#Dannati scrittori
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bludichartres · 1 year ago
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Sì, me ne andai. Lo feci prima ancora di compiere vent'anni. Furono gli scrittori a portarmi via.
J. Fante. La confraternita dell'uva
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pier-carlo-universe · 1 day ago
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La trilogia di Dannati di Glenn Cooper: un viaggio epico tra vita, morte e redenzione. Recensione di Alessandria today
Glenn Cooper è uno degli scrittori più amati del panorama internazionale, noto per i suoi romanzi che mescolano thriller, avventura e mistero.
Biografia dell’autore.Glenn Cooper è uno degli scrittori più amati del panorama internazionale, noto per i suoi romanzi che mescolano thriller, avventura e mistero. Laureato in Archeologia ad Harvard e in Medicina, ha lavorato per anni nel settore biotecnologico prima di dedicarsi alla scrittura. Autore di bestsellers come La biblioteca dei morti, Il libro delle anime e La trilogia di Dannati,…
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scrivosempreciao · 10 days ago
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Bunny, di Mona Awad
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We were just these innocent girls in the night trying to make something beautiful. We nearly died. We very nearly did, didn't we?
3.5, direi. Vediamo se riesco a fare una "recensione" che sia adatta per tutt*, sia per chi non l'ha letto, sia per chi se lo è già divorato. È uno dei miei buoni propositi del 2025.
Se non l'hai ancora letto e sei indecis*... Hai già letto qualcosa di Awad? Rouge, per esempio? Ti è piaciuto? Se è un sì convinto, allora non perderti Bunny. Con una premessa: nonostante Bunny sia antecedente rispetto a Rouge - è il secondo dell'autrice, se non erro -, io ho letto prima Rouge. E l'ho amato, molto. Non potevo farmi scappare l'occasione di leggere anche Bunny. Ecco, devo dire che l'impianto narratologico è... piuttosto simile? Mi spiego, ovviamente non è uguale, le storie sono ben diverse tra di loro, ma i temi trattati sono, a mio avviso, tanto, ma tanto, ma tanto speculari. Come anche la tipologia di protagonista presentata e la sua attitudine nell'affrontare il flusso degli eventi.
A Rouge ho dato 4 stelle piene. Forse anche un 4.5. E questo, credo, perché l'ho letto prima di Bunny. Se avessi letto prima Bunny, probabilmente a pigliarsi il votone sarebbe stato questo e non l'altro, non tanto perché non mi sia piaciuto, ma davvero perché li vedo come due sfumature della stessa entità "libro".
Se non hai letto nulla di Awad, ma hai una propensione per l'horror contemporaneo, il realismo magico, il weird e in generale ti piacciono le protagoniste strambe inserite nella cornice di storie ancora più strambe, prenditi un paio di giornate e leggiti Bunny. È un'aggiunta alla propria libreria che secondo me vale la pena fare.
Comunque, se non l'hai ancora letto e sei indecis* e stai sbirciando la trama per capire se ti piglia... Non farlo! Non leggerla! Non su Goodreads, non su Amazon o altrove! Io non so che cosa girasse per la testa di chi ha confezionato la classica sinossi da copertina per questo libro, ma... aò, contiene spoiler! Cioè, viene presentato in bella vista un aspetto della trama che io, personalmente, avrei voluto tanto, ma tanto scoprire leggendo il libro. Quindi, occhi a me: non leggerla. Quello che ti deve bastare sapere è che questa è la storia di Samantha Heather Mackey, studentessa di un esclusivissimo e fighettissimo e impomatatissimo corso di scrittura creativa alla New England's Warren University. Gli studenti standard della Warren sono i classici snob iperacculturati che, al massimo, "fingono" di essere problematici o di aver vissuto esperienze di vita difficile per fare scena in qualità di scrittori dannati. Samantha no: lei è una ragazza normalissima, al limite del banale, proveniente da una famiglia tutto sommato normale, ma che in questo momento non sa tanto bene cosa vuole dalla vita. Al suo fianco c'è Ava, la sua migliore amica punk, ribelle ed ex-studentessa d'arte. Ma Samantha è alla ricerca di "altro", un altro non meglio definito: e in questo spiraglio di incertezza si inseriscono le Bunny, un gruppetto esclusivo di quattro studentesse piuttosto particolari ed elitarie. Fine. Non leggere altro. Goditi il resto mentre lo leggi.
Ok, ci stai, vuoi leggerlo, ma vuoi prepararti un po' di più. Ecco cosa troverai in Bunny: Uh, preparati per una wild ride. Che tu abbia o meno familiarità con i lavori di Awad, è bene sapere che, anche in Bunny, ci sono buone dosi di realismo magico, occulto, soft horror contemporaneo e orrore cosmico in chiave femminile. La specialità di Awad è, a mio avviso, sottoporci intensi ed emozionali percorsi di liberazione/crescita/consapevolezza/determinazione e immergerli nella viscosità inquietante di situazioni al limite del paranormale, spiritico, esoterico. Leggi questo libro, sai che stai leggendo un horror, ma hai anche la consapevolezza di star leggendo qualcosa di più profondo e, al tempo stesso, molto più semplice, puntuale ed evidente: la storia di una ragazza confusa che sta crescendo. E chi non è stata quella ragazza, a un certo punto della sua vita? Chi non si è trovat* a dover compiere, a un certo punto, il salto che porta dall'infanzia alla vita adulta? Chi non ha pensato, almeno una volta, di essere solo al mondo e zavorrato da mille pesi del passato? Quella di Bunny è una storia di "coming of age" - anche se ovviamente Samantha è già maggiorenne e "adulta". L'occulto è il contorno, come lo sarà poi anche in Rouge.
Bene. Ma, c'è sangue? C'è paura? C'è splatter? C'è horror? Sì. Sì. Sì. E sì. Anche se parlerei più di inquietudine costante, pungente ed esistenziale, invece che di paura vera e propria. E più di disagio weird, invece che di horror. Perché questo libro è weird, lo è sul serio. Io mi sono convinta a leggerlo grazie a una recensione trovata su Goodreads, di 4 parole. E questa recensione diceva: "Ahaahaha what the fuck". E assegnava 5 stelle al libro.
È strano, in tutte le sue parti: da come è scritto alle scelte narrative che vengono fatte, ai colpi di scena che ci vengono proposti. È tutto senza un apparente senso, ma allo stesso tempo è tutto estremamente centrato e sensato. Questa contrapposizione così soddisfacente è data, secondo me, dall'ingrediente realismo magico. Certe cose succedono, perché sì. Perché le cose vanno così. Perché questa è la realtà, e certe scelte all'apparenza del tutto deliranti hanno la stessa coerenza di una mela che cade dall'albero e viene attratta al suolo dalla gravità. È così, e devi farci i conti.
E la protagonista com'è? La classica manic pixie dream girl pick me che spesso si ritrova in libri come questo? Sì e no. Io non sono una grande fan delle personagge che sanno tutto loro, capiscono tutto loro, la vita la sanno vivere solo loro, sono fighe solo loro, l'arte la capiscono solo loro e tutto il resto è equiparabile a merd*na secca. Però, mi sono messa il cuore in pace e ho capito che quel tipo di archetipo, nelle sue mille sfumature, è spesso presente nel genere horror/weird/gotico/splatter. La protagonista morally grey un po' saccente è quasi un classico, ormai. E, per carità, Samantha in un certo senso è proprio così, soprattutto all'inizio. Ma, più si va avanti, più ci si rende conto di avere per le mani una ragazza in realtà molto fragile, incerta, confusa e passiva. Una ragazza normale. Una che si fa trascinare dagli eventi, e parecchio. Una che pensa tanto, ma dice poco di quello che pensa, al contrario delle tipiche "eroine" che hanno la battuta sempre pronta e rispondono per le rime a tutto e tutti. Chi ha letto anche Rouge, troverà parecchie somiglianze tra Belle e Samantha e credo, a questo punto, che lavorare con protagoniste non estremizzate e tutto sommato "normali" - Belle ha un po' più mordente e una storia più particolare, quello sì - sia qualcosa che ad Awad piace parecchio.
Perché allora 3 stelline e non 4 o 5? Eheheh, e qui partono gli SPOILER, mi dispiace. Pussa via, se non l'hai ancora letto! Che dire. 3 stelline (3.5) perché avrei voluto che tutto l'impianto horror, occulto e weird fosse un po' più spinto e centrale. Avrei voluto vederlo più in azione. Avrei voluto saperne di più. Ragazze che ingannano la noia esistenziale da bambine viziate e inconcludenti che le affligge trasformando coniglietti in ragazzi? O meglio, in "bozze" di ragazzi fittizi e letterari da cui vorrebbero essere coccolate, adorate, venerate, corteggiate e scopate? Cioè, è un'idea geniale. Clamorosa. Con cui, secondo me, ci si poteva divertire tantissimo e che poteva essere espansa un po' di più. Capisco che qui è tutto una grande metafora, un simbolo, un rimando: le ricche ville delle Bunny dove avvengono i rituali - e le uccisioni degli "Ibridi" meno adatti - è come se fossero delle case di bambola dove queste giovani donne si divertono con gli strascichi di un'infanzia glitterata e trascorsa nella bambagia. Usare lo straordinario potere occulto e trasformativo che pare appartenere tanto a Samantha quanto alle Bunny - anche se in modalità differenti, la protagonista lo usa istintivamente e inconsapevolmente per creare "figuranti" che siano sfidanti e indipendenti, non degli automi privi di volontà come accade per le Bunny - per creare dei bambolotti con cui giocare invece che per scopi più alti, gettando nel fango tutta la presunta superiorità elitaria, mentale, letteraria e culturale che la Warren promuove, perché alla fine siamo comunque creature egoiste, primordiali, carnali e desiderose. Immaginazione, potenza creativa, scrittura e narrazione - nel senso più letterale del termine, visto che la protagonista è una scrittrice e il tema dell'usare la scrittura per scoprire se stess* torna più volte - che qui prendono una forma concreta e ci sbattono in faccia le nostre mancanze, lacune, dolori ed esigenze insoddisfatte. E che tornano a morderci le chiappe se non le sappiamo gestire - vedi Max. E Ava pure, in un certo senso.
Capisco tutto, capisco le metafore, capisco il simbolismo, ma, diamine, mi sarebbe piaciuto viverlo un po' di più, quell'horror. Entrarci più dentro, sporcarmici di più. E invece, i momenti "what the fuck" si esauriscono, secondo me, tutti tanto, troppo presto.
E poi il finale. A me, non ha soddisfatta. Mi ha lasciata un po' meh. Mi aspettavo più brutalità, crudezza, intensità. Ma ci può anche stare, eh, mi rendo conto che in quel momento l'attenzione del racconto fosse altrove e cioè sull'elaborazione del lutto per la perdita di Ava e sull'acquisizione di una nuova consapevolezza di sé.
Ma torniamo a noi! Io sono ben contenta di averlo letto e non posso che rinnovare la mia ammirazione per la mente e i lavori di Awad. Tanto di cappello. E ora, hop hop conigliett*, leggetelo anche voi!
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alchimia31 · 4 years ago
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Io le volevo tutte quelle cose...ma nonostante io ci mettessi sempre il cuore continuavo a perdere...  ho perso tempo,la pazienza , le scommesse,ho perso il sonno, ho peso la testa ,ho perso l'entusiasmo,ho perso le parole... la fiducia...e ho perso anche Te... forse è così che si diventa dannati, ma io volevo tutte quelle cose...
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falcemartello · 2 years ago
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Ora finitela col vostro ditino
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Vorrei fare un discorsetto serio a quella razza superiore che giudica dall’alto il mondo, il prossimo e chi non la pensa come loro. Dico alla sinistra e alle loro insopportabili autocertificazioni di superiorità. lo dico partendo alla larga e da lontano, da altri ambiti non politici. Per esempio, io non ce l’ho con le attrici, gli attori, i registi e i cineasti di sinistra che s’indignano contro il sessismo e le violenze alle donne e poi non solo tolleravano ma trescavano coi produttori maiali e il loro disgustoso mercato del sesso; molti di loro sapevano, facevano e tacevano. Io non ce l’ho poi contro i cantanti di sinistra che portavano i soldi guadagnati in nero in Svizzera o in qualche paradiso fiscale, dopo aver predicato per la giustizia e i più deboli. E ancora. Io non ce l’ho con gli intellettuali di sinistra che hanno goduto di privilegi, cattedre e carrozzoni coi soldi pubblici da cui mungere soldi, viaggi e premi, o che pretendono di essere pagati in nero, salvo tuonare contro i privilegi e i ricchi. Io non ce l’ho con gli intellettuali e gli scrittori di sinistra sorpresi a plagiare testi altrui. Non ce l’avevo nemmeno con gli intellettuali di sinistra che furono fascisti, ebbero cattedre, giurarono fedeltà al regime e alle leggi razziali, ma esercitarono poi un intransigente magistero antifascista e toglievano la parola e la dignità a chi non si professava antifascista. Io non ce l’ho con tutti loro, a volte amo le loro canzoni, leggo i loro testi, mi confronto con le loro idee, vedo i loro film e in ogni caso so distinguere il loro lato umano miserabile dalle loro qualità, che riconosco quando non sono palloni gonfiati. No, non ce l’ho con loro. Ce l’ho col loro ditino. Quel ditino ammonitore che ruota nell’aria quando pretendono d’insegnare agli altri la morale e la coerenza che non praticano o peggio quando disprezzano, ignorano, escludono chi sta a destra, i populisti o i cattolici, i moderati, comunque non nella loro brigata. È quel ditino che decreta solo per appartenenza i lodati e i dannati, le opere e gli autori da recensire e da premiare, e quelli da ignorare e vituperare. Ma ora che sappiamo quanto prendevano, come prendevano, dove portavano, da dove copiavano, come si facevano strada, a prezzo di cosa, quel ditino non lo sopporto più. Non voglio vedervi in galera, alla gogna, censurati, ma col ditino abbassato. [...]
Non mettiamo all’indice nessuno, non alziamo il ditino contro nessuno. Ma ora che siete ridotti a quattro ossa elettorali, cenere politica e fumo intellettuale, smettetela di dare lezioni agli altri… Erano insopportabili le lezioni col ghigno dei trionfatori, ma sono insopportabili e grottesche le lezioni con la boria dei nobili decaduti, la vanteria dell’élite sconfitta dalla vile plebe populista, che lascia le ultime istruzioni alla servitù e ai parvenu. Non fate più i maestrini, please.
Siate francescani, e non nel senso di rifugiarvi sotto la tonaca di Papa Francesco. Recuperate del poverello l’umiltà e l’ascolto. E come Francesco, parlate agli uccelli, perché la gente non vi vuole più sentire.
Marcello Veneziani
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avalonishere · 2 years ago
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Ora finitela col vostro ditino
di Marcello Veneziani
Vorrei fare un discorsetto serio a quella razza superiore che giudica dall’alto il mondo, il prossimo e chi non la pensa come loro. Dico alla sinistra e alle loro insopportabili autocertificazioni di superiorità. lo dico partendo alla larga e da lontano, da altri ambiti non politici. Per esempio, io non ce l’ho con le attrici, gli attori, i registi e i cineasti di sinistra che s’indignano contro il sessismo e le violenze alle donne e poi non solo tolleravano ma trescavano coi produttori maiali e il loro disgustoso mercato del sesso; molti di loro sapevano, facevano e tacevano. Io non ce l’ho poi contro i cantanti di sinistra che portavano i soldi guadagnati in nero in Svizzera o in qualche paradiso fiscale, dopo aver predicato per la giustizia e i più deboli. E ancora. Io non ce l’ho con gli intellettuali di sinistra che hanno goduto di privilegi, cattedre e carrozzoni coi soldi pubblici da cui mungere soldi, viaggi e premi, o che pretendono di essere pagati in nero, salvo tuonare contro i privilegi e i ricchi. Io non ce l’ho con gli intellettuali e gli scrittori di sinistra sorpresi a plagiare testi altrui. Non ce l’avevo nemmeno con gli intellettuali di sinistra che furono fascisti, ebbero cattedre, giurarono fedeltà al regime e alle leggi razziali, ma esercitarono poi un intransigente magistero antifascista e toglievano la parola e la dignità a chi non si professava antifascista. Io non ce l’ho con tutti loro, a volte amo le loro canzoni, leggo i loro testi, mi confronto con le loro idee, vedo i loro film e in ogni caso so distinguere il loro lato umano miserabile dalle loro qualità, che riconosco quando non sono palloni gonfiati. No, non ce l’ho con loro. Ce l’ho col loro ditino. Quel ditino ammonitore che ruota nell’aria quando pretendono d’insegnare agli altri la morale e la coerenza che non praticano o peggio quando disprezzano, ignorano, escludono chi sta a destra, i populisti o i cattolici, i moderati, comunque non nella loro brigata. È quel ditino che decreta solo per appartenenza i lodati e i dannati, le opere e gli autori da recensire e da premiare, e quelli da ignorare e vituperare. Ma ora che sappiamo quanto prendevano, come prendevano, dove portavano, da dove copiavano, come si facevano strada, a prezzo di cosa, quel ditino non lo sopporto più. Non voglio vedervi in galera, alla gogna, censurati, ma col ditino abbassato. [...]
Non mettiamo all’indice nessuno, non alziamo il ditino contro nessuno. Ma ora che siete ridotti a quattro ossa elettorali, cenere politica e fumo intellettuale, smettetela di dare lezioni agli altri… Erano insopportabili le lezioni col ghigno dei trionfatori, ma sono insopportabili e grottesche le lezioni con la boria dei nobili decaduti, la vanteria dell’élite sconfitta dalla vile plebe populista, che lascia le ultime istruzioni alla servitù e ai parvenu. Non fate più i maestrini, please.
Siate francescani, e non nel senso di rifugiarvi sotto la tonaca di Papa Francesco. Recuperate del poverello l’umiltà e l’ascolto. E come Francesco, parlate agli uccelli, perché la gente non vi vuole più sentire."
Il ditino possono metterselo 🖕
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il-pipistrelloh · 3 years ago
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Call For Papers per Blogger e Creativi
Ciao amichetti scrittori dannati di Tumblr, so che questo è il posto giusto per spammare la call for papers di Cogito et Volo. Cerchiamo articolisti che entrino nella redazione del nostro blog online (destinato a diventare testata a breve). Sarete liberi di scrivere articoli e racconti su argomenti a vostra scelta e cavalcare verso il successo. Potete seguire le istruzioni a questo link oppure contattarmi in privato.
Stay tuned stay damned.
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natasciahellionluchetti · 4 years ago
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La paura di essere divorati e sparire in qualcun altro ha dato origine a tantissimi mostri, partendo dalle religioni. Se pensate ai tormenti infernali, c'è sempre una creatura divoratrice. Basti pensare al Gramr dei Vichinghi, il Cerbero dei Greci, al Diavolo Cristiano che dalla sua fossa mangia le anime dei dannati. E i divoratori riempiono il folklore, le leggende, le fiabe. Il Lupo Cattivo, la Strega che mangia i bambini, i giganti che fagocitano gli esseri umani, le fate Unseelie che fanno dei piccoli villaggi il loro territorio di caccia. I draghi, le viverne, i mannari, i vampiri: ripensandoci, tutti i mostri che ci vengono in mente mangiano le persone. Se non il corpo, divorano la loro anima. Spesso le due cose coincidono. Il mostro mangia il corpo e si prende l'anima, la assorbe, la fa sua. Questa convinzione è un retaggio delle credenze nordiche in base alle quali bere sangue e mangiare carne di un nemico sconfitto, che fosse bestia o essere umano, garantiva al vincitore l'acquisizione di parte del suo vigore e delle sue qualità. Assimilate tante creature in quel modo avrebbe reso una sorta di invincibilità. Ed ecco perché il vampiro è potentissimo, così come i cani infernali, le fate Unseelie e via dicendo. Si creano agglomerati di anime e potere. Badate bene, anche i malvagi della religione cristiana sono agglomerati di anime. Basti pensare al Diavolo che, in molti passi della Bibbia si fa chiamare Legione. "Il mio nome è Legione, poiché siamo in tanti". Le anime dannate, precipitate all'Inferno, fagocitate e riunite in un unico mostro. Anche gli scrittori di horror contemporaneo hanno creato mostri tutti nuovi che divorano le persone. Basti pensare a IT di King. L'antagonista è una creatura che divora e divora. Persino i manga sono pieni di questi personaggi. Mi viene in mente Tokyo Ghoul, dove i ghoul, per l'appunto, mangiano i corpi - vivi o morti - degli abitanti ignari. Non serve che faccia una lista infinita di questi esempi, perché se vi fermate a pensare, ne troverete a bizzeffe. 𝗦𝗰𝗿𝗶𝘃𝗲𝘁𝗲 𝗻𝗲𝗶 𝗰𝗼𝗺𝗺𝗲𝗻𝘁𝗶 𝘁𝘂𝘁𝘁𝗶 𝗶 𝗺𝗼𝘀𝘁𝗿𝗶 𝗱𝗶𝘃𝗼𝗿𝗮𝘁𝗼𝗿𝗶 𝗰𝗵𝗲 𝘃𝗶 𝘃𝗲𝗻𝗴𝗼𝗻𝗼 𝗶𝗻 𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲! 👇👇 Continua 👇👇 https://www.instagram.com/p/CJBRKr1Hq4A/?igshid=fb81masuaf91
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pangeanews · 4 years ago
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“Lui è incline alla megalomania, io alla malinconia”. Fitzgerald e Hemingway: un’amicizia tormentata
Due dei più grandi romanzi americani di tutti i tempi – Il Grande Gatsby e Fiesta – vennero scritti da due amici strettissimi, come Fitzgerald e Hemingway, alle prese con una vita da espatriati nella Parigi del dopoguerra e pubblicati nel biennio 1925/26. Entrambi sono stati scrittori emblematici della letteratura americana, entrambi intenzionati a rappresentare il destino infelice di chi rincorre una donna. Gatsby ucciso a causa della sua infatuazione per Daisy da una parte e Jake Barnes ridotto alla catatonia dalla voluttuosa Lady Brett Ashley.
Se letti insieme, i due romanzi svelano vicendevolmente la tragica visione del mondo che avevano i rispettivi autori. Nonostante le differenze personali e artistiche, i due libri mostrano la raccapricciante proiezione che Fitzgerald e Hemingway avevano di sé stessi. Il primo, un romantico arso dalla passione, il secondo, altrettanto romantico ma incapace di amare liberamente, entrambi ispirati dalla ricerca dell’amore vero. Anche se l’amicizia fra i due si interruppe dopo poco, rimase comunque un rapporto importate che continuò a influenzarli profondamente.
*
Francis Scott Fitzgerald aveva frequentato Princeton; a quei tempi si concentrava sulla scrittura di musical senza successo. Abbandonato il college, salì alle luci della ribalta con Di qua dal Paradiso (1920) e poi con Belli e Dannati (1922), ma come lui stesso sapeva, questi e altri testi scritti per il Staurday Evening Post erano superficiali. Nel 1925 a Parigi, incontrò per la prima volta Hemingway. Di tre anni più giovane e ancora in rampa di lancio, Ernest invidiava il successo, la fama e la vita (anche sessuale) di Fitzgerald. Tuttavia, quello sicuro di sé fra i due era senz’altro Hemingway, mentre Fitzgerald era costantemente tormentato dai dubbi.
Fitzgerald presentò Hemingway alla Scribner’s aiutandolo ad affermarsi e mentre Hemingway stava diventando il suo principale rivale artistico, Fitzgerald lo elevava a eroe ideale. Hemingway era virile e atletico, reggeva l’alcol e aveva combattuto. Era di una spanna più alto e venti chili più pesante. Hemingway era la versione letterata dei giocatori di football che Fitzgerald ammirava al college. Gli altri della sua cricca, come lui, avevano frequentato università altisonanti: Harvard, Yale, etc. Hemingway invece – come Conrad, Kipling e Orwell – si era formato destreggiandosi nella violenza del mondo reale. Se Hemingway era ammirato per la sua forza, Fitzgerald era amato nonostante la sua debolezza.
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Parallele ma al contempo incidenti, le biografie dei due autori si incontrano partendo dai capi opposti dello stesso gomitolo. Fitzgerald: di famiglia irlandese e cattolica, figlio di un padre inetto e di una madre dispotica; femminile nei tratti del volto e gracile di corporatura; trascurabile sottotenente all’interno dell’amministrazione durante il periodo di leva. Si sposò nel 1920 dopo il primo successo letterario e con la moglie, Zelda Sayre, si trasferì a Parigi. Il suo stile era lirico e accattivante. Era prono all’alcolismo tanto da umiliare sé stesso in pubblico. Adorava l’amico Gerald Murphy, pittore a tempo perso e figura ispiratrice di Dick Diver, protagonista di Tenera è la notte.
Hemingway, dal canto suo, nacque nella periferia di Chicago da famiglia protestante. Il padre era dottore e amante della vita all’aperto. Hemingway accusava la madre di aver portato al suicidio il padre, totalmente sottomesso. Dopo le scuole superiori iniziò a lavorare come giornalista a Kansas City e qui ebbe il suo imprinting con la fiction. Era un ragazzo bello e forte; eccelleva nello sci, sapeva tirare di boxe e praticava con successo la caccia e la pesca. Non ancora ventenne, diventò volontario per la Croce Rossa sul fronte italiano, qui, sebbene gravemente ferito alle gambe da un proiettile, riuscì a soccorrere e salvare un compagno caduto. Tre anni più tardi sposò Hadley Richardson, una donna nettamente in contrasto con la bellissima Zelda. I due si trasferirono a Parigi nel ’22, ed Ernest iniziò a lavorare come corrispondente estero per il Toronto Star. Parallelamente iniziò a scrivere anche per riviste intellettuali e per la stampa indipendente. Lo stile di Fiesta è asciutto e brusco. Sapeva darsi un contegno anche in preda ai fumi dell’alcol e riteneva Geral Murphy un fannullone e un superficiale.
Altruista e sognatore, cauto e avverso al rischio, Fitzgerald conduceva una vita da celebrità. Aveva in odio i francesi e non studiò mai una lingua straniera. La moglie Zelda aveva una distruttiva ossessione per il balletto e soffrì di varie nevrosi. Il successo di Fitzgerald si esaurì in fretta, quando la critica accolse malamente il suo romanzo più ambizioso: Tenera è la notte. Negli anni ’30 si diede alla sceneggiatura, ma si rivelò un’esperienza infruttuosa. Concluse la sua vita in povertà e, colto da un attacco di cuore all’età di 44 anni, morì dopo una vita dissoluta.
Contrariamente, Hemingway era competitivo, egoista, un realista convinto. Era irascibile e amava le situazioni violente, lo sport e la guerra. Alla ricerca costante del proprio limite fisico e morale, ebbe una vita piena di rischi e di infortuni. Si esaltava per la corrida. Imparò l’italiano, il francese lo spagnolo e il tedesco; visse a Cuba, in Africa e in Asia. Partecipò alla Guerra Civile Spagnola e rifuggiva le luci di Hollywood.  Dopo il successo nel 1929 con Addio alle Armi e nel 1940 con Per chi suona la campana, iniziò la sua parabola discendente, tuttavia vinse il Nobel nel ’54. Dilaniato dalla depressione, morì suicida nella ricchezza all’età di 61 anni. Festa Mobile è il suo capolavoro postumo: un’aspra critica a Fitzgerald e gli altri artisti espatriati degli anni ’20.
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Hemingway e Fitzgerald si conoscevano nell’intimo e riconoscevano reciprocamente virtù e difetti dell’uno e dell’altro. Fitzgerald pensava che Hemingway fosse oppresso dal rapporto con la madre e che ancora si stesse “ribellando al fatto di essere stato costretto a prendere lezioni di violoncello quando era bambino”. Lo aiutò a entrare nell’editoria che contava; come una sofisticata guida lo condusse verso la terra promessa. “Se lo senti parlare, penserai che la Liveright gli abbia svaligiato casa, ma è solo perché non sa niente di editoria,” disse di Hemingway al suo editore Max Perkins, “ma vedrai che non potrai resistergli: è una delle persone migliori che abbia mai incontrato”. Ernest invece, nonostante non esprimesse mai un giudizio positivo sulle opere dei suoi colleghi avversari, definì Il Grande Gatsby “un libro di prim’ordine”. Il romanzo di Fitzgerald è infatti una miscela letteraria perfetto: trama complessa fatta di adulterio, crimini e assassinii, conflitti di classe, satira sociale; un’ambientazione opulenta e un’atmosfera romantica; sogni infranti e uno stile tanto fresco da sembrare attuale dopo quasi un secolo. Gatsby esce dal suo eremo di ricchezza e si concede alla plebe per attrarre Daisy, un’irraggiungibile femme fatale intenta a plasmare la figlia nei suoi stessi difetti. “Spero sia anche stupida” – diceva – “È la cosa migliore per una ragazza in questo mondo: essere una bella oca giuliva.” Gatsby, annebbiato dal sentimento, è incapace di cogliere l’ironia del suo status, che gli permette di ottenere tutto ciò che vuole tranne Daisy, tenuta al guinzaglio dal vile, meschino e adultero marito.
Il senso di perdita sviscerato ne Il Grande Gatsby influenzò profondamente Addio alle armi, tanto da spingere Hemingway a chiudere il suo libro con una frase di Nick Carraway, il narratore inventato da Fitzgerald: “poi me ne uscii dalla stanza e scesi per la scala di marmo, sotto la pioggia, lasciandoli insieme”. In molti si fecero ispirare dal capolavoro di Fitzgerald: l’immagine del cadavere di Gatsby rivolto nella piscina è stata ripresa nel film Viale del tramonto di Billy Wilder; mentre Myrtle Wilson ha ispirato Charlotte Haze, personaggio chiave di Lolita, l’iconico libro di Nabokov. E se Gatsby influenzò tanti, Fitzgerald si fece influenzare proprio da Hemingway ancor prima di incontrarlo: lo stesso Nick Carraway in fin dei conti è la fusione fra Hemingway e il suo stesso idolo, Nick Adams. Ma l’intricato gioco di echi fra i due autori continua con Fitzgerald che ripone i valori morali del Midwest in Carraway e lo contrappone a Tom Buchanan, antagonista virile di Gatsby; mentre in Fiesta Hemingway crea contrasto fra l’instabile morale degli statunitensi fuori sede espressi da Jake Barnes e il suo rivale virile, il torero Pedro Romero.
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I temi de Il Grande Gatsby riecheggiano continuamente in Fiesta. Inizialmente rifiutato da Daisy per la sua condizione economica sconveniente, Gatsby passa la maggior parte della sua vita a conquistarla. “Non si può ripetere il passato? Ma certo che si può!” si chiede e si risponde da solo mentre parla con Nick. Specularmente, Barnes e Brett vorrebbero scappare dal proprio passato piuttosto che ripeterlo. Entrambi i romanzi fanno satira sociale. All’incoraggiamento a Gatsby da parte di Carraway “Loro sono marci… Tu da solo vali più di tutti loro messi insieme,” fa eco la condanna di Bill Gorton contro gli espatriati in Fiesta: “Ti stai ammazzando col bere. Ti fai ossessionare dal sesso. Passi il tuo tempo parlando, invece di lavorare”.
Negli anni ’20 Hemingway ammirava Fitzgerald, ma più lo conosceva e più diventava critico nei suoi confronti. I problemi cominciarono prima della pubblicazione di Fiesta: Fitzgerald consigliò a Hemingway di tagliare i primi due capitoli, riducendo drasticamente le informazioni di contesto sui personaggi. Anche se Perkins, l’editor, si oppose a questa scelta, Hemingway decise comunque di toglierli, salvo poi mostrarsi seccato nei confronti del giudizio del collega-amico. Un secondo screzio fra i due ci fu quando, nel giugno del ’29, Fitzgerald si scordò di chiamare la fine di un round nell’incontro di pugilato fra lo scrittore canadese Morley Callaghan e lo stesso Hemingway. Quando il primo mandò l’americano al tappeto, Fitzgerald si svegliò di soprassalto giustificandosi “Santo cielo! Dovevo suonare la campanella un minuto fa”. “Allora, Scott,” si infuriò Hemingway “se vuoi vedermi gonfio di botte, dillo e basta. Non dire però che ti sei sbagliato”.
Mentre Fitzgerald rimase fedele alla sua Zelda anche durante le nevrosi, Hemingway ripudiò tre mogli e complicò la vita alla quarta. Con acume, Fitzgerald profetizzò in tempi non sospetti che Hemingway necessitasse del tormento di un divorzio e dell’eccitazione di un nuovo matrimonio per foraggiare il suo genio creativo. Disse a Callaghan che, secondo lui, Ernest aveva bisogno di una nuova donna per ogni successo letterario. Una per Fiesta e Pauline per Addio alle armi. “Se scriverà un altro libro, penso che lo vedremo con un’altra moglie”. E fu proprio così con la sua terza moglie, Martha Gellhorn, che sposò mentre scriveva Per chi suona la campana.
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Indirettamente, Fitzgerald fa riferimento a Hemingway ne Il Crollo, un saggio autobiografico pubblicato in tre parti su Esquire. Fitzgerald conferma le critiche ricevute da Hemingway e le approfondisce; come lui, anche Fitzgerald crede che la vita debba essere dominata per poter combinare qualcosa di buono, mentre lui si sentiva dominato dalla vita e per questo era crollato. Nelle sue insicurezze, Fitzgerald elenca quattro uomini che hanno incarnato le sue coscienze esterne: lo scrittore Edmund Wilson e l’amico di gioventù Charles “Sap” Donahoe rappresentavano la sua coscienza morale; Gerald Murphy, che aveva vissuto una vita all’insegna dell’edonismo in Costa Azzurra, era la sua coscienza sociale; e Hemingway – che pur da adulto aveva definito un missile teleguidato, ma senza una guida – nella sua versione più acerba, rappresentava la sua coscienza artistica.
Hemingway ha sempre avuto dei grandi maestri che gli hanno insegnato tutto. Dal padre e da Philip Percival apprese la caccia e la pesca; da “Chink” Dorman-Smith, eroe della Prima Guerra Mondiale, le strategie belliche; da Lincoln Steffens il giornalismo; imparò la politica osservando Georges Clemenceau e Lloyd George; mentre la scrittura leggendo Tolstoj, Kipling e Stephen Crane; il gusto per l’arte lo prese da Picasso e Mirò.
In una lettera a Perkins, Fitzgerald paragonò il proprio processo creativo a quello di Hemingway: “ogni risultato che ho ottenuto mi è costato fatica, mentre Ernest ha un tocco di genio che gli permette di tirar fuori cose incredibili senza il minimo sforzo”. Confessò all’editore che avrebbe voluto coltivare un’amicizia con Hemingway, avrebbe voluto “assorbire un po’ di quelle qualità che rendevano Ernest così attraente, e appoggiarsi a lui, come su di un solido bastone, nei momenti psicologicamente difficili”. Tuttavia, questo suo ultimo desiderio non venne mai esaudito e dal velenoso amico ricevette sempre più critiche che premure. Nel 1936, Fitzgerald ammise di non poter più incontrare Hemingway dopo che il loro rapporto si era disastrosamente capovolto. Tuttavia, con l’ennesima tragica profezia, avvicinò ancora una volta la propria figura a quella di Hemingway, come le due facce della stessa personalità bipolare: “Non è meno nevrotico di me, ma lo manifesta diversamente. Lui è incline alla megalomania, io alla malinconia”.
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In diverse occasioni Fitzgerald aveva deriso Hemingway per via della sua fallimentare esperienza da studente di violoncello, così questi lo attaccò per la sua discendenza irlandese, comunemente associata alla servitù. “Era un uomo che sembrava un ragazzo con un viso tra il bello e il grazioso. […] Aveva una delicata bocca irlandese con labbra allungate che in una ragazza sarebbe stata la bocca di una bellezza. […] La bocca ti inquietava fino a che non arrivavi a conoscerlo e dopo ti inquietava ancora di più,” poiché faceva presagire una decadenza androgina. Per criticare gli ambienti sociali frequentati da Fitzgerald e per segnalarne la superficialità, l’opulenza, la superbia e la propensione al vizio, Hemingway descrisse ciò che pensava fosse il paradiso per Fitzgerald: “un bellissimo vuoto riempito da monogami abbienti, potenti e provenienti dalle famiglie migliori, tutti che si ubriacano fino ad ammazzarsi”. Hemingway disprezzava il culto della giovinezza, l’ingenuità sessuale, l’autocommiserazione, la venalità e la mancanza di determinazione di Fitzgerald. “È saltato dall’infanzia alla senilità senza passare dalla maturità”. Senza troppi giri di parole, gli disse che non era più in grado di produrre qualcosa di valido perché si era chiuso nel suo narcisismo: “Hai smesso di ascoltare molto tempo fa. Ascolti solo le risposte alle tue domande… è da lì che viene tutto. Vedere, ascoltare. Tu vedi bene, ma hai smesso di ascoltare”.
Nessun amico fece per Hemingway quanto Fitzgerald. Oltre a presentarlo a Scribner’s, gli prestò denaro quando era in difficoltà, lo ospitò nella casa al mare quando il figlio John era malato e si precipitò dal Delaware a Philadelphia per dargli i soldi necessari per raggiungere Chicago dopo il suicidio del padre. Ma Hemingway, che era fiero della sua indipendenza e odiava i vincoli, litigava spesso con chi gli stava vicino. In soli due anni, passò dal dichiarargli il profondo apprezzamento per il loro rapporto al risentimento a causa del suo etilismo fuori controllo. “L’ultima volta in cui eravamo a Parigi, ci ha fatto cacciare da un appartamento e si caccia sempre nei guai. (Insultava il padrone di casa, ha pisciato nel porticato e ha tentato di buttare giù il portone d’ingresso dalle 3 alle 5 del mattino)… voglio molto bene a Scott, ma lo dovrò picchiare prima di farci cacciare un’altra volta; ho paura di ammazzarlo”.
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“Sembra che per lui sia motivo di orgoglio accettare senza vergogna la sconfitta… Aveva un talento straordinario, ma l’obiettivo è metterlo a frutto e non piagnucolare in pubblico,” scrisse Hemingway sempre a Perkins condannando il patetico autoritratto presentato da Fitzgerald ne Il Crollo. Si sentì in diritto di criticarlo pubblicamente visto che Fitzgerald si era già esposto da solo. E così fece ne Le nevi del Kilimangiaro, pubblicato su Esquire appena tre mesi dopo Il Crollo. Infatti, Harry – scrittore fallito – amaramente si dice “Ripensò al povero Scott Fitzgerald e alla sua romantica soggezione verso di loro… Pensava che fossero una razza speciale, seducente, e quando scoprì che non lo erano questo fu, fra gli avvenimenti che lo frantumarono, in nulla inferiore agli altri”. Hemingway sapeva che l’autodistruttivo Fitzgerald non era caduto in disgrazia a causa dei ricchi che aveva criticato ne Il Grande Gatsby.
Quando Zelda entrò nel suo calvario psichiatrico, Scott divenne sempre più vulnerabile, ma questo atto della querelle con l’amico Hemingway lo fece precipitare ancora di più, tanto che tentò il suicidio per overdose di morfina. Un episodio che non solo rivelò tutta la sua fragilità, ma anche il potere di ferirlo che Hemingway aveva. Nonostante nella versione per l’editoria dello stesso racconto, Ernest decise di cambiare il nome di Fitzgerald in “Julian”, ormai il danno era fatto. È difficile vederci del buono in questa storia, ma l’episodio permise a Fitzgerald di assorbire un po’ del senso di colpa che Hemingway provava per essersi venduto al mercato mainstream e nonostante l’umiliante trattamento riservatogli, Fitzgerald continuò ad ammirare colui che comunque percepiva come un amico che cercava di aiutarlo.
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Nell’opera postuma di Hemingway, Festa mobile, l’americano descrive Fitzgerald come una persona avversa agli stranieri, infantile, inopportuna, prodiga e irresponsabile, litigiosa e irritante, una puttana artistica distruttrice del suo talento. La descrizione è poi suffragata da alcuni aneddoti, come quello sulla macchina abbandonata a Lione per cui chiese a Hemingway di accompagnarlo in treno, salvo poi perdere la corsa. Nel libro, Hemingway rincara la dose, questa volta dipingendolo come un ipocondriaco autocompiacente ai limiti del grottesco, che interferiva persino con il suo di lavoro fino ad umiliarsi chiedendogli di giudicare la prestanza del suo pene, dato che Zelda aveva espresso una certa frustrazione sessuale nei suoi confronti. La voluttuosa Zelda era l’arcinemica di Hemingway; lui la incolpava di aver distrutto Fitzgerald. “Credo che il 90 per cento dei suoi problemi siano colpa di Zelda,” scrisse sempre a Perkins. In Festa mobile “Zelda era molto gelosa del lavoro di Scott […] Cominciava a lavorare e non appena si metteva a lavorare bene Zelda cominciava a lamentarsi che si annoiava e lo tirava fuori per andare a qualche party di avvinazzati”. In modo ancor più serio, Hemingway condannava l’ex amico per aver permesso alla moglie di tradirlo con l’avvenente aviatore francese Edouard Jozan. All’opposto, le compagne di Hemingway lo avevano adorato e servito durante le rispettive relazioni; solamente Martha ad un certo punto decise di concentrarsi sui suoi interessi personali.
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Ne La breve vita felice di Francis Macomber, Hemingway si ispirò a Zelda per il personaggio di Margot. Come lei, era bellissima e aveva un carattere orrendo. Margot è descritta come una donna crudele, predatoria e molto seducente, in grado di annichilire o spezzare i propri uomini. Come Zelda, anche Margot tradisce il marito con Robert Wilson, la guida safari che hanno contrattato. Zelda provò a distruggere Fitzgerald; Margot uccide il marito che da poco era riuscito a trovare un po’ di autostima. Ne La breve vita felice di Francis Macomber, Hemingway prende in prestito un altro momento topico de Il Grande Gatsby. Infatti, entrambi i protagonisti vivono un picco emozionale e un momento di euforia totale. Gatsby quando Daisy si confessa durante la sua prima visita alla sua villa. Macomber quando riesce ad uccidere il Bufalo che lo stava caricando, redimendosi dall’aver provato paura di fronte al leone.
Alla fine, Hemingway ha avverato le profezie di Fitzgerald finendo per assomigliare sempre più tragicamente al suo vecchio amico. Accecato dalla ricchezza e convertitosi in una celebrità, anche Hemingway ha costruito attorno a sé un personaggio leggendario ben più noto della sua opera. Anche lui è rimasto bloccato come scrittore, anche lui ha fallito nel matrimonio e si è rifugiato nell’alcolismo; anche lui ha avuto il suo “crollo”. Malato, depresso, alla fine si è sparato in bocca con un fucile. Fitzgerald, apparentemente più debole, è sopravvissuto alla povertà e all’abbandono negli anni ’30, ma riuscì a pubblicare il suo miglior libro nel 1934: Tenera è la notte.
Jeffrey Meyers
*L’articolo è pubblicato originariamente su “The Article”; la traduzione è di Giacomo Zamagni
L'articolo “Lui è incline alla megalomania, io alla malinconia”. Fitzgerald e Hemingway: un’amicizia tormentata proviene da Pangea.
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Il 25 marzo l’Italia celebra il suo primo Dantedì
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Il consiglio dei ministri ha recentemente deciso di dedicare un giorno al nostro poeta nazionale: il 25 Marzo sarà quindi il Dantedì. Sull’opportunità o meno di questa decisione rimandiamo nel link all’articolo di Stefano Jossa, noi ci limitiamo a promuovere questa iniziativa, consapevoli che le nostre forze sono assolutamente impari all’impresa. Ricorriamo perciò alle parole di Borges che così sintetizza la grandezza del poema dantesco: “Non c’è cosa sulla terra che non sia anche lì, ciò che fu, ciò che è e ciò che sarà, la storia del passato e quella del futuro”. Insomma un’opera enciclopedica, una summa, con in più, rispetto a Iliade e Odissea, il valore aggiunto del riferimento all’attualità, presenza costante nelle tre cantiche, che fa della Divina Commedia un vero e proprio epos moderno (e della Commedia come “paradigma moderno” si parla anche in questo articolo). 
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Appunto sulla modernità di Dante, citiamo anche questo interessante articolo di Corrado Bologna che definisce la comedìa “il più moderno dei libri, il più novecentesco. Così, nel Discorso su Dante (1933), forse il saggio dantesco più profondo e originale di tutto il Novecento, Mandel’štam volge in straordinarie immagini metaforiche, che Dante avrebbe amato, la struttura cosmica della Commedia. In faccia alla morte, nel gulag di Stalin, questo poeta-glossatore di genio traduceva in russo per i suoi compagni di sventura Dante, Petrarca e Ariosto”. 
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E a proposito di Ariosto, non vi pare che l’incipit dell’Orlando furioso (Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto) ricordi i versi danteschi: Le donne e ' cavalier, li affanni e li agi / che ne 'nvogliava amore e cortesia (Pg XIII 109-110)? Ma, va da sé, tutti i nostri grandi scrittori hanno risentito in qualche misura dell’influsso di Dante, da Petrarca, che ostentava di non averlo mai letto, mentre i Trionfi abbondano di richiami alle terzine dantesche, a Boccaccio, che lo adorava al punto da tenere letture pubbliche della Commedia nella Badìa fiorentina (un po’ come hanno fatto Benigni e Sermonti), a Leopardi, a Montale.
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Ma se Osip Mandel’štam leggeva Dante nel gulag, non possiamo certo dimenticare Primo Levi che ad Auschwitz per annullare la cieca disumanità del campo di concentramento ricorreva a Dante, ricordando che gli uomini non sono stati creati per viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza (If XXVI 119-120).
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Molti attori si sono cimentati nella lettura della Divina Commedia, tra i quali Carmelo Bene, Vittorio Gassman, Giorgio Albertazzi, Roberto Herlitzka, Arnoldo Foà, Tino Carraro, Romolo Valli, Tino Buazzelli, Anna Proclemer, Ernesto Calindri.
Per quanto riguarda il cinema, citiamo i due estremi: da Inferno, del 1911 (“Nel cinema muto degli anni Dieci, La Divina Commedia. Inferno della Milano Films detiene i primati di altezza culturale, di lunghezza e non solo. Nel 1911 cade il 50° anniversario dell’Unità d’Italia: Dante, già mito risorgimentale, diventa simbolo delle aspirazioni irredentiste e nazionaliste. Inferno è stato restituito alla sua edizione princeps, alla corretta successione delle inquadrature, alla pienezza della sua luce da un lungo lavoro di restauro. Cent’anni dopo, lo spettatore si trova nuovamente avvolto nella visione orrida e meravigliosa di figurazioni ispirate a Gustave Doré e ad altri illustratori, ma come rivisitate da un Méliès crudele: desolazione delle lande bucate dai sepolcri aperti, bagliori repentini, la petrosità degli orridi, l’acume dei roveti secchi, dannati striscianti o che procedono decapitati mutilati sventrati, le fattezze bizzarre delle creature mitologiche, le mostruose metamorfosi...”), a Woody Allen che in Harry a pezzi (1997) fa interpretare al suo antagonista la parte del diavolo, in un contesto in cui evidenti sono i richiami all’Inferno di Dante (in questo articolo si cerca di sciogliere tutti i riferimenti culturali presenti nel film, vero modello del famoso ‘citazionismo’ di Allen).
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Per le immagini, citiamo il volume La Divina Commedia di Dante Alighieri di Doré che raccoglie tutte le 135 illustrazioni, corredate da “brevi note che intendono inquadrare la singola illustrazione nel disegno del poema dantesco, allo scopo di aiutare a leggere e capire l’immagine, ma anche di invitare il lettore a prendere o a riprendere in mano il testo originale”. Il volume è arricchito dalla preziosa prefazione di Théophile Gautier. Più recente (2018) il libro Dante per immagini, di Lucia Battaglia Ricci, che accompagna il lettore dalle miniature dei manoscritti trecenteschi fino all’arte contemporanea.
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Vogliamo concludere rinfrescando la memoria con qualche citazione, come: Capo ha cosa fatta (If XXVIII 107), ne la chiesa / coi santi, e in taverna co’ ghiottoni (If XXII 14-15) ormai entrate nell’uso comune; pensa che questo dì mai non raggiorna! (Pg XII 84), Vassene ’l tempo e l’uom non se n’avvede (Pg IV 9), perder tempo a chi più sa più spiace (Pg III 78) sulla fugacità del tempo, tema assai caro al poeta; e due meravigliose similitudini:
E come quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago a la riva, si volge a l’acqua perigliosa e guata, così l’animo mio, ch’ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passo che non lasciò già mai persona viva. (If I 22-27)
Come le pecorelle escon del chiuso a una, a due, a tre, e l’altre stanno timidette atterrando l’occhio e ’l muso; e ciò che fa la prima, e l’altre fanno, addossandosi a lei, s’ella s’arresta, semplici e quete, e lo ’mperché non sanno. (Pg III 79-84)
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heresiae · 5 years ago
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Petizione per classificare come "romantica" qualsiasi narrativa in cui sia presente una storia d'amore sufficientemente importante da dover essere nominata nella sinossi.
E comunque sappiate che gli intrecci vanno avanti benissimo anche senza sentimentalismi.
Dannati scrittori melensi.
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gregor-samsung · 5 years ago
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Guardando Nettlinger intento a mangiare, Schrella doveva lottare contro un miserevole senso di commozione; aveva sempre considerato l'atto del mangiare come un alto gesto di fraternità, un'agape affettuosa celebrata ugualmente in locali di primo o di infimo ordine; dover mangiare solo gli era sembrato sempre una condanna, e la semplice vista di uomini che mangiavano soli nelle sale d'aspetto delle stazioni o negli atri degli alberghi, nelle innumerevoli pensioni da lui abitate, gli aveva ogni volta evocato l'immagine di uomini dannati; aveva sempre cercato compagnia per mangiare, sedendosi volentieri soprattutto a un tavolo dove ci fosse una donna; gli bastava dire due parole, sminuzzando il pane, o scambiare un sorriso al disopra del piatto della minestra, porgere ogni tanto qualcosa, per trasformare una funzione puramente biologica in un evento sopportabile, in un piacere; uomini come Nettlinger, invece, e ne aveva studiati chissà quanti, gli ricordavano certi condannati a morte, e i loro pasti il pasto che precede l'esecuzione: per quanto conoscessero e osservassero puntualmente le regole del Comportarsi a tavola, mangiavano senza cerimonie, con una serietà mortale che uccideva la zuppa di piselli e la pollastra, per di più erano costretti ad apprezzare il costo di ogni boccone che inghiottivano. Distolse lo sguardo da Nettlinger, si voltò ancora verso la stazione e lesse la grande scritta appena sopra l'entrata: "Benvenuto ai nostri reduci".
Heinrich Böll, Biliardo alle nove e mezzo, (traduzione di Marianello Marianelli) Mondadori (collana Oscar-Scrittori del Novecento), 2005¹²; p. 245.
[Ed.ne or.le: Billard um halb zehn, Verlag Kiepenheuer & Witsch, 1959]
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cassius-writer · 5 years ago
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Nel mio sogno c'è un cerchio di corpi assediati da schiere di morti affogati, malate visioni negli occhi riflesse a milioni. Specchi e sofferenza profonda, s'alza nell'animo un'onda e al cuore fa ombra assassina, legato a mostruosa piscina. Eccomi qua, con i miei mostri infuocati, pronto ad entrare a far parte integrante della schiera di muti e dannati. Daniele Scopigno Foto: Francesca Piccardi #poetryislove #poeta #poesia #scrittori #leggerechepassione #passionelettura #yallersitalia #consiglidilettura #arteitaliana (presso Giardino dei Tarocchi) https://www.instagram.com/p/B9ocpaYIvBg/?igshid=u1ixig3n6uf9
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unballerino-blog · 6 years ago
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No, non piangere amor mio guarda il cielo stellato bello come quando ti guardo io. No, non piangere per il fato, non ci pensare come fanno tutti quelli che il male hanno creato. No, non piangere per i lutti, muoiono tutti in fondo ingoiati dalla coscienza e i suoi flutti. No... Muori anche tu come i dannati? Se ti uccido non temere, la notte ti cullerà e i tuoi pensieri saranno spensierati. Volevo solo salvarti dall'umanità. Scusa. #scrittori #scrittura #poeti #poesia #poetry #rime #metrica #ilballerino https://www.instagram.com/p/BtOyWjahrgD/?utm_source=ig_tumblr_share&igshid=1xy68yilr8orf
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gameofthronesitaly · 7 years ago
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New Post has been published on http://www.gameofthronesitaly.it/2017/07/24/hbo-piani-post-game-of-thrones-david-benioff-d-b-weiss/
HBO annuncia i piani post Game of Thrones per David Benioff e D.B. Weiss
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Non c’è tregua per i dannati e nemmeno per David Benioff e D.B. Weiss, showrunner di GoT sin dall’inizio dello show. Per i fan che hanno pensato che gli impegnatissimi produttori esecutivi (che scrivono anche molti degli episodi di GoT) si sarebbero presi una pausa dopo la fine dello show con l’ottava stagione, c’è una sorpresa! HBO ha annunciato che Benioff e Weiss hanno creato e dirigeranno il nuovo show della rete chiamato Confederate. Per quanto riguarda GoT, si occuperanno di scrivere gli episodi.
Vi risparmiamo le preoccupazioni, HBO conferma che la produzione di Confederate non comincerà fino alla fine di GoT, Quindi D&D non divideranno il loro tempo.
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Di cosa parla il nuovo show? Ecco cosa dice HBO:
La serie racconta gli eventi che hanno portato alla Terza Guerra Civile Americana. La serie si svolge in una linea temporale alternativa, dove gli stati del sud sono riusciti a separarsi dall’Unione, dando origine a una nazione in cui la schiavitù resta legale e che si è evoluta in un’istituzione moderna. La storia segue vari personaggi su entrambe le sponde della zona smilitarizzata di Mason-Dixon- ribelli, cacciatori di schiavi, politici, abolizionisti, giornalisti e funzionari del conglomerato della schiavitù e delle famiglie alla loro mercé.
D&D hanno anche spiegato perché hanno scelto questo tipo di show e quando lo hanno ideato:
“Abbiamo parlato di Confederate per anni, all’inizio come concetto per un lungometraggio, ma la nostra esperienza con GoT ci ha convinti che nessuno fornisce una tela e una narrazione migliori di HBO. Non ci saranno draghi o Estranei in questa seria, ma stiamo creando un mondo e non potremmo immaginare compagni migliori nella costruzione di mondi di Nichelle e Malcolm, che ci hanno stupiti a lungo con la loro sagacia, immaginazione e le loro capacità di giocare a Scarabeo.”
In questa nuova impresa come produttori esecutivi e scrittori per Confederate si uniranno a loro Nichelle Tramble Spellman (Justified, The Good Wife) e Malcolm Spellman (Empire, il prossimo Foxy Brown), Carolyn Strauss e Bernadette Caulfield (nomi familiari per i fan di GoT).
Che ne dite fan di GoT? Seguirete Benioff e Weiss nella loro nuova serie?
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  Traduzione: Mariarosaria M. Editing: Alex A. Fonte: Watchers on the Wall
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pangeanews · 4 years ago
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“Persi nel labirinto, siamo diventati il Minotauro”. Enzo Fontana parla del libro di Giuseppe Culicchia su Walter Alasia
C’era una volta in Egitto un certo Giuseppe detto il Sognatore che si ritrovò in prigione con la falsa accusa di tentato stupro della moglie del suo padrone. Con Giuseppe vennero a trovarsi imprigionati due cortigiani del faraone che gli si rivolsero affinché interpretasse i loro sogni. Giuseppe li ascoltò, lesse nei loro sogni e disse ad uno che sarebbe stato impiccato, mentre all’altro disse che sarebbe ritornato a porgere il calice al suo signore. Giuseppe pregò costui di non dimenticarlo, una volta ritornato libero e felice, e il coppiere del faraone, in qualche modo, lo promise. Le cose andarono proprio come Giuseppe aveva svelato, ma il coppiere del faraone dimenticò la promessa. Così sono fatti gli uomini: per la maggior parte dimenticano le promesse. Però non tutti gli uomini, grazie a Dio. Non Giuseppe lo Scrittore. Lo scrittore Giuseppe Culicchia infatti ha mantenuto la promessa che fece da bambino, quando il giovane brigatista Walter Alasia, suo amato cugino, di più, suo fratello maggiore, fu ucciso: la promessa di diventare uno scrittore per scrivere un libro su di lui, per ricostruirne i lineamenti umani che gli avvoltoi della stampa e della televisione avevano sfigurato più della morte. In genere i parenti scomodi si rimuovono, si occultano, si finge di dimenticarli. Altri, una volta diventati scrittori di successo, si sarebbero ben guardati dal rischio di compromettere la propria immagine. Altri avrebbero finto di dimenticare la promessa. Giuseppe lo Scrittore invece non ha l’animo dei cortigiani del faraone o dei salotti letterari e non si è dimenticato la promessa, non tanto per via del senso dell’onore, penso, ma per amore. E ne è venuto fuori un libro vero. Uno dei rari libri su quegli anni che valga la pena di leggere, e non solo perché Giuseppe Culicchia ha familiarità con la tragedia.
Aprire questo libro per me è stato doloroso. L’ho letto d’un fiato e mi ha tolto il sonno, anche questa notte in cui ho ritrovato la forza per scriverne. È stato come riaprire una ferita, come viaggiare sulla macchina del tempo e ritrovarmi nella Milano degli anni ’70, “nel fiore dei miei peccati”. Non farò il benché minimo tentativo di fingermi uno scrittore o un critico al di sopra delle parti, semplicemente perché da ragazzo stavo dalla stessa parte di Walter Alasia, dalla stessa parte della barricata, intendo dire, anche se non nello stesso gruppo. Noi si scelse, eccome, la parte per cui batterci. Era la parte dei “dannati della terra”, come scriveva il terzomondista Franz Fanon, o degli “ultimi”, come più saggiamente dice anche il più terzomondista dei successori del Pescatore del Mar di Galilea (papa Francesco, che propone però ben altri mezzi per curare i mali del mondo, e raccoglie comunque gli sputi e l’odio “urbi et orbi” di tutti i fascisti, razzisti, suprematisti, nonché le lodi di tanti ipocriti, anche sinistri, ai quali dei poveri non gliene frega niente, il che è peggio). Era la parte degli operai, degli sfruttati, a cominciare dalla parte più sfruttata dell’umanità, la parte femminile. Insomma, noi si fece una scelta di campo. Dico questo per fare subito chiarezza, non certo con un fine apologetico, affinché nessuno possa dire, se non in malafede: “Certo, di buone intenzioni sono piene le fosse…”
Allora, secondo molti santi storici degli anni successivi, secondo sociologi, psicologi, scrittori di successo e, peggio di tutto, secondo tanti piccoli inquisitori o giornalisti dell’eretica pravità, l’Italia era percorsa e posseduta dai demoni, in tutto e per tutto simili a quelli descritti da Dostoevskij. Questi demoni avevano smesso le insegne dei guelfi e dei ghibellini, e, per essere al passo con la moda del tempo, si erano travestiti da guelfi neri o da guelfi rossi. Questi ultimi avevano tracciato persino la stella a cinque punte, pensando di copiarla dai Tupamaros, mentre i diritti d’autore del Pentacolo andrebbero attribuiti a Salomone. Così, evocati, i demoni erano apparsi a legioni e si erano impossessati di migliaia e migliaia di giovani. La visione di Dostoevskij pareva essersi avverata anche in Italia, non solo un secolo prima nella Russia zarista. Solo che questi giovani – dei quali, ripeto, faceva parte anche chi va scrivendo queste righe – non erano angeli caduti, ma perlopiù semplicemente giovani che desideravano di tutto cuore un mondo nuovo, come lo desiderava Walter Alasia. Giovani tipo quelli di cui il grande scrittore de I demoni aveva fatto delle caricature destinate alla deportazione in Siberia. Ovviamente c’erano anche dei vecchi, pochi ma c’erano, soprattutto del tipo intellettuale, e questi erano un po’ più rassomiglianti ai padri spirituali dei demoni di Dostoevskij, in genere del tipo parolaio e un po’ vigliacco. Ignoro se esistesse davvero un Grande Vecchio. In buona fede posso dire e affermare solo di aver visto il Grande Vecchio coi lunghi capelli e la barba bianca affrescato sulla volta della Cappella Sistina. Però ha un alibi: è lì da secoli, dai tempi di Michelangelo.
Walter Alasia e il cugino, Giuseppe Culicchia
A Dostoevskij aveva risposto un altro grande scrittore, Tolstoj, dicendogli che non era bello quello che aveva scritto dei rivoluzionari, e che in essi egli vedeva e isolava solo il momento della violenza, e che se avesse guardato nel loro animo ci avrebbe trovato anche l’abnegazione e la sete di giustizia, e, in fondo al tunnel, avrebbe visto Dio. Ora io non so se nel buio tunnel si potesse intravedere anche qualche traccia di zoccolo caprino, ma certo un demonietto nel cuore doveva avercelo anche Dostoevskij. In quanto a Tolstoj, cui un giovane semisconosciuto avvocato indiano di nome Gandhi scriveva dal Sudafrica come al maestro della “non resistenza al male”, in quanto a Tolstoj dicevo le tracce erano piuttosto evidenti e da lui stesso dichiarate. Nelle Confessioni egli scrive di avere ucciso degli uomini (probabilmente nelle incursioni caucasiche) e di avere sfidato altri uomini a duello, al fine di ucciderli. Ciononostante nel suo ambiente, racconta Tolstoj, era considerato un uomo “relativamente morale”. Con ciò voglio dire che il male, che noi vediamo e cerchiamo soprattutto negli altri, è anche in noi stessi, latente, pronto a cogliere la prima occasione. E questo vale per i santi, i santoni e persino per i grandi scrittori. Vale per ogni essere umano. Ma i falsificatori dicono il contrario. Però io credo e sono convinto che la frode sia più grave della violenza, e che la frode più spiaccia a Dio, “e per questo stan di sotto li frodolenti”, come debitamente spiega Virgilio a Dante nell’XI dell’Inferno. L’attuale, più che allora, è un’epoca fraudolenta, per certi versi più bassa, vile e cattiva, come sempre nei confronti dei più deboli, dei poveri cristi. Non solo è una miserabile epoca fraudolenta, ma è anche più violenta. Basta guardare ad un palmo dal nostro naso, basta guardare alla guerra, che è terrorismo su scala industriale.
Mi si perdoni la digressione, anche se non penso di essere uscito fuor di tema. Qual è il ritratto di Walter Alasia che affiora dal libro? Come una foto d’altri tempi ai sali d’argento, ne è venuto fuori il ritratto umano di Walter Alasia visto con gli occhi di un bambino, che sono gli occhi di Dio, anche se poi, per darcene un’idea, si affida alla mano e alla penna dell’adulto diventato scrittore. Ma la mano che muove questa penna è veramente l’Amore, l’amore che non giudica, l’amore che è più forte della morte. L’amore e il dolore. Ne è emerso un ritratto di Walter Alasia come di un ragazzo fondamentalmente buono e generoso, come certamente era, prima e anche dopo la scelta della lotta armata. L’indole fondamentale di una persona si mantiene anche nelle circostanze più drammatiche. Ma allora che cosa accadde? Come fu possibile che un ragazzo di indole buona e che aveva scelto la parte dei poveri e degli sfruttati bruciasse la sua e un’altra vita? Forse perché visse “al tempo de li dei falsi e bugiardi”? Non più falsi e bugiardi degli idoli dei giovani d’oggi. Forse perché si fece sedurre da una dottrina ingannevole e fallace? Che fosse una dottrina che vale poco è ben dimostrato dagli esiti della Rivoluzione d’Ottobre, rivoluzione in cui tanti spiriti generosi misero tutte le loro speranze. 1917: “Proletari di tutto il mondo, unitevi!” 1989: “Proletari di tutto il mondo, perdonateci!” 2021: “Mafiosi di tutto il mondo, uniamoci!” A cosa è servito fucilare i Romanov per ritrovarsi, cent’anni dopo, coi Putinov? Tanti sacrifici, tanto dolore per niente. Ma questo è accaduto dal principio del mondo, è accaduto a milioni e milioni di esseri umani, con l’ausilio di molte e differenti dottrine. E anche senza dottrina alcuna. Il tempo di vivere con te di Giuseppe Culicchia non nasce da una scuola di scrittura creativa dove, al massimo, si possono apprendere le tecniche e qualche trucco del mestiere. Questo libro nasce dalla scuola del dolore. Non è scritto per giudicare né per giustificare, ma è una ricerca nel profondo di un’epoca e di un essere umano tanto amato, per capire. Per capire e per sperare che quanto è accaduto non accada ancora.
Ci sono tanti aspetti di questo libro che mi hanno colpito, ma soprattutto la profonda pietà per tutti gli esseri umani coinvolti in questa tragedia. Ciò mi ha ricordato quel rapsòdo cieco che la tradizione tramanda col nome di Omero, che cantò con imparziale pietà le sofferenze dei vinti e dei vincitori.
La lettura di questo libro mi ha confermato nel sentimento che la migliore causa del mondo, la più giusta e santa, non vale la lacrima di un bambino, le lacrime di Giuseppe il bambino che piange l’amatissimo cugino o le lacrime di un orfano che non rivedrà più suo padre. Io vidi una di queste lacrime scendere sul viso di una ragazza tanti e tanti anni fa, durante un’udienza nel corso di un processo. In questo processo c’ero entrato quasi di mia volontà solo per stare accanto a una persona a me cara e dovevo rispondere di un reato minore (detenzione di arma). Per una volta, ero innocente, anche se, come da copione, non lo dissi e non mi difesi. Con mio dispiacere, i giudici, più furbi di me, giustamente mi assolsero, impedendomi così di restare a Milano per l’appello. Era il processo alla “Colonna Walter Alasia”, una colonna oramai allo sbando, una colonna di prigionieri intenti spesso a beccarsi l’un l’altro, come i capponi di Renzo, “come accade troppo sovente tra compagni di sventura”. La ragazza della lacrima sedeva a fianco di un avvocato di parte civile e penso che fosse la figlia di un uomo che era stato ucciso. Questa lacrima caduta in una bolgia processuale mi colpì e mi fece più male di una pallottola. Così, la sera, ritornato nella mia cella, cominciai a scrivere qualcosa. All’udienza del giorno successivo chiesi e ottenni la parola e parlai di un tale che si perdeva in un labirinto come quello di Cnosso, e di come costui, a furia di vagare, forse trovasse infine il Minotauro, e cioè uno specchio, l’immagine di se medesimo. Questo eravamo diventati, chi più chi meno, nessuno escluso. Il cielo ci aveva donato un lume per orientarci nel labirinto del mondo e della vita, ma noi l’avevamo perduto. Sia resa lode agli dèi di Menandro, che avevano caro Walter Alasia e gli risparmiarono lo spettacolo.
Enzo Fontana
L'articolo “Persi nel labirinto, siamo diventati il Minotauro”. Enzo Fontana parla del libro di Giuseppe Culicchia su Walter Alasia proviene da Pangea.
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