#Franco Perrelli
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Spettri, un dramma familiare
Spettri, un dramma familiare
Incipriati di bianco e con le occhiaie nere, gli Spettri di Ibsen si rincorrono senza posa in uno spazio scenico allargato, che lambisce le poltrone del pubblico, quasi a ricreare l’atmosfera dell’Intima Teatern di Stoccolma, diretto per alcuni anni da Strindberg. Agli spettatori non resta che partecipare al dramma familiare ibseniano e farsi sfiorare dai suoi fantasmi, che sono anche i nostri. (…
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#Dalila Reas#Fabrizio Amicucci#Franco Perrelli#Giorgio Crisalfi#Henrik Ibsen#Igor Mattei#Micaela Esdra#Recensione Spettri#Walter Pagliaro
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Tensione metafisica e promiscuità letteraria: intervista a Franco Perrelli su "Solo" di August Strindberg
Tensione metafisica e promiscuità letteraria: intervista a Franco Perrelli su “Solo” di August Strindberg
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Gianni Perrelli "Il soffitto di cristallo" recensione di Angelo Molica Franco da Il Venerdì La Repubblica
Gianni Perrelli “Il soffitto di cristallo” recensione di Angelo Molica Franco da Il Venerdì La Repubblica
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#Gianni Perrelli Il soffitto di cristallo#Il Venerdì La Repubblica#recensione di Angelo Molica Franco
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“Io non voglio la vita. Voglio vincere la vita. La mia parola è No”. Pär Lagerkvist, poeta e ribelle
Tra i testi che invocano la rivolta alcuni si rivolgono a un nuovo ordine altri al vortice. I primi instaurano una ‘politica’ – in fondo, inalano la lotta per sovvertire uno ‘stato’ statico dichiarandone un altro, ritenuto migliore – gli altri una verifica di sé, fino al luogo dove le ossa fischiano, come falchi. Nel 1951 Albert Camus pubblica L’uomo in rivolta, Ernst Jünger il Trattato del Ribelle. Per lo scrittore è facile, fiero, in un salto, superare il disorientamento. Con una parola lo scrittore doma la Storia, ne riduce l’urlo in belato. Un libro precede quei due, diversamente audaci. Si intitola La mia parola è No. Lo ha scritto Pär Lagerkvist, nel 1927, ed è pieno di tutta la sua selvaggia ingenuità. “La mia parola è No si prospetta come un poderoso tentativo di sostituire un’ispirata visione poetica e metafisica alla razionalizzazione totalizzante della scienza che coglie altrimenti l’umanità nuda e senza gloria, e ripropone con enfasi – pur da posizioni di consapevolezza dell’assurdità della condizione umana – la biblica centralità e maestà di un uomo ‘fatto in modo terribile e meraviglioso’”, scrive Franco Perrelli nell’introduzione al libro, in catalogo Iperborea.
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Alcune parti di quel libro, la cui logica è l’ispirazione, la cui geometria è una poetica – dunque, la sfida come atto di sguardo sulle cose – sono meravigliose. Le ricalco, a mo’ di abbecedario d’estasi:
Io non voglio la vita. Voglio vincere la vita. La mia parola è No.
Noi non apparteniamo alla vita. Anche se forse la nostra anima si dissolverà col nostro corpo, anche se forse non abbiamo altro che questo breve tempo in cui ci è dato di fiorire e morire – comunque non le apparteniamo. Siamo qui per superare la vita, per vincerla. È per un rifiuto che siamo al mondo, per essere scoglio sul mare del tempo contro cui le onde infinite s’infrangono facendosi schiuma. La nostra parola è No.
Nulla placa la nostalgia dell’anima. Né il dolore, né la gioia più profonda. Perché essere uomo è avere fame. solo avere fame, fame – di qualcosa che non si può raggiungere. Di qualcosa che non esiste.
Sì, ogni giorno è una prigione. Ogni istante che ci è dato, ogni lasso di tempo che possiamo vivere è una prigione nella quale siamo tenuti segregati. Ogni fede, ogni dubbio, ogni passione che ci prende, ogni estasi che ci riempie col suo fuoco è la nostra prigione che ci si chiude intorno… Passiamo di segreta in segreta per tetri corridoi in un labirinto in cui nessuno si orienta, neppure che ci guida… Questa è la vita terrena. Vita da talpe, la vita terrena.
La vita non ha per fine la nostra realizzazione. La vita non ci capisce. E come potrebbe. È tutt’altro da noi… Vivere! Perché dobbiamo sempre, sempre vivere? Perché non possiamo mai essere?
È questa la nostra tragedia: la vita non ci basta. È da qui che derivano tutti i nostri problemi, tutta la nostra miseria. Siamo esseri che tendono le mani al cielo.
C’è una nauseante atmosfera d’interesse “spirituale”, in cui i poeti, con il loro fiuto e la loro opportunistica emotività professionale, divulgano il sapere e indicano agli uomini il cammino del loro vero dominio. S’instaura una sorta di comoda “concezione esistenziale”, che si nutre della più viva curiosità per tutto ciò che di più basso e più primitivo vi è nell’uomo. Ma su ciò che vi è di più alto, di divino, non si è curiosi. Sono valori incerti, che han più volte dato prova di non essere di grande affidamento. Mentre il basso, l’animalesco, è certo. È qualcosa su cui contare, lo sappiamo bene.
La vita è il prezzo che paghiamo perché il nostro essere possa esistere.
Mai, cuore umano, troverai pace dal tuo sogno di eternità. Mai ti basterà la vita. Tu devi creare, cercare qualcos’altro, qualcosa al di là. Dobbiamo perennemente dare la sua parte all’immortalità.
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Pär Lagerkvist (1891-1974) ha vissuto tanto da diventare un classico vivente – cioè uno di cui liberarsi. Sul seggio del Nobel per la letteratura, che gli fu assegnato nel 1951, non impalcò una orazione intellettuale né un proclama politico. Raccontò una storia. La storia s’intitolava “Il mito dell’umanità”. Comincia così: “C’era una volta un mondo, e un uomo e una donna, un giorno, vi giunsero con l’intenzione, più che di abitarvi, di fare una breve visita. Conoscevano molti altri mondi e questo, ai loro occhi, appariva come il più povero di tutti. In realtà, era piuttosto bello se si considerano gli alberi e le montagne, le foreste, i cieli, le nuvole mutevoli, il vento dolce del crepuscolo che mescolava ogni cosa in forme misteriose. Eppure, era un mondo povero rispetto a quelli che i due possedevano molto, molto lontano…”.
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L’opera di Pär Lagerkvist è riassunta da Barabba – in catalogo Jaca Book – e da Il nano, stampato, insieme ad altri testi di PL, sia lode a loro, da Iperborea. Lagerkvist è uno scrittore di parabole, e credo che in questo tempo pochi abbiano voglia di parabole. Piuttosto, preferiamo scendere in piazza assecondando facili slogan: chi ha voglia di scendere dentro di sé, di penetrare la propria contraddizione, di sfasciarsi? Non credo che oggi in molti leggano Lagerkvist. Tempo fa, in una bancarella, ho comprato La sibilla. Pubblicato in origine nel 1956, è tradotto da Attilio Veraldi per Feltrinelli, nel 1961, ora è fuori catalogo. In copertina, Lagerkvist ha i capelli bianchi e spiritati, sembra un satiro in giacca e doppiopetto: alle sue spalle si spalanca il bosco. La quarta presenta il libro con una domanda: “come può un dio imporre all’uomo il comandamento dell’amore, se è egli stesso spietato e crudele?”. Nel libro, una fiaba sapienziale, la sibilla di Delfi dice: “Dio è diverso da noi, perciò non lo capiremo mai. È imperscrutabile, incomprensibile. È dio. egli è il bene e insieme il male, la luce e insieme le tenebre, è futile e insieme pieno di un significato che non riusciremo mai a penetrare e non cesserà mai di confonderci”. Il libro è pubblicato nella collana ‘I Narratori0, insieme a Boris Pasternak, Malcolm Lowry, Lawrence Durrell, Henry Miller.
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Nel 1969 l’editore Rusconi pubblica una selezione delle Poesie di Lagerkvist, per la cura di Giacomo Oreglia. Il testo è ripreso nel 1991 da Guaraldi/Nuova compagnia editrice, con una nota di Mario Luzi, che scrive: “Se è vero, come dice Rilke, che il compito dell’uomo è di umanizzare il mondo, quello di Lagerkvist è uno dei modi più ariosi e vibranti che io conosca”. In queste poesie – che bisognerebbe riprendere, ripubblicare – c’è qualcosa di evangelico, qualcosa di frugale, non sempre funzionano perché sono umane, hanno le parole di chi chiede il pane, di chi pretende una resa. (d.b.)
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Certamente tu sei felice di nulla, benché così debba essere. A me la vita deve dare cose di gran valore, così stupendamente meravigliose.
E ora mi ha dato la sua più oscura profondità, un mare di sofferenza da temere. E a te, mia amata, nulla, solo un amore sorridente.
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La vita ha occhi così belli, occhi di capriolo, tristi, profondi, ma che riflettono l’attimo estivo, la muta felicità del giorno estivo nel suo sguardo che brilla, vigila, riluce nell’oscurità degli alberi –
Il cacciatore depone la sua arma sull’erba rugiadosa del mattino per seguire l’orma timorosa, seguire gli occhi cupi e lustri nel profondo della foresta così lucente.
Bere alla stessa fonte, profonda e chiara, dove essa ha bevuto.
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Notte del destino, quando la stella riposa in una mano ignota. Quando la tua anima corre verso l’abisso o la terra del miracolo.
Spenta giace l’eternità, solo un raggio di luce palpita attraverso il vuoto profondo, attraverso la dimora della morte.
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Se credi in dio e non esiste dio, allora è la tua fede miracolo anche maggiore. Allora è davvero qualcosa d’incomprensibilmente grande.
Perché giace una creatura nel fondo delle tenebre ed invoca qualcosa che non esiste? Perché così avviene? Non c’è nessuno che ode la voce invocante nelle tenebre. Ma perché la voce esiste?
Pär Lagerkvist
L'articolo “Io non voglio la vita. Voglio vincere la vita. La mia parola è No”. Pär Lagerkvist, poeta e ribelle proviene da Pangea.
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