbiosis podía producir nuevas especie abrió conceptualmente muchas mentes en el mundo de la biología evolutiva e hizo que mucha gente (y otros tantos que ya llevaban años) pensara la evolución de forma policausal (y no monocausal, centrada en la idea de que la evolución era gradual y basaba su fuente de variación en la mutación). Ahora la simbiosis aparecía como fuente de diversidad y las preguntas sobre las llamadas “Grandes Transiciones Evolutivas” (origen de la vida, aparición de una célula, aparición de las células con núcleo o eucariotas, aparición de la fotosíntesis, aparición de la multicelularidad, aparición de los organismos multicelulares complejos y, algunos incluyen en esta lista, la aparición del lenguaje). Gupta propuso, en su momento, una hipótesis muy atrevida, eso si, respaldada por años de investigación sobre las bacterias y, por tanto, en los datos disponibles hasta esa fecha, que nos parecía, y nos parece, enormemente atractivas. Según la navaja de Ockham, y aplicando la teoría de la complejidad, es más fácil que un sistema complejo se forme por añadidura de dos subsistemas más sencillos, o módulos, que se interconecta. Las pruebas no son todo lo contundentes que uno esperaría. Es más, actualmente, los relojes moleculares disienten con esta hipótesis y sitúan a las arqueas más cerca de los eucariotas que las bacterias. Pero ¿No sería, ese, un posible resultado de la fusión del DNA entre una bacteria y una arquea propuesta por Gupta? Si la porción del genoma eucariótico más “arquea” (siguiendo con la hipótesis de Gupta) se ha conservado más en el tiempo, como sucede con los genes que codifican para las proteínas chaperonas, es normal que, usando esos relojes moleculares, den una menor distancia genética entre eucariotas y arqueas. En otras palabras, la prueba de los relojes moleculares no valdría para contrastar hipótesis porque no es capaz de descartar una de ellas.
Como también hemos comentado en otras entradas del blog, otros autores proponen que son los virus los que, quizá, estén detrás del origen del núcleo. En aquella entrada escribíamos (3):
los autores que defiende la hipótesis de que los virus podrían estar detrás del origen del núcleo celular, como Philip John Livingstone Bell, piensan que los virus tipo poxvirus, unos virus grandes cuya información genética está contenida en forma de DNA, pueden estar detrás del origen evolutivo del núcleo. Las células primitivas serían células que provendrían del mundo de RNA y su información genética estaría guardada en este ácido ribonucleico. Cuando un poxvirus primitivo infectó una de estas células, la célula primitiva pudo captarlo como un reservorio más adecuado para su información [dado que el RNA es una molécula más inestable].
Así es. Podríamos haber escogido otros cien mil nombres de hipótesis o teorías biológicas para representar este blog, pero nos decantamos por Gupta por ser parte, aunque periférica, de la teoría endosimbiótica, gran aglutinador de la discusión biológica durante el siglo XX, y por ser tremendamente audaz. El tiempo, y el duro trabajo de cientos de investigadores, nos dirá si Gupta puede pasar a la historia de la ciencia biológica, o quedar relegado a un segundo plano, pero la audacia es algo que valoramos mucho en nuestra pequeña editorial. Larga vida a Radhey S. Gupta.
REFERENCIAS
1. Gupta, R. S., & Golding, G. B. (1996). The origin of the eukaryotic cell. Trends in biochemical sciences, 21(5), 166-171.
2. Gupta, R. S. (1995). Evolution of the chaperonin families (HSP60, HSP 10 and TCP‐1) of proteins and the origin of eukaryotic cells. Molecular microbiology, 15(1), 1-11.
3. La Quimera de Gupta, “Qué es un virus y qué importancia pueden haber tenido en el origen de la vida y la evolución biológica”. 4 de febrero, 2017.
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