#Dottore di Ricerca Honoris Causa
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Dottore di Ricerca Honoris Causa, il titolo conferito a Corrado Augias
L’Università degli Studi della Tuscia (Unitus) ha assegnato a Corrado Augias il prestigioso titolo di Dottore di Ricerca Honoris Causa, riconoscendolo come una delle figure più influenti del panorama culturale e giornalistico italiano. La cerimonia di conferimento del titolo di Dottore di Ricerca Honoris Causa a Corrado Augias si è svolta presso la storica sede del Rettorato a Santa Maria in…
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Lectio magistralis - ”Come l’Europa è uscita dalla crisi del Trecento” a cura di Alessandro Barbero
È disponibile all'ascolto il podcast della Lectio Magistralis di Alessandro Barbero tenutasi durante la cerimonia d'Inaugurazione dell'Anno Accademico 2022 / 2023 dell'Università degli Studi della Repubblica di San Marino
ASCOLTA
La registrazione dell'intera cerimonia è disponibile QUI Sono intervenuti: Prof. Corrado Petrocelli, Rettore dell’Ateneo sammarinese On.le Andrea Belluzzi, Segretario di Stato per Istruzione e la Cultura, l’Università e la Ricerca Scientifica, le Politiche Giovanili Conferimento Honoris Causa del titolo di Dottore di Ricerca in Scienze Storiche. Motivazioni – Prof. Luciano Canfora Laudatio – Prof. Franco Cardini
Cerimonia di inaugurazione dell’Anno Accademico 2022/2023 dell’Università degli Studi della Repubblica di San Marino
Venerdì 3 marzo 2023 alle ore 15.00 Centro Congressi Kursaal di San Marino
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Gustav Holm e la scoperta della Groenlandia orientale
Il 6 agosto 1849 nacque a Copenhagen l'esploratore danese Gustav Frederik Holm.Seguendo le orme di suo padre e suo nonno, entrambi ufficiali, entrò nella Marina Reale danese come sottotenente nel 1870, e dopo una brillante carriera fu nominato direttore del Royal Pilotage Service nel 1912, un incarico di responsabilità che ricoprì con grande successo durante la prima guerra mondiale e fino a quando non si ritirò definitivamente dal servizio, nel 1919. I più grandi successi Holm, tuttavia, li ebbe in qualità di esploratore artico ed è così che comincia la storia che vogliamo raccontarvi. Nella seconda metà del XIX secolo, nacque l'idea di avviare una sistematica indagine geologica e geografica della Groenlandia: l'autore di questa proposta era Frederik Johnstrup, professore di mineralogia all'Università di Copenaghen, che nel 1875 presentò un piano dettagliato al governo, il quale tre anni dopo nominò una Commissione per la direzione geologica e geografica le investigazioni in Groenlandia.Nel 1876 Holm prese parte alla prima di una lunga serie di spedizioni nella Groenlandia occidentale come addetto al rilevamento, sotto la guida di Knud J. V. Steenstrup: le ricerche portarono alla mappatura di circa 4.000 chilometri quadrati nel distretto di Julianehåb, in cui vennero raccolte un numero considerevole di antichità e di piante. La sua conoscenza della costa orientale, la sua familiarità con i nativi della Groenlandia e con le loro tecniche di viaggio, spinsero Holm a condurre una spedizione in quelle regioni per rintracciare possibili tracce dell'occupazione norrena sulla costa orientale. Nel 1883 partì quindi con l’intento di seguire le acque costiere libere dal ghiaccio per mezzo di umiak, agili imbarcazioni Inuit ricoperte di pelle, ed esplorare la costa orientale, da Cape Farewell verso nord. Il suo secondo in comando era il tenente V. Garde della Royal Danish Navy, e lo staff scientifico era composto dal botanico P. Eberlin, dal mineralogista norvegese Hans Knutsen e da un gruppo di nativi, profondi conoscitori della lingua locale e delle tecniche di navigazione. I membri danesi della spedizione lasciarono Copenaghen nel maggio 1883 e dopo un lungo viaggio proseguirono verso il piccolo avamposto groenlandese di Nanortalik per svernare, portare avanti osservazioni meteorologiche e prepararsi per il grande viaggio che avrebbe avuto luogo l'estate successiva.Il 5 maggio tutto era pronto e la spedizione, che consisteva in trentasette persone, a bordo di quattro umiak e alcuni kayak di accompagnamento, si mise in viaggio verso la costa orientale. Di qui in avanti la morsa del pack fermò a più riprese il loro andare, finché nei pressi del ghiacciaio Puissortoq, considerato uno dei luoghi più pericolosi in quella parte della costa, metà dell'equipaggio dichiarò apertamente la propria riluttanza ad andare oltre. Holm fu così costretto a rimandarli indietro con uno degli umiak. Le barche rimaste si misero nuovamente in viaggio e dopo essersi divise, poiché parte della spedizione aveva il compito di indagare i fiordi meridionali, arrivarono sull'isola di Dannebrog raggiungendo, l'ultimo giorno di agosto, il tanto atteso obiettivo: Angmagssalik, a circa 800 chilometri da Cape Farewell. Holm da eccellente osservatore, scrisse un brillante resoconto della vita indigena prima di tornare indietro e ricongiungersi con Garde sulla costa occidentale. I risultati della spedizione furono numerosi sia dal punto di vista geografico che etnologico: l’opera di Holm è uno dei primi primi resoconti moderni e scientifici sugli eschimesi, un testo fondamentale per la ricerca etnologica. La spedizione ad Angmagssalik fu l'ultimo viaggio scientifico di Holm verso la Groenlandia, la terra verde, tuttavia quando il governo danese decise di istituire una missione e una stazione commerciale proprio ad Angmagssalik, il compito fu affidato a Holm che così nel 1894 visitò il luogo per la seconda volta. Nel periodo tra il 1884 e il 1894, infatti, la popolazione della Groenlandia orientale era drasticamente diminuita da 413 a 243 unità: per impedirne il totale spopolamento e per mantenere la sovranità danese in quel territorio lo stabilimento era di vitale importanza.Nel 1896 Holm fu nominato membro della Commissione per la direzione delle inchieste geologiche e geografiche in Groenlandia e negli anni successivi si occupò anche di studi di storia geografica, in particolare di argomenti riguardanti l’esatta ubicazione del territorio del Vinland, scoperto da Leif Eriksson. Gustav Frederik Holm fu un personaggio molto umile, schivo, che evitò con ostinazione di recitare un ruolo nella vita pubblica. Tuttavia, i suoi contributi alla scienza geografica ed etnologica non furono dimenticati. Nel 1890 ricevette la medaglia della Roquette della Geographical Society di Parigi e nel 1895 gli fu conferita la medaglia d'oro della Royal Danish Geographical Society. Nel 1923 fu nominato membro onorario della Greenland Society di Copenaghen e quando l'università di Copenaghen celebrò il suo 450esimo anniversario nel 1929, fu proclamato Dottore in Filosofia honoris causa. Morì a Copenhagen il 13 marzo del 1940.
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Si salva chi vince la Sfinge. Dialogo con Fabrizio Gifuni, l’uomo che è stato Freud
Alla caccia seguì la grazia, la gratuità. Ho cominciato a tallonare Fabrizio Gifuni a marzo. No, non m’importava tanto l’attore ‘da grande schermo’, come si dice (Gifuni, chi non lo sa?, è il viso di film importanti come L’amore probabilmente, Il partigiano Johnny, La meglio gioventù, Il capitale umano, Fai bei sogni), o il talento per la fiction (sulla Rai lo abbiamo visto di recente interpretare Pippo Fava in Prima che la notte, diretto da Daniele Vicari). Di Gifuni m’interessava, intanto, il lettore. Intransigente. Quello che ha valicato l’opera di Carlo Emilio Gadda, di Pasolini, di Albert Camus, di Julio Cortázar, di Cesare Pavese, di Giovanni Testori e, ultimamente (al Franco Parenti, il 10 giugno scorso), di Giorgio Caproni, e che per questo ‘Tor Vergata’ ha onorato, a maggio, con la Laurea honoris causa in Letteratura italiana. Così, mi metto nelle sue tracce. Soprattutto perché Gifuni è il protagonista di uno degli spettacoli teatrali più importanti della stagione. Freud o l’interpretazione dei sogni. Scrive Stefano Massini, dirige Federico Tiezzi, in scena, al Piccolo, a fare il dottor Sigmund, Fabrizio Gifuni. “Sette settimane di repliche tutte esaurite”, specifica Gifuni, per quasi 40mila spettatori. Un evento. Così, appunto, da giornalista flâneur, che fiuta cultura ad ogni latitudine e spacca le pietre cavandone versi, fermo Gifuni. Ma lui non si fa fermare. Prima è malato, poi è al Salone del Libro – legge Aldo Moro – poi mette il muso in Caproni. Come il giaguaro sull’albero, attendo senza sonnecchiare. Posticipiamo a maggio, poi a giugno. Poi penso, beh, ha di meglio da fare, ovvio. E dopo l’attesa, la grazia, gratuita. Gifuni arriva. “Mi scuso ancora per l’attesa. Finalmente con un minimo di mente sgombra”. Lo davo per perduto – mi ha sorpreso. Questo per dire il tiro dell’uomo. La generosità è un dono così caro, docile, raro, ora, quando, giornalisticamente, hai a che fare con troppa gente troppo occupata da se stessa per capire il diamante delle relazioni, il nitore di chi ha davanti. La prossima stagione Gifuni tornerà al Piccolo, a Milano, dal 22 al 25 novembre, con Concerto per Amleto; ora, a sgranchire la mente dalla fatica teatrale, mi scrive, “curo, con Natalia Di Iorio, la stagione teatrale del teatro Garibaldi di Lucera, una bellissima cittadina pugliese – dimora per anni di Federico II – da cui provengono una parte importante delle mie radici. In questi giorni sto lavorando alla programmazione della prossima stagione”. L’uomo che è stato Freud per sette settimane. Mi sembra un buon titolo per un racconto. (d.b.)
“L’interpretazione dei sogni” è “una Bibbia della nostra contemporaneità”. Lo scrive Stefano Massini. Lei è attore da letture forti, fortissime. La pensa allo stesso modo?
Non scomoderei la Bibbia, nonostante Freud la conoscesse a menadito. L’interpretazione dei sogni è senz’altro un libro cardine del ’900. Lo è stato sicuramente per Freud che iniziò a scriverlo per esorcizzare la morte di suo padre, attraverso un lavoro di autoanalisi dei propri sogni e successivamente di quelli dei suoi pazienti. Col tempo Die traumdeutung diventerà un formidabile ordigno per la cultura europea. Un testo costruito con grande abilità che servirà a Freud per scaraventare la teoria psicanalitica sulla scena mondiale, ma destinato anche ad avere un fortissimo influsso su tutta l’arte e gli studi antropologici del ’900: scrittori, drammaturghi, pittori, musicisti ne verranno definitivamente attratti modificando in molti casi il loro approccio al gesto espressivo. L’intuizione di Freud per molti si rivelerà decisiva. Aver squarciato il velo mettendo al centro del dibattito sull’uomo la terra emersa dell’inconscio, con tutte le implicazioni, successivamente sviluppate, sull’ambiguità del linguaggio, contribuirà in maniera definitiva a fare di questo scienziato uno dei pensatori più interessanti del secolo scorso. Per questo credo che aver pensato di scrivere un testo teatrale su L’interpretazione dei sogni di Freud e portarlo in scena sia stata una grande intuizione.
Fabrizio Gifuni è stato Sigmund Freud in “Freud o l’interpretazione dei sogni”, l’evento teatrale della scorsa stagione (photo Masiar Pasquali)
Come è entrato in Freud? O meglio: come è entrato Freud in lei? Si è imbevuto di ‘fonti’ particolari, quali? Cosa ha scoperto, interpretandolo, di Freud che le era oscuro?
Sono partito da una suggestione reale: l’inaspettata e potente fragilità da cui Freud era dominato negli anni in cui lavorava al libro. In una lettera al suo collega Fleiss – uno spregiudicato e geniale otorinolaringoiatra che conduceva spericolati esperimenti sulle cavità nasali – Freud si paragona a Giacobbe, figlio di Isacco, azzoppato per sempre dall’angelo dopo un’estenuante lotta durata fino all’aurora. E conclude la sua lettera scrivendo: “Bene, ora ho 44 anni e sono un vecchio israelita piuttosto meschino”. Un’immagine molto lontana da quella dello scienziato sicuro di sé e delle sue scoperte che avanza lancia in resta verso un radioso avvenire di fama e celebrità. Ci rivela piuttosto un uomo ferito pienamente consapevole della sua fallibilità e anche della sua hybris prometeica: rubare il fuoco agli dei – in questo caso il segreto dei sogni – non è cosa da semidei figurarsi da uomini. Per quel che riguarda le fonti ho cercato come faccio sempre di documentarmi il più possibile sui testi cercando, data l’enorme mole, di non lasciarmi troppo schiacciare dal peso. Una biografia di Freud di Elisabeth Roudinesco mi è stata molto utile e naturalmente molti testi freudiani. Ho seguito una mia traccia personale; poi ho cercato di abbandonarmi, mettendo a disposizione il mio corpo e le mie fragilità. Il Gioco è stata un’altra delle chiavi d’accesso allo spettacolo. Una delle chiavi del mio lavoro, la ricerca dell’abbandono attraverso il gioco che coincide in parte con la ricerca di un’infanzia perduta, in questo caso coincideva anche con l’essenza del mito inseguito da Freud: solo chi risolve un indovinello può salvare la città. Solo chi sa giocare meglio degli altri resta in vita, altrimenti la sfinge lo inghiotte. Cosa ho scoperto? Molte cose dell’uomo Freud, qualcosa del suo rapporto con i pazienti. La lotta di una mente laica a cospetto del Mistero. Il confronto aspro con la rimozione, l’accettazione dei propri limiti e del proprio fallimento. “Fallire sempre, fallire meglio” diceva Beckett. E con lui Giacometti mentre tentava invano di scolpire una testa.
Parlo, sempre, al lettore ‘forte’. Esiste l’anima o siamo succubi dell’inconscio? Siamo, noi umani, solo una malattia ambulante trafitta da rimorsi e da desideri smangiati? Cosa la conquista di Freud, cosa non la convince?
Personalmente non vedo un’opposizione. Credo che esista un’anima che ci preceda ma credo allo stesso tempo che esista un luogo istituito dalla rimozione che possiamo, dopo Freud, chiamare inconscio. Siamo sufficientemente adulti per poter ammettere, volendo, l’esistenza di entrambe. Mi conquista di Freud il suo continuo tornare, nel corso della sua vita, sulle apparenti certezze raggiunte, senza temere di smentirsi, modificando le sue teorie, rimettendole in discussione. Cercare di trasformare la ‘malattia’ e le ferite in energia luminosa. Mi colpisce che molte delle sue prime pazienti isteriche diventarono importanti psicanaliste. Mi convince meno, ma è un discorso che non riguarda solo Freud, una certa ortodossia di pensiero a cui fatalmente certe intuizioni sembrano sempre destinate come forma di difesa. Penso che chi attraversa certi territori, qualsiasi sia il suo credo, sia sempre al confine di una riflessione mistica e quindi destinato a restare in bilico accettando lo strapiombo. Del resto sappiamo oggi attraverso le sue lettere che Madre Teresa continuò a dubitare in silenzio dell’esistenza di Dio fino all’ultimo istante della sua vita esattamente come Freud si allenava a dubitare fino all’ultimo delle sue teorie.
Pasolini, Gadda, Camus, Cortázar, Pavese… cito alcuni autori che ha attraversato e portato sulla scena. In quale autore vorrebbe lavorare, ora? Che tipo di linguaggio preferisce?
Continuerò senz’altro a lavorare su quegli autori che hanno saputo mettere in campo una lingua forte, necessariamente eversiva, incendiaria, rispetto al proprio tempo. I grandi sperimentatori che hanno allargato le maglie della propria lingua, esondando la letteratura, sfidando spesso le convenzioni, senza temere l’isolamento. È un viaggio teatrale entusiasmante, impagabile, che ho iniziato quindici anni fa con il mio primo spettacolo – ‘Na specie de cadavere lunghissimo – che ha dato vita fra l’altro a un lungo sodalizio con un grande uomo di teatro, di cinema e di poesia che è stato Giuseppe Bertolucci. Dopo quello spettacolo ho sentito che mettermi addosso le parole di grandi autori, inventando per la scena nuove drammaturgie teatrali da condividere col pubblico, era un viaggio di conoscenza che scatenava la fantasia, metteva alla prova il mio corpo, sfinendolo fino a liberarlo. Qualcosa che mi emozionava, mi divertiva e mi corrispondeva. Cosa volere di più?
Il teatro ha ancora un ruolo ‘politico’? A chi parla, oggi, il teatro?
Il teatro ha un ruolo politico per statuto, sempre, se e quando riesce a instaurare un rapporto reale, fisico, con la polis. Credo che l’incontro dei corpi in un tempo sospeso come quello teatrale continui e continuerà ad avere una sua meravigliosa e segreta urgenza pronta a deflagrare in uno spazio, e credo anche che l’esperienza del teatro diventi sempre più forte, gioiosa e liberatoria in tempi come questi in cui vorrebbero farci credere che i corpi non esistono più. Quando in un teatro succede realmente qualcosa, il gioco torna a fare lo sgambetto all’odiosa e cupa attualità, ci aiuta non poco a sopportare le storture della storia e di noi stessi, ci avvicina alla parola poetica. Senza alcuna retorica ci rende migliori. Il teatro è politico quando difende la bellezza sfidando il tragico in tutte le sue forme. Decidere di inaugurare il Salone del libro di Torino leggendo per un’ora e quaranta le parole del Memoriale e delle lettere di Aldo Moro dalla prigionia, sfidando uno dei più pericolosi imperativi del nostro tempo – semplificare semplificare semplificare – a favore della complessità del ragionamento, è un gesto deliberatamente politico. Scegliere ogni volta i testi e le parole da cui farmi investire, leggere Caproni in teatro, come ho fatto poche settimane fa, far suonare i suoi versi lievi e profondissimi, è il mio modo di fare politica.
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ADDIO GIN-GILLO - MUORE A 107 ANNI DORFLES, TEORICO E CRITICO DELL’ARTE, UNO CHE SI È PRESO IL LUSSO DI SPERIMENTARE DI TUTTO, DALLA MEDICINA ALLA FILOSOFIA, L'ARCHITETTURA, L'ARTE, LA MUSICA, LA MODA. È STATO LUCIDO E ATTIVO FINO ALL’ULTIMO MOMENTO. LE SUE CONDIZIONI ERANO PEGGIORATE NELLE SCORSE 24 ORE - L'INTERVISTA A CAZZULLO, 3 SETTIMANE FA: LE PARTITE A BOCCE CON SVEVO, SABA BURBERO, TOSCANINI CHE "AMAVA LE DONNE, ANCHE TROPPO" E LA ROTTURA CON MONTALE
MORTO A MILANO GILLO DORFLES
(ANSA) - Il mondo dell'arte piange Gillo Dorfles, teorico e critico d'arte attivo anche come artista, morto stamani nella sua casa a Milano. A renderlo noto è stato il nipote spiegando che le condizioni fisiche dell'artista erano peggiorate nelle ultime 24 ore. Nato a Trieste nel 1910, Dorfles avrebbe compiuto 108 anni in aprile.
ADDIO A DORFLES, 107 ANNI GUARDANDO SEMPRE AL FUTURO - "L'ARTE È L'UNICA PASSIONE A CUI SONO RIMASTO FEDELE"
Silvia Lambertucci per l’ANSA
Quando era nato, nel 1910, la sua Trieste faceva parte dell'Impero austro ungarico. In una vita che ha superato alla grande e non di poco i cento anni (ne aveva compiuti 107 il 12 aprile), Gillo Dorfles, scomparso oggi a Milano, si e' preso il lusso di sperimentare di tutto, dalla medicina alla filosofia, l'arte, l'architettura, la musica, la moda. E ha conosciuto praticamente tutti, da Italo Svevo quando era impiegato in una fabbrica di vernici a Eugenio Montale di cui era intimo, fino a Lucio Fontana, che ha contribuito a lanciare. Ha preso il caffé con Cesare Pavese e battibeccato con Salvatore Quasimodo, e' stato ospite di Frank Lloyd Wright e amico personale di Renzo Piano.
Ma soprattutto ha avuto la fortuna e la forza di essere incredibilmente lucido e attivo fino all'ultimo, tanto da partecipare a metà gennaio alla Triennale all'inaugurazione di Vitriol, una personale dedicata ai disegni realizzati tra il 2010 e il 2016. In parte sarà stata una questione di dna, certo. Come per quel suo corpo magrissimo e per quella sua splendida faccia, scolpita dalle rughe. Ma il suo segreto, forse proprio l'elisir che gli ha garantito una cosi' lunga e bella vita, e' sicuramente nella passione e nella curiosità per il mondo e per il presente, nella capacita' di essere 'contemporaneo' fino al midollo, senza cedimenti.
''Ho dimenticato meta' secolo e sto dimenticando l'altra meta' perche' voglio vivere nel futuro'', rispondeva pacato, qualche tempo fa ad un intervistatore che aveva fatto l'errore di ricordargli l'età. Arte, gusto, miti, mode: decano dei critici italiani e lui stesso pittore di talento, Dorfles e' stato uno straordinario testimone e protagonista del Novecento e oltre.
Nato a Trieste da padre goriziano e madre genovese, laureato in medicina e specializzato in psichiatria, una grande passione anche per i cavalli, Angelo detto 'Gillo' ha da subito preferito l'attività di pittore e l'impegno come critico e studioso d'arte, che lo ha portato poi ad insegnare estetica nelle Università di Firenze, Trieste, Venezia e Milano: ''L'arte e' l'unica passione a cui sono rimasto sempre fedele, sin dalle prime folgorazioni dell'astrattismo di Klee e di Kandinsky'', ha ripetuto spesso.
Anche se l'interesse per la psichiatria, le sue letture attente di Jung e Rudolf Steiner, rimarranno una sorta di filo conduttore in molti suoi scritti. Nel 1948, insieme con Atanasio Soldati, Gianni Monnet e Bruno Munari, e' stato tra i fondatori del Mac - Movimento per l'arte concreta e nel 1956 ha contribuito alla realizzazione dell'Adi (Associazione per il disegno industriale).
La sua bibliografia e' sterminata come i suoi interessi. In tanti decenni di attività ha scritto monografie di artisti (da Bosch fino a Toti Scialoja), ha pubblicato studi sull'architettura e un saggio che ha fatto epoca sul disegno industriale (Il disegno industriale e la sua estetica, 1963). Con un libro diventato un cult ha insegnato agli italiani cos'e' il kitsch (Il Kitsch, antologia del cattivo gusto, 1968).
E nel 2012, a 45 anni di distanza dall'uscita di quel testo che fu una pietra miliare per comprendere l'evoluzione del cattivo gusto nell'arte moderna, la Triennale di Milano gli ha reso omaggio con una mostra (Gillo Dorfles. Kitsch oggi il Kitsch) per descrivere il fenomeno in tutte le sue più recenti articolazioni. Non solo un testimone, insomma. Ponendosi come figura trasversale e non canonica, Dorfles ha contributo in maniera sostanziale al rinnovamento nel dopoguerra dell'estetica italiana, del modo di vedere l'arte e la produzione di oggetti del nostro tempo, attento alla fotografia come alla pubblicità, spesso provando ad affrontare l'aspetto socio-antropologico dei fenomeni estetici e culturali, facendo ricorso anche agli strumenti della linguistica.
Accademico onorario di Brera, Fellow della World Academy of Art and Sciences, Dottore honoris causa del Politecnico di Milano e dell'Universitad Autonoma di Citta' del Messico, ha ricevuto tantissimi premi, dal Compasso d'oro dell'associazione per il design industriale (ADI) al Premio della critica internazionale di Girona, Matchette Award for Aesthetics. Negli ultimi tempi si era concentrato sulla passione per l'alchimia, suo vecchio pallino.
Vitriol, l'enigmatico personaggio che aveva inventato nel 2010 e che ha dato il titolo all'ultima rassegna della Triennale, nasconde nel suo nome uno degli acronimi più usati dagli alchimisti. "Ognuno deve costruirsi il suo Vitriol", spiegava paziente al cronista, "la ricerca della Pietra Filosofale è quella del mistero che sta alla base della vita". La sua, confidava, la vedeva come una pietra "piccola, poco pesante". E forse, chissà, alla fine l'ha anche trovata.
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