#Giornata Internazionale della Lingua Madre
Explore tagged Tumblr posts
Text
Giornata Internazionale della Guida Turistica e della Lingua Madre
21 febbraio è una giornata da festeggiare con entusiasmo! Che siate dei viaggiatori incalliti o appassionati di lingue, ci sono infinite possibilità per ...
Il 21 Febbraio: Una Giornata da Non Perdere! Il 21 febbraio è una data che merita di essere segnata sul calendario con un evidenziatore fluorescente! Non solo è il giorno in cui si celebra la Giornata Internazionale della Guida Turistica, ma è anche la Giornata Internazionale della Lingua Madre. Due eventi che, sebbene diversi, si intrecciano in un abbraccio culturale che fa battere il cuore di…
#21 febbraio#21 febbraio 1952#bellezza della diversità culturale#Celebrare la Cultura#diversità linguistica#Eventi Speciali#Evento Tragico#Giornata Internazionale della Guida Turistica#Giornata Internazionale della Lingua Madre#guida esperta#guida locale#guide turistiche#importanza delle lingue#lingua madre#lingua straniera#mare di parole#multilinguismo#Nuova Lingua#Parole che Uniscono#prenotare un Tour#sneakers da esploratori#Supereroi in Sneakers#tour#UNESCO#valorizzare tutte le lingue#viaggiatori#Visite Guidate#Visite Guidate Gratuite#WFTGA#World Federation of Tourist Guide Associations
0 notes
Text
GIORNATA INTERNAZIONALE DELLA LINGUA MADRE
GIORNATA INTERNAZIONALE DELLA LINGUA MADRE.
0 notes
Text
La storia nascosta nei cieli del 21 febbraio
In un mosaico di culture e lingue, la Giornata Internazionale della Lingua Madre emerge come un promemoria vitale dell’importanza di preservare e valorizzare il patrimonio linguistico mondiale. Questa celebrazione globale, riconosciuta dalle Nazioni Unite, invita individui e comunità a riflettere sull’importanza delle lingue madri nel promuovere la diversità culturale, il dialogo interculturale e…
View On WordPress
0 notes
Text
Presentato il programma del progetto "Un mare di cultura e conoscenza"

Presentato il programma del progetto "Un mare di cultura e conoscenza" Al Comune di Agrigento, in occasione della Giornata internazionale della lingua madre, il Comitato... #SiciliaTV #SiciliaTvNotiziario Read the full article
0 notes
Text

Carissimi Confratelli Esorcisti e voi tutti Ausiliari,
in allegato un messaggio importantissimo del nostro coordinatore per i paesi di lingua inglese, padre Robert-Joel Cruz riguardo l'imminente primo raduno satanico pubblico della storia che si terrà a Boston dal 28 al 30 aprile 2023. Vi riportiamo, in allegato, anche il testo originale in inglese della lettera di Mons. Mark O’Connel, Vescovo ausiliare dell'Arcidiocesi di Boston, incaricato dal Cardinale Sean O'Malley di dare una risposta ai fedeli preoccupati per questo drammatico evento.
Come possiamo evincere da questo fatto, siamo giunti al punto che il satanismo viene apertamente allo scoperto e ciò denota la gravità dell'ora presente. Rafforziamo la nostra risposta nella comunione reciproca mediante la celebrazione della Santa Messa quotidiana, nella preghiera alla Madre di Dio mediante il santo Rosario, nella preghiera a San Michele Arcangelo capo e condottiero delle milizie celesti e nell'esorcismo quotidiano riportato in Appendice al rituale degli esorcismi (Preghiere ed esorcismo per circostanze particolari).
Preghiamo anche perché questi nostri fratelli e sorelle caduti nella trappola del nemico del genere umano, conoscendo la vera identità di colui che stanno seguendo in questo momento, aprano il loro cuore all'amore infinito che sgorga dal Cuore di Cristo e rinuncino a Satana, a tutte le sue opere e a tutte le sue seduzioni.
Dio benedica ciascuno di voi e la Vergine Immacolata e San Michele vi custodiscano sotto la loro protezione.
Il presidente dell'Associazione Internazionale Esorcisti
Padre Francesco Bamonte, icms
Ciascuno, personalmente, nei giorni 28, 29 e 30 aprile è invitato a recitare durante la giornata le seguenti preghiere:
ACCLAMAZIONI IN RIPARAZIONE DELLE BESTEMMIE :
Dio sia benedetto.
Benedetto il suo santo nome.
Benedetto Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo.
Benedetto il nome di Gesù.
Benedetto il suo sacratissimo Cuore.
Benedetto il suo preziosissimo Sangue.
Benedetto Gesù nel santissimo Sacramento dell'altare.
Benedetto lo Spirito Santo Paraclito.
Benedetta la gran Madre di Dio, Maria santissima.
Benedetta la sua santa e immacolata concezione.
Benedetta la sua gloriosa assunzione.
Benedetto il nome di Maria, vergine e madre.
Benedetto san Giuseppe, suo castissimo sposo.
Benedetto Dio nei suoi angeli e nei suoi santi.
Al termine:
Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio.
Non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova,
ma liberaci da ogni pericolo,
o Vergine gloriosa e benedetta.
0 notes
Text
Rap e reggae in dialetto in italia
Vi siete mai chiesti quali sono i rapper o cantanti reggae che utilizzano il dialetto nelle loro canzoni?
Quasi ogni regione di Italia ha o ha avuto qualche artista che si è espresso nella sua lingua madre, che sia un dialetto o una lingua minoritaria.
Oggi è la "giornata internazionale della lingua madre" ed ho voluto condividere con voi una playlist di canzoni youtube con artisti dialettali provenienti da ogni regione d’ Italia .
➡️Rap/reggae e black music dialettale realizzato in Italia❤️ https://www.youtube.com/playlist?list=PLi131ogrEjtVny5Yj2tkoGZa1OHoReqDa&fbclid=IwAR2NAuiYIRHFrq-QF_O8b9Z2qaD67ggWhlLAPIdFNFZV6FZwQELsLSOa76I
Playlist compilata sulla base dei post del gruppo Fb: Rap RAPPER & BLACK MUSIC in DIALETTO e LINGUA MINORITARIA d' ITALIA https://www.facebook.com/groups/431481613857671/
#dj tubet#rap#reggae#rapper#dialetto#dialettali#regionali#lingue#minoritarie#italia#hip hop#artisti#giornata internazionale della lingua madre#unesco#21 febbraio#playlist#canzone#dialettale#international mother language day
0 notes
Note
Leggendo quanto detto dalla beemoov, i primi tre episodi di A New Era verrano poi ritradotti in italiano? Per quanto riguarda invece l’episodio che dovrà uscire prossimamente ossia il 4 anche quello verrà tradotto in inglese o magari avremo anche qualcosa in italiano? speriamo bene...
Ciao ! Allora cercheró di spiegarti quello che ho capito io:
Gli episodi di new era verranno ritradotti tutti in quanto sono solo 3 episodi + 1 che deve uscire( quindi ci metterebbero pochissimo e ci stavano giá lavorando da giorni prima che ci annunciassero questa semi notizia)
Su origins la questione invece è più complicata.. Essendo 30 episodi la beemoov non ha AL MOMENTO Tempo per tradurre in ogni lingua origins.. Quindi se ho capito bene Origins lo avremo comunque ma sarà LEGGIBILE SOLO in inglese o francese.. È stato scelto l'inglese poichè è una lingua internazionale e tutte dovremmo parlarla
( io stessa come si vede qui comunico al 90% in inglese e veramente poco in italiano.. In più ho sempre giocato comunque sia in inglese che in italiano a Origins + NE su un mio profilo)
Il francese ha prevalenza poichè è il loro server madre e mi dispiace per le ispaniche e per coloro che non hanno testa di tradurre.. Ieri ho parlato un po' con la beemoov e la risposta di default è stata questa qui :

Il secondo screen invece spiega il perchè abbiano scelto Il francese e l'inglese come lingue di traduzione per Origins..

Tolto ció ci tengo a specificare che noi non sappiamo e loro NON sanno al momento NULLA sulla condizione degli account.. Non sono fiduciosi ma hanno in programma di aiutarci in qualche modo..
Di canto mio è logico che Dovró per forza di cose creare di nuovo tutto quanto eccetto il mio profilo per Nevra che risiede sul server Usa ..
Gli account potranno essere :
-salvi ma danneggiati
-Inesistenti
- spogli ( no personalizzazioni o progressi di gioco)
In cuore mio spero che in realtà nella peggiore delle ipotesi si tratti solo della perdita delle personalizzazioni , perchè quelle si recuperano facilmente ma non lo sapremo presumo sino alla prossima settimana .. Spero di aver chiarito i tuoi dubbi e buona serata / giornata✨❤️
11 notes
·
View notes
Note
Buona giornata internazionale della lingua madre! A cosa stai pensando in questo momento? 😌 La prima che ti viene in mente
Dir auch einen schönen internationalen Tag der Muttersprache! Ich musste eben darüber nachdenken, dass der englische Ausdruck "it was dawning on him" wirklich eine schöne Metapher ist. Wir haben denselben Ausdruck im deutschen, und zwar "ihm dämmert es". Es bedeutet sogar genau das gleiche, aber irgendwie hat das Wort "dämmern" nicht so einen schönen Klang, weshalb es auf Englisch einfach poetischer klingt.
7 notes
·
View notes
Text
Buona giornata internazionale della lingua madre a tutt*!!
Hyvää kansainvälistä äidinkielen päivää! Happy international mother language day!
#it#itlaian#italiano#langblr#language#italianblr#languages#polyglot#italian language#italian langblr#language learning
45 notes
·
View notes
Text
Lingue Madri: l’isola sarda dove si parla genovese
Lingue Madri: l’isola sarda dove si parla genovese
A Carloforte c’è una comunità che nei secoli si è differenziata dal resto della Sardegna e ancora oggi parla il tabarchino, una varietà di genovese Nella Giornata internazionale della Lingua Madre, abbiamo deciso di dedicare una piccola serie ad alcune curiosità che riguardano le lingue che si parlano in Italia. Già, nel territorio del nostro Paese, non si parla solo italiano, ma anche quelli…

View On WordPress
0 notes
Text
GIORNATA INTERNAZIONALE DELLA LINGUA MADRE.
Articoli/ dir.Cresy Caradonna 21 febbraio La Giornata Internazionale della Lingua Madre è stata istituita nel 1999 dall’Unesco, per promuovere la diversità linguistica e culturale e il multilinguismo. Viene celebrata in tutto il mondo a ricordo di un drammatico episodio risalente al 21 febbraio 1952, nel quale quattro studenti bengalesi dell’Università di Dacca (a cui se ne aggiunsero altri nei…

View On WordPress
0 notes
Link
Ci sono due Bobby Fischer. Uno è l’enfant prodige che sconvolse gli scacchi negli anni ’50, un bambino con la maglietta a righe che batteva campioni adulti e navigati diventando il più precoce – all’epoca – Grande Maestro della storia. Quel Bobby Fischer, poi, si è evoluto nel giovanotto che aveva dismesso gli abiti casual in favore di impeccabili completi eleganti, senza perdere lo sguardo crudele e divertito, quello di chi gode nello schiacciare l’ego dell’avversario. La smania di vittoria condusse questo Bobby Fischer al compimento del suo destino, il titolo di campione del mondo nel 1972, al termine di un percorso più tortuoso del previsto, e forse del necessario.
Il secondo Bobby Fischer, invece, è un desaparecido, un emigrato in lotta con il mondo, che riappare in sporadiche interviste con la barba bianca di un santone ma la rabbia di un uomo perso, tradito, sfogata in invettive contro la sua patria, gli Stati Uniti d’America, le sue origini, gli ebrei, e la sua casa, il mondo degli scacchi. La Regina degli Scacchi, recente serie Netflix di straordinario successo con protagonista Anya Taylor-Joy, pone un what if interessante: cosa sarebbe successo se al posto di Bobby Fischer ci fosse stata una donna, l’immaginaria Beth Harmon della serie, a trascinare gli scacchi nel boom di popolarità che vissero negli anni ’60, cavalcando i venti della guerra fredda?
Non è un mistero che la figura di Beth Harmon sia stata ritagliata intorno a quella di Fischer, dalla loro parabola sportiva fino ai vezzi sulla scacchiera e ai drammi personali. Il finale, però, lascia in sospeso un dubbio forse ancora più intrigante: cosa sarebbe successo se Bobby Fischer non si fosse fermato proprio all’apice della sua parabola sportiva?
In un’intervista nel seguitissimo programma televisivo di Dick Cavett, quando ancora Fischer si prestava ad apparire in pubblico mostrandosi loquace e arguto, senza destare particolari sospetti sulla pazzia che lo avrebbe isolato dal mondo, una volta disse: «ciò che contraddistingue i giocatori veramente grandi, è che continuano a insistere (they keep at it) finché non raggiungono il loro obiettivo». Per Fischer quell’obiettivo era il titolo di campione del mondo, ma nella sua mente causa ed effetto erano invertiti: Fischer si considerava già da tempo il miglior giocatore del mondo, non sentiva il bisogno di dimostrarlo. «Io non ho paura di Spassky» disse una volta. «Sono io il giocatore migliore, e non c’è bisogno di un match per dimostrarlo». Si reputava vittima di complotti e sotterfugi che non gli permettevano di emergere, e il titolo non sarebbe stato un traguardo bensì una liberazione, l’attestazione di una verità che gli altri si ostinavano a non accettare. Lo conquistò nel 1972, e se avete sentito parlare di Bobby Fischer pur non essendo appassionati di scacchi, probabilmente il merito è di questo incontro: una serie al meglio delle 24 partite in una Reykjavik presa d’assalto dai media, con gli occhi di milioni di spettatori puntati sulla scacchiera.
Nel clima di guerra fredda, gli scambi di pezzi fra Fischer e Spassky erano un surrogato di soldati, carri armati e missili che s’incrociavano sul campo di battaglia per sancire la superiorità dello schieramento americano o russo. Quando Fischer vinse, spezzò i 24 anni di dominio russo e portò per la prima volta il titolo negli Stati Uniti (dopo Steinitz nel 1888, che era però naturalizzato). L’America tentò di cavalcare il suo successo in ottica patriottica, ma Fischer non prestò mai il fianco a tale interpretazione: sviliva la sua idea purissima degli scacchi e offendeva il suo spirito cosmopolita. Nato in una famiglia di ebrei polacchi filo-comunisti, figlio di un biofisico tedesco o forse di un matematico ungherese, cresciuto imparando più lingue per poter leggere le riviste scacchistiche europee. Una volta raggiunto l’obiettivo, quello che gli faceva dire a se stesso keep at it, Fischer alzò la testa dalla scacchiera e si trovò in un mondo che non conosceva: immerso com’era nella sua passione, gli anni ’60 gli erano scivolati addosso come se i Beatles, il Vietnam, Muhammad Ali e i moti del ’68 non fossero mai esistiti.
A proposito dell’ingenuità di Fischer, Gudmundur Thorarinsson, l’organizzatore dei mondiali del 1972, racconta che durante la sua prima visita in Islanda Thorarinsson gli indicò una strada, chiamata Alaska Road, e Fischer si meravigliò, dicendo: «Ecco allora dov’è l’Alaska, me l’ero sempre chiesto».
Senza scacchi Fischer si disunì, si sciolse in un guazzabuglio di pretese, paranoie e rancori. Rifiutò contratti di sponsorizzazione plurimilionari, lasciò a piedi la propaganda patriottica del governo americano, lasciò il titolo vacante quando nel 1975 la FIDE, la federazione internazionale degli scacchi, non acconsentì alle sue richieste di modificare il regolamento. Non giocò mai più una partita competitiva, ad eccezione di un bizzarro, poetico e triste rematch con Spassky nel 1992, sotto nuovi venti di guerra, nella Jugoslavia in pieno embargo. Cosa sarebbero potuti essere gli scacchi degli anni ’70, ’80 e ’90 con Bobby Fischer non potremmo mai saperlo, se non con un altro esercizio di fiction. Ma possiamo tornare indietro alla sua breve e folgorante carriera, per capire come la sua influenza si allunghi ancora oggi sulla disciplina, e come il suo spettro abbia abitato le scacchiere di tutto il mondo nonostante il corpo fisico – e in un certo senso anche la sua mente – fossero altrove.
Enfant prodige
Il titolo di “partita del secolo” viene concesso piuttosto generosamente dai commentatori della disciplina, ma non sono comunque molti i giocatori che possono vantarne uno in carniere. Bobby Fischer aveva archiviato la pratica già a 13 anni, il 17 ottobre 1956 a New York, durante il Rosenwald Memorial. Donald Byrne aveva il doppio dei suoi anni ed era campione degli Stati Uniti in carica, ma Fischer lo batté giocando con il nero, partendo quindi da una posizione considerata di svantaggio. Fu il cronista Hans Kmoch a battezzare lo scontro “la partita del secolo”, lodando la creatività, il coraggio e la precisione di Fischer nelle combinazioni e nel finale.
Fischer riuscì a invischiare Byrne proponendogli due audaci trappole: sacrificò il cavallo alla mossa 11 («una delle mosse più potenti di sempre», l’avrebbe definita Jonathan Rowson) e, soprattutto, la regina alla mossa 14. Accettando l’invito, Byrne perse pezzi sulla scacchiera e finì accerchiato dall’attacco di Fischer, che stava già maturando quella che sarebbe stata la sua filosofia sulla scacchiera: non difendere la posizione passivamente in cerca di una patta, ma mettere pressione all’avversario con ogni mossa e, al contempo, preparare il terreno per un’offensiva proveniente da più lati. In segno di rispetto, quando si vide sconfitto, Byrne non dichiarò la resa ma lasciò sviluppare il gioco fino allo scacco matto. Interrogato dai giornalisti sulla prestazione, il giovanissimo Fischer offrì un commento significativo: «Ho semplicemente fatto le mosse che mi sembravano migliori. Ho avuto fortuna». Quella modestia l’avrebbe persa rapidamente, ma avrebbe continuato a pensare che gli scacchi, ridotti all’osso, fossero un gioco semplice: si tratta di fare la mossa migliore, e in ogni situazione esiste un’unica mossa che è migliore di tutte le altre.
Fischer aveva cominciato a giocare a scacchi a sei anni, insieme alla sorella, e ben presto erano diventati un’ossessione che coltivava in solitudine, in ogni momento della giornata. La madre Regina arrivò a inviare un annuncio al Brooklyn Eagle per trovargli un compagno di gioco. Forse gli scacchi appassionarono così tanto Bobby perché a casa Fischer non c’era molto da fare, e il clima non era dei più coinvolgenti per un bambino. La madre veniva da una famiglia di ebrei polacchi ed era emigrata in America nel 1939. Crebbe i figli da sola, in una casa di Brooklyn che era diventata centro di ritrovo per la comunità ebraica locale e per attivisti filo-comunisti, tutta gente che portava sulla famiglia gli occhi dei servizi segreti americani; gente che metteva in imbarazzo Bobby – e fu forse da lì che nacque quell’insofferenza che più tardi si tramutò in antisemitismo – e con cui lui non voleva avere niente a che fare. Ma gli scacchi non erano solo un rifugio; erano un campo di prova per la sua competitività smisurata, per la sua ricerca quasi patologica della perfezione, lo sbocco di un’intelligenza che faticava a stare confinata nella scuola e nei giochi da bambini. Si è scritto e detto molto su cosa avvenisse nella misteriosa mente di Fischer, tutte ipotesi e diagnosi psicologiche in absentia, perché Fischer non aveva fiducia nella medicina e non si sottopose mai a un’analisi. Alcuni, considerando la sua eccentricità nei rapporti sociali, hanno pensato a una forma di autismo o alla sindrome di Asperger. Altri, con in mente le sue richieste impossibili agli organizzatori dei tornei e soprattutto al crollo seguente al 1972, hanno ipotizzato che soffrisse di paranoia o addirittura di schizofrenia: quei due Bobby Fischer, il giovane e il vecchio, come due identità separate e in attrito. C’è anche chi lo ha definito un idiot savant, pensando ai suoi precoci successi, ma in verità Fischer totalizzò un quoziente intellettivo di 180 in un test sostenuto da studente, un risultato che lo porrebbe in una cerchia di pochissimi al mondo, e a cui si allineano numerosi aneddoti. Frank Brady, ex giocatore e suo biografo, racconta di come una volta Fischer lo interrogò sull’esito di un match avvenuto mesi prima, che Brady aveva dimenticato ma che lui ricordava alla perfezione, e di quella volta, in Islanda, che riuscì a ripetere parola per parola, in una lingua a lui sconosciuta, la risposta ricevuta al telefono dalla figlia dell’amico Frederick Olafsson. Un genio a tutto tondo, come amava definirsi lui, «che per puro caso si è dedicato agli scacchi», simile magari al matematico e fisico ungherese Paul Nemenyi che, secondo un’indagine del The Philadelphia Inquirer, sarebbe stato il suo padre biologico.
L’annuncio di mamma Regina sul Brooklyn Eagle rimase inascoltato, ma Bobby trovò comunque dei compagni di gioco: adulti però, gli unici in grado di stare al suo passo. Imparò ad affinarsi e disciplinarsi con gli insegnamenti di Carmine Nigro e Jack Collins, due istituzioni degli scacchi newyorchesi, e da quella partita contro Donald Byrne nel giro di due anni Fischer divenne una celebrità internazionale: vinse il titolo degli Stati Uniti, superò Samuel Reshevsky come giocatore dal rating più alto nella nazione, si qualificò per il torneo interzonale di Portorose prima e per il torneo dei candidati poi (l’ultimo passo per sfidare il campione del mondo), pubblicò il suo primo libro e ottenne il titolo di Grande Maestro sei mesi prima di compiere 16 anni. Nel frattempo aveva dismesso le magliette a righe da bambino in favore di abiti eleganti e alla moda, fatti su misura, che però non lo distoglievano dalla sua ossessione.
Il gusto nel vestire era cresciuto di pari passo con la sua autostima: per quanto nel torneo dei candidati del ’58 Fischer avesse sempre perso nelle sfide contro il futuro campione del mondo Mikhail Tal, si riteneva già di pari livello con i migliori del mondo, e il suo approccio alla scacchiera non mostrava il minimo segno di timore; anzi, era lui a intimidire gli avversari con la proverbiale risolutezza nelle mosse, unita a uno sguardo lucido e spietato che infondeva un senso di inquietudine, quella che molti chiamarono “Fischer fear”. Non era raro che un giocatore giovane fosse brillante e aggressivo sulla scacchiera, ma a colpire critici e avversari era la solidità di Fischer, mai avventato in attacco e straordinariamente preciso in aperture e finali, i due frangenti del gioco più legati a studio e disciplina, che in genere maturano con gli anni. Durante un tour in Russia, Fischer si irritò quando i sovietici non presero sul serio la sua richiesta di giocare un’esibizione contro l’allora campione del mondo Mikhail Botvinnik, relegandolo a giocare partite di profilo secondario, e nel torneo interzonale di Portorose aveva già identificato le prede più deboli, quelle da abbattere, e delineato un’antipatia per lo stile attendista dei sovietici: «Sono in grado di pareggiare contro i Grandi Maestri, e ci sono un po’ di giocatori che puntano alla patta e che posso battere». Non si sbagliava.
Bobby Fischer contro il mondo
La grande occasione non tarda ad arrivare. In America ormai Fischer è il numero uno indiscusso, con quattro titoli nazionali consecutivi, e il suo obiettivo è puntato sugli imbattibili sovietici. Nel 1962 salta i campionati americani proprio per dedicarsi al torneo interzonale di Stoccolma, che vince, primo americano a riuscirci. Nel successivo torneo dei candidati è tra i favoriti, soprattutto dopo che l’anno precedente aveva battuto per la prima volta Mikhail Tal, ma irretito dalle tattiche dei sovietici non va più in là del quarto posto in un lotto di otto partecipanti fra cui primeggerà Tigran Petrosian. Agli occhi di Fischer non era stata soltanto l’abilità dei russi sulla scacchiera a batterlo. Poco tempo dopo firmerà un articolo-denuncia, apparso su Sport Illustrated e sul giornale tedesco Der Spiegel, dal titolo che non lascia spazio a fraintendimenti: “The Russians Have Fixed World Chess”, dove con fix si riferiva alla pratica illegale di concordare anticipatamente una patta nei match che coinvolgevano due russi in modo da conservare le energie per battere gli altri candidati – nello specifico, Fischer. Aveva ragione, tutti lo sapevano, anche se era difficile ottenere prove concrete. La FIDE non tardò a dargli ascolto e cambiò subito il formato del torneo dei candidati sostituendo il girone all’italiana con un più equo tabellone di scontri individuali. Un conto, però, è avere ragione, un altro è far valere le proprie ragioni senza passare dalla parte del torto, e Fischer questa differenza non era programmato per comprenderla. Si faceva vanto di non mentire, di dire sempre quello che pensava, davanti alla scacchiera o lontano da essa, in onore alla purezza che riconosceva nel gioco e alla serietà con cui interpretava la vita. In certi casi, la sua appariva come un’adorabile sfacciataggine: come quando, spinto dal suo entourage a passare la notte con una ragazza durante un torneo a Mar del Plata, in Argentina, per consumare la sua prima esperienza con il sesso, commentò «gli scacchi sono meglio». In altre occasioni, però, presentandosi al mondo senza filtri, Fischer risultava presuntuoso, capriccioso, arrogante. Quando gli altri non si rivelavano all’altezza delle sue aspettative, Fischer si sentiva tradito, incastrato, in costante pericolo. Tornavano a galla i sospetti fra cui era cresciuto da bambino, con le spie americane e russe fuori, o addirittura dentro, dalla porta di casa, si immaginava da solo contro il mondo e si creava nemici anche dove non c’erano. Il documentario diretto da Liz Garbus e a lui dedicato nel 2011 s’intitola Bobby Fischer Against the World.
Nella sua mente Fischer era il miglior giocatore del mondo, ma gli avversari lo temevano e non gli davano la possibilità di dimostrarlo, giocando sporco. Americani e russi lo manipolavano allo stesso tempo, ciascuno per le proprie ragioni di propaganda; Fischer era invece un uomo che faceva partito a sé stante, che criticava la preparazione di squadra dei sovietici e studiava le partite come un cavaliere solitario, con l’aiuto di un solo scudiero, spesso Bill Lombardy. La polemica che seguì il torneo dei candidati del 1962 inquinò la sua passione e le sue motivazioni. Nonostante la FIDE avesse acconsentito subito alle sue richieste, Fischer si allontanò per qualche tempo dalla scena competitiva, e la sua delusione cominciò a trovare sfogo in quelle paranoie che avrebbero segnato il resto della sua vita. Fu in quegli anni che si avvicinò per la prima volta alla Worldwide Church of God: l’avrebbe abbandonata nel 1977, sentendosi tradito (e derubato di molti soldi) anche da loro, ma nel frattempo si era lasciato conquistare dai sermoni apocalittici di Herbert W. Armstrong e aveva finito per confermare le sue teorie antisemite. Fischer come un bambino che non si rassegnava a perdere, e per paura che gli altri giocassero sporco decideva da solo le regole. Voleva mostrarsi il migliore a modo suo, fuori dall’orbita della FIDE. Per il resto degli anni ’60 fu un animale inquieto. Partecipò a match di esibizione, tenne conferenze, scrisse il suo secondo libro, Sessanta partite da ricordare, un successo immediato e un classico letto tutt’oggi insieme a Bobby Fischer insegna gli scacchi. Così si mantenne popolare con il grande pubblico americano, che proprio grazie alla sua figura turbolenta e geniale si stava avvicinando agli scacchi. Il suo amore per gli scacchi era sempre puro, lo dimostrano i ripetuti successi nei campionati americani compreso uno scoreperfetto di 11 vittorie nel 1964. Nei tornei internazionali, però, talvolta si autosabotava, rinunciando a inviti e accampando pretese impossibili. Nel 1967 si ritirò dal torneo interzonale di Sousse, in Tunisia, mentre era al comando della classifica, in polemica con gli organizzatori.
La vera partita del secolo
Secondo alcuni, gli autosabotaggi di Fischer erano un meccanismo inconscio di difesa dalla paura di perdere. Si era creato così tanto hype attorno che la vittoria del titolo mondiale appariva un fatto inevitabile: un’eventuale sconfitta contro i sovietici in un match “pulito”, senza scusanti legate al regolamento o alle collusioni fra i giocatori russi, lo avrebbe spedito nel baratro.
Thorarinsson sostiene che non sopportasse la prospettiva di perdere, ora che era così vicino alla perfezione, e sapeva che realisticamente gli scacchisti raggiungono spesso il picco della forma fra i 20 e i 30 anni, perciò non sarebbe durato per sempre. Altri invece ritengono che i proclami di Fischer non fossero spacconate; troppo forte il suo culto della verità, e poi uno uno scacchista di alto livello, se non vuole soccombere a un inconscio ingombrante e a una mente che dubita di sé stessa, deve sviluppare un’autostima inattaccabile, un’armatura. Nel film del 2014 Pawn Sacrifice – La grande partita, biopic su Fischer interpretato da un ottimo Tobey McGuire, il personaggio di Bill Lombardy, per bocca di Peter Sarsgaard, espone forse il commento più acuto sulla faccenda: Fischer non aveva paura di perdere, ma aveva paura di cosa sarebbe successo se avesse vinto. Avvertendo già gli scricchiolii di una mente fragile, temeva che mantenere l’invincibilità sarebbe stato un compito troppo gravoso, e questo gli impediva di impegnarsi al 100%. Ma almeno una volta della vita doveva provarci: un po’ per se stesso, per vedere il finale del libro che il destino sembrava aver già scritto per lui, e soprattutto per gli altri, perché l’America lo adulava e lo coccolava, e il governo era disposto a tutto pur di vederlo battere i russi.
I primi anni ’70 sono il suo momento di grazia. Fischer torna alla ribalta internazionale e dimostra di non aver perso un colpo, pur avendo giocato a singhiozzo dal 1962 in poi: sembra anzi aver affinato l’istinto e consolidato le conoscenze teoriche. Il primo segno che qualcosa stava cambiando arriva nel marzo 1970, quando Fischer accetta a sorpresa di partecipare alla sfida a squadre tra URSS e Resto del mondo, l’ennesimo “match del secolo” per la stampa specializzata. Non solo: è ancora più inusuale che accetti anche di cedere la prima scacchiera, che determinava una sorta di capitano simbolico del team, al danese Bent Larsen. A fine anno conquista il torneo interzonale di Palma di Maiorca e dà il via a una serie di 20 vittorie consecutive nella singola partita, un unicum negli scacchi moderni, superata soltanto dalle 25 di Wilhelm Steinitz nella seconda metà dell’Ottocento.
Il torneo dei candidati è quello che apre gli occhi al mondo: un doppio 6-0 nei quarti di finale contro Taimanov e in semifinale contro lo stesso Larsen, per poi chiudere i conti in finale contro Tigran Petrosian (l’uomo che interromperà la striscia strappandogli una vittoria e alcune patte). Per comprendere la grandezza della prestazione, si pensi che ad alti livelli gli scacchi sono un gioco talmente ottimizzato che la patta è un risultato molto comune, e servono molte partite per decretare un vincitore: il formato odierno dei campionati mondiali ne prevede 12, ma nell’ultima edizione del 2018 non bastarono, con Magnus Carlsen e Fabiano Caruana che finirono allo spareggio. Garry Kasparov ha dichiarato che non ha mai visto un giocatore dimostrare una superiorità così schiacciante contro un avversario di pari livello. Il grande pubblico americano aveva trovato una nuova musa, il traino di una moda che fece impennare la popolarità di uno sport precedentemente considerato noioso e di colpo lanciato sulle prime pagine dei giornali. Chi era già appassionato di scacchi aveva trovato un messia, perché Fischer era uno spettacolo entusiasmante. Quando si esprimeva all’apice della forma, aveva una straordinaria capacità di giocare in modo pulito, lineare, eppure imprevedibile. Non aveva bisogno di inventare strategie misteriose o studiare mosse a sorpresa, superava l’avversario con un attacco ordinatissimo e spietato, eppure non meccanico. Armonico, si sarebbe detto, eppure non platealmente romantico. Ogni volta che muoveva un pezzo si aveva l’impressione che fosse una scelta banale, l’unica scelta giusta: eppure, solo lui era in grado di vederla. Aveva la rara capacità di far apparire facile, naturale, quello che era immensamente difficile. La dote che trasforma lo sport in arte. Fischer dispiegava “una sinfonia di placida bellezza”, come disse Anthony Saidy. In uno sport tra i più complessi che si possano concepire, il suo gioco era un inno alla semplicità e all’immediatezza, e del resto uno dei concetti fondanti della sua filosofia era la semplificazione: invitare l’avversario a scambiare pezzi per arrivare alle fasi finali con meno materiale sulla scacchiera, puntare alla vittoria e mai alla patta, prendere l’iniziativa e rispondere con onestà agli attacchi rivali; lasciare che i pezzi sulle 64 caselle raccontassero fino alla fine la storia della partita, perché i suoi scacchi, come lui, non sapevano mentire. «Gli scacchi sono la ricerca della verità», avrebbe detto molti anni più tardi, ed è un peccato che Bobby Fischer non sia riuscito a mantenere fede a questa massima scacciando le menzogne e le paranoie che infestarono la sua vita.
La sfida per il titolo del mondo nel 1972 è l’ennesima “partita del secolo”, ma stavolta la definizione è più azzeccata del solito. Si potrebbe argomentare che sia stata la partita più importante nella storia degli scacchi, accanto alla sfida tra Kasparov e Deep Blue tra 1996 e 1997, che sancì il sorpasso dei computer sull’uomo. Di certo è stata la più popolare, seguita e chiacchierata anche dal pubblico generalista, perché Fischer contro Spassky significava anche e soprattutto America contro Russia, un eroe self made contro una nazione che trattava gli scacchi come uno sport nazionale, il sogno americano contro il regime comunista.
Nel percorso di avvicinamento, Fischer riprende le tattiche di auto-sabotaggio. Prima pretende un aumento del montepremi per accettare di giocare a Reykjavik, in Islanda, sede preferita da Spassky, poi resta in dubbio fino all’ultimo se imbarcarsi sull’aereo, infine dà forfait nella seconda partita dopo aver perso la prima in malo modo, perché a suo dire il pubblico presente nella Laugardalshöll e le telecamere delle televisioni erano troppo rumorosi. Ci volle tutto il supporto di Lombardy, una telefonata del consigliere per la sicurezza nazionale Henry Kissinger e la benevolenza di Spassky, che accettò le sue condizioni, per convincere Fischer a non disertare anche il resto della sfida. La terza partita si tenne in una saletta secondaria, senza pubblico. Fischer vinse, e completò rimonta e sorpasso quando il match tornò nella sala principale (ma senza telecamere e con il pubblico spostato qualche fila più indietro). Secondo alcuni Fischer era tornato alle vecchie abitudini, si fabbricava degli alibi perché spaventato all’idea di accettare senza riserve il verdetto della scacchiera, qualunque esso fosse. Secondo altri, i suoi capricci erano venali richieste di denaro o vanitose richieste di attenzioni, o ancora peggio tentativi di destabilizzare la concentrazione di Spassky. La verità, forse, sta nel mezzo. Fischer odiava l’idea che altre persone guadagnassero soldi grazie a lui, e voleva farsi pagare per le capacità che riteneva di possedere; aveva i suoi tic, come tutti i giocatori, ma secondo la sua idea purissima della disciplina, più importante era il premio in palio, più rigoroso doveva essere lo scenario. Ma soprattutto, in quel periodo d’oro Fischer stava correndo a tutta velocità su un filo sottile, sospeso tra una luminosa lucidità e l’abisso della follia in cui sarebbe caduto di lì a poco. Più si spremeva la mente sulla scacchiera, più aveva bisogno di immaginare paranoie, sospetti e manipolazioni, per dare un senso a un mondo da cui, senza accorgersene, si era isolato e che non capiva.
Il numero di equilibrismo va a buon fine. Fischer conquista il titolo giocando solo 21 delle 24 partite in programma, perché dopo essersi portato in vantaggio, rimontando anche con i pezzi neri, e aver consolidato la posizione con una serie di patte, Spassky si arrende non vedendo possibilità di recupero. Ci sono due momenti, in particolare, che fanno la storia della disciplina. Nella tredicesima partita Fischer ha un’intuizione straordinariamente creativa: non si accontenta di una patta ormai scontata e sacrifica l’alfiere, spinge con cinque pedoni mentre la torre restava bloccata dai pezzi avversari. Spassky rimase a lungo a contemplare la scacchiera, incredulo. Qualche giorno prima invece, alla fine della sesta partita si era addirittura alzato in piedi per applaudire Fischer (che per la prima volta in carriera aveva aperto con un gambetto di donna, un’apertura che disprezzava), in un rarissimo esempio di sportività che più tardi si sarebbe tramutata in comprensione e persino amicizia. Entrambi i dettagli, l’inedita apertura di Fischer e l’applauso a scena aperta, sono stati citati da La Regina degli Scacchi, quando Beth Harmon affronta la sua nemesi Borgov, e con il medesimo risultato. Ora Bobby Fischer è sul tetto del mondo. La scacchiera appare molto piccola da lassù, e il mondo intorno vasto.
Persona non grata
Ora che è campione, Fischer non ha più nulla da dimostrare. La sua presenza sulla scena pubblica diminuisce in maniera inversamente proporzionale alla crescente popolarità degli scacchi, ed è così che la sua figura si trasforma da eroe in leggenda, quella di cui tutti hanno sentito parlare, ma in pochi hanno visto di persona. Al suo ritorno in America Fischer presenzia a qualche show televisivo e si presta a una copertina per Sports Illustrated insieme al nuotatore Mark Spitz, come a sancire il diritto di cittadinanza degli scacchi fra gli sport propriamente detti. Poi però rifiuta oltre cinque milioni di dollari in contratti di sponsorizzazione. I soldi, per lui, erano una questione di orgoglio: voleva essere pagato come un giocatore di football, o non essere pagato affatto. Comincia a condurre un’esistenza da recluso, mentre nel giro di pochi anni, in quello che verrà definito “Fischer Boom”, gli iscritti alla federazione scacchistica statunitense aumentano di più del doppio, un’esplosione ancora oggi senza eguali.
Ora che è campione, può estraniarsi senza patemi da quelle attività che gli erano diventate tediose: confrontarsi con gli altri giocatori, e soprattutto assecondare le richieste e le lusinghe dei media e del governo americano. La propaganda a stelle e strisce incentrata su Fischer riesce soltanto a metà, perché ora che Fischer ha disertato la scacchiera cedendo di nuovo le redini ai russi, la retorica dell’eroe solitario che combatte da solo contro l’impero sovietico si fa meno credibile – e su queste basi, l’America non gli avrebbe mai mostrato pietà per gli incidenti futuri.
Nel 1975, dopo tre anni senza scacchi, è tempo di difendere il titolo contro il primo sfidante, il russo Anatoly Karpov, ma Fischer impone severe condizioni alla FIDE per partecipare al match, non tanto economiche quanto regolamentari: vuole una partita che proceda a oltranza finché uno dei due giocatori non abbia ottenuto dieci vittorie, dissuadendo così la tattica del “giocare per la patta” da lui tanto odiata, e vuole che il campione in carica mantenga il titolo in caso di pareggio 9-9. Nella scena scacchistica si anima una fervente discussione tra chi gli dà ragione e chi torto, ma alla fine la FIDE prende posizione e rifiuta le sue richieste, stanca forse di farsi ricattare da un uomo interessato solo alla propria fama e al proprio tornaconto, e non a promuovere attivamente la disciplina. Fischer non si fa problemi: lascia il titolo nelle mani di Karpov, si dissocia dalla condotta della FIDE e continua a ritenersi il legittimo campione. Non siederà mai più davanti alla scacchiera per dimostrarlo.
Senza gli scacchi a mostrargli il nord della bussola, in rapporti tumultuosi con la famiglia, abbandonato da colleghi, sponsor e politici che ormai hanno gettato la spugna con le sue incontentabili richieste, Fischer deve trovare un altro sfogo. Si associa alla Worldwide Church of God, oggi conosciuta come Chiesa Cristiana della Grazia, ipnotizzato dalle prediche radiofoniche del fondatore Herbert W. Armstrong e irretito dalle previsioni apocalittiche del culto. Finì per versare molti soldi nelle casse della chiesa e uscirne in aperta polemica nel 1977, dichiarandola “satanica”. Nel frattempo, però, il suo rancore si era spostato ancora di più verso gli ebrei. Fischer si immaginava vittima di una cospirazione ebraica internazionale, che vedeva in Israele e negli Stati Uniti i principali responsabili, ma da cui non si salvava nemmeno l’Unione Sovietica: «Sotto il comunismo ci sono i bolscevichi», dichiarò una volta, «e sotto la maschera dei bolscevichi ci sono sempre gli ebrei».
Gli anni ’80 sono il suo periodo più buio, dove lascia macerare nell’anonimato i suoi malumori, del tutto ignaro del mondo colorato, chiassoso e ottimista dell’epoca. Riemerge nel 1992 quando organizza una rivincita contro Spassky, ma sono due cavalli bolsi e malinconici. Hanno due obiettivi precisi: mettere qualche soldo in cassa e dimostrare la superiorità degli scacchi “di una volta”. Il primo riesce, con un montepremi di cinque milioni di dollari, ma il secondo non altrettanto, perché Spassky è ovviamente sceso in graduatoria rispetto ai campioni più giovani e Fischer, per quanto sia sempre uno spettacolo vederlo giocare, non è più al passo con i tempi. Il dettaglio più importante è che il match si tiene a Belgrado, nella Jugoslavia che all’epoca era sotto embargo statunitense. Interrogato sull’argomento dai giornalisti, Fischer rispose prendendo l’ordine esecutivo in oggetto, firmato da George Bush Senior, e sputandoci sopra. Ne ottenne un mandato d’arresto e l’obbligo a una vita da emigrato. La rottura con gli Stati Uniti era ormai irreparabile.
Negli anni ’90 Fischer vaga per il mondo. Vista la sua fama, già trascesa a figura di culto, non mancano le offerte per procurargli una sistemazione (come quando a Budapest allena le giovani sorelle Polgár), né le liason romantiche, nelle Filippine e in Giappone. Di tanto in tanto interviene in interviste radio lanciando le sue consuete invettive. All’indomani dell’11 settembre 2001 arriva a esultare per l’attentato. Le autorità americane lo rintracciano in Giappone e Fischer finisce addirittura in prigione, quando la polizia giapponese lo ferma all’aeroporto di Narita trovandolo in possesso di un passaporto revocato dagli Stati Uniti. Lo avrebbero deportato in patria, per scontare la pena risalente al 1992, e si moltiplicarono gli appelli di appassionati, ex compagni e avversari: su tutti il più accorato fu proprio quello di Spassky, che si disse disposto a scontare la detenzione insieme a Fischer, a patto di avere una scacchiera nella cella. «Bobby è una persona tragica» disse Spassky. «È un uomo onesto e buono, di natura. Ha un altissimo senso della giustizia e non accetta compromessi con la sua coscienza né con le altre persone. È un uomo che ha fatto del male a sé stesso in qualsiasi modo. Io non intendo difendere o giustificare Bobby Fischer. Lui è quello che è. Chiedo soltanto una cosa: pietà, perdono».
Fu l’Islanda invece a trarlo in salvo: il parlamento locale, su proposta del vecchio amico di Fischer Bill Lombardy, gli concesse la cittadinanza con un atto speciale, in virtù del prestigio che il match del 1972 aveva recato alla nazione. Una delle più recenti apparizioni in video risale proprio al viaggio aereo che lo accompagna in Islanda, con la barba lunga e i capelli incolti, mentre risponde, irritato ma spietato come sempre, alle domande maliziose dei giornalisti. Sarà proprio in Islanda che Fischer morirà nel 2008, a 64 anni, uno per ogni casella sulla scacchiera, da estraneo al mondo, adulato e richiesto, ma sempre una persona non grata.
La ricerca della verità
C’è un luogo comune secondo cui gli scacchi, con lo studio ossessivo che richiedono e le vertigini probabilistiche a cui espongono la mente umana, conducano alla pazzia chi li pratica con troppa intensità, come chi scruta in un abisso troppo profondo. Lo scrittore G. K. Chesterton diceva: «I poeti non diventano pazzi, ma i giocatori di scacchi sì», mentre secondo Malcolm Gladwell ciò che definiamo genio è semplicemente una combinazione fra abilità innate e intensa applicazione. Si pensa spesso a casi-limite che rimandano a un certo immaginario degli scacchi romantici, come Paul Morphy, il giocatore americano più famoso prima di Fischer, che si ritirò giovanissimo, pressoché imbattibile anche in Europa, e morì a 47 anni fra allucinazioni e paranoie. Anche Wilhelm Steinitz morì in disgrazia, in un manicomio di Manhattan, e Akiba Rubinstein, a inizio Novecento, tra una mossa e l’altra si nascondeva in un angolo della sala per trovare sollievo dall’antropofobia.
Nel caso di Fischer invece (e sembra essere anche l’interpretazione del personaggio di Beth Harmon ne La Regina degli Scacchi) è forse vero l’opposto: Fischer era un uomo fragile e problematico, che negli scacchi trovava l’unico punto di riferimento, il nord della bussola. Come ha titolato Stephen Moss per The Guardian, era un madman made sane by chess, un pazzo reso lucido dagli scacchi, e varrà la pena consultare un altro contributo di Moss, scacchista, giornalista e scrittore, che racconta lo smarrimento di una mente che si perde fra le immensità e gli orrori degli scacchi, un percorso personale di verità, bellezza e annientamento. Vengono in mente le tante pseudo-diagnosi operate a distanza sulla salute mentale di Fischer, quando l’opinione più convincente sembra essere quella dello psichiatra islandese Magnús Skúlason, amico di Fischer negli ultimi anni di vita, come riportata nella biografia Endgame, di Frank Brady: Fischer non soffriva di schizofrenia né di altre patologie propriamente dette, ma possedeva una mente problematica che non era mai riuscita, anche per la sua ostinazione a non chiedere aiuto, a risolvere traumi pregressi e a scavare verso la radice di paranoie, paure e sospetti. E più una mente è acuta, più le sue sovrastrutture schiacciano il resto della personalità sotto il proprio peso, quando collassano. «La nostra mente è tutto ciò che abbiamo» disse una volta Fischer in una delle sue rare riflessioni introspettive. «Certo, a volte ci conduce allo sbando, ma non possiamo fare a meno di analizzare le cose nella nostra testa».
È difficile pensare a un giocatore instabile come Fischer che possa avere successo negli scacchi odierni, dove il confronto con i computer ha portato a un approccio metodico, fatto di costanza e ripetizione nello studio, e capacità di resistere allo stress per replicare in partita le tattiche preparate a priori. Quando parliamo di quell’unica mossa giusta a cui Fischer mirava, oggi non è più avvolta dall’affascinante alone di mistero: un motore scacchistico può dirci all’istante qual è. Fischer rivolse critiche feroci anche agli scacchi che vennero dopo di lui: rei di non aver seguito il suo esempio, si erano ridotti a una miscela di memorizzazione e ripetizione, accentuata dall’avvento dei computer negli anni ’90. Il risultato erano partite chiuse, talvolta prevedibili, che fornivano a Fischer il pretesto per tornare ad accusare i russi, tra cui Karpov e Kasparov, di patteggiare a priori l’esito delle partite. Fischer promosse con vigore la sua personalissima variante degli scacchi, Chess960 o Fischerandom, la sua soluzione all’immobilità degli scacchi contemporanei che disponendo casualmente i pezzi sulla scacchiera introduceva un numero più alto di possibilità e stimolava i giocatori a interagire con situazioni imprevedibili, in cui si palesava l’autentica conoscenza della disciplina. È una variante ancora oggi studiata e sperimentata, con il primo campionato mondiale che si è tenuto proprio lo scorso anno, ma che certo non può impensierire la tradizione del gioco tradizionale; ed è quasi paradossale, in questo senso, notare che la vera influenza di Fischer sugli scacchi sembra allinearsi proprio in quell’evoluzione che lui tanto odiava – un’influenza onnipresente e misericordiosa, che perdona i suoi misfatti in virtù di ciò che ha donato agli scacchi, tanto che persino un giocatore come Kasparov, più volte oltraggiato da Fischer che lo definì «un criminale, una disgrazia per gli scacchi e per la razza umana», si è espresso in sua difesa.
Intanto, fu tra i primissimi a valorizzare il fitness, la tenuta fisica oltre che quella mentale, un concetto oggi familiare ai migliori giocatori del mondo, tutt’altro che topi da biblioteca, come ben dimostra Magnus Carlsen. Certi capisaldi del suo stile sono tra i fondamenti della teoria contemporanea: la tendenza alla semplificazione, come dicevamo, e la raffinatissima conoscenza di aperture – in cui si affidava, come molti campioni di oggi, a un repertorio ristretto – e finali, entrambi versanti dove la memorizzazione è assai importante. Il Fischer più maturo, a dispetto del suo carattere bizzoso, giocava in modo simile a un computer: senza slanci azzardati, inattaccabile, privo di debolezze, uno stile che ha ispirato lo stesso Carlsen. Forse proprio da questo derivò il suo progressivo distaccarsi dalla disciplina competitiva: aveva già intuito che direzione avrebbe preso l’evoluzione degli scacchi, e da un lato protestava per fermare quello che ai suoi occhi era un declino, dall’altro se ne estraniava per paura che, tramite l’insofferenza, il suo amore per il gioco si sarebbe trasformato in odio. Un amore per il gioco che però, nel vortice di odio che inglobò la vita di Fischer dopo il ritiro, restava intatto.
Dopo l’atterraggio a Reykjavik tenne una conferenza stampa in cui raccontò che durante la prigionia giapponese aveva giocato una partita con un secondino birmano, che gli strappò persino una patta; il suo ultimo avversario, forse, è stato un dilettante sconosciuto. Nel 2006, dal ritiro islandese, il suo ultimo cenno di vita quando telefonò a un emittente locale che stava trasmettendo una partita di scacchi per suggerire una combinazione vincente, sfuggita ai giocatori e ai telecronisti. Questo è il Fischer che amava gli scacchi, e che attraverso gli scacchi cercava la verità. Forse l’ha trovata e ne è rimasto accecato, come il Kurtz di Cuore di Tenebra e Apocalypse Now, che siede al centro della foresta e pronuncia “l’orrore, l’orrore”. O forse non l’ha mai trovata, perché come disseGarry Kasparov, alla fine della tragedia non sempre dev’esserci una morale, e il tracollo di Bobby Fischer è stato tanto banale quanto erano stati splendidi i suoi scacchi.
0 notes
Text
Il Regina Coeli di papa Francesco del 3 maggio 2020

Papa Francesco https://youtu.be/7PGMFerZO7M Un tema, quello del Buon Pastore, ripreso da papa Francesco anche nel Regina Coeli, pronunciata, come ormai da qualche settimana, nella Biblioteca Apostolica Vaticana. Ma ha anche citato che questa è la domenica delle vocazioni, e ha poi mandato una lettera, scritta l'8 marzo, ma letta per la giornata di oggi. Un pensiero particolare ai malati di Covid e ai bambini vittime di violenza. Ecco quello che ha detto il Santo Padre, come riportato dall'Editrice Vaticana: Cari fratelli e sorelle, buongiorno! La quarta domenica di Pasqua, che celebriamo oggi, è dedicata a Gesù buon Pastore. Il Vangelo dice: «Le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome» (Gv 10,3). Il Signore ci chiama per nome, ci chiama perché ci ama. Però, dice ancora il Vangelo, ci sono altre voci, da non seguire: quelle di estranei, ladri e briganti che vogliono il male delle pecore. Queste diverse voci risuonano dentro di noi. C’è la voce di Dio, che gentilmente parla alla coscienza, e c’è la voce tentatrice che induce al male. Come fare a riconoscere la voce del buon Pastore da quella del ladro, come fare a distinguere l’ispirazione di Dio dalla suggestione del maligno? Si può imparare a discernere queste due voci: esse infatti parlano due lingue diverse, hanno cioè modi opposti per bussare al nostro cuore. Parlano lingue diverse. Come noi sappiamo distinguere una lingua dall’altra, possiamo anche distinguere la voce di Dio e la voce del maligno. La voce di Dio non obbliga mai: Dio si propone, non si impone. Invece la voce cattiva seduce, assale, costringe: suscita illusioni abbaglianti, emozioni allettanti, ma passeggere. All’inizio blandisce, ci fa credere che siamo onnipotenti, ma poi ci lascia col vuoto dentro e ci accusa: “Tu non vali niente”. La voce di Dio, invece, ci corregge, con tanta pazienza, ma sempre ci incoraggia, ci consola: sempre alimenta la speranza. La voce di Dio è una voce che ha un orizzonte, invece la voce del cattivo ti porta a un muro, ti porta all’angolo. Un’altra differenza. La voce del nemico distoglie dal presente e vuole che ci concentriamo sui timori del futuro o sulle tristezze del passato – il nemico non vuole il presente –: fa riaffiorare le amarezze, i ricordi dei torti subiti, di chi ci ha fatto del male…, tanti ricordi brutti. Invece la voce di Dio parla al presente: “Ora puoi fare del bene, ora puoi esercitare la creatività dell’amore, ora puoi rinunciare ai rimpianti e ai rimorsi che tengono prigioniero il tuo cuore”. Ci anima, ci porta avanti, ma parla al presente: ora. Ancora: le due voci suscitano in noi domande diverse. Quella che viene da Dio sarà: “Che cosa mi fa bene?”. Invece il tentatore insisterà su un’altra domanda: “Che cosa mi va di fare?”. Che cosa mi va: la voce cattiva ruota sempre attorno all’io, alle sue pulsioni, ai suoi bisogni, al tutto e subito. È come i capricci dei bambini: tutto e adesso. La voce di Dio, invece, non promette mai la gioia a basso prezzo: ci invita ad andare oltre il nostro io per trovare il vero bene, la pace. Ricordiamoci: il male non dona mai pace, mette frenesia prima e lascia amarezza dopo. Questo è lo stile del male. La voce di Dio e quella del tentatore, infine, parlano in “ambienti” diversi: il nemico predilige l’oscurità, la falsità, il pettegolezzo; il Signore ama la luce del sole, la verità, la trasparenza sincera. Il nemico ci dirà: “Chiuditi in te stesso, tanto nessuno ti capisce e ti ascolta, non fidarti!”. Il bene, al contrario, invita ad aprirsi, a essere limpidi e fiduciosi in Dio e negli altri. Cari fratelli e sorelle, in questo tempo tanti pensieri e preoccupazioni ci portano a rientrare in noi stessi. Prestiamo attenzione alle voci che giungono al nostro cuore. Chiediamoci da dove arrivano. Chiediamo la grazia di riconoscere e seguire la voce del buon Pastore, che ci fa uscire dai recinti dell’egoismo e ci conduce ai pascoli della vera libertà. La Madonna, Madre del buon Consiglio, orienti e accompagni il nostro discernimento. Dopo il Regina Caeli Cari fratelli e sorelle, si celebra oggi la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni. L’esistenza cristiana è tutta e sempre risposta alla chiamata di Dio, in qualunque stato di vita. Questa Giornata ci ricorda quello che disse un giorno Gesù, cioè che il campo del Regno di Dio richiede tanto lavoro, e bisogna pregare il Padre perché mandi operai a lavorare nel suo campo (cfr Mt 9,37-38). Sacerdozio e vita consacrata esigono coraggio e perseveranza; e senza la preghiera non si va avanti su questa strada. Invito tutti a invocare dal Signore il dono di buoni operai per il suo Regno, col cuore e le mani disponibili al suo amore. Ancora una volta vorrei esprimere la mia vicinanza agli ammalati di Covid-19, a quanti si dedicano alla loro cura a tutti coloro che, in qualsiasi modo, stanno soffrendo per la pandemia. Desidero, nello stesso tempo, appoggiare e incoraggiare la collaborazione internazionale che si sta attivando con varie iniziative, per rispondere in modo adeguato ed efficace alla grave crisi che stiamo vivendo. È importante, infatti, mettere insieme le capacità scientifiche, in modo trasparente e disinteressato, per trovare vaccini e trattamenti e garantire l’accesso universale alle tecnologie essenziali che permettano ad ogni persona contagiata, in ogni parte del mondo, di ricevere le necessarie cure sanitarie. Rivolgo un pensiero speciale all’Associazione “Meter”, promotrice della Giornata nazionale per i bambini vittime della violenza, dello sfruttamento e dell’indifferenza. Incoraggio i responsabili e gli operatori a proseguire la loro azione di prevenzione e di sensibilizzazione delle coscienze al fianco delle varie agenzie educative. E ringrazio i bambini dall’Associazione che mi hanno inviato un collage con centinaia di margherite colorate da loro. Grazie! Abbiamo da poco iniziato Maggio, mese mariano per eccellenza, durante il quale i fedeli amano visitare i Santuari dedicati alla Madonna. Quest’anno, a causa della situazione sanitaria, ci rechiamo spiritualmente in questi luoghi di fede e di devozione, per deporre nel cuore della Vergine Santa le nostre preoccupazioni, le attese e i progetti per il futuro. E poiché la preghiera è un valore universale, ho accolto la proposta dell’Alto Comitato per la Fratellanza Umana affinché il prossimo 14 maggio i credenti di tutte le religioni si uniscano spiritualmente in una giornata di preghiera e digiuno e opere di carità, per implorare Dio di aiutare l’umanità a superare la pandemia di coronavirus. Ricordatevi: il 14 maggio, tutti i credenti insieme, credenti di diverse tradizioni, per pregare, digiunare e fare opere di carità. Auguro a tutti una buona domenica. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci. Read the full article
0 notes
Photo

Buona giornata internazionale della lingua madre! Oggi si celebra la diversità linguistica e la diversità culturale in tutto il mondo. L'UNESCO e altre agenzie delle Nazioni Unite partecipano a eventi che promuovono questa #diversità culturale in tutto il mondo. Questo giorno è anche celebrato in memoria di quattro studenti che sono stati uccisi in Bangladesh mentre combattevano per la loro lingua madre il 21 febbraio 1952. Onoriamoli e promuoviamo insieme la diversità culturale e linguistica! https://bit.ly/2Peghlh 🌎 #IMLD #internationalmotherlanguageday #MotherLanguageDay #MotherTongueDay #languagelearning #multilingual #multicultural #lingue #culture https://www.instagram.com/p/B81NzhmHSWN/?igshid=9dhx7okie55z
#diversità#imld#internationalmotherlanguageday#motherlanguageday#mothertongueday#languagelearning#multilingual#multicultural#lingue#culture
0 notes
Photo
Sarebbe l’eufemismo del secolo dire che la sua vita cambiò drasticamente quando un bambino di due anni con gli occhi brillanti e i capelli di un castano scuro venne lasciato ai piedi della sua porta di casa da una donna che a malapena ricordava. Le prime due settimane furono problematiche; piene di battaglie legali e di tutti i tentativi di far tornare tutto com’era prima. Ma non c’era nessun cambiamento nei piani dell’assistente sociale, e così Kim Inseong - crescente investitore nel marketing e traduttore internazionale - divenne Kim Inseong: papà single. Inutile dirlo, non passò nulla prima che Hwiyoung (non Youngkyun, come sua madre voleva che venisse chiamato) divenne la sola stella della sua vita, ed Inseong era intenzionato a fare qualunque cosa per lui. Tre anni dopo, ed Inseong è già diventato un padre incredibile. Il suo orgoglio e gioia iniziò ad andare a scuola ed era vicino a finire il suo primo anno con perfetta frequenza e nientemeno che le migliori lodi da suo insegnante (estremamente carino). Motivo per cui ricevere una chiamata dalla scuola alle undici e ventitré di un venerdì che diceva di tornare a prendere suo figlio era la causa di estremo panico per Inseong. Naturalmente, il suo manager comprese la situazione e lo lasciò andare a prenderlo. Inseong si preoccupò per l’intera guida fino alla scuola di Hwiyoung, trattenendosi giusto dal superare ogni limite di velocità per arrivare più velocemente. Quando finalmente entrò, vide tutti i compagni di classe di suo figlio in cortile, era ovviamente ora della merenda - ma il suo raggio di sole non si vedeva da nessuna parte. A malapena stette a sentire il benvenuto della segretaria che subito chiede dove fosse Hwiyoung. Fortunatamente, non dovette aspettare molto prima di essere riunito al ragazzo.
“Papa!”
Inseong si voltò istantaneamente verso il suono della voce di suo figlio e quasi pianse dal sollievo quando vide che Hwiyoung non sembrava ferito in alcun modo. Il bambino corse verso di lui e si lanciò tra le braccia di suo padre, venendo subito circondato in un abbraccio protettivo.
“Ci dispiace tanto avervi dovuto chiamare, Signor Kim.” “No no, non si scusi minimamente. Cos’è successo?” “Si è lamentato di mal di pancia da stamattina, e poi proprio prima che la classe uscisse fuori ha perso i sensi. La nostra infermiera lo ha controllato e non sembra niente di serio, ma abbiamo pensato fosse meglio lasciarlo andare a casa a riposare.” “Grazie mille, mi assicurerò che si riposi tutto il necessario.” “Senza dubbio. Ora Hwiyoung, devi essere un bravo paziente per il tuo papà, va bene?” “Certo! Grazie maestro Kim.” Dalla voce Hwiyoung non sembrava malato, ma Inseong sapeva ben di meglio che giudicare basandosi solo su questo. Con un altro giro di ringraziamenti all’insegnante di suo figlio, raccolsero i loro averi e Inseong lo portò fuori verso l’auto. Hwiyoung salutò entusiasta gli altri bambini nel campo; un ragazzo in particolare sembrò dispiaciuto di vederlo andar via. Inseong allacciò la cintura di suo figlio sul sedile di dietro e guidò nella direzione di casa. Continuò a controllare dallo specchietto retrovisore che fosse tutto okay, probabilmente più spesso di quanto avesse dovuto fare, ma era un genitore preoccupato quindi non lo si potrebbe biasimare. Hwiyoung si ammalava raramente, era di costituzione forte e portava anche le ferite o i lividi più piccoli con un sorrisetto da soldato. Era una dell’infinità di cose che Inseong amava del suo piccolo, ma naturalmente, lo preoccupava anche. Arrivarono a casa in poco tempo e Inseong ancora una volta portò Hwiyoung fuori dall’auto fin nel loro piccolo appartamento. Quando entrarono si sedettero entrambi sul divano, cullando teneramente suo figlio al proprio petto.
“Come ti senti stellina?” “Sto bene, papà, grazie per essere venuto a prendermi.” “Ovviamente, peste. Perché non mi hai detto che la tua pancia non stava bene stamattina?”
Suo figlio si zittì, Inseong aspettò alcuni minuti la risposta tenendolo a sé, ma quando nessuna risposta sembrava arrivare lo chiese di nuovo con un tono più gentile. L’ultima cosa che voleva era far sentire in colpa Hwiyoung per non essere stato bene.
“Papà, devo dirti una cosa.” “Di che si tratta, Hwi?” “Non mi stavo davvero sentendo male oggi. Ho solo fatto finta così il maestro Kim ti avrebbe chiamato e saresti venuto a prendermi.” “Hai solo fatto finta?” “Sì. Ho detto al maestro Kim che non mi sentivo bene così mi avrebbe creduto e ti avrebbe chiamato.” “Hwiyoung - Ero davvero preoccupato, lo sai?” “Mi dispiace papà.”
La voce di Hwiyoung era rotta e un solo sguardo mostrò che stava piangendo. Inseong sapeva che suo figlio era molto solare ed amava la scuola, quindi non capiva perché avesse voluto far finta di stare poco bene e andare via. Voleva sgridarlo, ma aveva un debole per il suo bambino e gli si ruppe il cuore a vederlo piangere. Così lo cullò nel suo grembo e si assicurò che stesse bene. Una volta che suo figlio smise di piangere, aveva una domanda da fargli.
“Hwi, piccolo, se non sei felice a scuola avresti dovuto dirmelo anziché far finta di stare male per andar via.” “Sono felice a scuola! Adoro il maestro Kim e i miei amici!” “Allora perché sei voluto uscire da scuola oggi?” “Non volevo uscire da scuola! È solo che - mi mancavi. E se fossi stato male saresti venuto a prendermi.”
Inseong non aveva idea di che nome dare all’emozione che lo aveva sopraffatto a quelle parole. Quello più vicino di tutte era “senso di colpa”. Dopo il primo mese di scuola, Inseong aveva iscritto suo figlio all’asilo così da poter lavorare più a lungo. Era possibile portarlo alle otto di mattina e gli avrebbero dato la colazione, portato a scuola e riprenderlo quando finivano le lezioni, e poi intrattenerlo fino alle cinque di sera quando Inseong sarebbe venuto a prenderlo. Non era qualcosa che voleva fare, ma era l’opzione migliore che lo lasciasse lavorare abbastanza nella sua compagnia. In questo momento, però, Inseong si sentì come se avesse voluto mandare a monte ogni cosa pur di rendere suo figlio più felice.
“Mi giuri di star bene, vero? La tua pancia davvero non fa male?” “Lo giuro, papà! La mia pancia sta benissimo ma ho fame.”
Lo disse nella sua solita voce da “papà stai facendo lo stupido” che usava ogni volta che Inseong faceva volontariamente il finto tonto, e adesso lo fece ridere. Hwiyoung sogghignò luminoso alla risata di suo padre, felice che non fosse più arrabbiato con lui per aver detto una bugia. Inseong diede a suo figlio un bacio sulla fronte prima di alzarsi dal divano e lanciare il piccolo in aria. La risata cristallina di Hwiyoung rintoccò nel piccolo appartamento mentre suo padre lo faceva navigare in giro, parlando in una lingua con cui il piccolo non era ancora minimamente familiare. Quando suo padre finalmente stette a sentire le sue preghiere di essere lasciato andare, si accovacciò giù in modo da essere alla stessa altezza dei suoi occhi e guardarlo con sguardo serio.
“Okay piccolo, facciamo un patto, intesi?” “Mh!!” “Mi prometti che mi dirai quando ti sentirai di nuovo così, ed io prometto che parlerò con il mio capo per lavorare un po’ di meno. Affare fatto?” “AFFARE FATTO!”
Inseong si scompose in un ghigno all’entusiasmo genuino di suo figlio e sigillarono il patto con i mignoli. Finito l’accordo, era ora di pranzo. Prima di diventare un padre Inseong ammetteva di non essere il miglior cuoco, ordinando prettamente cibo d’asporto e cucinando piatti semplici. Ma con un bocca giovane e costantemente affamata, si insegnò da solo come cucinare molti piatti saporiti e salutari per entrambi. Decisero però che quella era una giornata per dei sandwich, così suo figlio lo aiutò a prepararli in due pranzi a sacco e raggiunsero il parco lì vicino per mangiare. Hwiyoung si lamentava che il tempo era troppo piacevole per rimanere chiusi in casa ed Inseong concordò accoratamente. Camminarono nel parco mano nella mano con il loro set da picnic assicurato nello zainetto di Hwiyoung che Inseong gli fece portare. Mentre camminavano e si godevano i raggi del sole la loro conversazione saltava da cosa stesse imparando suo figlio a scuola a se credesse o no che un troll vivesse sotto il ponte nel parco (le risposte erano “scrivere un diario” e “beh ovviamente”). Dopo aver finito tutto il cibo e aver giocato all’odioso gioco di occhio-spia (che Hwiyoung vinse, perchè apparentemente “geco” si scrive con la “j”) Inseong porse una domanda che suo figlio sperava di sentire da tutto il giorno.
“Ehi Hwi, ti va del gelato?”
Era chiaro da quello squillo di gioia in segno di affermazione che Inseong sapeva avrebbe fatto davvero qualsiasi cosa per il suo orgoglio e gioia. Fu solo quando stavano passeggiando verso casa con i coni nelle mani (vaniglia per il papà, cioccolata e zuccherini per il figlio) che Inseong imparò qualcosa che lo lasciò totalmente sgomento.
“È buono il tuo gelato piccolo?” “Sì! Grazie papà, ecco perché sei una delle mie persone preferite al mondo.” “Aspetta, cosa intendi con una delle tue preferite? Sono tuo padre, dovrei essere il preferito in assoluto!” “Ma il mio preferito è un altro.” “Chi è? Combatterò con lui per quel titolo.” “È il maestro Kim, e ti straccerebbe in una lotta.” “No, non lo farebbe! Sono sicuro di essere più forte del tuo professore. Guarda i miei muscoli.” “Ma il maestro Kim è più alto di te. Inoltre, tutti i miei amici lo proteggerebbero da te.” “Ma tu saresti dalla mia parte, non è vero Hwi?” “Hmmmmm - No!”
Hwiyoung ridacchiò mentre suo padre borbottò al tradimento ed iniziò a seguire suo figlio su per le scale proclamando che avrebbe vinto indietro il suo amore in qualche modo. Spesero il resto del pomeriggio pulendo casa e giocando insieme. Dopo una cena leggera, si sistemarono sul divano per guardare un film insieme, ma Hwiyoung era addormentano in meno della metà del tempo. Inseong riuscì a far vestire e lavare suo figlio per andare a dormire con minimo bisogno di svegliarlo. Nonostante il piccolo avesse una sua camera per dormire, Inseong sentì il bisogno di avere Hwiyoung vicino quella notte. Così gli rimboccò le coperte nel proprio letto e si unì a lui sotto le lenzuola dopo essersi messo lui stesso in pigiama. Nel vedere il respiro gentile di suo figlio, Inseong sentì un’ondata di amore e affetto nel suo petto che quasi faceva male. Sorridendo nel dare il bacio della buonanotte a suo figlio, promise a se stesso di assicurarsi di non dare mai più per scontati i sentimenti di Hwiyoung come era successo.
0 notes
Text
Cose che a momenti mi dimenticavo
・Di avere un blog. No dai, a dire il vero è sempre rimasto in un angolino della mia testa durante tutti questi mesi in cui non l’ho aggiornato (è davvero tantissimo che non scrivo, so che a voi per niente ma a me è mancato molto).
・Quanto a portata di mano possano essere le oasi di pace persino nel caos metropolitano di una città come Tokyo. Una di queste l’ho sempre avuta vicino casa e ci sono passato davanti (o meglio, sotto) per mesi ogni mattina in metro, ma evidentemente dovevo aspettare un invito di V. per scoprirla un assolato pomeriggio di luglio: si tratta del parco di Shinjuku Gyoen, uno dei più grandi di Tokyo, dove frotte di coppiette impunite si sbaciucchiano all’aperto manco avessero dimenticato di essere giapponesi e dove un’altrettanto numerosa orda di svergognati accetta di pagare i 200 yen dell’entrata perché gira voce che i giardini siano una buona location per catturare Pikachu con Pokémon Go. Nel vasto parco, notevole il padiglione taiwanese o Kyūgoryōtei (旧御涼亭, Vecchio padiglione dell’onorevole frescura lol), dono dei volontari giapponesi residenti a Taiwan nel 1927 per commemorare il matrimonio dell’Imperatore Shōwa. Progettato dall’architetto Matsunosuke Moriyama, venne miracolosamente risparmiato dai raid aerei che colpirono Tokyo nel 1935 e danneggiarono gravemente gran parte del parco.

・Quanto fosse difficile organizzare le vacanze all’ultimo minuto in Giappone. Il 17 luglio era l’Umi-no-Hi (海の日, giorno del mare), e con Eva progettavamo di approfittare dell’insperato giorno di vacanza dal lavoro per evadere dalla canicola tokyoita e recarci a Niijima, isola non troppo sperduta al largo della costa di Tokyo dall’atmosfera quasi caraibica che volevo visitare da un anno, ma che a quanto pare o è gettonatissima o ha davvero pochissime infrastrutture perché non c’è stato verso di trovare posto. Complice anche il fatto che le previsioni davano tre giorni di pioggia per il nostro agognato week-end lungo, abbiamo infine optato per una gita fuori porta meno impegnativa (okay tutto ma farsi lo sbatti in traghetto per andare a prendere acqua tre giorni di fila in mezzo all’oceano ci sembrava un po’ eccessivo) e abbiamo virato verso i Cinque Laghi del Monte Fuji, in particolare il Kawaguchi-ko. Dopo un viaggio di quasi tre ore su treni via via più improbabili che fermano in posti mai sentiti prima, arriviamo alla stazione di Kawaguchi-ko, che emana un’inconfondibile atmosfera da villeggiatura: c’è proprio tutto quello che ci si aspetta da una località di turismo lacuale (miii che ignorante, si scrive la quale), persino i gruppi di turisti svizzero/tedeschi vestiti da trekking con gli occhiali da sole e la faccia incremata. Inutile a dirsi, la zona è rinomata come punto panoramico da cui ammirare il Monte Fuji, che compare spammato tipo OVUNQUE vi giriate.

Dopo aver porconato per trovare l’appartamentino di Air B&B che siamo riusciti a prenotare proprio all’ultimo e che è tipo sperso in mezzo ai campi, iniziamo a perlustrare la zona, che vedremo meglio il giorno successivo data l’ora ormai tarda.

I musicanti di Brema? Ma anche qui? Ma che è, tipo un classicone dei paesini abbandonati dal Signore?
Kawaguchi-ko dà l’impressione di una tranquilla e amena località lacustre dove il tempo scorre lento come le acque del suo lago e lambisce indolente le case, i supermercati, i ristoranti, gli alberghi e le stazioni di servizio dei benzinai, erodendone le superifici e depositando una patina opaca che rende tutto uniformemente dimesso. Per adattarsi a questa cornice è sufficiente dimenticare la fretta e i ritmi della capitale e magari mettersi in spalla una chitarra, come in effetti Eva si è premurata di fare, ponendosi in quella serena disposizione d’animo che ti impedisce di rimanere turbato persino quando camminando verso il lago ti accorgi che per il paesino si aggira pacifico un gruppo di scimmie.

Ci son le scimmie, che belle scimmie [cit.]
La prima impressione che abbiamo del lago di Kawaguchi sa tantissimo di diludendo perché col tempaccio di cui in effetti le previsioni ci avevano avvisato il panorama da cartolina che la Lonely Planet ci aveva promesso (ma perché mi fido ancora?) non se vede proprio e soprattutto con tutta quella foschia non se vede nemmeno il Monte Fuji, che boh fosse la prima volta ma a sto punto si vede che non è proprio destino.

Ma qual è? Ma ‘ndo sta? MA OH!

La statua simbolo del lago Kawaguchi, 源泉 (‘Gensen’, ‘Sorgente’), realizzata dal fu scultore Seibo Kitamura alla tenera età di 101 anni e raffigurante due figure femminili, il polo positivo e il polo negativo, che si incontrano e armonizzano intorno al vaso che rappresenta la fonte del lago stesso.
Too deep for me for sure!
Fortunatamente, l’indomani veniamo ripagati da un inaspettato bel tempo (e quando dico inaspettato intendo dire che l’applicazione del meteo dice che in questo preciso momento sta piovendo, alzi lo sguardo e ti devi scansare perché c’è Icaro con la cera delle ali sciolte che te sta a cadè addosso), che per carità meno male ma non avevo messo in conto che avrei finito la giornata a spalmarmi gel all’aloe addosso per guarire dalle ustioni.

I panorami che il sereno ci regala mentre circumnavighiamo il lago sono spettacolari e finalmente individuiamo il Monte Fuji, che si erge maestoso stagliandosi contro il cielo azzurro, accarezzato dal fluire di languide nuvole che quasi quasi lo migliorano.

Tre(ntasei) vedute del Monte Fuji.
Mentre in testa mi risuona “Lakehouse” degli Of Monsters and Men, ci dirigiamo un po’ alla cazzo verso la sponda settentrionale del lago, con l’intenzione di visitare l’Oishi Park, uno dei punti panoramici raccomandati, fermandoci di tanto in tanto ad ammirare il Monte Fuji da varie angolazioni.

So close!
Caratteristiche dell’Oishi Park sono le distese di lavanda, un fiore con cui ho un legame particolare per il ruolo che ha in una delle mie opere di riferimento, “La ragazza che saltava nel tempo” di Tsutsui Yasutaka, in cui appunto è l’ingrediente fondamentale per produrre un intruglio che permette di acquisire la capacità di viaggiare nel tempo. Durante la stagione della fioritura è anche possibile raccoglierne qualche mazzo da portare a casa, che io però credevo fosse QUALCHE RAMETTO e non il massiccio lavoro di disboscamento che vediamo in atto davanti ai nostri occhi. Dopo aver fatto un giretto per il negozio di souvenir dove TUTTO ha la forma del monte Fuji, ma proprio qualsiasi cosa, dalle borse ai post-it alle bottiglie d’acqua ai biscotti (i biscotti di ‘Fujiisan’ ふじいさん, gioco di parole tra ‘Fuji-san’ = ‘Monte Fuji’ e ‘ji-san’ = ‘nonnetto’, che se la tira perché ha raggiunto la veneranda altezza di 3776 metri mi sono rimasti nel cuore ammetto) e un’inutile coda per salire sul bus che ci avrebbe riportati al punto di partenza (l’autista, il cui bus era già pieno al capolinea dove siamo saliti, ha fatto tutte le fermate scusandosi di non poter caricare nessuno. ti prego tira dritto stellina che non ce la faccio a vederti contrirti ogni venti metri), ci dirigiamo verso un altro dei cinque laghi, il Saiko. Ora, già eravamo incazzati che non ci fossero collegamenti dall’Oishi Park che pure è il punto più vicino al Saiko ma no, dobbiamo fare il giro manco avessero chiuso il cancello dall’interno [cit. nec.]; avessimo almeno avuto le biciclette ma non le abbiamo noleggiate perché DOVEVA PIOVERE TUTTO IL GIORNO, ma pazienza, abbiamo fatto il pass per gli autobus, usiamolo; però le cartine con le fermate che non si capisce dove siano e gli orari puramente indicativi, facciamo che no? Non sono più abituato a quest’approssimazione all’italiana D: Quando finalmente riusciamo a raccapezzarci un minimo, un bus pieno di cinesi ci porta intorno al Saiko fino a un posto che riguardando a distanza di mesi la mappa credo si chiamasse Nenba, ma non ne ho la certezza perché appunto dei percorsi dei dannati bus in due non siamo riusciti a venirne a capo, e okay che io abbasso molto la media ma Eva è in gamba, e non ne sono venuti a capo nemmeno i cinesi del bus che secondo me erano lì perché si erano persi (loro e una compagnia molto internazionale in stile ‘L’appartamento spagnolo’, la cui componente italiana ci ha immediatamente spinti a comunicare in giapponese per evitare ogni possibile contatto, ma è un tratto degli italiani all’estero evitarsi come la peste o siamo solo noi che siamo stronzi? tra l’altro mega antisgamo, non si accorgeranno MAI che non stiamo parlando la nostra lingua madre lol). In questo misterioso posto dimenticato da Dio ci rifocilliamo e compatendo i bambini che fanno la campestre intorno al vicino campo da gioco aspettiamo di riprendere un altro autobus che ci porterà a una delle destinazioni raccomandate della zona: la Grotta del Ghiaccio Narusawa, una grotta di origine vulcanica creata dalla lava del Fuji durante un’eruzione in epoca preistorica.

Come suggerisce il nome, la Grotta del Ghiaccio Narusawa è un vero e proprio frigorifero naturale, tanto che fino all’epoca Shōwa (1926-1945) veniva usata per conservare le uova dei bachi da seta in modo tale da evitare che si schiudessero; così facendo, era possibile produrre seta tutto l’anno tirando fuori all’occorrenza le uova dalla grotta la cui temperatura aveva bloccato lo sviluppo dei bachi.

“Rifugiatosi nella malefica grotta del ghiaccio Narusawa, fa prigionieri i bachi e li tiene reclusi in un sarcofago magico.”
Quando ne usciamo, piacevolmente rinfrescati, vorremmo tanto andare a visitare anche la vicina ma non troppo Grotta del Vento Fūgaku, ma manca poco alla chiusura e il nostro tentativo di lotta contro il tempo viene comunque completamente vanificato dall’ennesima insubordinazione dell’autobus che dovrebbe portarci davanti all’ingresso della grotta e invece prende e va da tutt’altra parte (in altre circostanze non avrei problemi ad ammettere di aver preso l’autobus che andava nella direzione opposta, ma mi dispiace, questa volta no, noi eravamo alla fermata giusta, è l’autobus che si è sbagliato). Con mia enorme delusione, per motivi di tempo non solo non riusciamo a vedere la Grotta del Vento ma anche un’altra grotta che aveva colpito il mio interesse quando, passandoci davanti in autobus, ne avevo visto il nome indicato sui cartelli: THE BAT CAVE!

NANANANANANANANA七七七七! Non mi perdonerò mai questa mancanza.
・Cosa si provasse a viaggiare in famiglia. Ci avevo spesso fantasticato, ma non credevo che sarebbe mai arrivato il giorno in cui madre e sorella sarebbero venute a trovarmi a Tokyo, e invece il 29 luglio finito di lavorare me le sono ritrovate davanti all’uscita nord della stazione di Nakano. È stata una sensazione molto strana, devo ammettere, come scoprire che due persone che hai sempre frequentato separatamente in realtà si conoscono. Per lungo tempo ho pensato che, anche semplicemente a causa della notevole distanza geografica, avrebbe sempre regnato l’incomunicabilità tra il mio mondo italiano e quello giapponese. Un po’ come i due livelli di realtà di Aomame e Tengo in 1Q84: due mondi che coesistono e sanno l’uno dell’altro ma non riescono a incontrarsi. Ero sempre stato io a fare la spola dall’uno all’altro, con quello spostamento che mi è già successo di definire non solo geografico ma anche semantico, in cui io in quanto significante rimanevo immutato, ma il mio significato cambiava contestualmente. Il fatto che invece per la prima volta a mettere in comunicazione queste due realtà siano state loro mi ha piacevolissimamente destabilizzato e vedere i loro profili stagliarsi contro panorami giapponesi a me familiari ma a loro inediti è stato molto emozionante. Ricordo la sensazione di attesa di quel venerdì in ufficio lanciando occhiate al telefono perché sapevo che sarebbero atterrate, i magheggi per ingegnarci a comunicare in qualche modo pur avendo l’handicap del wi-fi (grazie signora Nakagawa per averle intercettate prestando loro un telefono e grazie Starbucks di Nakano per la connessione gratuita), l’ansia da oddio non posso andarle a prendere in aeroporto chissà se si raccapezzano con i trasporti pubblici che tra parentesi non so se capirei neppure io, NON CI SONO MAI STATO ALL’AEROPORTO DI HANEDA OKAY T___T, e poi l’intensa emozione di vederle fuori dai tornelli in mezzo alla folla di giappini, robe che manco la Vecchia Romagna.

E poi. Il terrore nel non riuscire ad aprire il cofanetto che conteneva le chiavi dell’appartamento prenotato per loro con Airbnb perché la scaltrissima cinese (OH MA TRA L’ALTRO, ma il mercato immobiliare di Tokyo completamente in mano ai cinesi? Ne vogliamo parlare? D:) non mi ha comunicato il codice. Ma niente paura perché TANTO LA PORTA FINESTRA ERA APERTA, quindi a entrare siam riusciti lo stesso, anche se abbiamo subito sperato di aver sbagliato casa (ma l’appartamento sul sito era bello, lo giuro D: dite che ho fatto male a fidarmi di quella ripresa in fisheye?).
Le prime due settimane che madre e sorella erano qui purtroppo ho potuto accompagnarle in giro solo i weekend perché stavo ancora lavorando, ma ho cercato di approfittarne il più possibile per mostrare loro i posti che più mi sono rimasti nel cuore di Tokyo. E cioè non Tokyo, ma Kamakura e Nikkō lol

Family portrait feat. immancabile maglietta d’ordinanza col Buddha per andare a Kamakura, since 2013. Tra l’altro notevole la scala cromostilistica giallo > giallo+jeans > jeans, che fashion killerz lol

Family portrait 2 feat. l’ancora più immancabile Daibutsuyaki, anche quello fiera tradizione di ogni gita a Kamakura che si rispetti.
In più, con l’occasione stavolta sono riuscito anche a vedere due posti che mi mancavano di Kamakura, lo Hase-dera e la punta estrema di Enoshima, Chigogafuchi.

Tempio di scuola Jōdō su più piani risalente al 736, custodisce una statua del bodhisattva della misericordia Kannon in legno intagliato alta 9 metri, ma tanto noi lo ricordiamo per il terrazzamento che dava sulla baia di Kamakura e soprattutto sugli strategici distributori automatici di bevande fresche salvavita lol

Chigogafuchi, che con un’ignobile ma efficace estensione culturale potremmo rendere con “l’abisso del chierichetto”, è la punta occidentale di Enoshima, e deve il suo nome alla tragica vicenda che vide Shiragiku, giovine fanciullo in servizio presso il tempio Sojo-in, buttarsi da questa scogliera perché divenuto oggetto dell’amore di Jikyū, monaco del tempio Kencho-ji, che alla notizia del suicidio di Shiragiku non esitò a seguirlo tra i flutti. Vedi però che codice deontologico che c’hanno in Giappone pure i preti pedofili.
Per arrivare a Chigogafuchi si percorre un irto sentiero che si snoda attraverso café, negozietti e i vari padiglioni del santuario di Enoshima, di cui per esempio non avevo ancora mai visto il Wadatsunomiya (龍宮, mi rifiuto di leggere questa cosa in altri modi che Ryūgū), dedicato a Wadatsumi (il cui nome compare già nel Kojiki e curiosamente si può trascrivere sia foneticamente con 綿津見 che semanticamente con 海神, ‘divinità del mare’, the more you know), divinità marina dalle sembianze di drago figlia delle divinità creatrici Izanami e Izanagi, o l’Okutsunomiya con il suo dipinto di una tartaruga che come la Gioconda dovrebbe avere uno sguardo in grado di fissarti da qualunque direzione. Cosa che tra l’altro ci siamo cagati solo noi perché tutti gli altri intorno stavano percorrendo il sentiero con Pokémon Go alla ricerca di Pokémon rari, facendoci sentire sfigati e fuori moda.

Sè vabbè tutte ste letture pretenziose e poi è una cinesata, pfft.

Happō Nirami no Kame (八方睨みの亀, “La tartaruga che fissa tutte le direzioni”), opera di Sakai Hōitsu, 1803. Tartaruga jinja.

Family portrait 3 @ Nikkō: sono sorda, dico cacate, siccomechesonociecato 🙉🙊🙈 Un sentito ringraziamento alla signora francese che per fare la foto a momenti sfracellava l’iPad a terra, va bene non ridarci la Gioconda ma spaccarci pure gli iPad adesso... e sì che ero quasi vestito da bandiera francese, non capisco questo inasprimento dei rapporti internazionali lol
A parte le zone limitrofe di Tokyo, a onor del vero anche la città ci ha riservato delle piacevoli sorprese. In particolare, un tempio fattomi scoprire da un’amica che è subito diventato uno dei miei preferiti di Tokyo: il Fukagawa Fudōdō.

Tempio buddhista della setta esoterica Shingon risalente al 1703, credo si classifichi a buon diritto tra i posti più suggestivi di Tokyo. Preceduto da un vicoletto su cui si affacciano diversi negozietti molto caratteristici e un café che fa dei panini caldi che levati, è dedicato al culto di Fudōmyōō, l’Irremovibile, una delle manifestazioni più intimidatorie del Buddha, ed è qui che tutt’oggi si tiene a orari regolari una delle più suggestive cerimonie a cui mi sia capitato di partecipare finora: il goma 護摩. La prima volta che l’ho sentito mi sono domandato cosa c’entrasse il sesamo (che si dice goma uguale), ma scritto con due caratteri diversi indica una cerimonia di purificazione in cui vengono bruciate delle tavolette di legno su cui sono scritti i desideri dei fedeli, così da estirpare con il fuoco la radice della sofferenza degli stessi. È una cerimonia che oserei definire quasi violenta, perché mentre le fiamme ardono i monaci intonano a voce alta una giaculatoria in quella che dovrebbe essere una versione nipponizzata del sanscrito percuotendo con veemenza dei tamburi taiko che scandiscono il tempo. La cerimonia culmina con la benedizione delle borse dei fedeli, che si mettono in fila e consegnano la propria a un monaco il quale la solleva al di sopra del fumo che esala dalla pira di desideri. Per quanto duri all’incirca una mezz’oretta, si perde totalmente la nozione del tempo e non si può che rimanere turbati dall’incalzare del ritmo dei taiko e dal senso di ieraticità e timore reverenziale che la cerimonia trasmette. Dopo aver assistito a un tale dispiego della potenza del buddhismo, tuttavia, si esce stranamente rinfrancati, come se l’ultimo colpo di tamburo scacciasse via il demone della paura e lasciasse posto, insieme al silenzio, a una ferma imperturbabilità. Ci sono entrato rimuginando sul prezzo della casa in cui stavo valutando di trasferirmi (SPOILER ALERT) che mi sembrava troppo alto, e ne sono uscito pensando “mbè vabbè ma perché, tutto sommato è ragionevole”. Da allora ci sono tornato più di una volta, un po’ per i panini del café lì vicino e un po’ perché devo semplicemente andare poco più oltre il percorso coperto dal mio abbonamento per raggiungere la fermata da cui si accede al tempio, Monzen Nakachō, che nella mia testa rimarrà sempre Monzen Nakatachō perché continuo a confornderla con la zona dov’era il vecchio ufficio della Camera di Commercio Svizzera (SPOILER ALERT), Nagatachō.
Finiti i nostri giretti nel Kantō, sono stato molto contento di essere riuscito a portare madre e sorella anche a Kyōto dall’8 al 14 di agosto (con una deviazione anche a Nara e Uji). Ci tenevo molto un po’ perché credo che sia una tappa imprescindibile per chiunque visiti il Giappone, ma soprattutto perché avendoci vissuto per sei mesi volevo che anche loro potessero vedere i posti che erano stati teatro del periodo forse più bello della mia vita. Mi rendo conto che suoni un po’ eccessivo, anche perché si spera sempre che il periodo più bello della propria vita debba sempre ancora arrivare lol, però per quanto io non mi lamenti per nulla adesso di vivere a Tōkyō e mi ci trovi benone, il periodo passato a Kyōto rimarrà forse per sempre a buon diritto uno dei più felici che io ricordi, probabilmente anche perché ha rappresentato il culmine della mia vita universitaria, che credo per molti resti una nostalgica parentesi dorata che brilla nella memoria indipendentemente da come la vita si sviluppi oltre. Tornare a Kyōto mi ha fatto capire cosa questa città rappresenti per me: un rifugio, un porto sicuro dove attraccare, un luogo dove ritrovare il proprio mabui.
[Il mabui (魂 ‘anima’, ‘spirito’) è un concetto tipico del folklore di Okinawa, di cui sono venuto a conoscenza tramite “Sweet Hereafter”, uno degli ultimi romanzi di Banana Yoshimoto, che forse un giorno dovrei anche leggere lol. Se ho ben capito è la parte più intima, l’essenza di una persona ed è possibile perderla in seguito a diverse circostanze: se non si porta rispetto agli antenati, se si riporta una brutta ferita, se si rimane vittime di un grave shock, eccetera. Chi perde il proprio mabui inizia ad avvertire dolori fisici, ad avere problemi di salute e a non sentirsi bene nemmeno psichicamente. La protagonista del romanzo lo perde in seguito a un incidente d’auto nel quale rimane coinvolta col fidanzato a Kurama, una zona di Kyōto (un posto a caso lol). Lui muore, lei sopravvive anche se ferita gravemente e in seguito all’incidente acquista la capacità di vedere gli spiriti. Il romanzo racconta il lungo processo di guarigione a cui la protagonista va incontro per riacquistare il proprio mabui, appunto. Per me Kyōto è questo: una città che ha senz’altro trattenuto una parte di me, qualcosa di essenziale e quasi originale forse, che ritrovo quando ci metto piede, a cui mi ricongiungo riuscendo a ritrovare una serenità che pochi altri luoghi mi regalano.]
Devo premettere delle scuse: ero così in ansia di mostrare a madre e sorella tutto quello che Kyōto mi aveva donato nel periodo in cui ci avevo abitato che ho cercato di concentrare in 5 giorni quello che avevo vissuto in sei mesi, cosa che per definizione è abbastanza sciocco fare e che mi ha portato quasi a ucciderle trascinandole in bicicletta con 40 gradi da una parte all’altra della città.
Detto questo, Kyōto è sempre bellissima e sono contento di essere riuscito a trasmettere loro l’amore per questa città, tanto che madre ha detto che in effetti mi ci vedrebbe meglio che non a Tōkyō. Visto che abbiamo visitato i luoghi di interesse principali di cui ho già parlato in passato ed immagino fosse stato noioso già allora per voi leggerne non mi ripeterò e mi limiterò a una carrellata di foto ignoranti lol

「Postcards from distant cities - Kitano Tenmangu」

「Postcards from distant cities - Shimogamo Shrine」

「Postcards from distant cities - Kinkakuji」

「Postcards from distant cities - Ginkakuji」

「Postcards from distant cities - Kiyomizu Temple」

「Postcards from distant cities - Heian Shrine」

「Postcards from distant cities - Nijo Castle」

「Postcards from distant cities - Nara, Tōdaiji」

「Postcards from distant cities - Uji, Byōdōin」
Oltre a rivedere posti meravigliosi che mi erano mancati molto a Tōkyō, si è aggiunta anche una tappa che mi era ancora sconosciuta: Kibune, una località inculatissima che è uno sbatti assurdo raggiungere a nord di Kyōto che si sviluppa intorno al Kifune-jinja, un santuario dedicato al dio dell’acqua e della pioggia, costruito nel punto dove la leggenda vuole che sia terminato il viaggio in barca di una dea dalle sembianze di serpe. Nel caso vi steste chiedendo perché la località si chiami Kibune e il santuario Kifune, la ragione è che nel sistema di scrittura giapponese il simbolo che graficamente trasforma il suono fu in bu è detto “nigori”, cioè letteralmente “impurità”, ed essendo il santuario dedicato al dio dell’acqua si evita di includere un suono impuro come auspicio affinché non venga intaccata la purezza dell’acqua stessa. Vero che prima non ci dormivate la notte e adesso invece sì? lol

La Lonely Planet, preziosissima come al solito, riguardo questo santuario metteva solo in guardia circa l’orrenda statua equeste in plasticozza all’ingresso, che in effetti c’era...

...ma non citava uno dei principali motivi per cui è famoso, i mizuura-mikuji 水占みくじ, foglietti contenenti oracoli che compaiono una volta poggiati sul pelo dell’acqua. Tipo l’inchiostro arcobaleno di quegli album da colorare terribilmente anni Novanta che penso tutti da bambini abbiamo avuto (Fra, se stai leggendo, sappiamo tutti e due a chi legittimamente apparteneva il pennarello arcobaleno).

Il mio oracolo diceva “media fortuna”, e se non ricordo male riguardo i traslochi diceva qualcosa tipo ‘bene anche se non come vorresti’, che in effetti ci ha proprio preso lol #benemanonbenissimo
Alla fine di questi giorni a Kyōto, che segnavano anche la fine del viaggio di madre e sorella in Giappone, mi sono ritrovato di sera al Kitano Tenmangu a pensare a tante cose: a cosa avesse significato accompagnarle in quella che è e/o che era stata la mia quotidianità all’estero, a cosa mi aveva portato lì dov’ero, a quante cose erano cambiate nel frattempo e quante invece erano rimaste le stesse. In questo viaggio abbiamo parlato tanto, abbiamo parlato di cose che non avevamo mai affrontato prima, di valori in cui fermamente crediamo e con i quali siamo cresciuti, di caratteristiche in cui ci riconosciamo da qualsiasi parte del mondo, del passato e del futuro; abbiamo anche litigato ovviamente, perché nelle famiglie normali si litiga anche, indipendentemente da dove ci si trova, ci siamo commossi (ma ai giardini dell’Imperatore, mica come i poracci inzomma) e ci siamo fatti un numero imbarazzante di foto anch’esse imbarazzanti che adesso sono incorniciate sulla credenza in salotto a casa in Italia. Siccome non so bene che sigillo apporre alle sensazioni di quei giorni, chiuderei con le parole che proprio sorella e madre hanno scritto durante il loro viaggio perché credo che lascino in parte trasparire cosa questo viaggio sia stato per loro:

“The reasons why I’ve loved Japan are not so different from the reasons why I didn’t like it. What I think I’ve learnt from this journey is: there are no nationalities but people. Different people have different cultures and to discover them is a good way to come back home and understand ourselves and our way of thinking and communicating, even loving much better, fiving them a different value, maybe. But above all, the biggest teaching after this troubled journey in Japan is: sushi is good, trains on time too, kombinis 24/7 open are awesome, but if you-almond-eyes say “arigato gozaimasu” again I swear I’m gonna kill you”.

“Famiglia a cena: affetti ripresi, abitudini riconosciute, tanto bene ♥”
・Avevo anche COMPLETAMENTE dimenticato che enorme sbatti fossero i traslochi. Complice il fatto che a fine agosto la Camera di Commercio Svizzera ha cambiato ufficio, ho deciso di traslocare a mia volta per essere più comodo con gli spostamenti e anche perché mentre mi dicevo che il mio appartamentino di 14 ㎡ era solo provvisorio e che ne avrei trovato un altro con più calma, prima che me ne accorgessi era già passato UN ANNO / o \ Mettiamola così: se il mio intento era spostarmi in un posto un po’ più grande e pagare meno ho totalmente fallito (l’omikuji ci aveva visto giusto), però non sono insoddisfatto perché ho finito per trovare un posto dove pago uguale ma ho tipo quattro volte lo spazio che avevo prima, il che non è male. Mi è dispiaciuto perché ho dovuto dedicarmi alla ricerca di case e agenzie immobiliari mentre madre e sorella erano qui, ma d’altronde agosto sembrava essere un buon periodo per il mercato immobiliare perché sembra ci siano molti spostamenti, case che si liberano e via dicendo. Mentre prima ero con un’agenzia internazionale che si occupa di fornire case già arredate a prezzi disonesti, questa volta mi sono rivolto a un’agenzia giapponese, comunque disonesta lol, che mi ha messo una pressione addosso che sembrava che si sarebbero trovati senza tetto loro se non avessi preso casa io, e alla fine mi sono ritrovato con un contratto biennale per un appartamento a Koenji sud con un loft che in realtà è un secondo piano a tutti gli effetti visto che ci sto comodamente anche in piedi e ha finalmente realizzato il mio sogno di separare la zona dove mangio da quella in cui dormo, arredata in parte con mobilia che mi portavo ancora dietro dai tempi di Kyōto e per il resto con mobili Ikea tra cui il mio sogno proibito, UN DIVANO ♥ (no non potete capire, il divano è quello spazio liminale tra dover stare seduti su una sedia o per terra e quindi non riuscire a rilassarsi e collassare a letto e quindi non avere chance di rimanere svegli, mi sono sentito privato di una parte fondamentale della mia vita per tutto il tempo che non ne ho avuto uno). Sta cosa che i contratti per le case giapponesi durano minimo due anni è un po’ una rottura di palle, ammettiamolo, ed era la prima volta che avevo a che fare in prima persona con un’agenzia giapponese perché a Kyōto, pur avendoci dovuto avere a che fare, c’era stato il tramite dell’università che aveva aiutato; sono stato comunque felice di notare che sotto vari aspetti rispetto a quell’esperienza stavolta abbia trovato meno difficile l’approccio anche linguistico, mi ha fatto quasi pensare che in tutto sto tempo qualcosa ho imparato, non è stato del tutto buttato lol Un consiglio spassionato: se volete fare sport a fine agosto sceglietevi di meglio che trasportare avanti e indietro per tre chilometri andata e ritorno valigioni pieni dei vostri averi, ma proprio col cuore in mano ve lo dico. Anche se ne è valsa decisamente la pena perché adesso abito vicino a Eva, Anna e Davide e mi fa sempre sorridere pensare che dato che veniamo da città diverse in Italia difficilmente ci saremmo trovati ad essere vicini di casa, mentre qui Little Italy proprio lol Quindi insomma da inizio settembre 2016 sono passato dalla Pacific Nakano Sakaue #301 a una pretenziosa Maison de Koenji #202, una casa su due piani un filino infrattata che solo i corrieri più coraggiosi e intrepidi trovano (loro e le bollette, che quelle non si sa come una via per arrivare a te la trovano sempre), a una decina di dolorosissimi minuti dalla stazione JR di Nakano, da cui si sente passare il treno in lontananza proprio come dalla mia casa in Italia, cosa che ho scoperto tranquillizarmi tantissimo, quasi come il protagonista di questo racconto di Murakami. Al solito l’isolamento termico e acustico sono tremendi, oserei dire ai minimi storici, tanto che me sembra d’avere gente in casa ogni tanto, ma è stata pensata benino perché nonostante abbia dirimpettai da tutti i lati è costruita in modo tale da essere di mezzo piano rialzata rispetto alle abitazioni circostanti, sicché anche se è piena di finestre nessuno ti vede dentro casa. Tipo i castelli giapponesi che da fuori sembrano di un tot piani ma poi all’interno sono di mezzo piano sfalsati in modo da trollare i nemici lol
・E a proposito di castelli, avevo dimenticato la tendenza di ogni città munita di castello di tirarsela per avere quello più antico di tutto il Giappone. Succede questo: per il weekend lungo della Silver Week, dal 17 al 19 di settembre, decido di andare con Y. a Nagoya per la Triennale di Aichi, un festival d’arte internazionale che si tiene ogni tre anni nella prefettura di Aichi, dove ancora non ero stato. Per la sua terza edizione, era stato scelto il titolo “Homo Faber: A Rainbow Caravan”, un titolo molto elegante per giustificare una colorata accozzaglia di varie opere (alcune non le ho capite, però ho trovato molto evocativo l’uso delle figure retoriche - cit.) sparse in diverse location di tre principali aree: Nagoya, Toyohashi e Okazaki.

「Jerry’s Map」 © Jerry Gretzinger Collage di 3200 tasselli che compongono una mappa di una città immaginaria, realizzata tra il 1963 e il 1983 con acrilici, evidenziatori, matite colorate, inchiostro.
Come vi dicevo, non ero mai stato a Nagoya, che la Lonely Planet descrive così: “si potrebbe dire che Kyōto è una geisha dalle movenze aggraziate, Tokyo una teenager sicura di sé all’eterna ricerca delle novità più trendy e Nagoya la loro leale sostenitrice. Magari non sarà la più attraente della famiglia, ma con intelligenza, perseveranza e senso del dovere fornisce alle altre due la ricchezza che permette loro di vivere il tipo di vita che hanno scelto.”
Boh guardate io sinceramente non saprei dirvi di che sostanze abusino quelli della Lonely Planet, però se qualcosa vogliamo salvare di questa loro sparata è questo: se per diversi aspetti, dal piano urbanistico al tipo di attrazioni che offre, si può dire che Nagoya ricordi più Tokyo, d’altra parte è innegabile che si respiri un’atmosfera più tranquilla, rilassata e leggera, che mi ha ricordato per varie ragioni le città del Kansai. Un’atmosfera che perfino in metropolitana è riscaldata da familiari caldi timbri latini perché, credo unico caso in tutta la nazione, gli annunci non sono solo in giapponese, inglese, cinese e coreano ma pure in PORTOGHESE, che la prima volta che l’ho sentito vi giuro mi è quasi preso un colpo, WTF?? Però pare che sia pieno così di brasiliani, ma proprio a grappoli, che lavorano per la Toyota a Nagoya, e che quindi sia stato deciso di integrare anche il portoghese nelle lingue degli annunci sui mezzi pubblici.

In quanto città turisticamente non proprio esaltante non poteva mancare la Torre della Televisione elevata a sito turistico anche qui come a Sapporo, con la variante che stavolta pure questa come i castelli che vedremo nei giorni successivi si autoproclama la più vecchia di tutto il Giappone, completata nel 1954 e distrutta da Godzilla dieci anni dopo.
Visto che once a LICAO always a LICAO, uno dei motivi per i quali mi incuriosiva andare a Nagoya era visitare l’Atsuta-jingū, un santuario dove si dice sia custodita la kusanagi-no-tsurugi (草薙の剣, ‘la spada che falcia l’erba’), una delle tre insegne imperiali insieme allo specchio di Amaterasu (custodito a Ise, been there done that) e alla gemma ricurva (custodita nel Palazzo Imperiale di Tokyo, dove però ancora non mi hanno invitato lol). La leggenda rintracciabile nel Kojiki vuole che il dio Susanoo l’avesse trovata in una delle code del drago a otto teste Yamata no Orochi da lui ucciso. Passò poi per diverse mani fino ad arrivare a Yamato Takeru, leggendario eroe che, trovatosi intrappolato in un cerchio di fuoco appiccato da un nemico che gli aveva teso un agguato in un pascolo, scoprì che la spada poteva controllare il vento e la usò per estinguere le fiamme fendendo l’aria tra l’erba, da cui appunto il nome.
La spada Kita Kita?? La danza Kita Kita!!
Insomma vabbè tutta sta storia e poi tanto comunque non la potete vedere, però vabbè willing suspension of disbelief e te passa la paura.

Tappa imprescindibile durante una gita a Nagoya è chiaramente il castello, uno dei simboli della città, fatto costruire dal terzo unificatore del Giappone Tokugawa Ieyasu tra il 1610 e il 1614 e ricostruito poi nel 1959 dopo che era stato distrutto durante la Seconda Guerra Mondiale, anche lui da Godzilla.

E adesso non c’è più il castellobbello.
Caratteristiche del castello di Nagoya sono le decorazioni poste alle estremità del tetto che raffigurano degli shachi (鯱), animali marini che si credeva avessero il potere di evocare l’acqua così da proteggere dal fuoco (quello appiccato dai nemici tanto per fare un esempio) e che letteralmente dovrebbero essere delle... orche? O_ò

Free Willy, ti ricordavo un filino diverso...
Gli shachi sono talmente tipici che ve li ritroverete in tutte le salse nei negozi di souvenir e persino nei cartelli della metropolitana.

Ora, io non faccio il graphic designer, ma... non è profondamente sbagliato che quello che dovrebbe essere il corpo sia parte della faccia e che abbia un altro corpo umanoide? È mostruoso D:
A una mezz’oretta di treno da Nagoya si trova la tranquilla cittadina di Inuyama. Attraversata dalle placide acque del Kisogawa, considerato il Reno giapponese, lungo le cui acque si pratica ancora la famosa attività dell’ukai (鵜飼い ‘pesca col cormorano’), ospita anch’essa un castello, uno dei cinque nominati patrimonio nazionale insieme a quelli di Himeji, Hikone, Matsumoto e Matsue. Beh dai, me ne mancano solo due da vedere, siamo a buon punto lol

Il maschio è datato 1537 ma si è sviluppato da un forte difensivo risalente addirittura al 1440, e questo dovrebbe fare del castello di Inuyama il castello più antico del Giappone.

Poco distante, si trova poi un bel giardino, l’Urakuen 有楽苑, che prende il nome da uno dei fratelli minori di Oda Nobunaga, primo grande unificatore del Giappone, Oda Urakusai, che abbandonata la carriera militare in tarda età si fece monaco presso il Kenninji di Kyōto, dove si dedicò all’arte della cerimonia del tè e fece costruire una casa da tè che venne poi trasferita nel suo villaggio natìo, Inuyama, proprio all’interno dell’Urakuen. Il nome di questa casa da tè, Joan (如庵), sembra sia un gioco di parole: riprenderebbe infatti il nome cristiano che Oda Urakusai scelse per se stesso dopo essersi convertito al Cristianesimo nel 1588, Johan appunto.

Considerata una delle tre più belle case da tè insieme alla Mittan del Daitokuji e alla Taian del Myokian, entrambi a Kyōto, non so perché ma quando leggo che “è stata trasferita a Inuyama” me lo vedo proprio Oda Urakusai che la caccia in borsa tipo mago Merlino quando trasloca.
Hockety Pockety Wockety Wack, Abra Cabra Dabra Da, se ciascun si stringerà il posto a Joan si troverà ♪

On our way back from Inuyama... dopo Shimonita, un’altra imperdibile tappa per viaggiatori maliziosi.
Ora, permettetemi di aprire una parentesi Instagram dato che, viaggiando con un giapponese, ovviamente non potevamo non passare ore a discutere principalmente di cosa e dove avremmo mangiato. Questa è una cosa che mi lascia sempre abbastanza sconcertato: nonostante da italiano mi ritenga parte di un popolo che dà importanza alla buona tavola, trovo comunque sempre un filino disarmante che per i giapponesi la priorità in ogni viaggio sia il cibo, ma a livelli che quando raccontate a qualcuno che andate da qualche parte, nella maggior parte dei casi la prima domanda non sarà “cosa vai a vedere?” ma molto più verosimilmente “cosa si mangia di buono da quelle parti?”, e molti dei commenti e/o dei suggerimenti riguarderanno molto più spesso cose da mangiare che non da visitare. Ad ogni buon conto, sono stato ben felice di assaporare quello che la cucina di Nagoya aveva da offrire: in particolare, lo hitsumabushi 櫃まぶし, una scodella di riso con anguilla grigliata in cima che andrebbe mangiata facendone tre diverse porzioni in una ciotola a parte, la prima volta gustandola così com’é, la seconda aggiungendo wasabi e cipolla, e la terza versandoci sopra tè o brodo di pesce; e il morning, questa sorta di colazione/brunch che come abitudine è tipica di Nagoya e che prevede un pasto a base di caffé e toast (tipicamente l’ogura toast, pane tostato con crema di fagioli rossi). Con Y. abbiamo ordinato il morning al Komeda Café, una catena nata proprio a Nagoya e famosa per il suo Shiro no Whirl, una sorta di pasta dolce con gelato alla vaniglia sopra e sciroppo. Per carità, un negozio di questa catena c’è anche vicino a casa mia per cui non è che servisse andare fino a Nagoya, però nel luogo d’origine fa sempre un effetto più autentico lol

#instafood #instagood #foodporn #foodie
Dai, per risollevarmi da questo scivolone gustoso ma di cattivo gusto e ridarmi un tono vi lascio con degli scatti dell’opera che forse mi è piaciuta di più all’Aichi Triennale, “Art & Breakfast”, un progetto di Mitamura Midori che consiste in una serie di installazioni che combinano oggetti quotidiani o comunque di facile reperibilità e citazioni per creare uno spazio che l’osservatore possa avvertire come familiare e in cui ritrovarsi, che adesso che ci penso è un po’ quello che anche a me piacerebbe che questo blog potesse essere sia per me che lo scrivo che per quei due che lo leggono (ciao mamma, ciao papà lol). Motivo per cui, anche se come è successo mi ricapiterà sicuramente di non riuscire ad aggiornarlo per lungo tempo, cercherò di trovare il tempo per continuare a scriverlo.

“My grandma said: ‘Your failures that happened in a world will be settled in that world as well’.” 「私のおばあちゃんは言いました『世の中で起きたことは世の中の方でおさまる』と」

“‘Today’ will get away from you, while you think too much of ‘tomorrow’.” 「明日のことばかり考えているうちに今日が逃げてしまわないように」

“The problem is that the way, which I developed myself, sways me.” 「問題なのは自分でつくりあげた自分らしさに振り回されてしまうことです」

“New one becomes old one so soon.” 「新しいものはすぐ古くなるのね」

“The only truth we can understand about each other is that we can never understand each other” 「人はお互いと理解することはできないとのことを理解しなくてはなりません」

“The only person who can take me home is myself” 「自分を家に連れて帰れるのは自分だけ」

“There is always a reason for failure” 「うまくいかないことには理由があるのです」
1 note
·
View note