#Dal vivo è una visione mistica
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Fun fact: Davide Rossi (il direttore d'orchestra) ha suonato il violino nella base di Viva la Vida e molte altre canzoni dei coldplay.
#Violinista bravissimo#Dal vivo è una visione mistica#Cioè proprio ascoltarlo dal vivo è una specie di esperienza divina#Coldplay
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#AmmiraglioPettorino#cinelumiere#cinemamadeinitaly#Comandante#EdoardoDeAngelis#istitutoitalianodiculturaalondra#KevinTodHaug#PaoloTaviani#PierfrancescoFavino#SalvatoreTodaro#SandroVeronesi#SilviaD'Amico
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Storia Di Musica #66 - U2, No Line On The Horizon, 2009
La foto in copertina, del fotografo giapponese Hiroshi Sugimoto intitolata Boden Sea, Uttwil, unisce cielo e mare in un invisibile punto, una linea mentale e sognante che unisce due mondi, due prospettive. Dopo 5 anni di attesa dal loro ultimo disco, How To Dismantle An Atomic Bomb (incentrato sul dolore e il ricordo del padre di Bono, Bob, morto qualche anno prima) No Line On The Horizon fu il nuovo tentativo nella carriera allora trentennale degli U2 di rinnovare la loro musica e il loro suono. Per farlo, richiamano i fidi Brian Eno e Daniel Lanois, già artefici dei loro dischi capolavoro (The Unforgettable Fire, The Joshua Tree e Achtung Baby!) e partono dall’idea di creare una musica che si rifaccia agli inni sacri delle civiltà del Mediterraneo. Si trasferiscono a Fez, in Marocco, e iniziano a registrare materiale. Le sessioni avvengono nel cortile di un albergo cittadino, e i suoni della città, della natura, del mercato diventeranno momenti presenti in tutto il disco. Uscito nel febbraio del 2009, composto da 11 brani, No Line On The Horizon si può dividere in tre parti: partendo dalla meno convincente, i tre brani minori sono i centrali, tra il non molto riuscito singolo Get On Your Boots, il sarcasmo di Stand Up Comedy e il pop leggero di I'll Go Crazy If I Don't Go Crazy Tonight. Ma il resto è di una bellezza e di una intensità che, non ho paura di dirlo, il disco di oggi non è solo uno dei loro migliori, ma rimane uno dei migliori di tutti gli anni 2000 in assoluto. Bono, The Edge, Adam Clayton e Larry Mullen chiedono a Eno e Lanois di partecipare anche alla creazione musicale, facendo sì che i brani abbiamo dei tappeti sonori sofisticati e intriganti, sebbene mai come in nessun disco precedente la vera protagonista sia la chitarra di The Edge, reduce dall'esperienza di collaborazione con Jimmy Page e Jack White immortalata nel bellissimo documentario It Might Get Loud. Se a ciò aggiungiamo alcuni dei testi più belli ed intensi di Bono, la mia affermazione di prima si spiega meglio. I primi due brani sono potenti e vivaci canzoni rock, No Line On The Horizon in cui il protagonista afferma che “l’infinito è un ottimo posto per iniziare” e la trascinante Magnificient, con il meraviglioso riff di The Edge e la ritmica solida e presente del duo Clayton-Mullen. Al terzo brano, il primo capolavoro, una delle canzoni più intensi del loro ultra-decennale repertorio: Moment Of Surrender prende il titolo dal “momento della resa” in cui un affetto da dipendenza riconosce il bisogno di aiuto, Bono immagina un disperato in una metropolitana, che vive la sua passione come una via crucis contemporanea, in un crescendo gospel che culla disperazione e dolore. Brian Eno ha raccontato come il brano fu registrato dal vivo in una sola sessione a Fez, in una sorta di magia mistica che l’ha resa, a suo dire, l’esperienza musicale più incredibile della sua vita. Il canto degli uccelli che dall’albergo si sentivano la mattina a Fez aprono Unknown Caller, altra perla del disco, che poi esplode nelle schitarrate di The Edge (con meraviglioso assolo finale). La terza parte con Fez (Being Born) dà la piena dimostrazione di cosa la band avesse in mente con l’idea dei “nuovi inni”, tra voci del suk, riprese del ritornello di Get On Your Boots, e una musica che vira quasi al rock progressive. White As Snow è una delicata e dolente ballata che sfuma nell’esplosione rock di Breathe, altro dei pezzi preferiti di Eno, che racconta in un 16 giugno, il Bloomsbury Day, le vicende di un predicatore porta a porta. Il disco termina con un altro capolavoro: Cedars Of Lebanon usa la campionatura di un pezzo scritto da Eno e Harold Budd, Against The Sky (del 1984) ed è la recita delle sensazioni di un reporter da Beirut, cruda, magnifica e desolante, che si conclude con queste parole:”Choose your enemies carefully, 'cause they will define you\Make them interesting 'cause in some ways they will mind you\They're not there in the beginning but when your story ends\Gonna last with you longer than your friends”. Sebbene il disco vada primo in classifica in 33 paesi del mondo, la sua fama non arriva alle vette che merita, nonostante il leggendario tour che ne seguirà, il 360° Tour, con l’innovativo e fantascientifico palco ad artiglio (The Claw) piazzato al centro degli stadi che otterrà il record assoluto di spettatori di sempre, essendo stato visto da oltre 7.2 milioni di spettatori paganti. Rimane un disco di una forza emotiva grandissima, tra gospel, rock e una visione del mondo curiosa e particolare, essendo consapevoli che “siamo gente nata dal suono\le canzoni sono nei nostri occhi\ le indosseremo come una corona” (Breathe).
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La prima volta con Isaacs non si scorda mai
Fan-reportage: StarCon Italia 2018
Foto di Marilena Berera
Tornate con me a sei mesi fa, al 26 maggio, a quando molte di noi fortunate ragazze del fanclub abbiamo incontrato Jason per la prima volta.
Scoprite di come il ruolo di Capitano gli andasse stretto (non solo per colpa del costume di scena), del suo modo di intendere la recitazione, della nascita del look di Lucius Malfoy...
Jason ha scostato il tendone facendoci entrare nel mondo delle meraviglie dietro le quinte.
E si è rivelato, fuori dal palco, più affascinante del suo miglior personaggio.
L’annunciazione
Ho ancora lo screenshot della newsletter della StarCon che ho mandato immediatamente a mio marito. Il messaggio era breve e incisivo: “Ci andiamo, VERO?!”
C’è voluto qualche minuto per normalizzare la respirazione. La sera stessa ho acquistato gli ingressi e prenotato un delizioso B&B, per far felice anche il mio accompagnatore, pensando che sarebbe stato felice di parcheggiarsi a bordo piscina. Mi sbagliavo, voleva partecipare, forse anche per controllare che non gettassi la fede nuziale con gesto teatrale per buttarmi tra le braccia di un certo ospite…
Per un paio di mesi ho avuto un sorriso da scema stampato in faccia. Camminavo a una spanna da terra, in preda a un’incontenibile e perenne euforia, al pensiero di quello che stava per accadere. Mi sembrava incredibile. Già l’anno prima la StarCon mi aveva fatta tornare bambina portando in Italia Doc Christopher Lloyd, icona della mia trilogia preferita di sempre. Ma Isaacs?! Nooo, Isaacs è un sogno, è l’uomo perfetto, è un SemiDio dal sorriso sfolgorante, cioè… non esiste davvero. E se esiste, non respira la mia stessa aria, non calpesta il mio stesso suolo, è inconcepibile trovarselo davanti, guardarlo senza la mediazione di uno schermo, ascoltarlo, toccarlo… (Toccarlo?!? Che pensiero conturbante…!)
Perdonatemi. Lo confesso: sono una fan scatenata di Jason Isaacs dal 2002, quando mi folgorò la sua interpretazione del sadico Tavington de Il Patriota, e sono anche una fervente potteriana. Voi capite che alla possibilità di incontrarlo di persona, stringergli la mano e – con buona probabilità – confessargli tutto il mio amore, la quindicenne che mi porto dentro era riemersa prepotentemente e si stava scatenando.
I mesi sono passati in fretta tra binge-watching e scandagliamento compulsivo del web, grazie al quale ho conosciuto un gruppo di persone assolutamente fuori dal comune: le ragazze del Jason Isaacs Fanclub Italia, con le quali ho cominciato subito a collaborare e a condividere di tutto, al limite dello spam! E anche se la nostra crescente ansia quasi non ci ha permesso di crederci davvero fino all’ultimo, alla fine il giorno fatale è arrivato. Esattamente sei mesi fa.
Ci siamo: inizia la StarCon! – Dove scopriamo che Jason Isaacs esiste davvero
A Chianciano incontro per la prima volta dal vivo le amiche conosciute in chat, ed è gioia pura. Ovviamente siamo tutte in preda a un misto di frustrazione per l’attesa, euforia, picco ormonale e terrore puro, ma quasi tutte abbiamo almeno l’età anagrafica di un membro adulto e produttivo della società, quindi cerchiamo, come possiamo, di dissimulare. Le divise della Flotta Stellare e quelle della Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts colorano la scena. Ci sono i ragazzi di Ritorno al Futuro Club Italiano con la loro splendida DeLorean, in brodo di giuggiole per la fantastica Claudia Wells. C’è un Tardis. C’è Dobby! Incontriamo altri ospiti, gironzoliamo tra le bancarelle, intanto il tempo passa lentissimo…! E poi il cuore manca un battito quando lo vediamo arrivare, circondato dai suoi accompagnatori, in jeans e maglietta, barbetta di qualche giorno, bello e raggiante con la sua tazza di ceramica per il tè e il suo zainetto da viaggio. È lui. È davvero lui!
Il trauma della foto, primo momento d’incontro, è ancora vivo... L’attesa in fila è veloce ma straziante. Prima di riuscire a farmi coraggio ecco, è già il momento, tocca a me. A me? Io? Che? Cosa?! Lo guardo e rimango bloccata come un cerbiatto davanti ai fari del tir. Niente ci separa, tranne la mia paralisi agli arti inferiori. Lui mi guarda (oddio, sta guardando ME) e spalanca le braccia sorridendo incoraggiante, e io realizzo - non in maniera razionale, ché il pensiero cosciente era congelato, ma a un livello più profondo e istintivo del mio essere - che Jason Isaacs esiste davvero, ed è qui! DEVO andare verso di lui, l’impulso finalmente arriva, a fare quei due difficilissimi passi. Poi faccio l’errore, stringendogli la mano che lui calorosamente mi porge salutandomi (oddio, lo sto toccando!) di alzare lo sguardo e incrociare i suoi occhi, e per un po’... si fa tutto nero! Black out!! Ci sono (appunto) delle foto a testimonianza del momento, per fortuna, perché il cervello non ha registrato niente se non una leggera euforia che somiglia - credo - a quella che chiamano estasi mistica. Consiglio per la prossima volta: indossare occhialetti protettivi per eclisse solare.
Mettendo un attimo da parte la mia incontenibile emozione e quindi il mio punto di vista totalmente parziale, posso solo dire che Jason Isaacs è stato spettacolare. Credo che nessuno dei visitatori, ed eravamo tanti e ben preparati, si aspettasse di assistere a quello che è successo. Parliamo del suo panel, che forse vi interessa di più dei miei turbamenti interiori (altrimenti poi dovrei pagarvi la seduta e tornare la settimana prossima). Sì, il panel. Parliamone.
One man show: “Non c’è niente da vedere”
Non ha bisogno di mediazione, non sta seduto. Non si limita a rispondere alle domande. No: il suo è uno spettacolo vero e proprio. Lo invita sul palco Fabrizio Pucci, uno dei suoi doppiatori storici (Star Trek: Discovery, Morto Stalin se ne fa un altro, Brotherhood) col quale ha un delizioso scambio di battute sul fatto che adora la sua voce e vorrebbe essere sempre doppiato da lui, per favore, che lo preferisca a Hugh Jackman, se si trovassero nello stesso film! Poi Fabrizio lascia il palco e Jason si scatena. Chi se lo aspettava così scoppiettante, così divertente? Non è da tutti tenere un palcoscenico da soli, semplicemente coinvolgendo il pubblico coi propri racconti. Fa scintille e ha una parlantina incredibile.
Aggiungeteci una presenza fisica e una mimica da attore consumato: per prima cosa, Jason si muove un po’ per il palco per farci vedere che c’è ben poco da filmare o fotografare, niente per cui valga la pena sprecare memoria sul telefonino. “Sono solo io, un tizio un po’ attempato in jeans e maglietta”. Come no, Jason, ci hai proprio convinte, se non fosse che dal vivo sei inquietantemente più giovane e ancora più bello che sullo schermo. “Questo è il mio profilo destro… questo è il sinistro… questo il didietro…” e per un attimo si volta come se niente fosse a mostrarci il suo rimarchevole lato B, facendo spallucce. Che ipocrita.
Si scusa per non avere niente di particolare da farci vedere. Anzi, sì! Qualcosa ce l’ha! Ed estrae un oggettino dalla tasca. Si rimette di spalle, armeggiando a lungo con la maglietta, mentre in platea ci ritroviamo tutte col fiato sospeso perché stiamo intravedendo il suo ombelico, e per la rinnovata visione del suddetto, notevole, lato B. Per fortuna riesce a sistemare l’oggetto: noi riprendiamo fiato e scopriamo che è il suo distintivo da capitano, che – parole sue – è l’unica cosa che è riuscito a rubare dal set di Discovery! “Nel futuro abbiamo questa fantastica tecnologia. I magneti.”
Racconta a lungo del costume da ufficiale della Flotta, e con interessante dovizia di particolari. La tuta era talmente stretta da impedirgli certi movimenti, e fastidiosamente priva di tasche, per cui - vista anche la scarsità di oggetti coi quali interagire - gli attori non sapevano come tenere le braccia per non risultare forzati. All’inizio di una scena, il più svelto si metteva a braccia incrociate, e gli altri non potevano imitarlo… “Quando lo riguarderete, guardate il tizio a braccia incrociate, e sappiate che tutti gli altri lo stanno odiando!”. Descrive l’indossare l’uniforme la mattina come “essere ricoperti da una gomma liquida che col passare della giornata si restringe, una tortura” e racconta che ha sofferto la fame sul set, “perché se mangiavi anche solo un pomodoro, sembrava che aspettassi un bambino! Quella tuta era come un bendaggio gastrico.” Qui si volta verso la cabina di regia a chiedere al suo interprete “Sai tradurre ‘bendaggio gastrico’?”. Il favoloso Paolo Attivissimo, ovviamente, lo sa fare.
Poi interroga i presenti: in quanti avevano capito che... *ALLERTA SPOILER!* ...il Capitano Lorca proveniva dall’universo alternativo? Quanti, che l’Imperatore era l’alter-ego del Capitano Georgiou? Alla vista di tante mani alzate ride, dicendo che a quanto pare gli sceneggiatori hanno fatto un pessimo lavoro… o forse siamo noi troppo ferrati su Star Trek e troppo furbi! Per lui la serie, sin dai suoi esordi, è sempre stata innovativa e fenomenale. Discovery, poi, affronta temi a lui molto cari: ci parla di come sia presente un importante messaggio di inclusione. “Per la prima volta abbiamo un capitano che è una donna asiatica, la protagonista è una ragazza di colore, ci sono due ufficiali che sono una coppia gay…” ma la serie non si basa su questo, racconta altro. I gusti sessuali o la provenienza etnica non sono importanti. L’apparente diversità è invece presentata come normale, dice; dell’equipaggio fanno parte persone di ogni genere, ed è questo il messaggio sotteso e importante.
Jason confessa che il ruolo di Capitano gli andava stretto. Gli si chiedeva di entrare a far parte di una saga storica e molto amata anche da lui stesso, e aveva paura di rovinarla con una performance non all’altezza. Ci rivela di aver riflettuto a lungo prima di accettare, finalmente convinto quando ha avuto più dettagli sulla parabola del suo personaggio, resosi conto che la trama era davvero intrigante. Gli si offriva un ruolo ambiguo, il tema del doppio, uno dei suoi più amati: come rifutarlo?
A proposito di buoni e cattivi: sappiamo tutti che sono stati i suoi fantastici villain a renderlo famoso, ma quali ruoli preferisce intrepretare? È una domanda che si pone da solo, perché – dice – preferisce cavarsi subito il dente rispondendo alle domande che gli fanno sempre, così da evitarci l’imbarazzo di porgliele. Risposta: non cambia nulla, per lui. Che il personaggio sia buono o malvagio, ha comunque le sue motivazioni. Sono quelle che lui come attore deve indagare per rendere il personaggio credibile. I cattivi non pensano mai a se stessi come dei cattivi: pensano di stare facendo la cosa giusta (per sé o per il loro ideale). “Ricordate Tavington? Non era esattamente un bravo ragazzo, ma cercava di vincere la guerra.”
E Lucius Malfoy? “Oh, lui è un totale sfigato. Fa parte di un’elite che vorrebbe conservare i privilegi perduti cercando di fermare il progresso, quindi ha già perso in partenza. È un classista e un maledetto razzista, ed è completamente succube di Voldermort. È un vigliacco, la sua cattiveria deriva dalla paura: ha paura dei babbani e del progresso.” Uncino invece è un cattivo davvero singolare, perché completamente privo di potere, praticamente farsesco. Quando lo conosciamo ha già perso contro Peter, rimettendoci la mano. Anche lui ha paura dei cambiamenti, dei giovani; è un uomo di mezz’età ossessionato dal ticchettio dell’orologio, che rappresenta la paura di invecchiare, “quindi è stato facile per me interpretarlo!”
Il suo film preferito, tra tutti quelli che ha interpretato, è proprio Peter Pan. Innanzitutto gli ricorda un periodo bellissimo: mentre lo girava ha vissuto per più di un anno con la moglie e la prima figlia, appena nata, in una bella casa sulla spiaggia in Australia. Poi ci racconta di amare moltissimo il modo in cui il film pone l’accento sulla crescita di Wendy. “Il libro s’intitola ‘Peter Pan’ ma dovrebbe chiamarsi ‘Wendy’, è lei il fulcro della storia.” La vicenda infatti può essere letta anche così, come lui suggerisce: parla di una ragazzina che ama le storie di pirati alla quale un giorno dicono ‘Adesso sei grande, è ora di sposarsi e mettere da parte le fantasticherie’. “Ho due figlie adolescenti di 13 e 16 anni e vedo quanto è difficile essere una ragazza al giorno d’oggi, come allora. Pensateci: avete 15 anni e tutto quello che vi va di fare è andare al centro commerciale, e improvvisamente vi dicono che è ora di avere dei bambini vostri!” Quella notte Wendy sogna un mondo in cui i bambini possono decidere di non crescere mai e vivere le più grandi avventure. E in quel sogno c’è un uomo affascinante che somiglia a suo padre: Wendy affronta e supera il complesso edipico. Il film è stato un flop, ma è rimasto nei cuori di tutte le sue fan per la sua stupenda doppia interpretazione: mite e dolce Mr Darling, sexy e dark capitano Uncino. Ah, questi capitani...!!
Isaacs torna a scherzare raccontando che sul set di Peter Pan, interamente girato all’interno di capannoni su cui picchiava un sole impietoso, abbiano rischiato di finire tutti arrostiti. Il rumore dei condizionatori influiva troppo sul sonoro, quindi mentre si girava dovevano stare spenti. C’è stato qualche svenimento, e lui sotto parrucca, trucco e strati e strati di velluto soffriva come un disperato. Un giorno il regista gli propose di indossare una speciale tuta sotto gli abiti di scena. “Non ho già abbastanza roba addosso?!” Scoprì che si trattava di una tuta composta di tubicini che, riempiti di aria fredda, l’avrebbe rinfrancato tra una scena e l’altra. “A quanto pare l’avevano creata per Tom Cruise in un qualche Mission: Impossible. Spero tanto che l’avessero lavata!” Per farla funzionare dovevano agganciare il bocchettone dell’aria fredda nel foro d’ingresso posizionato proprio sul sedere. Un poco imbarazzante, ma... cosa non si sopporta per la recitazione!
A proposito di costumi: stando a quanto racconta Isaacs, è suo il merito di aver creato gli elementi salienti dell’iconico look del fetentissimo Lucius Malfoy. Quando andò per fare la prima prova di trucco, gli fecero provare un completo gessato di taglio classico, da banchiere, e visto che ha dei bellissimi capelli, pensarono che non avesse bisogno di altro. Lui protestò: “Insomma, è un mago!! Dov’è la magia? E inoltre è uno snob e odia i babbani, perché dovrebbe vestirsi e pettinarsi come loro?” Jason racconta di essersi fatto dare una parrucca bionda di scarsissima qualità e di essersi buttato un pezzo di stoffa a mo’ di mantello sulle spalle, per presentarsi così al regista Chris Columbus, che a momenti non lo riconosceva. Questi rimase un po’ perplesso ma lo lasciò spiegare.
“Vorrei avere un look bizzarro, che rifletta il suo essere nobile e potente, che si distingua”.
“Uhm… ok. E… c’è altro che ti piacerebbe provare?”
“Sì ecco… Mi piacerebbe un bastone!”
“Un bastone?! C’è qualcosa che non va con le tue gambe?”
“No, no! è solo che mi darebbe un’aria nobile e antica. E poi potrei estrarne la mia bacchetta, come fosse un coltello, hai presente…?”
Jason racconta che il regista, un carissimo ragazzo, sospirò dicendo “Credo che i produttori di giocattoli ti adoreranno.”
Ma torniamo a Lorca. La domanda non poteva non essere posta: tornerà? “Tutto quello che dovete sapere su Lorca è che…” comincia Isaacs, ma… anche se lui parla, dalle casse non esce un suono. C’è forse qualche problema col microfono? No, ovviamente ci sta prendendo in giro replicando la famosa scena di Forrest Gump che parla alla folla della guerra in Vietnam! “...e spero che questo vi abbia tolto qualsiasi dubbio”, conclude.
Se non nei panni di Lorca, è possibile che prenda parte alla nuova serie interpretando un altro personaggio? “Mi piacerebbe, farei qualunque cosa! Tranne il Klingon. Quei poveracci che interpretano i Klingon fanno una vita di m****!” Ci racconta delle alzatacce e delle sfinenti ore di trucco. A quanto pare la testa è così pesante che hanno dovuto nascondergli nel costume un sostegno per il collo, e le maschere non sono abbastanza mobili da permettergli di mangiare, così sono costretti a sorbirsi dei beveroni e a stare sdradiati per riposare i muscoli delle spalle, durante le pause. Capiamo, Jason. Niente Klingon. Certo, a confronto la tua tuta apprezzabilmente stretta non sembra più così tremenda!
Ci racconta anche la storia di come ebbe la parte del dottor Hap in The OA, serie della quale va molto orgoglioso perché la trova “assurdamente innovativa e visionaria”, e della quale aspettiamo l’uscita a breve della seconda stagione. Dice di aver ricevuto i copioni una sera tardi dalla sua agente americana, con l’ordine di leggerli subito perché alle due di notte il regista lo avrebbe chiamato via Skype. Non voleva farlo, era stanco, ma l’agente lo convinse. Fu tassativa: doveva leggerli, era roba forte, una produzione Netflix. Un altro attore si era tirato indietro e i tempi erano strettissimi: se il provino fosse andato bene doveva partire la mattina stessa per New York. Quindi Jason li lesse, trovò la sua parte della storia estremamente accattivante, fece il provino… e la mattina dopo baciò moglie e figlie chiedendo perdono, perché partiva per cinque mesi. “È la vita dell’attore. Torno appena posso”. A proposito: lui e la moglie hanno appena festeggiato il loro trentesimo anniversario di vita insieme, quindi è stato perdonato. “Appena arrivato a New York ho raggiunto la Grand Central Station e abbiamo girato direttamente la scena del primo incontro tra Hap e Prairie. Quello che vedete ero io, nei miei vestiti, con il mio trolley e un volo di sei ore alle spalle.”
Il personaggio di Hap, uno scienziato che ha dedicato la sua vita allo studio delle esperienze di pre-morte e che non esita a rinchiudere e torturare cavie umane, l’ha molto colpito. Si stupisce che tutti lo etichettino come “cattivo”. “È uno scienziato e persegue forse lo scopo più alto di tutti: liberare l’umanità dalla paura della morte.” Inoltre è evidente il suo tormento interiore, perché non è né un sadico né un uomo privo di morale, ma per la sua ricerca decide di sacrificare anche la sua umanità. “I film che mi piace fare sono quelli che indagano la natura umana. Innescano un dibattito: io cosa farei, in una situazione del genere? Tu, cosa sceglieresti?” Isaacs crede che sia questo lo scopo dell’arte, cinema compreso: indagare e rappresentare le infinite sfumature dell’animo umano. “Forse suona un po’ pretenzioso, da parte mia. Diciamo che mi sento fortunato quando posso fare questo genere di film. Faccio questi, e poi faccio delle cagate per soldi” dice sorridendo.
Non bisognerebbe mai incontrare i propri idoli.
In poco più di un’ora Isaacs ha raccontato questo e molto altro. Ha risposto a tutte le domande con il suo pungente umorismo e con benevola ironia (“Ti ho adorato nei panni di Tavington!” “Dovresti farti vedere da uno bravo.”) Ha anche saputo dire dolcissime parole di conforto a una giovane fan che ha raccontato in lacrime la sua esperienza di bullismo a scuola, e di quanto sia stata per lei di supporto la sua passione per la lettura e la rivincita che ottengono i buoni, vessati e malridotti ma vincitori, nella saga di Harry Potter.
Al momento degli autografi, subito dopo il panel, Jason ha dedicato a ogni suo fan il tempo di fargli qualche domanda extra e ha raccontato spontaneamente altre curiosità, elargendo calorose strette di mano e pericolosissimi sorrisi a non finire. Si è complimentato con tutti i cosplayer, mostrandosi sinceramente divertito e grato per gli omaggi ricevuti, e ringraziando i Serpeverde di portare lo stemma della sua casa. A vederlo, pareva che non avrebbe mai smesso di chiacchierare, fosse stato per lui. La fila era lunga ma alla gente non dispiaceva aspettare un po’, sapendo che avrebbe avuto un momento di vero contatto. La sua energia colpiva, il suo buonumore era elettrizzante.
Per mantenere una briciola di dignità non vi racconterò di come la mia paralisi motoria e cognitiva si sia trasformata, al momento dell’autografo, in una prolissità imbarazzante a cui lui ha risposto con signorile pazienza. Non lo farò. Dirò solo che avrei voluto restare anche il giorno dopo, la domenica, per ripetere tutto daccapo. Il prossimo anno non mancherò.
Arrivavo con aspettative altissime ma la mia esperienza umana, di fan, di utente della convention, insomma a 360 gradi, è andata molto oltre. Grazie Starcon, grazie Jason, grazie meravigliosi compagni multifandom!
Non bisognerebbe mai incontrare i propri idoli, come dicono. È verissimo. A questo punto credo che possa finire solo in due modi: o si dimostrano freddi e antipatici, e quindi ci deludono, o si rivelano ancora più affascinanti, più simpatici, più brillanti e talentuosi e affabili e divini di quanto ce li eravamo sognati. E allora è finita, siamo segnati per sempre!
La mia dipendenza da Isaacs non ha ancora dato sostanziali segni di recessione. Ma per fortuna non sono sola ;)
Valeria
(aka -Brodie-)
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Foto di Marilena Berera
#jason isaacs#italy loves jason isaacs#starcon#convention#reportage#harry potter#star trek#star trek discovery
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Il progetto Cerchio Firenze 77
Estratto dalla rivista "Il giornale dei Misteri" Febbraio 1985, ecco un articolo di Fulvia Cariglia, che parla del "progetto" del Cerchio Firenze 77. Un progetto che anche oggi prosegue attraverso innumerevoli amici sparsi in Italia, e non solo.
Il «Cerchio Firenze 77» un anno dopo
Insegnamenti etici e religiosi di valore universale - Enorme materiale intrentasette anni di sedute - La produzione degli apporti - Testimonianze insospettabili.
Non ricorderemo Roberto Setti, quest'anno, nel preciso giorno dell'anniversario della sua morte, che, come tutti gli avvenimenti che hanno caratterizzato la sua esistenza, anche l'ultimo è avvenuto in maniera speciale e in un giorno diverso dagli altri. Con dolcezza, senza avvertire il trauma del distacco, con la stessa serenità con cui aveva affrontato la straordinarietà del suo essere, il medium del Cerchio Firenze 77 si è spento nel sonno la mattina de1 29 febbraio 1984, data che non trova posto in un calendario «comune» come quello in corso.
Parlare di ciò che Roberto ha lasciato dietro di sé è impresa che, se affrontata nel suo pieno senso, coinvolgerebbe significati di così profondo contenuto da non permettere un'analisi oggettiva, ma parlare di ciò che rimane, anche senza di lui, è l'utile confronto che pone il problema della «rendita» dei doni immensi che ogni giorno ci vengono offerti, lasciandoci l'arbitrio di individuarli.
Se chi ha conosciuto Roberto e l'esempio di vita che ha saputo dare, o chi ha appreso dalle pagine le parole che i Maestri gli facevano dire, chi ha avuto la ventura di imbattersi in qualche modo nel Cerchio Firenze 77, oggi considerasse tutto questo solo una singolare esperienza di vita, si troverebbe senz'altro, prima o poi, a dover riflettere sulla propria superficialità. Ed è nell'ottica della continuità dell'opera iniziata dalle doti del suo medium che il Cerchio non ha mai interrotto le riunioni settimanali fra i suoi più intimi componenti, né quelle mensili aperte a tutti, frequentatissime anche ora, senza l'«esca» della possibilità di vedere il «personaggio» in carne ed ossa.
Troppo povera la teoria sociologica per spiegare l'elemento portante di tanta assiduità, inadeguato risulterebbe ogni tentativo di analogia con altri gruppi; a 37 anni di voci «impossibili» fa seguito questo ultimo, silenzioso, vivo solo dell'ininterrotto e accresciuto interesse di chi ha saputo dare giusta stima al valore di una eredità impalpabile, eppure immensa, l'omaggio più consono a chi ha saputo donare rifiutando, in vita, ogni notorietà e «corteggiamento».
Cercare nel silenzio Luciana Campani Setti, affezionatissima sorella maggiore del grande medium, è stata ed è l'attiva e discreta eminenza grigia del Cerchio Firenze 77: ieri efficiente organizzatrice dell'attività del Cerchio («i Maestri avevano esortato alla diffusione del messaggio») e severa custode della personale riservatezza desiderata dal fratello, oggi punto di riferimento di un ricordo che non muore, tangibile nel suo alto contenuto astratto, e curatrice della conservazione della sua genuinità.
A colloquio con lei nel suo delizioso villino appena fuori Firenze, teatro di tante prodigiose espressioni medianiche, a proposito dell'attuale e futuro compito suo e del Cerchio, ci dice: «Non è che rileggere e meditare ciò che è stato detto dalle Guide, tanti e tanti messaggi che, sopraffatti dalla loro grandezza e dal continuo susseguirsi, noi non abbiamo avuto il tempo di ponderare come meritano. Con la morte fisica di Roberto si è inaridita una fonte che nessuno sarebbe in grado di rinvivire; a noi, che abbiamo avuto la fortuna e la gioia di vedere e sentire in prima persona tanta ricchezza, resta il dovere di meditare ed elaborare il materiale esistente».
(D) - Prossimi progetti più in particolare?
(R) - Ci proponiamo di riunire quanto prima tutta la parte filosofica delle comunicazioni. Gli insegnamenti, tutti pubblicati nella loro successione e raggruppati a grandi linee settoriali, si sono presentati a noi gradualmente, partendo dal semplice per giungere al complesso; riteniamo che sia una cosa utile, ora che ne abbiamo una visione completa, operare una selezione dei contenuti più prettamente filosofici.
(D) - In queste atipiche (a dir poco!) quasi quarantennali conversazioni «dal semplice al complesso», che cosa ha sostenuto la vostra fede nella purezza dell'origine Spiritualista delle comunicazioni?
(R) - Il fatto che, sia nella loro originarla semplicità sia nella difficoltà dei concetti espressi in seguito, i principi di fondo degli insegnamenti, non sono stati mai modificati; sempre più ampi via via nel tempo, ma mai in contrasto gli ultimi con i primi, mai in contraddizione fra loro. Le voci delle Guide non si sono mai prestate ad accomodamenti o compromessi per farsi accettare nei nostri momenti di umani dubbi o ribellioni e se, in un primissimo tempo ci hanno un po' blandito con comunicazioni di ordine personale, da quando ha avuto inizio la trasmissione degli insegnamenti etici e religiosi, di interesse Universale, non c'è stato più posto per altri messaggi più «profani». A volte penso proprio che l'improvviso silenzio ha voluto significare che non c'era altro da dire, che tutto era stato detto e non abbastanza compreso; per capire, capire pienamente, forse non ci basterà il resto della vita.
(D) - Per troppo tempo il sapiente Kempis, il severo Claudio, la mistica Teresa, e tutti gli altri, vi sono stati così familiari perché non ne sentiate oggi un vuoto incolmabile. Vi sono di consolazione le nuove provenienti da altri cerchi medianici?
(R) – Ho ricevuto notizie di altri messaggi «firmati» Kempis, Dali ecc., ma finora in nessuno di essi ho riconosciuto lo stile dei nostri Maestri, che ci hanno insegnato, tra l'altro, il mezzo di riconoscerli attraverso certe frasi-chiave. Inoltre ritengo che, se anche le nostre Guide si presentassero e parlassero ad altri gruppi, l'avvenimento potrebbe assumere valore per noi solo se si trattasse di una continuazione dell'insegnamento già impartitoci, e non di una ripetizione. Noi rispettiamo, quindi, ogni forma di esplicazione di una medianità spiritualista ma, poiché non siamo in cerca di altro che già non ci sia stato donato, riconosciamo autentici solo quei Kempis, Dali, Teresa, Lilli, Claudio ecc. ecc., che si sono manifestati attraverso il nostro unico medium.
(D) - Non teme che una posizione di «chiusura» possa portare ad una limitazione della propagazione della parola delle vostre Guide ?
(R) - No, perché non siamo preclusi ad alcuna collaborazione esterna che possa arricchire l'interpretazione, finora elaborata, dell'enorme quantità di materiale raccolto in trentasette anni di sedute; ma crediamo, anche per correttezza verso altri cerchi medianici, che non ci spetti di «appropriarci» di lumi rivolti ad altri. Noi abbiamo già ricevuto abbastanza.
Come una favola
Nel suo libro «Oltre il silenzio» (Ed. Mediterranee) la Campani ben descrive i rapporti esistenti all'interno del Cerchio ed il ruolo, scevro da ogni protagonismo divistico, che Roberto vi occupava. Come doveva essere in questo contesto squisitamente spiritualista, nell'opera di divulgazione del Cerchio la figura personale del medium mai è stata posta in alcun particolare rilievo; e ora, nello scrivere di lui, ci par quasi di profanarne la riservatezza, la modestia del suo essere, l'umiltà del suo porsi agli altri.
Ma è impossibile ricordare Roberto Setti - medium senza trattare di quella incredibile fenomenologia paranormale che è la produzione di apporti, manifestazione così misteriosa e così concreta, tanto eclatante quanto rara che, per il Cerchio, era diventata quasi consueta; più di duecento, infatti, sono stati gli oggetti «apportati» dalle mani di Roberto Setti durante le sedute, della più svariata natura e, spesso, di una divina bellezza. «Il mio giudizio sull'apporto come fenomeno - spiega la signora Campani Setti - è dato dall'esperienza di casi diversi fra loro e da quanto, in proposito, ci hanno detto le Guide stesse. Si tratterebbe spesso di “oggetti senza padrone”, proprietà di nessuno smaterializzati in un luogo per essere rimaterializzati in un altro, ma anche, talvolta, di cose create all'occorrenza, dal nulla, appositamente e a volontà dell' entità superiore» .
A proposito di quest'ultima alternativa, senz'altro la più discussa fra le due, si cita testualmente dalla relazione del dottor Christian Paciscopi di Firenze: «(...) Lilli… chiede concentrazione ed inizia la materializzazione, lenta, con ectoplasma luminosissimo intorno alle mani e alle dita, e con vapori intensi e fluttuanti in modo veramente suggestivo. Si ode un leggero crepitio metallico nelle mani dello strumento, Bracciale apportato ad Anna PasciscopiBracciale apportato ad Anna Pasciscopicome se manipolasse una catenella (...). Poi si intravede come un filo nero lungo dieci, venti centimetri, che viene come tirato in tutte le direzioni dalle mani dello strumento. Allora la Guida si rivolge ad Anna (la signora Paciscopi n.d.r.) dicendole di allungare il braccio, ed inizia ad avvolgerle intorno al polso sinistro una catenella, con qualche difficoltà, per due giri, non raggiungendo la lunghezza desiderata; quindi esclama: “Ora cerco di allungarla un po', ecco ora deve andare bene!”, e completa l'avvolgimento con la chiusura del fermaglio ed aggiunge: "Ecco, Anna, spero che ti piacerà". (...) La luminosità del bracciale al polso di Anna continua per tutta la serata con emanazione di vapori fluttuanti».
Se non ci fossero mille testimonianze, come questa, di insospettabile genuinità, se non ci fossero le registrazioni, gli apporti e le fotografie scattate durante la loro «creazione», se non avessimo conosciuto Roberto come la persona che era e che non poteva mistificare, se non ci dessimo dei forti pizzicotti, anche oggi, ripensandoci, sembrerebbe di ascoltare, leggere, aver vissuto una favola. Non può che somigliare ad una favola il ricordo di una pioggia di petali profumati, di una cascata di foglie d'ulivo in mezzo al salotto; e a cos'è simile, se non ad una favola, il pensiero di aver parlato con animi tanto più alti, di aver udito voci che hanno avuto una risposta per tutto, profonde parole mai sentite, dolci e severe, umanamente profferite e divinamente concepite? Come non può che somigliare ad una favola la storia di un uomo nato protagonista, che diserta anche un posto fra le quinte per stare in mezzo al pubblico, uno come tanti, nella convinzione di essere il mero strumento di una volontà più grande cui, come tutti, doveva prestare attenzione.
È riuscito a Roberto di «non farsi bello con le penne degli altri» - come diceva lui -, non riesce a noi non inorgoglirci di averlo incontrato nella favola vera della sua vita terrena.
Fulvia Cariglia
Nella foto: Bracciale apportato ad Anna Pasciscopi.
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“Viviamo tutti nel cervello di Philip K. Dick”. Discorso sulla “Trilogia di Valis” (ovvero: questa vita non è la nostra…)
Mi aggiravo famelico per la metropoli. Ne ho metrato l’inconsistenza bibliografica. Avrò razziato, credo, una decina di librerie, in ogni rivolo di periferia. All’epoca non funzionava il commercio digitale – d’altronde, ora, mi rifiuto di farmi sua preda. Cercavo un libro. Uno e trino. “Valis”.
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Non sono un fan di Philip K. Dick. Voglio dire. È un archivio di ossessioni e di intuizioni formidabili, d’inesausta energia. Preferisco altra scrittura. Diciamo che mi figuro l’incontro tra Philip K. Dick e Jorge Luis Borges sul lago di Ginevra, a discorrere come esseri fuori dal tempo di una Bisanzio su Venere. Eppure, per quel libro di Dick ho varcato Milano, sciacallo dei libri, da un lato all’altro.
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Come sanno i fan, nel 1974 PKD è folgorato da una visione – quei giorni tra marzo e febbraio sono la sua Patmo, il suo Bodh Gaya, l’albero di fico e il roveto ardente, l’angelologia e lo scudo di Achille. PKD crede di essere stato ‘visitato’, finalmente, e con fierezza denuncia ciò che per i mistici è abbecedario minimo: “Ho fatto esperienza di una invasione della mente da parte di una intelligenza razionale e trascendente, come se fossi stato pazzo per tutta la vita, mi sono scoperto improvvisamente sano”. L’esito primo di questa esperienza mistica è un libro, imperfetto, Radio Free Albemuth, scritto nel 1976 e pubblicato postumo, nel 1985. Di fatto, è il canovaccio di “Valis”, opera inclassificabile, più vangelo che romanzo, più teologia che letteratura, più eresia che eremitaggio nel linguaggio. Il ciclo, pubblico tra 1981 e 1982, è costituito da Valis (1978; l’acronimo sta per “Vast Active Living Intelligence System”), Divina invasione (1980), La trasmigrazione di Timothy Archer (1981). Il ciclo, come “Trilogia di Valis”, è stato pubblicato da Mondadori nel 1993, la mia edizione è quella del 2000, per la ‘Piccola Biblioteca Oscar Mondadori’ (e la cura di Vittorio Curtoni); ora lo pubblica Fanucci.
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Su “Valis” s’è detto tutto – per alcuni è il progetto letterario di un malato (ma senza malattia non si dà grande libro), per altri un capolavoro. Kim Stanley Robinson, nell’introduzione al libro mondadoriano, trova conforto citando William Blake: “Valis è il monumento di una mente che si è rimessa in sesto, dopo essere giunta sull’orlo del precipizio”. Ted Gioia fa la critica ai critici, parla del ciclo come di “una distorsione del Tractatus di Wittgenstein, riformato in incubo”, che, insomma, “questo lavoro regge il confronto con Pynchon, Heller, Vonnegut, e tutti quelli che hanno ridefinito i confini della narrativa americana degli anni Sessanta e Settanta”. D’altra parte, non c’è nulla di sconcertante in Dick: dal 2009 pure “Valis”, la trilogia, è stata installata nell’edizione sontuosa delle opere di PKD, presso la collana della “Library of America”. Come Melville, Hawthorne, Henry James e William Faulkner, anche PKD è uno dei cardini della letteratura – cioè, dell’immaginario – americana. “Viviamo, ora, nell’universo ideato da Dick allora: abitiamo nel suo cervello, in un certo senso”, ha detto Jonathan Lethem, che ha curato le opere di Dick per la “Library of America”. Sostanzialmente, ha ragione. In verità, qui siamo un passo in là.
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La trama del ciclo la trovate in rete, non è essenziale. Il romanzo di Dick – eccolo, il passo in là, nell’al di là della narrazione – non è sapienziale né gnoseologico. Non c’è nulla da conoscere, semmai da disconoscere; si assembla un’enciclopedia di maestri e di testi – da Eraclito ai Dogon, dal pensiero degli Esseni a quello taoista – per annientarli, per ucciderli citando (“le citazioni sono quindi la sintesi di un processo analitico frammentario, non verificabile, non omologabile – schizofrenico”, scrive Curtoni). Gli eroi dei romanzi, sgangherati, da Horselover Fat a Manny Asher a Angel Archer, cercano l’altro mondo oltre la crosta di questo, la parola vera che si nasconde sotto la custodia alfabetica di quella reale, la vita autentica al di là di questa, scalfita dalla menzogna, aggiogata al male.
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Dal punto di vista formale, PKD sconfina nell’altro lato del narrare. Crea trame che s’insidiano a vicenda e testi apocrifi, come il Tractatus: Cryptica scriptura che costituisce il ‘negativo’ di Valis. “La materia è plasmabile di fronte alla Mente”; “Uno a uno, egli ci estrae dal mondo”; “Se i secoli di tempo spurio venissero asportati, la data vera non sarebbe il 1978 ma il 103 a.C. Perciò il Nuovo Testamento dice che il Regno dello Spirito giungerà ‘prima che taluni di coloro che adesso vivono siano morti’. Dunque noi viviamo nei tempi apostolici”; “La Mente non parla a noi, ma per mezzo di noi. La sua parola ci attraversa e il suo dolore ci infonde di irrazionalità”. Il romanzo, Valis, è il commento al Tractatus. Non tanto la ricerca di Dio – il mostruoso, l’ignoto – ma il recupero dei frammenti. Suturare il patto – snaturare la follia in fede.
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Nel ciclo si discetta dello Zohar, della Prima lettera ai Corinzi di San Paolo, dei manoscritti di Nag Hammadi: PKD opera congiungendo l’invenzione al fatto, l’apocrifo all’apolide, perché la teologia, appunto, è la punta estrema della fantascienza. Tra i testi remoti che possono aver costituito lo schema del ‘romanzo teologico’ di PKD cito Il libro dei segreti di Enoch. Testo del I secolo, pubblicato per esteso nel 1880, racconta il viaggio celeste del patriarca biblico. “Il Signore chiamò Vereveil uno dei suoi arcangeli che era abile a scrivere tutte le opere del Signore. Il Signore disse a Vereveil: ‘Prendi dei libri dai depositi e consegna un calamo a Enoc e dettaglia i libri’. Vereveil si affrettò e mi portò dei libri screziati di smirnio e mi consegnò un calamo dalla sua mano. Mi diceva tutte le opere del cielo e della terra e del mare e i movimenti e le vite di tutti gli elementi e il cambiamento degli anni e i movimenti e le modificazioni dei giorni… e ogni lingua dei canti delle milizie armate” (cito dagli Apocrifi dell’Antico Testamento, a cura di Paolo Sacchi, Utet 1989). Scrivere significa accusare il potere di un altro, condividerlo, risignificare l’angelico.
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L’altro testo necessario è il poema gnostico, Pistis Sophia, sgorgato da Alessandria nel III secolo, noto dal Settecento. Il testo è, a tratti, una spiegazione dei detti evangelici di Gesù con lo scopo di elevare gli adepti/eletti al “regno della luce”, liberandosi dalla lordura materiale. “Rinunziate a tutto il mondo e a tutta la sua materia, per non assommare altra materia alla vostra”; “le emanazioni della luce, essendo pure, non hanno bisogno dei misteri; ne ha invece bisogno il genere umano poiché gli uomini sono tutti resti materiali” (cito da Pistis Sophiam a cura di Luigi Moraldi, Adelphi 1999). Il mondo è un enigma inviolabile, grave di violenza, perché la materia, lurida, rende ciechi. Scopo, attraverso la parola cifrata, di cui solo i pochi fanno pasto – PKD, d’altronde, è scrittore pop con scrittura esoterica – è slegarsi dallo schifo che ci impania, dalla ‘ragione’ e dalla ‘materia’ che ci appesantisce, nuotando verso la luce. Altra vita – la vita, in sé – è inutile, è ritorno al gorgo del fango.
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“Ho sognato di un altro luogo, un lago a nord con delle villette e piccole fattorie… Dove esiste in realtà questo lago, e le case e le strade attorno a esso? Un’infinità di volte l’ho sognato… Nei sogni sono sposato. Nella vita reale, vivo da solo. Cosa ancora più strana, mia moglie è una donna che non ho mai visto nella realtà. In un sogno, noi due siamo nel giardino posteriore, intenti ad annaffiare le rose e a potarle… Chi è questa moglie? Non soltanto vivo da solo; non sono mai stato sposato, né ho mai visto questa donna. Eppure nel sogno provo un amore profondo, piacevole, familiare per lei, il genere di amore che si forma solo con il passare di molti anni”. La dolce ferocia di PKD, qui, sembra la stessa che avvertiamo in una scaglia di Eraclito – viviamo dormienti, viviamo dormendo –, nella nostalgia di Gesù provata da Giacomo, nel verso abissale di Pindaro – “Sogno d’un’ombra, l’uomo” – nella poesia di Yeats, nel gergo di Shakespeare. Percepiamo, tutti, di avere avuto in premio un’altra vita, che qualcuno sta vivendo per noi, che siamo nel sogno di un altro, sinistro e dispari, nel sogno sbagliato, che hanno giocato a dadi con le culle, con le cronologie, con i pianeti, forse. (d.b.)
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La voce assoluta della musica italiana: in memoria di Giuni Russo
Un talento e aderirvi è già deragliare nella fede.
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Giuni Russo è sepolta nel ‘Carmelo’ milanese, nel cimitero del Convento di Santa Teresa di Gesù Bambino a Milano. È morta nel 2004, quindici anni fa. Fui banalmente folgorato dall’album del 2003, Morirò d’amore, che è tra i più alti della discografia italiana ‘pop’, diciamo così. L’album prende il nome della canzone che Giuni Russo e Maria Antonietta Sisini – incontrata a Milano nel 1969, amica, sodale per la vita – scrivono nei tardi Ottanta. Nella canzone s’intrecciano parole di San Giovanni della Croce: l’affinità tra Giuni Russo e il mistico della “notte oscura” mi ricorda quella a cui si lega Cristina Campo, che traduce il fascio delle sue poesie, con lo pseudonimo di Giusto Cabianca, per l’edizione dei Mistici dell’Occidente curata da Zolla (prima Garzanti, 1963, poi Rizzoli, ora Adelphi).
Per arrivare a sapere tutto non voler sapere nulla in nulla. Per arrivare a godere tutto non voler godere nulla in nulla. Per arrivare a possedere tutto non voler possedere nulla in nulla. Per arrivare a essere tutto non voler essere nulla in nulla.
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Morirò d’amore fu esclusa dal Festival di Sanremo del 1989, quello vinto da Anna Oxa & Fausto Leali, con le incursioni comiche di Beppe Grillo e il solito bilioso provincialismo italico (secondo posto per Toto Cutugno, terzo per Al Bano & Romina, soltanto nona Mia Martini che cantava Almeno tu nell’universo). La canzone fu poi riproposta al Festival del 2003: Giuni Russo, malata, fu ammessa, la sua esibizione memorabile, eppure, in una delle edizioni sanremesi più brutte, arrivò settima (prima: Alexia, con Per dire no; secondo: Alex Britti, 7000 caffè; terzo: Sergio Cammariere, Tutto quello che un uomo; ma chi se le ricorda?).
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La voce di Giuni Russo desertifica – passa come un’ascia, tra catacomba e Everest, bilanciata a Est ci spacca la fronte come una Armenia, una armeria di crocefissi.
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Nell’album del 2003 c’è anche un’altra canzone che sancisce il legame con Giovanni della Croce, La Sua figura. Si sa che Giuni Russo riorientò la sua vita da Un’estate al mare agli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola e i testi di Edith Stein, risorta sul petto di Teresa d’Avila, ostacolata perciò dai discografici che non intendono la conversione ma vogliono mungere fama finché c’è. L’incipit de La Sua figura è micidiale:
Scopri la tua presenza: mi uccida la tua vista e la tua bellezza! Sai che la sofferenza d’amore non si cura se non con la presenza e la figura.
Così il canto torna lode e se lo ascolti ti radica nella scelta, ti radia dall’andirivieni dei giorni, incuneandoti nel tuo destino.
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La sua figura è un documentario del 2007 diretto da Franco Battiato per ricordare Giuni Russo; nel 2009 Bompiani pubblica il libro di Bianca Pitzorno Giuni Russo. Da Un’estate al mare al Carmelo. Giuni Russo è il caso più eclatante della musica ‘leggera’ italiana.
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La canzone di Giuni Russo che ascolto con ossessiva costanza è Io nulla, in quel medesimo album (ma è presente anche nel live del 2002, Signorina Romeo). Qualcosa di pervasivo mi porta nel retro di me, dove posso lanciarmi nella lacerazione dell’abbandono.
Primizia del mio tempo Orlo del velo che copre la presenza Dal vivo occhio mi penetra Un raggio di pura luce Fai cantare alla mia lingua Melodie sconosciute Dell’amore che buca l’opacità del mondo e crea *
Il refrain continuo, Io nulla, io nulla, io nulla, ci accorda a ciò che siamo: passeggera vanità, vaniloquio di promesse, esigenza di fiducia mai riscossa, fiamma dell’irrisolto, falena in figura di falco, ratto, del topo un’ombra. Non si sarchia la propria individualità per sconfiggerla – bensì, per giungere alla persona, al suo difetto di diamante. Si svanisce nei penetrali della presenza. “Oso fiorire” proprio a partire dalla nullità in cui faccio scempio di me. Neppure ritorno allo stato infantile. Semplicemente, capire che ‘io’ è un sistema di relazioni, un gioco di specchi, il riflesso che crediamo sia davvero ‘io’, anima correlata alle attese degli altri, alla necessità – stabilita dal convivere e dalla convenzione – di adempiere a ciò che gli altri si attendono da noi – o a scarnificare in delusione quella tenda di attese, santificazione dell’oblio. Estirpare questo – cioè: sradicarci alla convenienza sociale, essere ignifughi alla fama, al di là dei giudizi, in una indifferenza rosea – ci ammette al nulla. Ovvero: al fatto possibile di rinascere. Mistero: si nasce alla vita per morirvi e rinascere – prima della morte fisica, arguire l’altra, la vera, inghiottirla.
*
Per aggiornarmi a Giuni, serve una antologia mistica – per stare nel cardine del suo dire, dico, nel fogliame del canto.
Margherita da Cortona: “Vengo a te come inferma al medico… io sarò non tuo cuore sarò anche nella ferita del tuo costato e in tutti i luoghi dove si trovano i chiodi”.
Angela da Foligno: “Questo bene così potente che mi si rivela nella tenebra, sta ora la mia speranza, incrollabile, tutta raccolta in sé… Quel che io vedo nella tenebra è il tutto”.
Camilla Battista Varano: “Questo è stato ed è quello acuto e pungente coltello che me ha transficto el core… in terra prostrata me buto con lacrimosa fazza; tuta de vergogna e rubescenzia perfusa… infelicissima felicità”.
Caterina Fieschi: “Io non ho più cuore né anima, ma lo mio cuore e anima è quello del mio dolce amore – in lo quale di tutto in tutto era annegata e transformata. Poi fue tirata più in su, cioè alla bocca, e ivi le fu dato un bacio in tal modo, che fu tutta absorta in quella dolce divinità e ivi perdette tutta lei propria, dentro e di fuora”.
Maria Maddalena de’ Pazzi: “Desidero di non essere e ora vorrei avere un essere infinito; desidero non potere niente, e ora vorrei poter ogni cosa; desidero esser dispregiata e ora vorrei esser esaltata”.
Veronica Giuliani: “Ma mi cognosco miserabile; non so come Idio mi soporti sopra la terra, temo e tremo”.
Testi di anime estreme, nell’obliquo della visione, donne smadonnate alla rinuncia, tra strazio di sguardi, grandine di pupille invidiose, testimoniate nel volume di Giovanni Pozzi e Claudio Leonardi, Scrittrici mistiche italiane (Marietti, 1988) che per lo meno dice di una tensione, di una tenuta del verbo femminile in adesione all’assoluto – e di Dio coglierne le caviglie, il lato in tana.
*
Uno potrebbe dire che era tutto in quel viso: un cargo di occhi, zigomi che fanno un chiostro, viso intagliato come un proverbio. Davanti a tutti per retrodatare il palco in altare, sperperare il corpo in quella fionda di voce – te ne svuoti, e non sai dove si è introdotta quella magia, un proiettile in verbi, con chi interloquisce, di che vita è origine, Giuni Russo. (d.b.)
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“Un tuffo da vertigini nel pianto”: Isabella Santacroce o della scrittura mistica
“Mi sentivo una donna disgustosa, repellente. E adesso mi chiamano la Divina”. Soltanto l’umiliato, l’ultimo, è la primizia, evolve in primo. Ma questo primeggiare è la prova. L’umile che diventa dio si adempie sconfessando la propria divinità, perché tra gloria e fanghiglia non c’è speranza di iato, di fiato.
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La copia che mi è data è la 358. Sommo le cifre fino all’ultima. Viene 7. I sette peccati – le sette virtù. Non conosco Isabella Santacroce, per questo sono consono a scriverne, non ho altra consapevolezza che il suo libro, La Divina, pubblicato, per scelta, al di là dell’editoria, con la propria Desdemona Undicesima Edizioni. Non un gesto snob, credo – altrimenti, si poteva pubblicare con un editore piccolo, infimo – ma in sapienza. Annientarsi all’editoria, esserne l’eremita.
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Si parte con la violenza – perché occorre essere violati nella propria natura per trovare il nido di cristallo, l’intoccabile. “La vita è una cosa strana se ci pensi, anche quando splende è ignobile, e ci sarebbe da versare lacrime copiose, un tuffo da vertigini nel pianto, e starci dentro quasi fosse una piscina di dolore. Io però sono temprata dall’eccesso di un confine oltrepassato, ho raggiunto l’oscenità dell’esistenza, e lì il dolore è un anagramma per fantasmi, un passatempo rallegrante, cosa per ingenui scolaretti”.
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Ma occorre desolare le visioni della sottomissione e della tortura pagata lautamente – lei che da violata, diventa violentatrice in lattice, dacché “il potere di una donna è nel disprezzo” – perché l’estro è altrove, l’ago del significato. Lei che parla snatura l’amore fino a preferire l’amore per il cigno a quello per l’uomo, che ghigna, che frigna.
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Attraversato da visioni non è chi si umilia, ma chi è umiliato e ne inghiotte la sorte. La Divina rivolge contro di sé la divinità con fragore che fustiga (“Il frastuono di un fallimento mi sgrida, neppure non conoscessi quanto mi fa soffrire sporcarmi, e in nome di cosa, del niente. Però lo rifaccio, mai sazia di una distruzione difficile come una patologia senza cura, per rientrare in ogni dolore che ho provato, quasi nel timore di averne dimenticato la violenza”). Memoria dell’escatologia scatologica di Veronica Giuliani, la santa che lecca le feci: “Denunciata al Sant’Ufficio nel 1697, viene esaminata con insistenza impietosa, ispezionata corporalmente in modi umilianti, privata d’ogni carica, interdetta dal comunicare con l’esterno… un giovane confessore gesuita la tratta da strega, da indemoniata e le impone di leccare sterco, inghiottire insetti” (Giovanni Pozzi).
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Il romanzo è dedicato a Ludovico II di Baviera, il re che preferì il sogno alla realtà, che costellò di castelli il proprio regno e che morì, istigato al folle, in un lago, lui che era detto Re Cigno. “Cercava la felicità nell’impossibile. Costruiva i suoi castelli trasfigurando la realtà con la bellezza. Vorrei entrarci, immaginarlo sconfiggere le tenebre, una carrozza dai cavalli bianchi nella notte, e lui che vaga solo e malinconico con occhi divenuti spiritati. Era incantevole, delicato…”, scrive lei. L’indicibile è lì, nell’amore della Divina per il cigno trasfigurato – per ciò che è altro dall’uomo.
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La Santacroce non cerca lettori ma accoliti – che accoglie nel rifiuto. Cos’è la letteratura, allora, se non una devozione gratificata dal rifiuto?
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Di una scrittura, va detto, che pare preraffaellita e postumana, che mesce sogno e bondage, ma io vedo vampe che giungono da deserti albini, più di un millennio fa, l’autobiografia di una sacra prostituta, di una rasata che vede Dio tra gli avvoltoi, la grazia nel cadavere. “Non crollare adesso, sii lancia puntata contro le voragini e sventrale, danzando sulle viscere di questi abissi amari. Rovescia sulle tue guance il vuoto che senti, e colmalo perché diventi lago irregolare, per lui, il cigno che ami, che vorresti vivo, che vorresti baciare, domattina, tu, che baciavi la gente per strada…”. Per capire l’etimo di Isabella, usare come passepartout Michel de Certeau: “Si rintana tacendo, perduta in sé e agli altri… rimane dentro un eccesso da cui niente la distrae… essa resta nell’altro, nell’infinito di un’abiezione senza linguaggio”. Qui, Isabella dà linguaggio all’abiezione che si eleva in cigno.
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Tutto passa per la carne – per deviarsene. L’umiliata diventa divina, quella su cui spadroneggiavano si fa padrona. Snaturarsi. “Della sua sventura aveva fatto un trionfo, lì, in pochi centimetri di terra corrosa, il suo essere immenso”.
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Dunque, mi pare, in figure provvidenziali, provviste di una ferocia altra ai sistemi della produzione letteraria, torni la ferocia di una scrittura mistica, che mastica altro. Penso a Veronica Tomassini, vera santa, l’umiliata, e a Tiziana Cera Rosco, che ha la ferrea disciplina di una edificatrice di monasteri, che inaugura e disintegra fedi. Scritture, dico, che giacciono nella diversità, come Mazzarrona e Corpo finale, a cui s’aggiunge, ora, come alcova di visioni, La Divina. Mi pare un moto, una montante eresia, un massacro.
*
Poi, certo, c’è la mistica sanguigna dei Sud, e quella che disseziona dei ‘renani’. Cioè: distanza di stile, nonostante sia lo stilita a prevalere, l’atto non lo scritto. Se penso a Isabella, penso a Stefana Quinzani, terziaria domenicana, che “a sette anni ha la prima visione di Gesù”, visionaria del primo Cinquecento. Scrive dell’oltraggio del corpo e dell’anima, perpetuamente soggetti al patire (“Da poi è ligata cum la mane sopra el capo cum ligami insolubili tamen invisibili, cum li pedi come fu Christo a la columna. E tunc è flagellata invisibiliter… e cum grandissima devozione e letizia abraza e basa essa croce invisibile como se corporaliter fosse presente la croce… e statim si vedono li nervi tirati et extensi, le vene ingrossate e le mano se fanno nigre, e como li fosse inchiodata la mane cum chiodi materiali fa un crido terribile cum lamenti lacrimabili e piatosi”). Del devoto resta la frattaglia, un frattale d’estasi – ogni preghiera è atto di sangue. Qui già, scrivere è impalare il cielo. (d.b.)
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“Sono pronto a ridurre tutto in schegge e a mettere tutti in ginocchio”. Discorso intorno alla Rivoluzione russa (e analisi del concetto stesso di “rivoluzione”). Con poeti in sottofondo
Questo intermezzo vuole essere una riflessione su un evento che ha veramente segnato la storia dell’umanità: la rivoluzione russa. E questo lo voglio dire, non per mitizzare la Russia, sottolinearne l’importanza e l’originalità rispetto ad altre rivoluzioni, ma per isolare la vera causa della storia della rivoluzione russa, ovvero il partito bolscevico, rispetto all’attesa di un vero rinnovamento e di un cambiamento politico e sociale che comunque era necessario e sentito in Russia a cavallo dei secoli XIX e XX. Il partito bolscevico guidato da Lenin, seppur in minoranza iniziale rispetto agli altri partiti, riuscì a impadronirsi definitivamente del potere nella notte tra il 25 e il 26 ottobre 1917, sovvertendo l’intera struttura politica e religiosa del Paese. La rivoluzione russa che riguarda miti, speranze, indignazioni, tentativi, sogni, cambiamenti, novità, è un’altra cosa. Perché è importante sottolineare questo? Perché ciò che accadde in quella notte riguarda un fenomeno sì di lotta sociale, ma anche e soprattutto spirituale e religioso ed è su questo terreno che s’inseriscono le voci dei poeti che voglio raccontarvi.
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Come scrisse Nikolaj Berdjaev, noto filosofo del tempo, “il bolscevismo russo è un fenomeno di ordine religioso, in esso agiscono alcune estreme energie religiose, se per energia religiosa si intende non soltanto ciò che è rivolto a Dio. La surrogazione religiosa, la religione inversa, la pseudo religione è anch’essa un fenomeno di ordine religioso, in questo sta la sua assolutezza. Il bolscevismo non è politica, non è semplicemente lotta sociale. È uno stato dello spirito e un fenomeno dello spirito, una percezione e visione totale del mondo. Il bolscevismo pretende di prendere tutto l’uomo, tutte le sue forze, vuole rispondere a tutte le sue esigenze. Il bolscevismo è il socialismo portato a una tensione religiosa e a un esclusivismo religioso”. Infatti la rivoluzione russa del 1917 non si esaurisce negli eventi sovvertitori iniziali ma riguarda anche gli anni e i decenni successivi dato che la presa di potere da parte dei bolscevichi fu soltanto l’avvio di un lungo processo rivoluzionario, la cui traiettoria si è conclusa settanta e più anni dopo con il crollo del regime.
Quindi, quella che nel lessico ideologico sovietico si chiamava Grande rivoluzione socialista di ottobre e come tale era esaltata nella mitologia poetica dei suoi artisti, fu in realtà un colpo di Stato magistralmente preparato e attuato, che portò all’eliminazione del democratico governo provvisorio e alla dittatura del Partito comunista. Al di là delle cause immediate, come il ritardo delle riforme politiche del sistema zarista, le tensioni sociali accumulate e soffocate sotto l’antico regime, le masse popolari che la prima guerra mondiale aveva messo in divisa e gettato nelle trincee, le promesse del governo provvisorio che non riuscì a soddisfare nel breve e turbolento periodo della sua attività, decisiva fu l’azione di Lenin. Egli fu guidato da una totale spregiudicatezza nell’uso dei mezzi considerati necessari, al fine di conquistare e conservare il potere, un potere incarnato nella sua persona ma al servizio di quell’Assoluto che per lui era la rivoluzione comunista.
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Ma veniamo a noi, all’essenza della rivoluzione, così come mi è passata attraverso lo studio e la lettura di alcuni grandi poeti russi di quel periodo: la rivoluzione era soprattutto un atteggiamento dello spirito, un’ansia di cambiamento, una forza che si è innestata in un periodo storico ben preciso e si è sposata con le circostanze del momento in Russia (l’attesa delle riforme, le delusioni provocate dallo zar, il proletariato che cresce e che comincia a far valere i propri diritti, il periodo della reazione, ecc..).
Il periodo che precede la rivoluzione d’ottobre, definito Secolo d’Argento, fine ’800, inizio ’900 è un “periodo di grande frenesia degli intelletti e degli animi, di turbinose ricerche filosofiche estetico-letterarie, il risveglio delle energie creative, l’acutizzarsi della sensibilità religiosa e mistica. E questo si deve ad “un nuovo tipo umano, maggiormente rivolto verso la vita interiore”, che ha “aperto gli occhi su altri mondi, su un’altra dimensione dell’essere”, dice Berdjaev. Una sorta di rinascimento quindi.
Un noto giornalista, scrittore, poeta contemporaneo russo, Dmitrij Bykov, paragona questo periodo a una palma, il soggetto dominante di un libro di Vsevolod Garšin, scrittore vissuto tra il 1860 e 1880. Il libro è intitolato Attalea Princeps e in esso si racconta la storia di una palma brasiliana rinchiusa in una serra di vetro insieme a tante altre piante esotiche di straordinaria bellezza. La palma cresce e vuole crescere sempre di più perché ha nostalgia del cielo che vede attraverso la serra. La palma cresce e buca la serra ma muore perché si congela. La palma rompe dunque la serra con la sua irruenza, la sua voglia di libertà. Ma muore, perché poteva sopravvivere solo in quella serra, solo in quell’ambiente. L’ambiente di cui si parla è la società russa prima della rivoluzione, una serra anch’essa: chiusa, surriscaldata, dove regna l’assolutismo, dove vivissima è la tradizione e l’amore per essa, una società molto gerarchica, stagnante nelle sue forme. Paradossalmente questa società ha prodotto quanto di più vivo e strabiliante dal punto di vista delle arti e del pensiero, solo in questa società potevano nascere simili piante esotiche. Solo in questa società poteva farsi strada il moderno. Quanto più una società è chiusa tanto più potente è la spinta che si genera al suo interno. Ecco, la palma cresciuta nella serra cresce, getta le basi del XX secolo, esplode in tutta la sua fioritura e poi muore. Questa palma è il simbolo del secolo d’argento.
Qui si inserisce l’attesa della rivoluzione. Un’attesa successivamente delusa. Ma è bello vedere con quale forza e con quali colori si riveste questa attesa: “L’atmosfera a cavallo dei due secoli e caratterizzata dalla diffusa sensazione di un’apocalisse storica imminente, di uno sconvolgimento che avrebbe segnato una svolta nella storia mondiale. In tutto si avverte un’attesa escatologica che cresce man mano, fino a diventare aspettativa di una «bufera» terribile e purificatrice”.
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Così scrive Pasternak: “La gente del popolo si liberava l’anima, e conversava della cosa più importante, di come e per che cosa vivere e in quali modi costruire l’unica esistenza pensabile e degna. […]. In quella celebre estate del 1917 nell’intervallo fra le due scadenze della rivoluzione, sembrava che insieme agli uomini comiziassero le strade, gli alberi e le stelle. L’aria da un’estremità all’altra era avvolta da un’ardente ispirazione che si protendeva per migliaia di verste e pareva una persona con un nome, sembrava chiaroveggente e animata”.
Boris Pasternak (1890-1960) ha raccontato la rivoluzione tenendosi in disparte e osservando. Per lui il poeta è uno spettatore, un testimone, non partecipe degli avvenimenti. All’inizio le sue poesie non erano comprese, sembrava fossero distaccate dal tempo, un tempo che esigeva che tutto riecheggiasse la rivoluzione in atto. Solo Majakovskij ne intuì la forza: “Le sue opere sono fra i modelli di una nuova poesia che stupendamente sente la contemporaneità. La sua essenza non è frutto dei libri, ma ha potuto formarsi solamente nelle circostanze della nostra vita”. (anni ’20).
Di lui non si può parlare di “versi sulla rivoluzione”, essa è onnipresente e inafferrabile come l’aria. Questa è una poesia del 1912 nella traduzione di Ripellino
Come di bronzea cenere caduta dai bracieri, di scarafaggi brulica il giardino assonnato. Vicino a me, a livello della mia candela sono sospesi universi fioriti.
E come in una fede inaudita io entro in questa notte, dove il pioppo vetustamente grigio ha ombreggiato il confine lunare.
Dove lo stagno è un mistero svelato, dove bisbiglia la risacca del melo, dove il giardino è sospeso come palafitte e tiene dinanzi a sé il cielo.
Mentre questi versi sono tratti da Le stelle d’estate, una poesia scritta nel luglio del 1917.
Hanno narrato cose terribili. Hanno dato l’indirizzo esatto. Aprono, domandano, si muovono come in un teatro.
[…]
Nel sobborgo, la notte di luglio, sono mirabilmente bionde. Il cielo è un subisso di pretesti per combinarne qualcuna.
[…] Il vento prova a sollevare una rosa secondo il desiderio delle labbra, dei capelli e delle scarpe, dei lembi delle gonne e dei nomignoli.
Come di velo, ardenti, spargono nella ghiaia tutto ciò che per loro fu fatto frusciare, che fu intonato per loro.
È una poesia che riflette un’eco di compassione per l’umanità, data dal desiderio (le stelle) e la piccolezza tenera e grande degli uomini (il vento prova a sollevare…). Quello che si legge nei versi non è passione o attesa smodata o speranza, è ultimamente “amore”. La sua è una rivoluzione costante, la quale, anche se in termini di rinnovamento della società verrà tradita, continuerà sempre perché ripone la sua fiducia nella natura e nel continuo rinascere della vita.
Da una lettera di Pasternak a Spender (amico e poeta di Pasternak) si legge “…Ho sempre inteso il tutto – la realtà in quanto tale – come un messaggio ricevuto o un arrivo inaspettato, e mi sono sempre sforzato di riprodurre puntualmente questo carattere di messaggio, perché mi sembrava di trovarlo nella natura stessa dei fenomeni. Tale dev’essere la vita. Deve essere la tragedia della pienezza, la tragedia della produttività e delle felicità. La tragicità della vita è la sua legge naturale, essa deve essere tragica per essere reale. Quando poi sulle sue testimonianze versi lacrime, non è perché in essa le circostanze si sono combinate in maniera sfortunata, ma perché essa è costata cara. E’ la sua grandezza che fa piangere”.
A testimonianza del suo “non morire”, questi son versi tratti da una poesia scritta nel “31.
L’alba
E dopo molti, molti anni la tua voce di nuovo mi ha turbato. Tutta la notte ho letto i tuoi precetti, rianimandomi come da un deliquio.
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Il deliquio è la vera vita che è concessa di vivere al poeta in rari momenti: riprendersi dal deliquio, scoprirsi nell’universale. La realtà si svela a noi perché è una forza. Ciò che si vede non sono oggetti ma le azioni di questa forza. La forza, così come la vista e la coscienza sono dirette verso l’esterno. Sono un’energia che richiede di essere spesa.
Voglio andare tra la gente, nella folla, nell’animazione mattutina. Sono pronto a ridurre tutto in schegge e a mettere tutti in ginocchio.
Il superamento della morte è un compito che secondo Pasternak si pone all’umanità intera. Questo gli permette di vedere di nuovo tutto come se fosse la prima volta:
Scendo di corsa le scale, come se uscissi per la prima volta su queste strade coperte di neve e sul selciato deserto.
Il poeta sente come uno struggimento nei confronti delle persone. Sente, come proprio, il loro desiderio di bene, il loro tendere alla gioia, ma sente anche la propria e loro insita impotenza che rimane, comunque abbracciata da un amore:
Io sento per loro, per tutti Come se fossi nella loro pelle, mi sciolgo come si scioglie la neve, come il mattino aggrotto le ciglia.
Con me sono persone senza nomi, alberi, bimbi, gente casalinga. Io sono vinto da tutti costoro, e solo in questo è la mia vittoria.
“Egli passava nel folto delle battaglie, che avrebbero mutato la Russia, come un sonnambulo, destandosi a tratti per annotare con voce assonnata, non le gesta del popolo, ma i prodigi del cosmo”.
Isabella Serra
(continua)
*In copertina: Vladimir Majakovskij si spara al cuore il 14 aprile del 1930
L'articolo “Sono pronto a ridurre tutto in schegge e a mettere tutti in ginocchio”. Discorso intorno alla Rivoluzione russa (e analisi del concetto stesso di “rivoluzione”). Con poeti in sottofondo proviene da Pangea.
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