#Disperazione materna
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Il bambino segreto di Antonio Pagliaro. Recensione di Alessandria today
Il bambino segreto è un thriller psicologico che cattura il lettore fin dalle prime righe, intrecciando una trama densa di suspense con un’esplorazione profonda e inquietante dei segreti familiari. Con una valutazione media di 3,5 stelle su 5 basata su 472 voti, il romanzo si presenta come un’opera capace di dividere il pubblico, ma indiscutibilmente intensa e ben costruita per gli amanti del…
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𝓝𝓸𝓼𝓽𝓪𝓵𝓰𝓲𝓪
Era nata in un fresco e ventoso giorno di primavera, alla base di un muretto bianco sporco, circondata da eleganti orchidee, dolci camelie rosa e piccole erbacce fastidiose. Il glicine ancora invadeva il tetto della casa, creando un ombroso tendone di fiori e tralicci, divino da vedere quando in fiore e desolante durante il freddo inverno distruttore.
Piccola e insignificante, una singola cicatrice sul naso e i capelli castani sciolti e scarmigliati; figlia di un’età di giochi, di primi approcci con la tanto amata campagna, di sogni fallaci e di ancor più fallaci aspettative su quel luogo. Ma il tempo è passato anche per lei, le cicatrici rosacee sono aumentate sfregiandole il viso armonioso e la giovane nostalgia è ormai carica di lacrime e ricordi. Io però la amo, amo le sue carezze calde e l’odore pungente simile a quello dei limoni, misto all’erba bagnata, amo il suo volto serafico con quel sorriso enigmatico che riesce sempre a scacciare le preoccupazioni, ma più di tutto amo la sua presenza nella mia vita, l’unica che riesce sempre a colmare le mancanze. Quando siamo sole mi invita sui rami del vecchio ciliegio, lascia che io poggi la testa sulla sua spalla e leva in alto quel tomo di pelle che inebria l’aria con il profumo dei ricordi, iniziando a leggere con voce profonda mentre Orfeo, privo di capo e con le dita insanguinate che stringono la lira, reclama il mio sonno. La nostalgia è sempre stata incredibilmente gentile e materna nei miei confronti, forse per sostituire l’assenza emotiva e fisica di quel demone, condizionato da un’infanzia priva di amore e riconoscimenti, che ha sempre faticato a trattarmi come una figlia; lei invece mi accarezza i capelli mentre lentamente poggia il tomo e inizia a canticchiare, una di quelle melodie impresse nell’animo ma sempre prive di nome. Il tempo non passa, il sole non si azzarda a calare più di un confortevole tramonto, illuminando il triste e grigio capannone ormai vuoto e lo spiazzo d’erba un tempo casa di alberi da frutto. Anche il glicine è ormai sparito, strappato dall’indifferenza e dalla mancata attenzione al piccolo angolo di paradiso che nessuno ha mai saputo apprezzare abbastanza, e le orchidee crescono indisturbate, rompendo gli ordinati schemi che per molti anni le avevano tenute in riga. Quando poi sente la spalla inumidita dalle lacrime, lei sa bene cosa fare, e mi stringe ancora più forte, ancora più vicina, costringendomi a sentire quel profumo maledetto che l’avvolge da sempre, la disperazione dell’abbandono e la consapevolezza di aver perso tutto quanto per sempre. Il demone dagli occhi vitrei, la tanto discussa forza di volontà, mi osserva dai piedi dell’albero, scuotendo il capo in totale disapprovazione; non ama la nostalgia, la reputa distruttiva e ingannevole, e non vuole che io le stia così vicina perché a sua detta, non vuole perdermi per qualcosa che ormai non esiste più. Si conoscono perfettamente, e ogni volta che l’esile figura bianca guarda quel ciliegio sente di nuovo il solido ginocchio della nostalgia sul petto, che la spinge a terra e preme con forza per toglierle il respiro, senza provare il minimo rimorso per le azioni distruttive. Tutto ciò che vede è il viso arrossato solcato da cicatrici, i capelli sciolti dal tanto ordinato mollettone che ricadono in avanti mentre ancora una volta sente i forti calci contro lo sterno e le costole, umiliata e massacrata ancora una volta dai primordiali sentimenti. Non si cura nemmeno più di rattoppare gli strappi sull’abito lurido, tira semplicemente avanti, ad oltranza, finché qualcuno di più forte non le si palesi davanti per spingerla ancora a terra, per costringerla di nuovo in ginocchio, a pregare per la salvezza proprio come una triste madonna penitente. La continua richiesta di lasciarmi tutto alle spalle, di fingere che il passato non sia mai esistito e di investire tutto sul futuro mi sembra estremamente egoista, eppure tutti continuano a dirmi che le mie stupide mancanze colme di rimpianto causano sono problemi e che una vita improntata al nuovo possa solo giovarmi. Mi pento di non aver mai rotto quel vaso a terra, forse avrei potuto cambiare qualcosa.
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C’è luce ponente su Aracoeli, l’ultimo romanzo della vita (e della morte, della quale ispirazione e testo sono intrisi) di Elsa Morante. Ponente, occidente, calante, nello specchio di sofferenza reale della scrittrice, e però mai fioca. Critica, certo, avveduta e più o meno distante per palato dalle atmosfere bianco e nere della immensa narratrice nelle quali l’esplosione è calor bianco e la notte pura tenebra, ne ha scritto annusandovi degrado sociale e umano, decostruzione fosca, disperazione. Romanzo fra i più sofferti e oscuri di Elsa Morante, edito da Einaudi, Aracoeli (392 pagine, ) possiede nei geni e nella fioritura, questi e quella. Però depista, in irti infiniti singulti stilistici come in piene vampate di luce lontana – tanto più remota e impalpabile, quanto più violenta e vera – nella ricerca labirintica di causa ed effetto, brace generatrice o cenere residua. Presupposto emotivo o risultato sciolto magari nel pianto, come quello che prelude al finale, del protagonista. Il degrado è ciò che si vede, ciò che è reale. Non tutto.
Un figlio, una madre
Questi, il protagonista monologante, è un uomo che ha scavalcato i quaranta, bambino insoluto; è un omosessuale in forma idolatra febbricitante incurante di sé, anzi assetato del sistematico maltrattamento e abbandono, però non incarna una novella di genere o di pienezza identitaria; è borghese (per le strade dell’Italia della contestazione e degli anni di piombo, dopo essere stato bambino negli anni del fascismo e della guerra) come spesso indulge ad autoflagellarsi, nauseato e alla propria nausea irresolubilmente incollato; è un figlio. E infine maledice la madre, unica, perduta però perenne fonte di amore. Insurrogabile e compulsivamente surrogata.
C’è molto, troppo, in questa opera che viaggia da labirinti incurvati dentro, da un periodare a tratti oscuro e sofferto, oppure spicca voli di autenticità affettiva che il fiato lo mozzano fino alla commozione, tirato e risparmiato per il prossimo, imminente, allungo di quel monologo interiore che s’inganna senza mai credere pienamente al tranello. Ai mille tranelli ai quali Kafka dava i sembianti di bivi inforcati i quali solo un punto d’arrivo è certo: il non ritorno. Che Elsa Morante amasse e conoscesse gli stretti passaggi alla luce tagliente – e possibilmente mai visibile – del genio boemo, era noto. Dagli esercizi di stile nel racconto L’uomo dagli occhiali, fino a certe estenuanti cacce d’Arianna appresso al filo spezzato della ragione e della topografia in Menzogna e sortilegio. Qui, a rendere tributo naturale, antimitica e sgorgante, è la visione del castelluccio andaluso ai piedi del quale Manuele-Manuelito, sulle piste dell’infanzia della madre due volte abbandonatrice – la prima, con la fuga dalla casa di famiglia, la seconda con la morte addenda del disfacimento del sepolcro bombardato del Verano – frena il passo già strascicato, per concludere presto che quella pietra non ha più valore ed è come un pozzo secco senza soffitto. Passa oltre, senza tuttavia riuscire a districarsi per davvero dalla lanugine di memoria falsa e trucemente emotiva che lo guida e tradisce e infine determina: nessuna storia, neppure la più vera, è reale, ma immaginaria.
L’originale narrativa del doppio
È qui che si innesta l’originale narrativa del doppio apparentata con i più grandi del secolo passato e di quello ancora prima, che rende Manuele-Manuelito sosia dostoevskijano e anacronistico di un altro Manuel, il fratello della madre andalusa morto giovanissimo nella guerra civile spagnola, combattendo Franco “dalla parte sbagliata” rispetto alle credenze e alle icone valoriali di famiglia. Rispetto al Sosia del russo, qui l’incarnazione non si concreta nella parodia cattiva e moralmente sghemba del proprio uguale, ma nello specchio bello dell’idealizzazione infantile, immutabile. Resta cenere, cartoline postume e, soprattutto, i piedi incatenati alla “parte sbagliata”: fuori della politica e della storia, nell’esistenza. Manuele, pure agli occhi dei suoi idolatrati-odiati maschi rivoluzionari che in quegli anni in Italia profetizzano la fine del capitalismo borghese, che di lui usano e fanno trascurabile pattume (salvo poi incravattarsi e smaltire gli eccessi antagonisti in formazioni moderate e dimostrare che poi cotanti maschi integerrimi non sarebbero mai potuti essere) è dalla “parte sbagliata”: è un borghese, uno stigma più che un male. Così arriva la confessione trasognata di possedere un’intelligenza e non essere in grado di usarla, la castrazione quotidiana dietro la siccità dall’altra parte di una diga che, a monte, trabocca di bisogno e capacità di affetto annegata. La tematica psicanalitica è talmente rimbombante da impallidire nel proprio verbo davanti alla sua stessa, agnostica, drammatica stesura esistenziale, che la precede e le sopravvive. E finisce essa stessa in platea, da stipite a chiave confusa dentro un mazzo d’altre cento.
Il doppio fallito, doppio anche nel sembiante, come esplicazione sana ma naufragata del passaggio dall’infanzia gelosa alla maturità consapevole: incarnazione impossibile. Encarnación si chiama la sorellina morta prematuramente, che costa all’andalusa Aracoeli, la Madre, una spossata depressione fatale. Poi sarà un cancro alla testa – ma qui Manuele non assentirà mai, asseverando sapendo di mentire la versione odiosa che gli salva la sopravvivenza ma non la vita, della bestialità materna – ne minerà e stravolgerà la condotta e le vibrazioni fino a farla diventare preda ninfomane del primo venuto prima, prostituta poi.
Non finisce nel turbine folle del monologo interiore schnitzleriano, Manuel: non usa l’intelligenza oppure, quando ciò accade, lo fa volontariamente in modo stolto. Autoinfliggendosi sonno e dolore plastico, attraverso alcol, narcotici che sostituiscono, con l’età, le piccole mutilazioni corporali: è quel che resta del doppio, la cui caratteristica fondamentale è travolgere anche l’uno quando esso, di per sé, arriva alla disintegrazione. Ed ecco, allora, aggirarsi per le strade di notte in caccia compulsiva di fugaci schiavitù sessuali o nella Sierra andalusa polverosa, l’uno frantumato, orfano della propria integrità paradisiaca, doppia. Lo zio è la stessa madre, ne ha il viso irripetibile e uguale, maschio tecnico di una femmina di acciaio lucente, come la vite dentro il dado.
Senza meta e senza metà
Si aggira senza meta e senza metà, questo Pasolini parziale privato senza qualità, che in questo caso è invece tutto se stesso: incapace di essere di più, di vedersi meglio, di fare poesia e trasudare sofferenza per provare a cambiare, se non se stesso, la realtà circostante. Ma come fare, se è immaginario tutto, pure il vero? Se nulla ha davvero valore, neppure la stessa vita? Ecco allora che l’uomo, il ragazzo di vita diventa straniero camusiano, disinteressato alla propria sorte non scorgendone neanche il più remoto orizzonte; però, a differenza di quello, sente dolore, quella fitta che scava invisibilmente la faringe, quel giorno a San Lorenzo, a trovare, per l’ultima volta il padre a propria volta azzerato, per bucare il palloncino molle del pianto dirotto. Degrado sociale, effetto e successione temporale della stessa idra, la realtà-illusione. Senza qualità… Manuelito attraverso Morante sovverte Musil e il suo “centro inesistente” della sua prammatica e filosofia narrativa. Dimostra che essere inesistenti bacia senza vergogna l’essere reali. La carne neonata vagheggiata ridiventa senza passaggi gloriosi legno di burattino pensante. Uno sberleffo alla dialettica conosciuta, al doppio rassicurato dalla rivelazione sacra o dalla realizzazione positiva: blocchi di partenza ritardata, piantati lì da sempre. Il centro fiacco è un turbine arrugginito, è l’uomo stesso che sembra sillabare Gino Paoli, e dire che lui è ancora lì, nelle sue mutande: non roccia resistente ma morena stanca. Ironia del tempo contro il tempo.
Sdoppiato smezzato straziato
La società italiana durante e subito dopo le acri lotte politiche degli anni Settanta: c’è l’Odore di Parise e la sua signora vittima del vuoto questuante e della violenza che genera, nelle nubi grevi di temporale; c’è Morante e il suo uomo sdoppiato smezzato straziato, sulla punta del parafulmine di quella scarica estrema che dà fuoco al sangue con benzine avvelenate di colpa e di elemosina, e di violenza brutale che schernisce, quasi invocata, nell’entropia mortale fra testo e contenuto delle vite, delle relazioni, delle chimiche fra vittime e carnefici. Di tale sacrificalità, Manuele-Manuelito è agglutinato e catalizzatore: a Girard non sarebbe sfuggito neppure uno di quelli che egli chiamò “segni vittimari” che recano all’accerchiamento, reale in antropologia ma qui immaginato e dunque non meno reale, e al sacrificio. Figlio della colpa sanata poi legittimo figlio di uno stimato e poi rovinato comandante della regia Marina; miope, inadatto a giudicare il proprio specchio frantumato dal proprio meaculpa interiore e dal bisogno di amore e, all’infinito, di madre. O forse di padre, come rivelano le righe finali. Si cerca il superfluo quando manca il necessario. Soprattutto, lui è “borghese”. Fuori posto.
C’è Collodi nello straziante giuoco che si fanno di lui i due vagabondi che bendano il piccolo Manuele convinto di essere davanti a un tribunale partigiano. E lo condannano, salvo poi lasciarlo senza colpa e senza espiazione. Senza niente. Lì la nube di violenza brutale si addensa senza prorompere, il patetico trasmuta in lirico, il limbo in tela di ragno perenne dei pensieri e degli aneliti. Ma Gatto e Volpe hanno scopo, i due renitenti vagabondi no. Sono due facce del vuoto, del ponte saltato che separa, ormai d’aria vuota, il bisogno dalla possibilità di ottenere, il diritto naturale all’affetto dalla stessa vita. Alla prosa di Elsa Morante il lettore è abilitato a spaccare, da automa fascinato, il capello senza sforzo, è anzi quel capello che da sé si apre in mille significati e riempie l’intelletto e l’animo di un’immensità letteraria che è ogni volta bocciolo. Disperazione senza fine. Da leggersi, con l’ironia dell’intelligenza morantiana: la disperazione è dipinta, la fine mai. Fosca, abbacinante: c’è Morante.
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Bambini della scuola materna sul pulmino che li riporta a casa:
Bambina 1: .... Non piangere che poi sei brutta!
Bambina 2: MI HA DETTO CHE SONO BRUTTA!!!!!
pianti, lacrime e disperazione.
Io:
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né carne né pesce
Mangiavo in una trattoria di via Panisperna, dove avevo anche la legatoria, nella quale maestro e allievi erano di una bontà, di uno scrupolo di mestiere illimitati. Farsi rilegare un libro era come ricevere una carezza materna, in quella bottega, naturalmente sparita. La trattoria c'è tuttora, il proprietario andava dal cliente con questa prospettiva canora: "Oggi la vuole la gallina bella-bella?" Il cameriere, romagnolo, mi scherniva: "Ma cosa Le diamo un formaggino Mio?" Niente mi ripugna più del pollo, in qualunque modo cucinato, eccetto il pesce di cui mi ripugna perfino, in italiano, il suono della parola (specie quando c'è chi pronuncia marcatamente: ppe-sce, subito pare ti arrivino in bocca delle squame viscide che friggono mentre fish, poisson, pescado, ichtys ec. non mi danno allergia acustica, li lascio ai loro committenti, sempre molto apprezzati dai camerieri perché il piatto è caro). "Non mangi neppure il PESCE?" "Noooo! Mi fa sch..." Guardami: che cosa ho di affine con l'elemento acquatico? Pulvis et umbra sum, sono nato e vissuto lontano dal mare, neppure mi affacciavo su fiumi, il mio segno è terra su terra... "Allora, le patate?" Le patate sono il pane della disperazione, rendono idioti, faremo ancora guerre per le patate perché faute de pain bondance de couteau (Nostradamus) me ne basta una ogni tanto, cotta al vapore. Oh i popoli che mangano patate e bevono, sulla patata, la BIRRA! Oh gli sventurati mangiatori di chips! La bocca salata e asciutta, margarina prosciugata, e giù biraaaaa! Da stomachi in rovina che cosa può venire di buono? Purtroppo, in via Panisperna e altrove, ero solito trangugiare una bottiglietta di birra, e uscito di là, in una pasticceria di via Nazionale, anche un piccolo indigesto dolce al cioccolato, tutto zucchero e strutto. Tracce d'impurità carnivora mi restavano e ogni tanto, ancora, ordinavo della carne con un po' di cipolla, cessai del tutto ogni necrofagia soltanto nel Settanta, mi pare, da allora non ho più toccato nutrimento cadaverico, qualunque fosse la tecnica o il rituale di strage. Se si voglia vivere secondo un codice etico decente non dovrà esserci sulla via che percorriamo nessuna ombra di mattatoio. da G. Ceronetti, La pazienza dell'arrostito
#citazioni#ceronetti#guido ceronetti#carne#pesce#pazienza dell'arrostito#vegetariano#birra#patate#chips
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10
Era cresciuto con una figura materna ingombrante, e di conseguenza per tutta la vita si era circondato di donne. Abituato fin dalla più tenera età a gestire le seduzioni della madre, anticiparne i desideri, comprenderne gli stati d'animo volubili, accoglierne i terribili abissi, con le donne ci sapeva fare, senza farlo apposta e talvolta suo malgrado: in molte si innamoravano di lui. E quasi tutte finivano per odiarlo, disgustate dalla sua profonda assenza, dal suo essere inafferrabile, troppo bravo a comprenderle ma come sottratto al mondo, mai veramente presente. Tuttavia, per la stessa ragione, non riuscivano a lasciarlo. Accanto a lui, e con sommo orrore di lui, scivolavano in una spirale di rabbia e disperazione che si protraeva talvolta per mesi o anni. Anche lui, comunque, si innamorava: spesso e profondamente, esattamente con gli stessi risultati. Si sposò giovane, forse nel tentativo di mettere fine a quella proliferazione di amori irrimediabilmente destinati alla catastrofe, e per qualche anno la patina di una relazione legalmente riconosciuta lo mise al riparo dalla distruzione che lui stesso non poteva fare a meno di portare con sé. Ma nemmeno quello durò: un giorno si innamorò di un'altra donna, più giovane di sua moglie, soprattutto diversa da sua moglie. Continuava ad amare sua moglie dello stesso amore intenso di prima, ma amava anche questa donna diversa, e siccome questa donna diversa gli si offriva, come tante si erano offerte prima, lui sentì che non poteva resistere a quell'offerta, perché come si può resistere alla bellezza di un fiore? Come si può essere sordi alla tentazione di un piacere, di una seduzione, di quella possibilità che viene incarnata dal femminile? Così lasciò sua moglie ma senza smettere di amarla. E visse con l'altra donna amandole entrambe, finché lei non gli pose un aut aut: o me o tua moglie. Ma lui non poteva scegliere, non davvero, e così andò a stare da solo in un monolocale squallido mangiando noodles precotti mentre cercava di pensare a cosa fare della sua vita. Passò il tempo e l'amore e il desiderio che provava per entrambe le donne continuò a crescere, invece che diminuire. Arrivò quasi al limite della follia, ma comprese infine che non poteva scegliere, che la risposta era nella domanda. Scrisse una lettera a entrambe le donne e disse loro che non poteva scegliere: le amava troppo entrambe e proponeva di andare a vivere tutti e tre insieme. La discussione che seguì fu atroce, richiese settimane di pianti e urla ma alla fine entrambe acconsentirono e la donna più giovane si trasferì a casa sua e di sua moglie. Con sua sorpresa socoprì che le due donne andavano d'accordo tra di loro, ma con sorpresa ancora più grande, quel genere di sorprese che arrivano non inaspettate ma come conferme di qualcosa che si era sempre saputo, scoprì anche che il loro accordo era fondato su un odio condiviso per lui: per la situazione assurda nella quale le aveva costrette, per l'umiliazione che infliggeva ogni giorno a entrambe, per la sua incapacità di concedersi pienamente e allo stesso tempo per quell'inspiegabile desiderio che le teneva legate a lui e che più le legava più le portava ad odiarsi e a odiarlo. Così la vita dell'uomo diventò un inferno: l'inferno, in fondo, che aveva sempre voluto. Nella notte, mentre dormiva sul divano, nell'unico momento in cui non sentiva le voci delle due donne accusarlo, recriminare, lamentarsi, insultarlo, piangere, disperarsi, l'uomo sognava la morte, che immaginava come un luogo del tutto uguale alla vita ma in cui non esistevano esseri femminili.
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enero 2021
01
Su crecimiento es lento:
no hay árbol instantáneo,
ni reloj alguno con fechas de entrega
se ha visto nunca
en su tranquilo calendario
ni en sus ramas ávidas
tan sólo de espacio, viento,
agua y tiempo
Blanca Luz Pulido
[México]
02
Dove nascondermi,
se
io
stessa
mi inseguo?
Nguyễn Phan Quế Mai
[Việt Nam]
03
cada latido
es un autoataque:
el corazón golpea contra el corazón
con el árbol
ocurre algo distinto
su corazón
por encima del agua corrompida
es fuego meditativo
hambre congelada
Yenny León
[Colombia]
4
te stesse, me medessimo
nel vortice delle ere e i ripidi
movimento del tuo lungo persistere
come una pura possibilità;
un gesto che significa per sé
e che non chiede il permesso di esistere
a nessun altro che a sé stesso, se.
Stefano Strazzabosco
[Italia]
5
suddenly yo are older
almost a stranger to yourself
your bare hands plunging
into the wormy dirt
secretly you taste the soil
as if for the first time
knowing you are tasting
something
anything
on this earth
somehow makes you alive
or more alive
almost a stranger to yourself
who is non other
than yourself
you and yourself
you and the earth
John Taylor
[USA/France]
6
La postergación de la escritura, de hecho, tiene mucho que ver con ese pensamiento mágico que se trama en torno a la muerte. Terminar un libro no es como tener un hijo: es como matarlo, es —por lo tanto— como matarme de un modo más real que literario.
[...]
Josefina Licitra
7
[...]
Y yo no quiero morir. Soy vital hasta la indignidad. Tocaría timbres con el Nuevo Testamento en una bolsa si eso me asegurara un bonus de diez años de vida —o de uno.
Todos cartoneamos tiempo. El mundo está lleno de desesperados.
Josefina Licitra
8
Limpio a Borges, entonces, también por eso: porque no hacerlo supone rendirse al moho. Porque me embarqué en una cruzada larga y tarada contra el paso del tiempo. Y porque ese acto de limpieza ayuda a mirar distinto lo que tengo entre manos.
Josefina Licitra
9
Esta procrastinación, esta confección de burocracias internas, es al fin y al cabo una ficción ingenua: la que dice que todo está igual. Que no se avanza hacia ninguna parte.
Josefina Licitra
10
Al verlo pienso que todo es caprichoso y lábil. Y que es esa condición terrible la que más me asusta —y me fascina— del mar.
Josefina Licitra
11
Viene la primera ola y Ale me alza como a una criatura —así hacía mi abuelo— en un guiño irónico y dulce a la vez.
Ese gesto me emociona. Uno se enamora también de la gente que trae, reescritas, las imágenes de un pasado feliz.
Josefina Licitra
12
voy, como si fuera el I Ching, a las obras completas. Busco el tomo 1 y abro una página al azar. Es «El inmortal», publicado cuando Borges tenía cincuenta años: dos menos que mi pareja. Pensar a Borges desde la perspectiva de una crisis de la edad es, de todos los abordajes posibles, el único que ahora me resulta inevitable. «El inmortal» es la historia de un hombre que descubre un territorio sin muerte. Una suerte de palacio que, con su sola existencia, pone en jaque el sistema de leyes del universo.
[...]
Josefina Licitra
13
[...]
Las personas, al ser eternas, son sujetos moralmente inclasificables: todas en algún momento hacen el Bien y el Mal. Y ninguna se distingue de los animales. En la vida finita, la diferencia entre el hombre y los bichos es que las otras especies no tienen conciencia de su propio fin, por lo tanto, desde el punto de vista subjetivo, son inmortales. Pero en la ciudad del cuento no hay tal diferencia, y ese límite borroso es, en sí mismo, toda una autodestrucción.
Josefina Licitra
14
Hace unos meses, inmóvil, detenida frente a un párrafo que no podía resolver, la pantalla activó el protector, se fundió a negro y me enfrentó al reflejo de mi propia imagen. Fue una fracción de segundo —lo que tardé en tocar una tecla para desbloquear— pero fue suficiente para ver qué cara tengo cuando escribo. No es un rostro inspirado; no es un rostro tranquilo; no es un rostro feliz.
Es la cara de alguien que se pierde en un lugar vacío, y busca un arma.
Josefina Licitra
15
Il brusco scontro con la nuova vita mi rese ancora più diverso di quello che ero nei confronti degli altri. L’adattamento fu affannoso; come l’apprendimento dell’italiano. Spesso rasentò l’impossibilità e la disperazione. Il mio sardo lì non lo capiva nessuno. Io ero “muto” e senza una lingua: come un essere inferiore che non poteva esprimere quello che pensava.
G. Ledda
16
Dapprima non si coglie alcuna differenza, ma se si continua ad ascoltare si finisce per rendersi conto che c’è altrettanta differenza che tra la A e la B.
G.B. Shaw, Pigmalione
17
Me quedé dormida en el subte. Hace mucho que no me pasaba algo así. Un viejo me despertó con discreción y sentí la rareza de volver al mundo —a su prolija línea de tiempo— de la mano de un extraño que me hablaba en sonidos que de a poco se convirtieron en un lenguaje.
—Llegamos a San Pedrito —escuché.
Lo miré atontada, sumida en la confusión que sobreviene al sueño, y respondí sin pensar:
—No doy más.
Josefina Licitra
18
Una vez, en una conexión de aviones —viajo sola en avión desde los diez años— me quedé dormida en una sala de embarque y cuando desperté me puse en la única cola que vi. Creí que iba a España —mi destino—, pero al llegar a la entrada del avión supe que iba a Bolivia. Solo ahí recuerdo que lloré, que me sentí perdida y sola en un mundo en el que no había celulares y en el que mis padres no podían acompañarme de otro modo. Solo ahí me sentí en manos de extraños, pero incluso ahí hubo una azafata, una sola —el resto pidió plata para cuidarme, y en mi casa no había plata— hubo una sola azafata, decía, que corrió conmigo el avión que se iba a Europa y logró pararlo y que reabrieran la puerta.
[...]
Josefina Licitra
19
[...]
Ya después, en el colegio secundario, desperté una vez con la mano de un hombre en la entrepierna, debajo del bolso rosa de deportes, y otra vez con otro hombre que se estaba masturbando, y en el acto aprendí que de ahí en más debería mantener los ojos abiertos. Así fue desde entonces. O al menos así me pasó hasta esta tarde, cuando me dormí en el subte y en ese segundo en el que fui despertada pude ver el resplandor de mi infancia, de los viejos tiempos en los que andaba feliz y a la deriva, llena de una incomprensible confianza en el mundo
Josefina Licitra
20
El balneario es hermoso, tranquilo. Uno de los pocos lugares serenos de toda la costa. Me tiro a la sombra a leer. Ale se va al mar. Lo veo nadar hasta el fondo, cortando las olas con brazadas enérgicas, y estacionarse en la calma que hay detrás de la rompiente. Mi abuelo era igual. Se iba lejos y nos tenía a todos en vilo, esperando la tragedia o el regreso heroico desde algún lugar remoto que recuerdo cercano al horizonte.
Josefina Licitra
21
ailanti, alle vostre falci piego il capo,
a voi, ovunque arborescenti, ailanti
nel brillio del mattino mi consegno:
vi lascio correre sui bordi incolti
dietro le massicciate, addosso ai muri:
e nel trapestio dei pensieri, infestanti
mi confondete ai fiori, miei ailanti
Italo Testa
[Italia]
22
Anche se la finestra è la stessa, non tutti quelli che vi si affacciano vedono le stesse cose: la veduta dipende dallo sguardo.
Alda Merini
[encontrado mientras traducía un poema de José Luis Rico]
23
Contemplo la mansuetudine del silenzio che vola.
I miei sandali sono fatti d’aurora.
Sulle mie dita splendono laberinti.
Il mio cammino è lo strip-tease della solitudine
José Inácio Vieira de Melo
[Brasile]
24
Se ci si accosta al bosco
si può sentire una calma materna
svuotare l’aria, quasi
uno scalpitare invisibile
di figli che salgono alla vita.
La salvezza del bosco
è poter scavare nella terra
gravida una cura – la possibilità
di rinascere senza darlo a vedere.
Giovanna Cristina Vivinetto
[Italia]
25
Non è che fuoco breve – la vita degli uomini
brace che rosseggia
e presto si spegne
Pierre Voélin
[Svizzera]
26
In piedi
Con le bambine
Un sabato
Davanti alle gabbie
Riflessa
In ognuna
Di loro
Maya Weinberg
[Israele]
27
Let the weather outside settle into
the weather inside. Sun beats, wind
Cyril Wong
[Singapore]
28
That slow walk
back to the car, our minds filled with
inaudible music. Listening is its own silence.
Rocks and shells have nothing to say.
Why not pay attention anyway?
Cyril Wong
[Singapore]
29
la preghiera è
inginocchiarsi con la faccia nella sabbia
usare i palmi
per raccogliere la sabbia
Jami Xu
[Cina]
30
sediamo guardando i boschi
dopo aver tagliato qualche tronco
per fabbricare una casa
per chi verrà dopo di noi
Sofyan RH. Zaid
[Indonesia]
31
Per tre giorni l’orso nuotò verso la riva
Finché trovò il branco dei trichechi e lì,
Esausto ed emaciato, si lasciò cadere accanto a loro
Come se il suo corpo fosse stato consumato dal fuoco.
Elad Zeret
[Israele]
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Soltanto attenendoci al corso prescritto dal tempo possiamo percorrere rapidamente gli immensi spazi che ci separano gli uni dagli altri. Senza dubbio, disse Austerlitz dopo qualche istante, il rapporto fra spazio e tempo, così come ne facciamo esperienza noi viaggiando, ha ancor oggi qualcosa di illusionistico e illusorio, ed è anche per questo che ogni qualvolta ritorniamo da un viaggio, non sappiamo mai con certezza se davvero siamo stati via. __________ Dall'esempio di simili opere di fortificazione più o meno così Austerlitz concluse, alzandosi dal tavolo e mettendosi lo zaino in spalla, le osservazioni fatte allora sullo Handschoenmarkt di Anversa - possiamo facilmente vedere come noi, a differenza degli uccelli che per millenni costruiscono sempre lo stesso nido, siamo inclini a spingere le nostre imprese ben oltre ogni ragionevole limite. Prima o poi, disse ancora, bisognerebbe catalogare i nostri edifici, ordinandoli secondo le dimensioni: si scoprirebbe subito che a prometterci almeno un barlume di pace sono proprio quelli collocati al di sotto delle normali dimensioni dell'architettura domestica - la capanna, l'eremo, le quattro mura del guardiano delle chiuse, la specola di un belvedere, la casetta dei bambini in giardino -, mentre di un edificio enorme, come ad esempio del Palazzo di giustizia di Bruxelles, su quello che una volta era il colle della forca, nessuno potrebbe sostenere a mente fredda che è di suo gradimento. Nel miglio dei casi lo si guarda meravigliati, e questa meraviglia è una forma preliminare di terrore, perché naturalmente qualcosa ci dice che gli edifici sovradimensionati gettano già in anticipo l'ombra della loro distruzione e, sin dall'inizio, sono concepiti in vista della loro futura esistenza di rovine. __________ Perfino adesso che sto cercando di ricordare, che ho ripreso in mano la pianta granchiforme di Breendonk e nella didascalia leggo le parole Ex ufficio, Tipografia, Baracche, Sala Jacques Ochs, Cella d'isolamento, Obitorio, Reliquiario e Museo , l'oscurità non si dirada, anzi si fa più fitta al pensiero di quanto poco riusciamo a trattenere, di quante cose cadono incessantemente nell'oblio con ogni vita cancellata, di come il mondo si svuoti per così dire da solo, dal momento che le storie, legate a innumerevoli luoghi e oggetti di per sé incapaci di ricordo, non vengono udite, annotate o raccontate ad altri da nessuno... __________ A differenza di Elias, il quale stabiliva sempre un collegamento tra malattia e morte da una parte e prova, giusta punizione e colpa dall'altra, Evan raccontava di morti che, colpiti anzitempo dal destino, sapevano di essere stati defraudati di ciò che spettava loro e cercavano quindi di ritornare in vita. Chi aveva occhio per queste cose, non di rado riusciva a vederli. A tutta prima sembravano persone normali, ma se li si fissava con particolare attenzione, i loro volti sparivano o tremolavano un poco ai bordi. Inoltre, erano quasi sempre di una spanna più piccoli di quanto non fossero da vivi, perché l'esperienza della morte, sosteneva Evan, ci rimpicciolisce, esattamente come una stoffa nuova, quando la si lava per la prima volta, si restringe. __________ Alla parete, sopra il basso banco da lavoro di Evan, disse Auterlitz, pendeva da un gancio il drappo nero portato via dal nonno al feretro quando le figure imbacuccate che lo trasportavano erano passate davanti a lui, ed è certamente stato Evan, disse ancora Austerlitz, a raccontarmi che è un simile velo di seta, e nulla di più, a separarci dall'aldilà. __________ Perfino quando in direzione Penrith-Smith, uomo particolarmente bonario, doveva far assaggiare la bacchetta a uno di noi per via di qualche episodio che gli era giunto all'orecchio, si aveva quasi l'impressione che la vittima concedesse temporaneamente all'esecutore della pena un privilegio che in realtà spettava soltanto alla vittima stessa, destinataria della punizione. __________ Allora, a tredici anni, non ero certo in grado di capirlo, oggi però mi rendo conto che l'infelicità accumulatasi in lui aveva distrutto la sua fede proprio nel momento in cui ne avrebbe avuto più bisogno. Quando d'estate tornai di nuovo a casa, già da settimane non era più in grado di assolvere al suo ufficio di predicatore. Un'unica volta salì ancora sul pulpito. Aprì la Bibbia e, con voce rotta e come se lo facesse soltanto per sé, lesse un versetto dal Libro delle Lamentazioni: He has made me dwell in darkness as those who have benne long dead. La predica che doveva seguire, Elias non la tenne più. Restò lì fermo per qualche tempo a guardare oltre le teste della sua comunità paralizzata dal terrore, con gli occhi immoti di un cieco, così mi parve. Poi ridiscese lentamente dal pulpito e uscì dalla casa del culto. __________ Far visita a uno dei miei conoscenti, in ogni caso poco numerosi, oppure frequentare gente, nel normale senso dell'espressione, era ormai impossibile per me. Mi faceva orrore, disse Austerlitz, dover ascoltare qualcuno e, ancor più, essere io stesso a parlare, e procedendo in tal modo le cose, capii a poco a poco in quale isolamento io vivessi e avessi sempre vissuto, tra la gente del Galles non meno che tra gli Inglesi e i Francesi. Non mi è mai accaduto di pensare alla mia vera origine, disse Austerlitz. Né mai mi sono sentito parte di una classe, di una categoria professionale o di una confessione religiosa. Fra gli artisti e gli intellettuali mi trovavo non meno a disagio che nella vita borghese, e stringere un'amicizia personale già da lungo tempo era un'impresa superiore alle mie forze. Appena conoscevo qualcuno, subito pensavo di essermi consentito un'eccessiva confidenza; appena qualcuno si rivolgeva a me, io cominciavo a prenderne le distanze. Se in generale qualcosa mi legava ancora agli uomini, erano in definitiva soltanto certe forme di cortesia, da me addirittura esasperate, il cui fine - come oggi so, disse Austerlitz - era non l'omaggio all'interlocutore del momento, ma la possibilità di sottrarmi alla consapevolezza di essere sempre vissuto - per quanto indietro riuscissi a risalire con il pensiero - in uno stato di assoluta disperazione. __________ Quanto ai primi tempi trascorsi a Bala sotto la tutela dei coniugi Elias, non sarei più in grado di ricostruirli. Dei nuovi abiti, che mi resero assai infelice, di questo mi rammento, così come dell'inesplicabile scomparsa dello zainetto verde, e di recente ho avuto addirittura l'impressione di ricordare ancora qualcosa dell'atrofizzarsi in me della lingua materna, del suo echeggiare mese dopo mese sempre più fievole e rimasto dentro di me, penso, per qualche tempo almeno, come una sorta di raschiare o batter colpi prodotto da un'entità prigioniera che sempre, quando le si vuol prestare attenzione, si arresta e tace per lo spavento. __________ A mio giudizio, disse Austerlitz, noi non comprendiamo le leggi che regolano il ritorno del passato, e tuttavia ho sempre più l'impressione che il tempo non esista affatto, ma esistano soltanto spazi differenti, incastrati gli uni negli altri, in base a una superiore stereometria, fra i quali i vivi e i morti possono entrare e uscire a seconda della loro disposizione d'animo, e quanto più ci penso, tanto più mi sembra che noi, noi che siamo ancora in vita, assumiamo agli occhi dei morti l'aspetto di esseri irreali e visibili solo in particolari condizioni atmosferiche e di luce. Per quanto mi è dato risalire indietro col pensiero, disse Austerlitz, mi son sempre sentito come privo di un posto nella realtà, come se non esistessi affatto, e mai questa sensazione è stata così forte in me quanto quella sera nella Šporkova, mentre il paggio della regina delle rose mi trafiggeva con lo sguardo. __________ Particolarmente inquietanti mi parvero però le porte e i portoni di Terezìn, che sbarravano tutti l'accesso, come credetti di avvertire, a uno oscurità non ancora violata, nella quale - così pensai, disse Austerlitz - nulla più si muoveva tranne l'intonaco che si sfalda dalle pareti e i ragni che secernono i loro fili, corrono sulle assi con le loro zampette veloci o restano sospesi alle tele in fiduciosa attesa. __________ Che cosa significavano la tovaglia di pizzo bianco, quella dei giorni di festa, appesa allo schienale dell'ottomana, e la poltrona da salotto con la sua fodera di broccato stinto? Quale segreto nascondevano i tre mortai in ottone di varia grandezza che evocavano responsi oracolari, oppure le coppe di cristallo, i vasi di ceramica e le brocche di terracotta, il cartellone pubblicitario di lamiera che recava la scritta Theresienstadter Wasser, lo scrigno con le conchiglie, l'organetto in miniatura, i fermacarte sferici, nelle cui bocche di vetro galleggiavano favolosi fiori subacquei, il modellino di una nave, una specie di corvetta a vele gonfie, la casacca del costume locale, in una leggera stoffa estiva di lino chiaro, i bottoni di corno di cervo, l'enorme copricapo degli ufficiali russi e la relativa uniforme olivastra con le spalline dorate, la canna da pesca, il carniere, il ventaglio giapponese, il paesaggio infinito, dipinto con lievi pennellate intorno a un paralume, e nel quale un corso d'acqua scorreva placido, non si sa se in Boemia o in Brasile? E poi, in una teca non più grande di una scatola da scarpe, quello scoiattolo impagliato, e in certi punti già roso dalle tarme, che a cavalluccio su un ramo mozzo teneva implacabilmente fisso su di me il bottone vitreo del suo occhio e il cui nome ceco - veverka - mi tornò alla memoria da lontano, come quello di un amico da tanto tempo dimenticato. Che cosa poteva significare - così mi domandavo, disse Austerlitz - quel fiume che non ha né sorgente né foce, ma rifluisce costantemente in se medesimo, oppure veverka, quello scoiattolo sempre fermo nella stessa posizione, o ancora il gruppo in porcellana color avorio raffigurante un eroe a cavallo che, in groppa al suo destriero ritto sulle zampe posteriori, si piega all'indietro per sollevare con il braccio sinistra un'innocente creatura femminile, priva ormai anche dell'ultima speranza, e salvarla così da una sciagura non rivelata all'osservatore, ma senza dubbio spaventevole? Altrettanto fuori dal tempo, come quell'attimo salvifico, sospeso nell'eternità e che continua ad aver luogo qui e ora, erano tutti i ninnoli, gli attrezzi e i souvenir arenatisi nel bazar di Terezìn, i quali, per una serie di coincidenze imperscrutabili, erano sopravvissuti ai loro antichi proprietari e scampati al processo della distruzione, sicché ora in mezzo a essi io riuscivo a cogliere solo indistintamente e con fatica la mia ombra. __________ Tutto questo adesso lo capivo, e nel contempo non lo capivo: ogni particolare che, mentre visitavo il museo da una sala all'altra e poi di nuovo all'indietro, si dischiudeva davanti a me - davanti a colui che, come temevo, era rimasto nell'ignoranza per propria colpa - superava infatti di gran lunga la mia capacità di comprensione. __________ Alla fine, disse Austerlitz, quando la ricamatrice si avvicinò per avvisarmi che era ormai ora di chiudere, stavo leggendo per l'ennesima volta su una didascalia che a metà dicembre del 1942, dunque proprio nei giorni in cui Agàta arrivò a Terezìn, erano recluse nel ghetto, su una superficie edificata di un chilometro quadrato al massimo, circa sessantamila persone, e poco dopo, quando mi ritrovai di nuovo fuori sulla piazza deserta, sentii con inequivocabile certezza che quelle persone non erano state condotte via, ma vivevano ancora, stipate nelle case, nei sotterranei e nei solai, salivano e scendevano senza posa le scale, guardavano fuori dalle finestre, si muovevano in gran numero per le strade e i vicoli e, in silenziosa adunata, occupavano addirittura l'intero spazio fra cielo e terra che una pioggia sottile tratteggiava di grigio. __________ A quell'epoca le miniere - così lessi mentre sedevo davanti alla fortezza di Breendonk - erano già state nella maggio parte dismesse, comprese le due più grandi, la Kimberley Mine e la De Beers Mine, e poiché mancavano di recinzione era possibile spingersi - se si aveva il coraggio di farlo - sino al limite più avanzato di quelle enormi cave e guardar giù in un abisso di migliaia e migliaia di piedi. Davvero orrido, scrive Jacobson, era vedere che a un passo dal terreno solido si spalancava un simile vuoto, comprendere che non vi era transizione alcuna, ma solo quella linea di confine, da un lato la vita nella sua ovvietà e dall'altro, di questa vita, l'inimmaginabile antitesi. L'abisso, che nessun raggio di luce riesce ad attingere, è l'immagine impiegata da Jacobson per indicare la storia remota e sommersa della sua famiglia e del suo popolo che di laggiù, ne è ben consapevole, mai potranno risalire in superficie.
W.G. Sebald, Austerlitz
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Gli studi di Bowlby e Robertson sui bambini ospedalizzati furono di importanza nazionale e storica. Essi vennero svolti in un'epoca in cui le visite in ospedale erano estremamente ridotte e i bambini venivano, pertanto, lasciati soli per la maggior parte del tempo. I periodi di ospedalizzazione talvolta duravano poco tempo, talvolta invece il loro tempo era molto lungo. Bowlby e Robertson osservarono, al proposito, tre fasi che i bambini attraversavano in questo periodo. La prima fase è quella della "protesta": i bambini si mostrano visibilmente angosciati, piangono e chiamano la madre per cercare di portarla indietro. Se la famiglia si riunisce in questa fase, il bambino si dimostra "difficile" per un periodo breve di tempo. La seconda fase, definita "disperazione", mostra un bambino ritirato e apatico, privo di interesse per il mondo esterno. Se la famiglia si riunisce in questa fase, il bambino protesta ma ha un forte bisogno di vicinanza con la madre. Per ultima, la fase più difficile da affrontare e più grave per il bambino: il "distacco" o "diniego". In questa fase il bambino mostra interesse per il mondo esterno, socializza con le persone estranee. Tuttavia, con la madre è apatico e mostra un distacco emotivo. Con la famiglia il bambino avrà solo relazioni superficiali e incuranti, difficili da modificare.
Bowlby, al proposito, spiegò che il rapporto fra madre e bambino è un rapporto di "attaccamento". Esso è fondato su comportamenti innati e tipici di molte specie animali. In esso il bambino trova risposta ai suoi bisogni di sicurezza, amore e tranquillità oltre che ai bisogni fisiologici di fame, sete, sonno e ai cosiddetti bisogni pulsionali tipici delle fasi di sviluppo freudiano. Il bambino usa la madre come "base sicura" da cui allontanarsi per conoscere il mondo ma a cui tornare per avere vicinanza e contatto. Si tratta dunque di due poli in antitesi tra di loro: la vicinanza alla madre e il bisogno di esplorazione. Il rapporto con la madre, inizialmente è di puro istinto e sopravvivenza, senza alcuna preferenza per la suddetta. Successivamente, il bambino preferirà la madre agli altri e mostrerà paura verso gli estranei. Arriverà poi a una fase in cui il bambino avrà "mentalizzato" la figura materna e potrà separarsene per brevi periodi. Tuttavia, "comportamenti di controllo", li manterranno comunque vicini. Questo rapporto, introiettato, porterà nel bambino dei Modelli Operativi Interni di sè come agente, come persona oggetto di cura, dell'altro e dell'interazione fra sè e l'altro. Essi saranno "canalizzazioni di sviluppo" per il bambino che lo guideranno, in modo più o meno stabile, anche da adulto nella focalizzazione dell'attenzione su informazioni provenienti dall'ambiente esterno, nella regolazione delle emozioni, nella previsione dei comportamenti propri e altrui e nell'agire.
In rapporto a tale teoria, interrompere il rapporto con la madre è un rischio per lo sviluppo psicofisico del bambino. Lasciato solo, con la sola cura di persone estranee, egli si dimostra infelice e potrebbe sviluppare quelli che Spitz ai suoi tempi definiva come "Sintomi di Sindrome di Ospedalizzazione". Vediamo un esempio concreto di quanto detto, in una bambina ospedalizzata.
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Perdutamente tua (1942) Regia: Irving Rapper Attori: Bette Davis, Paul Henreid, Claude Reins
Commento La disperazione di una vita vuota, di sentimenti, di passioni, di prospettive pur nell’agio di una ricchezza riconosciuta da averi e notorietà, porterà un giovane donna sull’orlo della pazzia, salvata dall’affetto della cognata che la strappa all’egoistica tirannia materna, alla solitudine misantropica ed alla trascuratezza fisica. Curata nello spirito malato e nel corpo invecchiato anzitempo, da uno psichiatra avanguardista, diverrà una donna ammirata, impositiva e profondamente altruista. Atteggiamento questo, che esprimerà nei confronti della figlia dell’uomo sposato di cui si innamora. Un affetto impossibile mostra la forza educativa di una maternità mancata che si trasforma in dedizione assoluta divenendo assoluta felicità.
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The rhythm of my footsteps crossing flatlands to your door have been silenced forevermore. And the distance is quite simply much to far for me to row. It seems farther than ever before. Brooklyn, prime ore del 1993: c'era una volta, una sedicenne di nome Claire Hampton che decise di perdere la verginità a Capodanno col primo venuto e che riuscì peraltro nel suo nobile intento. Se ne tornò a casa, il giorno dopo, molto felice e molto incinta. In realtà ci vuole qualche giorno a concepire, ma il senso è quello. Non essendo particolarmente arguta decise di tenersi la pagnotta, che nove mesi dopo prese il nome di Ariane Rachael Hampton. Almeno non l'ha chiamata Jessica Alyssa, considerando i terribili trend degli anni 90 in fatto di nomi. Adesso, i piani di una qualsiasi persona assennata non includerebbero il lasciare la scuola e farsi cacciare a pedate da casa, ma la fantastica Claire ci è riuscita! Non è meraviglioso? Comunque, per una volta a svolgere un ruolo centrale in questa storia non sarà un'adolescente poco responsabile che si ritrova a diventare genitore senza nemmeno capire come. Quindi, parliamo di Ariane! Ariane è tanto bellina e ha la sfortuna d'avere una madre terribile, per cui più o meno chiunque non ce la fa a rifiutarsi di tenersela per la mattina, per il pomeriggio o per la sera a seconda degli improrogabili impegni della snaturata genitrice. Va bene, essere una madre single che fa i doppi turni come cameriera non è facile, però intrattenere relazioni di un certo tipo con i clienti e uscire con le amichette il venerdì sera sì. Insomma, purtroppo o per fortuna, fino ai sei anni Ariane non ha avuto granchè a che fare con sua madre e magari si sarà beccata come vicina di casa una vecchina simpatica che le raccontava le storie e le faceva i biscotti. Ad un certo punto, però, ha iniziato a trovarsi tizi sconosciuti che si insediavano in casa Hampton per un lasso di tempo che poteva variare tra i tre e sei mesi, visto che Claire s'era messa in testa un po' in ritardo di trovarle un papà. Come se l'esempio della mamma non fosse già abbastanza pessimo, inseriamo in questo bel quadretto tutti i disagiati del circondario, dal momento che dall'alto del suo non essere - di nuovo - particolarmente arguta, Claire rimorchiava i suoi fidanzati direttamente dal cassone dell'indifferenziata. Si può dire che non abbia mai davvero raggiunto quel punto in cui ha capito che le persone sono inaffidabili e che le relazioni alla fine finiscono solo per deludere: ci è direttamente cresciuta dentro senza aver avuto mai davvero la possibilità di vedere un'alternativa. Ha imparato a riconoscere i segni di ogni nuova infatuazione di sua madre, a sperare comunque insieme a lei ogni volta che si illudeva di aver finalmente trovato l'amore della sua vita e a rimanerci male per lei ogni volta che finiva sempre allo stesso modo. In tutto ciò, di positivo c'è che l'esempio di Claire l'ha sempre spinta a non voler finire come lei. Per cui invece di impegnarsi in cazzatine come fare amicizia, è diventata la secchioncina saccente di turno con il naso sempre ficcato in un libro e la testa tra le nuvole. La fregatura è che, a furia di star dietro a drammoni romantici per tutta la vita, una certa repressissima voglia di vivere il grande amore è venuto anche a lei. Il grande amore è arrivato nel lontano 2009. Aveva sedici anni - oh no, cattivo presagio - e la vita sociale di un paguro. Per intenderci, raccontava a Claire di uscire con due presunte amiche di cui in casa non si è mai vista l'ombra e con cui non ha mai nemmeno parlato al cellulare, ma ancora una volta l'arguzia della donna ha stupito tutti: non solo non ha mai sospettato nulla, ma era pure contenta di potersi portare a casa liberamente il cicciombrocchio del momento. Non che si sia mai fatta problemi a riguardo, ma vabbè. Il cicciombrocchio del 2009 era un mezzo tedesco con la doppia famiglia, quindi andiamo sempre di bene in meglio. Comunque, tornando al grande amore, Ariane si dimostra già più assennata della madre: il tizio in questione è bello, è ricco, non è uno stronzo di prima categoria e si chiama Logan. Uno di quei treni che passano una volta sola nella vita. Peccato che lei sia così presa dal non voler diventare come sua madre e da strane ossessioni derivanti dalla totale mancanza di fiducia nel mondo, da distruggere questa bella storiella in partenza. E' tutto un seguitare di pianti, crisi isteriche, vattene, no torna da me, ti amo, ti odio, strane storie sul filo rosso del destino - che deve essere un destino infamissimo. Tanto per peggiorare le cose, Claire fa l'ennesima mossa poco intelligente e si fa mettere un'altra pagnottina in forno dal mezzotedesco con la doppia famiglia. Un geniaccio talmente diabolico che per guadagnarsi altri nove mesi di saliscendi l'ha convinta a tenersi il pagnottino number two e ad aspettare di partorire per diventare ufficialmente una famiglia. Claire era al settimo cielo, convintissima di aver finalmente coronato il suo sogno. Ariane tanto contenta non era e gliel'ha pure fatto capire, sperando di salvare il salvabile, ma che ne parliamo a fare. E quando mr mezzotedesco si è tirato fuori dal quadretto, Claire si è ritrovata una bella depressione post-partum e Ariane un fratellino di cui farsi carico perchè quando mai sua madre ha fatto la madre. Inutile dirvi che quando si diploma - siamo arrivati al 2012, eh - la fantastica storia d'amore non è ancora sbocciata, perchè da brava drama queen è ancora piena di adorabili paturnie. Probabilmente l'avrà almeno baciato 'sto ragazzo? Boh, forse. Altrimenti lo farà un po' più tardi, tanto quando superi i sei mesi rimani una disagiata in ogni caso. Almeno ha vinto una borsa di studio per andarsene all'università. Invece di lanciarsi e vivere la vita da collegiale che tutti sognano, rimane comunque a casa con mammina perchè vuoi che quella cresca un figlio da sola a 35 anni? Sia mai! Nel frattempo ha iniziato a lavoricchiare part-time in una libreria, si è tinta i capelli per la prima volta e le è capitato pure di diventare amiciccia di una certa Eleonor che pare sua madre - bionda, madre single, relazioni instabili, non vi ricorda proprio nessuno? - che poi finirà pure a farsi l'amore della sua vita più in fretta di quanto non abbia fatto lei. Quindi ormai ha una vita semi-indipendente, ha un'amica che non sia immaginaria e sta utilizzando la sua secchionaggine per fare qualcosa di buono della propria vita e non solo per nascondersi dai drammi. Improvements everywhere, se non fosse che invece di darsi finalmente una mossa e smettere di avere paura delle relazioni sentimentali, ha finito per lasciare Logan per paura di essere lasciata. Senza sapere che magari pure 'sto poro Logan aveva i problemi suoi. Dopodichè, in sequenza sicuramente non esatta: ha quasi lasciato l'università, ha fatto amicizia con Van - un'altra bionda quasi madre single, con il senno di poi sembra proprio un tentativo inconscio di superare i conflitti con la figura materna - è andata a vivere con Eleonor, si è messa addirittura a fare la cameriera, si è tinta di nuovo i capelli dando via ad uno strano periodo goth emo in cui aveva un pessimo rapporto con sè stessa, ha fatto baldoria con le sue amichette senza mai smettere di struggersi scrivendo nel suo diarietto segreto, si è tinta per l'ennesima volta e stavolta di rosa e ovviamente non ha mai dimenticato Logan. Per quanto riguarda gli ultimi anni finiti nell'oblio, nel 2017 è diventata con orgoglio la prima laureata della famiglia Hampton. Ha smesso di tingersi i capelli ogni tre per due, è tornata a lavorare in libreria - stavolta a tempo pieno - finchè l'anno scorso non è finalmente riuscita a farsi assumere da una delle millemila biblioteche di NY come archivista. E alla fine ha ripreso il filo della noiosa vita da secchioncella ficcata tra i libri. Ci ha messo più di sei mesi a capire che il receptionist le chiedeva di uscire ogni giorno e solo perchè alla fine tale Derek gliel'ha messa davanti papale papale. E allora decidiamo che siamo ormai abbastanza adulte e vaccinate per finire fregate, tristi e sole come Claire Hampton? No. Ha ripetuto di nuovo la stessa trafila, con meno pathos perchè non ha più sedici anni e perchè alla fin fine 'sto Derek non la faceva palpitare mica poi così tanto. Vi lascio immaginare il disagio nell'aria tutti i giorni al lavoro dopo che si sono lasciati. Stavolta invece di colorarsi i capelli in preda alla disperazione, ha investito i quattro spicci che si è guadagnata nel corso degli ultimi tre anni per aprire una libreria indipendente che ha chiamato Books are Magic e per cui finirà di pagare il mutuo tra cinquant'anni se le va bene.
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il messaggio di #Fatima è un richiamo alla #conversione, è un forte appello all’umanità affinché non stia al gioco del “drago” (Ap 12, 4). L’ultima meta dell’uomo è il #Cielo, sua vera casa dove il #Padre celeste, nel suo #amore misericordioso, é in attesa di tutti. Dio vuole che nessuno si perda. Nella sua sollecitudine materna, la Santissima Vergine è venuta a Fatima per chiedere agli uomini di “non offendere più #Dio, Nostro Signore, che è già molto offeso“. È il dolore di mamma che la obbliga a parlare; è in palio la sorte dei suoi figli. Per questo Ella chiede ai pastorelli: “#Pregate, pregate molto e fate #sacrifici per i #peccatori; tante anime finiscono nell’#inferno perché non c’è chi preghi e si sacrifichi per loro“. il messaggio di Fatima è un richiamo alla conversione, è un forte appello all’umanità affinché non stia al gioco del “drago” (Ap 12, 4). L’ultima meta dell’uomo è il Cielo, sua vera casa dove il Padre celeste, nel suo amore misericordioso, é in attesa di tutti. Dio vuole che nessuno si perda. #apparizionidifatima VISIONE DELL'INFERNO 13- 7-1917 La Madonna ci mostrò un grande mare di fuoco, che sembrava stare sotto terra. Immersi in quel fuoco, i demoni e le anime, come se fossero braci trasparenti e nere o bronzee, con forma umana che fluttuavano nell’incendio, portate dalle fiamme che uscivano da loro stesse insieme a nuvole di fumo, cadendo da tutte le parti simili al cadere delle scintille nei grandi incendi, senza peso né equilibrio, tra grida e gemiti di dolore e disperazione che mettevano orrore e facevano tremare dalla paura. I demoni si riconoscevano dalle forme orribili e ributtanti di animali spaventosi e sconosciuti, ma trasparenti e neri. Questa visione durò un momento. E grazie alla nostra buona Madre del Cielo, che prima ci aveva prevenuti con la promessa di portarci in Cielo (nella prima apparizione), altrimenti credo che saremmo morti di spavento e di terrore”. https://www.instagram.com/p/CCk7bYcj4De/?igshid=mw3er2hkmrv4
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IDEALIZZAZIONE E SOTTOMISSIONE: PRIME FASI DELLA DIPENDENZA Immaginiamo un bambino tenuto alla fame (di cibo o di amore) dalla madre. In una prima fase, il bambino prova impulsi dapprima di sconcerto, poi di rabbia. Allora, stringe i pugni, serra gli occhi, tende i muscoli del corpo e strilla come un ossesso. Si tratta di un richiamo diretto al proprio simile, incentrato su una mimica di protesta e un'esplosione emotiva rabbiosa. La rabbia è dunque uno dei sentimenti di base della natura umana. Solo in un secondo momento, se la rabbia non ottiene risposta adeguata, in preda alla disperazione il bambino cade nella cosiddetta “depressione anaclitica” (descritta per primo da René Spitz), uno stato di torpore inerte e senza speranza. Analizziamo ora qualche scena di dipendenza filiale. Immaginiamo una bambina di otto o nove anni maltrattata dalla madre, che le sottrae i giocattoli cui è più affezionata per regalarli alla parrocchia, la quale provvederà a donarli ai “bambini poveri”. E immaginiamo una ragazza appena adolescente, di dodici e tredici anni, umiliata dalla madre, che le fa notare insistentemente che la sua amica è più brava o più aggraziata di lei, e che i suoi tentativi di apparire diligente sono inutili, perché tanto lei è e resterà sempre pigra e sgraziata. Cosa osserviamo negli infiniti casi di dipendenza filiale? Osserviamo che bambine e ragazze riescono a sopportare con incredibile pazienza infinite deprivazioni. Com'è possibile? Cosa è cambiato rispetto alla più sana e naturale dinamica infantile? Ebbene è scomparsa la rabbia. Perché è accaduto? Perché la bambina – estenuata da infinite deprivazioni (Masud Khan parlerebbe di “trauma cumulativo”) – ha “scelto” di difendere il rapporto con la madre piuttosto che se stessa, quindi ha rimosso l'emozione che metteva in crisi il rapporto: la rabbia, appunto. Ciò dipende in gran parte dalla dinamica psichica della “idealizzazione”, una visione della realtà che da un lato migliora l'immagine del genitore, dall'altra la propria stessa immagine, rimuovendo sia i “difetti” di uno o dell'altro, sia – soprattutto – la realtà morale della “cattiveria”, propria e altrui. Il bambino inerme e dipendente preferisce immaginare un mondo in cui la “cattiveria” o non esista in generale o quanto meno non esista nel rapporto fondamentale col genitore. A difesa del genitore e del rapporto con lui possono attivarsi anche altre dinamiche psichiche, come l'”amnesia retroattiva” e l'”isolamento affettivo”: nel primo caso la vittima dimentica quanto è accaduto; nel secondo, vive in uno stato emotivo di anestesia e di apatia che gli consente di minimizzare la realtà degli eventi traumatici. Ma la difesa più frequente e più efficace è appunto l'idealizzazione. L'idealizzazione impedisce alla bambina o alla ragazza di prendere atto che una madre può non essere affatto una “buona madre”, può cioè essere priva di alcuna disposizione materna, e persino essere invidiosa e ostile nei confronti dei propri figli. Questa rimozione del lato ostile (il lato “ombra”) del genitore serve a non crollare nella disperazione e a mantenere la relazione col genitore a livelli di sopravvivenza, ma al prezzo della falsificazione della realtà. A questa prima falsificazione della realtà, cioè dell'identità altrui va aggiunta una seconda falsificazione, la falsificazione di sé, derivata dalla necessità di sentirsi buona. La bambina si vuole buona, incapace di qualsiasi ostilità, quindi rimuove da sé la conoscenza del male e la reazione difensiva naturale, per assumere un'identità basata sul mimetismo e la sottomissione. L'idealizzazione degli aspetti buoni, dunque un “buonismo” compulsivo, e la rimozione degli aspetti cattivi, cioè della rabbia e dell'intelligenza analitica, producono a questo punto una “scissione dell'Io”. Con una parte di sé l'Io si adatta al rapporto; con un'altra vi si oppone, ma di nascosto, cioè in modo subdolo e colpevolizzato. Nella scissione dell'Io, da un lato c'è l'Io mimetico, che raccoglie tutte le istanze di forzata sottomissione; dall'altro c'è quello che io chiamo “Io antitetico”, l'Io che ha raccolto le istanze di protesta e le fantasie distruttive rimosse. L'io antitetico è scisso dalla vita cosciente e deprivato di espressioni adeguate nella vita reale, quindi minaccia la coesione dell'Io e la sua capacità di risposta integrata, solida, consapevole. La conseguenza dell'idealizzazione e della scissione dell'Io è la sottomissione dell'identità alla volontà altrui, quindi la disposizione ad essere ingannati, manipolati, maltrattati. Questa disposizione buonista darà luogo, col tempo, alla svalutazione di sé, all'insicurezza ansiosa, alla dipendenza affettiva, al masochismo.
Nicola Ghezzani
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RECENSIONE: FKA twigs - MAGDALENE (Young Turks, 2019)
di Agnese Centineo
Sulla copertina del nuovo album di FKA Twigs, il primo release dell'artista dopo l’EP M33LL155X (2015), Twigs appare storpiata e bizzarra. La sua pelle è inspessita e granulosa, i suoi occhi sciolti e disumani. La presentazione visiva di Twigs e la direzione artistica quasi oscena, ma molto ben curata, producono un lavoro semi-erotico e avanguardistico.
La sessualità della musica di Twigs condivide poco con quella di Ariana Grande o Taylor Swift. Ciò che le immagini di MAGDALENE sottolineano è l'incarnazione della sessualità femminile come uno spettro enigmatico, un flusso amorfo o multifaccia di energia ed intensità feroce. Twigs pone il focus su aspetti come il desiderio e la sofferenza che da esso ne deriva: qualcosa di contemporaneamente ansiogeno ed estatico. Desiderio e avversione sono nello stesso flusso nella musica di FKA Twigs. Indubbiamente, ritroviamo nell’album toni provocatori e allo stesso tempo melensi. La sessualità è centrale ed esercita una forza trainante nei testi e nelle melodie ipnotiche.
Anche in LP1 del 2014 ritroviamo le contraddizioni di libido e lussuria: esse sono energia e vita, ma anche insicurezza e bisogno. M3LL155X del 2015 è su un piano simile: come osservato da Adam Kivel in Consequence of Sound, l’uso di elementi R&B frammentati si è intrecciato al lavoro misterioso di Twigs. La cantante rimane al di sopra del pop rifiutandosi di aderire ai canoni del genere, ma adattandoli alle sue velleità artistiche.
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Con MAGDALENE, Twigs inserisce l’elemento dell'essere donna e della sessualità in maniera molto personale, portando avanti le sue esperienze da donna e da essere vivente che si relaziona ai sentimenti e al sesso. In questo disco c’è meno provocazione e più poesia, ritroviamo un’estetica solida ma meno erotica. L’autrice è più esposta e vulnerabile e per questo arriva molto genuina al pubblico. Il brano Day Bed, ad esempio, racconta episodi di masturbazione di Twigs, in risposta a una depressione causata da un fallimento romantico: è estasi, ma la gioia che ne deriva produce disperazione. Disperazione che può essere interamente cancellata solamente dal sesso stesso. Questa attenzione al personale e all’espressività individuale fa si che FKA Twigs rifletta sui ruoli contraddittori di essere umano prima e donna e interprete poi: pubblico e privato, essere sessuale e figura materna.
Nella traccia centrale dell'album, Mary Magdalene, una progressione tetra di synth con la firma di Nicolas Jaar, ci bisbiglia nelle orecchie, suggestionando le nostre immagini. “A woman’s work, A woman’s prerogative, A woman’s time to embrace, she must put herself first”. Il brano parla della figura biblica molto umana di Maria Maddalena. Figura affascinante e controversa, che incarna una figura di sessualità, femminilità, conforto e allo stesso tempo lealtà. La voce soprano di Twigs canta quasi infastidita dal ruolo di prostituta storicamente imputato a questa donna.
Nella più semplice Thousand Eyes, la voce della cantante ci immerge in un ritmo indebolito ma efficace che la rende unica. Ancora una volta Twigs si rivela unica e affascinante, intima. E rimane una donna della musica non controversa al pubblico nonostante le sue note relazioni sentimentali con Robert Pattinson e Shia LaBeouf che l'hanno vista al centro di magazine e tabloid in UK.
In Thousand Eyes l’artista si riferisce probabilmente a queste relazioni assottigliando la linea che divide la sua sfera privata da quella pubblica. La voce particolare di Twigs la distingue sempre dal resto della scena musicale. In questo album più che mai trasmette tensioni armoniose, sentimenti vivi e forti e la sua fluidità del cantato risulta ipnotica. E’ aliena ai pattern navigati delle grandi pop star, ma mantiene un livello alto di coinvolgimento, nonostante l’astrazione dei suoi testi e talvolta delle produzioni scelte, come quelle di Arca. La sua interpretazione vocale migliore è forse Home with You: suoni moderni e frasi incisive e provocatorie.
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Nonostante tutti gli sforzi tecnici e artistici, MAGDALENE non è un album che scala in fretta le classifiche, perché non è un album realmente pop e non è legato a nessuna logica di trend. L’ascolto di MAGDALENE è un ascolto intenso, richiede tempo e concentrazione oltre ad una grande sensibilità artistica ed emotiva. E’ un album per persone ferite o che conoscono la sofferenza. E’ un album per chi non si conosce, ma vuole avvicinarsi ai propri elementi interiori. Ricorda una lettera a se stessi, o un romanzo letterario dai colori erotici. La musica di FKA è complessa e incarna la complessità degli uomini e delle donne al cospetto di una cosa naturale e umanizzante come lo spettro sessuale. Personalizzando questi contenuti Twigs si sensibilizza e accorcia le distanze con l’auditorium, regalando più incisività alla sua voce soave. La potenza del suo lavoro arriva dritto al cuore di che è pronto ad ascoltare MAGDALENE e le sue storie di vulnerabilità e maturità, emotiva e quindi artistica.
TRACCE MIGLIORI: daybed; mirrored heart; cellophane
TRACCE PEGGIORI: fallen alien
VOTO: 95/100
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Da grande voglio fare la bambina
Quando ero bambina non volevo crescere. Volevo restare per sempre bambina. Piangevo ai miei compleanni, i miei genitori erano quasi preoccupati e un po’ delusi, quando rovinavo con le lacrime la festa che mi avevano organizzato. Quando nemmeno la bella torta che mio padre si era impegnato a realizzare per me, i miei cugini venuti per giocare o i regali che ricevevo riuscivano a tirarmi su, a reagire a quella ineluttabile e, per tutti, inspiegabile disperazione. A cinque anni mia madre mi iscrisse in prima elementare, ma quando fui arrivata a metà anno, lei mi chiese se volessi proseguire o tornare ancora un po’ alla materna. Risposi che certo, volevo tornare all'asilo, a giocare! Volevo il tempo che mi spettava. Quando poi arrivai alle scuole medie le mie compagne di classe cominciarono a cambiare atteggiamento, parevano avessero l'ansia di diventare adulte. Cominciavano a truccarsi di nascosto, minigonne, discorsi maliziosi. Io restavo fedele al mio pensiero. Dovevo sfruttare i miei anni da bambina il più possibile. Non mi importava di non poter far parte di quella maggioranza, di sentirmi sempre esclusa o guardata con sospetto e incomprensione. Continuavo a vestirmi con gonne a pieghe e calzini con i risvolti, mi facevo i codini e non mi interessavano le boy band. In terza media un compagno di classe, che a tutte tirava la molla del reggiseno per farla scattare sulla schiena, provò a tirare anche la mia, restando sconcertato dal fatto che non avessi un reggiseno. La sola idea di andarne a comprare uno mi sconvolgeva. La mia lotta contro l'ineluttabile è continuata negli anni. Facevo piccoli passetti in avanti, solo quelli necessari, solo quelli inevitabili. E continuavo a piangere ai miei compleanni. Adulta, mio malgrado, lo sono diventata anch'io. Le responsabilità, le preoccupazioni, gli impegni hanno catturato anche me. Ma la voglia di tornare bambina non mi è mai passata. Mi sono impegnata a trovare compromessi, soluzioni, a non perdere mai la voglia e la possibilità di giocare. Oggi non è il mio compleanno, ma domani compirò 36 anni e 3 mesi. Ci ho pensato stamattina e ho sorriso. Finalmente ho fatto pace con il tempo e la mia età. Solo di recente ho imparato a farne tesoro, a coltivare l'esperienza, a non guardarmi indietro, ad accettare che tutto cambia, che io cambio e continuerò a cambiare. Ma la gioia di giocare, quella resta immutata. Più invecchio e più riesco a trovare il tempo e il modo di sentirmi bambina. Di stupirmi, di creare, di ascoltare ed imparare. Più passa il tempo e più mi sento io. Quella bambina che avevo temuto di non rivedere più. Adesso sono io quella che ha voglia di crescere, di invecchiare, di scoprire quanti giochi posso ancora inventare. E credo che quelle stesse mie compagne di classe, adesso, se ne stiano lì, davanti a uno specchio a contarsi le rughe. E po’ mi dispiace per loro.
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Ribelle - The Brave 2012 Streaming ITA cb01 completo italiano altadefinizione
https://on.theflixplay.us/movie-geton/62177/ribelle---the-brave.html La principessa Merida è tutta suo padre e poco sua madre. Coraggiosa, audace e insofferente alle regole di corte preferisce cavalcare e tirare con l'arco piuttosto che sedere a tavola composta o curare i suoi immensi capelli rossi. Costretta a sposare uno tra i pretendenti che si scontrano per la sua mano decide di sovvertire le regole e rinnegare la tradizione, subendo la conseguente ira materna. Fuggita nei boschi per la disperazione incontra una vecchia strega che le offre un rimedio magico ai suoi problemi. Invece che acquietare i contrasti con la madre, il rimedio trasformerà quest'ultima in un orso, l'animale più odiato dal battagliero padre, quello che anni prima gli staccò una gamba.
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