#Castiglione d’Otranto
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fondazioneterradotranto · 8 years ago
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22 luglio. C’era una volta, e c’è ancora, S. Maria Maddalena
di Rocco Boccadamo
Come riportato dal calendario, il 22 luglio ricorre la festa di S. Maria Maddalena, detta anche Maria di Magdala, seguace di Gesù, unica donna ad aver avuto il privilegio d’assistere alla sua crocifissione e, di seguito, prima testimone visiva e annunciatrice della sua risurrezione.
Nel Basso Salento, per quanto è a mia conoscenza, tale Santa è venerata e celebrata in un paesino non distante dal mio, ossia a dire a Castiglione d’Otranto, frazione del comune di Andrano.
A voler essere precisi, sotto il suo nome, non si tiene una festa vera e propria, con luminarie, fuochi d’artificio e bande musicali, del genere che, in onore del Patrono o di altri Santi, contrassegnano, nell’arco dell’anno, un po’ tutte le località del territorio, bensì una fiera mercato, che, un tempo, recava, in aggiunta, l’appellativo di “fiera delle cipuddre” (in italiano, cipolle).
Quanto al sito della manifestazione in parola, è rimasto identico lo slargo, contermine al camposanto, nella periferia di Castiglione verso il passaggio a livello delle Sud Est, su un lato del quale insiste anche una piccola chiesa, area che, quand’io ero ragazzo, si soleva utilizzare pure come campo di calcio.
Ritornando alla Santa e all’omonima fiera, si tratta di evento impresso dentro chi scrive da tempi ancora più lontani, ossia a dire risalenti alla mia fanciullezza, giacché, svariate volte, in quell’epoca, mi è capitata l’occasione di recarmi da Marittima a Castiglione, in compagnia dei miei nonni paterni, i quali, specialmente la nonna Consiglia, vi si portavano puntualmente, sia per devozione, sia e soprattutto per effettuare qualche utile acquisto dalle baracche e bancarelle ambulanti, che erano allestite ed esponevano le loro mercanzie in quello slargo di Castiglione.
Si consideri che, allora, nei singoli paesi, non esistevano esercizi commerciali, salvo uno per la vendita di pane e prodotti alimentari di stretta necessità e risicate botteghe (puteche) per la mescita di vino.
La trasferta a S. Maria Maddalena si svolgeva a bordo di traini in legno caratterizzati da lunghe stanghe e da grandissime ruote a raggiera con le circonferenze ricoperte e rinforzate mediante fasce metalliche.
Sui mezzi di trasporto in questione, a cassetta, con pareti laterali e posteriore (ncasciate), prendevano posto i passeggeri, sino a sei, seduti su rudimentali apposite assi, parimenti in legno, mentre il conducente si sistemava, redini in mano, all’inizio di una delle stanghe.
Memorabile, in particolare, una delle mie avventure su traino in compagnia dei nonni e in direzione Castiglione, viaggio, iniziato, al solito, nelle primissime ore del mattino, ancora buio d’intorno, onde coprire in tempo utile i cinque/sei chilometri di distanza.
In quella circostanza, i miei ascendenti, unitamente a un paio di parenti, avevano, esprimiamoci così, noleggiato il traino di compare Peppe ‘u muricciu.
Purtroppo, a un certo punto, a meta ormai prossima, esattamente in corrispondenza del tratto viario terminale, in discesa, che andava a guadagnare il centro abitato, si verificò un incidente imprevisto: non si sa come, il cavallo ebbe a scivolare con le sue staffe e s’inginocchiò sul selciato, rimanendo lì immobile e incapace di risollevarsi.
Per il traino, fortunatamente, un deciso scossone, ma nessun danno a carico dei trasportati. Tuttavia, gli adulti furono costretti a scendere e ad aiutare il conducente, con compattezza di braccia e spalle, nello sforzo, non indifferente, di rimettere in piedi il quadrupede e, così, consentirgli di completare il viaggio.
Altro particolare che serbo a memoria in correlazione alla fiera di S. Maria Maddalena è un detto o proverbio popolare, recitante: “A S. Maria Matalena, va alla vigna e se ne vene prena” (in concomitanza del 22 luglio – maturazione, raccolto e vendemmia dell’uva ormai imminenti -, la/quella donna si reca in campagna per lavorare nella vigna e se ne ritorna pregna, ovvero in stato interessante).
Chiara l’allusione, non inverosimile, alla possibilità, in presenza di lavori in gruppo da parte di persone di entrambi i sessi, d’incontri e/o contatti strettamente ravvicinati e di qualche naturale effetto conseguente.
Breve inciso, venerdì 21 luglio, si è sposata una giovane amica e brava collega, nativa di Castiglione: un mare d’auguri, Tiziana.
Ampliando l’orizzonte in senso geografico, il nome Maddalena lascia scorrere e stagliarsi nella mia mente la figura di un’anziana compaesana marittimese, assai conosciuta e familiare all’intera comunità, giacché gestiva uno dei tre forni del paese, dove ciascuna famiglia si recava periodicamente per preparare e cuocere la provvista di pane, soprattutto friselle, detto  “pane fatto in casa” onde distinguerlo da quello che, saltuariamente se non in casi eccezionali, si acquistava presso il dianzi accennato negozio di generi alimentari.
E, poi, Maddalena era il nome di una graziosa giovinetta di un paese della Grecìa salentina, frequentante la mia stessa Scuola Superiore, sulla quale avevo messo gli occhi, beninteso come si poteva e intendeva, da diciassettenne, intorno alla metà dello scorso secolo, insomma senza alcunché di concreto.
Ad ogni modo, ancora adesso, nelle rarissime occasioni in cui succede che m’imbatta in quella Maddalena, un filo d’emozione sgorga a illuminare gli occhi del ragazzo di ieri.
  °   °   °
Conosco F.C. di Castro, mio coetaneo, dai primi anni delle Elementari
La memoria lontana me lo ripropone sotto forma di un bambino macilento, vestito alla buona, appartenente a una famiglia poverissima e numerosa che viveva in un’unica stanza.
F., quindi, talora era costretto anche a fare i conti con la fame, al livello che, in determinate circostanze, arrivava a spostarsi, tenendo per mano un fratello minore, finanche nella mia Marittima per chiedere l’elemosina.
Da giovane e adulto, il lavoro mi ha portato lontano ma, con l’andata in pensione e il rientro nel Basso Salento, ho avuto agio di rivedere F.
Ovviamente decenni a iosa trascorsi pure per lui, nondimeno, nella profondità del suo sguardo, ritrovo, nitidamente presenti, le tracce dei miei ricordi da fanciullo.
Ora, F. è pensionato, nonno e, soprattutto, sereno. E, io, avverto nel mio intimo un tuffo di contentezza ogni volta che m’imbatto in lui, in sella al suo scooter o seduto al bar per un tressette con gli amici.
  °   °   °
Stamani ho fatto il bagno al Lido La Sorgente di Castro, in compagnia del mio nipotino Andrea. Oltre che compiere una nuotatina insieme, ho coinvolto il piccolo nella pesca di qualche granchio.
A portata delle mie mani, non di quelle di Andrea, comprensibilmente ancora timoroso e inesperto, alcuni piccoli esemplari di detti crostacei, lestamente passati al sicuro di un retino e poi di un secchiello d’acqua salata.
Uno, in particolare, di apprezzabili dimensioni, color marrone scuro e ricoperto da una sorta di peluria (in dialetto, caura pelosa), ha lo speciale destino, per l’odierna cena, di essere cotto in un sugo di pomodoro fresco e di condire una piccola spaghettata per nonno Rocco e Andrea.
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ultimenotiziepuglia · 5 years ago
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agnesebascia · 5 years ago
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Ebook gratis: Castiglione in Terra d'Otranto di Donato Palma
Ebook gratis: Castiglione in Terra d’Otranto di Donato Palma
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Le origini e la storia di Castiglione d’Otranto in un ebook di Donato Palma, un altro contributo alla storia e alla cultura della nostra terra.
Buona lettura: (more…)
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fraintesa · 7 years ago
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Il concetto di “restanza” è stato elaborato qualche anno fa dall’etnologo e antropologo dell’Università della Calabria Vito Teti (autore del libro Pietre di pane). Per restanza si intende «non un pigro e inconsapevole stare fermi, un attendere muti e rassegnati. Indica, al contrario, un movimento, una tensione, un’attenzione. Richiede pienezza di essere, persuasione, scelta, passione. […]
L'articolo La restanza (e la Notte Verde di Castiglione d’Otranto) sembra essere il primo su I Viaggi di Fraintesa.
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vieniaviaggiareinpuglia · 7 years ago
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Ti piace viaggiare facile? A Vieni a viaggiare in Puglia no!
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Era da tempo che volevo testare un intero viaggio con i mezzi pubblici e il momento giusto è questo così lo posso raccontare sul mio nuovo blog.
Bene, ho fatto la prima esperienza e non è stato facile ma è stato molto gratificante… un po’ come vincere ai video-giochi ma essendo davvero il protagonista.
Ero a Maglie al Mercatino del Gusto 2018 e dovevo rientrare a Brindisi (il racconto è utile perché Brindisi ha il primo aeroporto della Puglia dal sud ed è uno scalo importate per i turisti), mi reco alla stazione vicinissima al Centro e mi accorgo che ci sono diversi treni e autolinee da Maglie. La tratta è (a ritroso verso il capoluogo) Gagliano Leuca, Alessano – Corsano, Tiggiano, Tricase, Miggiano-Montesano-Specchia, Andrano-Castiglione, Spongano, Poggiardo, Sanarica, Muro Leccese, (eccoci) Maglie, Melpignano, Corigliano d’Otranto, Zollino. Ci sono treni quasi ogni ora dal lunedì al sabato, il biglietto si fa al bar. Idem per la tratta ovest che passa per Gallipoli: gli orari dal lunedì al sabato si posso scaricare sul sito di Ferrovie sud-est. I treni sono come quelli in foto, non i moderni alta-velocità, ma io che un giorno vorrei fare un viaggio documentario in carretto con gli asini come in Basilicata coast-to-coast ho particolarmente gradito il gusto retrò di questi mezzi a rotaie. Però, la domenica fate attenzione perché sono sostituiti dagli autobus e ce ne sono solo due in andata e due al ritorno, la fermata non è al piazzale della stazione ma all’angolo della prima traversa a destra (quella a senso unico, lo specifico perché in molti erano stati dirottati alla fine del vialone della stazione ma li passa un’altra linea di bus), uno alle 10 e 20 e l’altro alle 17 e 15. Al contrario (da Maglie a Lecce) alle 9 e 20 e alle 19 e 40.
E’ stata un po’ un’avventura, ma ho conosciuto dei compagni all’altezza con cui ho avuto modo di scoprire che ci sono dei viaggi su autobus e treni da veri intenditori.
Come Pedalando in Terra d'Otranto, in collaborazione con FIAB Lecce Cicloamici, con la formula Treno storico + bici, con il Salento Express dotato di bagagliaio appositamente attrezzato per il trasporto delle biciclette.  Esperienze del giro dell'Asso da Parabita a Nardò e del percorso da Presicce a Pescoluse, o da Lecce per la pedalata lungo una delle più belle coste salentine, dalla Palude del Capitano fino a Gallipoli. Con previsto programma per i cicloturisti e uno per i viaggiatori senza bicicletta.
Per chi va in bici sono scelti percorsi con strade asfaltate o sterrate di ottima qualità.
O come quello della tratta San Severo – Rodi – Peschici delle Ferrovie del Gargano che attraversa uno dei più bei territori della Puglia, dai paesaggi mozzafiato dalla foresta al mare.
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fondazioneterradotranto · 5 years ago
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Quando i concorsi di poesia erano una cosa seria e non un affare
di Armando Polito
  Non bastavano i maghi e gli indovini ad approfittare della credulità popolare ed ecco farsi avanti persuasori più sofisticati a sfruttare il narcisismo di persone che, consapevoli di non potersi collocare nella categoria dei santi e dei navigatori, presumono di essere poeti. In fondo cosa costa mettersi in gioco quando la posta potrebbe essere la celebrità e il costo corrisponde solo alla cifra, non certo astronomica, richiesta per partecipare? E cosa costa comporre una commissione di sedicenti esperti che, bene che vada, sono autori di una sola pubblicazione per la quale si sono dissanguati e che nessuno ha letto e mai leggerà? Ecco, così, da qualche decennio a questa parte imperversare concorsi letterari in un paese in cui gran parte della popolazione non sa esprimersi correttamente e non capisce neppure il significato letterale di ciò che legge, ammesso che sia in grado di compiere correttamente pure tale operazione. Per me è un’attività ai limiti del lecito, come tutte quelle (alle quali non sono estranee banche, compagnie telefoniche, etc. etc.) che giocano sui grandi numeri. Nella fattispecie supponendo, al ribasso, una quota minima di partecipazione pari a 20 euro e 200 partecipanti, s’incassano già 4000 euro, più che sufficienti a coprire tutte le spese di organizzazione. Con la cultura autentica non si mangerà, ma con quella fasulla si sbafa …
Non vorrei apparire come un laudator temporis acti, un nostalgico (aggettivo pericoloso …, comunque da me distante anni luce) del tempo che fu, ma come non trarre le dovute  conclusioni dal documento presentato nell’immagine di testa e tratto da Rassegna pugliese di Scienze, Lettere ed Arti,  Anno XXX, novembre-dicembre 1913, vol. XXVIII, nn. 11-12, p. 479?
Il lettore che voglia approfondire troverà al link https://books.google.it/books?id=B08osAbEIb4C&pg=PA479&dq=non+credo+che+alcuno+dei+componimenti&hl=it&sa=X&ved=2ahUKEwi-5-79mNHqAhWR16YKHb3lAncQ6AEwAHoECAQQAg#v=onepage&q=non%20credo%20che%20alcuno%20dei%20componimenti&f=false i dettagli del concorso, compresi tutti i 21 titoli delle poesie partecipanti, con motivazione per due di esse dell’esclusione e per le rimanenti del giudizio, che nei casi migliori è sempre parzialmente negativo. Ne ricordo di seguito il nome degli estensori, tutti personaggi di spicco, come, fra l’altro, dimostrano le loro pubblicazioni: Pasquale De Lorentiis1, appassionato paleontologo, nonché padre di Decio, fondatore nel 1960 del Museo Paleontologico di Maglie; Arturo Tafuri2, Giuseppe Macario3, Umberto Bozzini4,  Nicola Serena Di Lapigio5.
Il loro giudizi negativi sono confermati da quello conclusivo e decisivo  del presidente della commissione esaminatrice, Armando Perotti6, personalità di certo non da meno delle altre appena nominate, la cui fama dovrebbe andare ben al di là di ciò che possono evocare toponimi come Punta Perotti a Bari con il suo ecomostro rimasto in vita per troppo tempo o, in questo caso senza superfetazioni mostruose, Piazza Perotti a Castro.
______________
1 Commemorazione dei caduti supersanesi nella guerra d’Italia del 1915-1918, Diena, Matino, 1920
Discorso funebre per armando Perotti, in Per Armando Perotti: onoranze rese in Castro il 7 settembre 1924, Raeli, Tricase, 1924
Grotta Romanelli: stazione paleolitica in Terra d’Otranto, Tipografia La modernissima, Lecce, 1933 
2
Parva favilla, La tipografia cooperativa, Lecce, 1899
Sebetia Venus: poema lirico, Treves, Milano, 1900
Poema della folla: lirica nova, Nerbini, Firenze, 1904
Luci ed ombre : poesie, Giannotta, Catania, 1911
Ortiche: 1908-1914,  Editoriale italiana contemporanea, Arezzo, 1928
Stelle cadenti: nuove liriche, Contemporanea, Arezzo, 1930
Ave, Salento,  Quaderni di poesia di Emo Cavalleri, Milano- Como, 1932
l pellegrinaggio di un’anima: poema eroico, Cavalieri, Como, 1935
Odi bizantine : Napoli 1888-1893, Tipografia Sorace e Siracusa, Catania, 1937
Scrasce e paparine te la serra, Editrice salentina, 1968
3
L’amante: romanzo, Pierro e Veraldi, Napoli, 1902
Al lavoro: ode, Pierro e Veraldi, Napoli, 1902
Per la guarigione della mia bambina: ode, Stabilimento tipografico vesuviano, Napoli, 1902
Ode al suicida,  Società editrice Meridionale, Napoli, 1904
L’offerta: versi, Società Editrice Meridionale, Napoli, 1905
4
Fedra: tragedia in quattro atti, Mancino, Lucera, 1910
Manfredi: poema drammatico in un prologo e tre episodi, Mancino, Lucera, 1911
ll cuore di Rosaura: capriccio comico in 3 atti in versi, Lapi, Città di Castello, 1914
Ritmo antico, Cappetta, Lucera, 1922
5
Piccole anime e piccole cose: novelle, Cogliati, Milano, 1909
Le isole Tremiti, Frattarolo, Lucera, 1915
Panorami garganici, s.n., s.l., 1933
Vecchi motivi: racconti, Il solco, Città di Castello, 1933
6
Sul Trasimeno: 15 sonetti, Vecchi, Trani, 1887
Il libro dei canti, Vecchi, Trani, 1890
Castro: terze rime, Tipografia Alighieri, 1904
Giorgio Antonio Paladini : uomo d’arme nel secolo XVII, Stabilimento  tipografico  Giurdignano, Lecce, 1905
Ricerche etimologiche sui nomi diversi in Terra d’Otranto, Stabilimento  tipografico  Giurdignano, Lecce, 1905 (Estratto dalla Rivista Storica Salentina, n. 9 e 10).
Tricase : note e documenti, Stabilimento  tipografico  Giurdignano, Lecce, 1906
Bari ignota : curiosità e documenti di storia locale, Vecchi, Trani, 1907
Da Le Nereidi : nuovi canti del mare (estratto dalla Rassegna Pugliese, v. 23, 1907, n. 5-8).
Bari ignota: curiosità e documenti di storia locale, Vecchi e C., tRANI, 1908
Bari 1813-1913, Laterza, Bari, 1913
Onoranze al barone di Castiglione d. Filippo Bacile in Spongano il 14 settembre 1913: discorso commemorativo, Lecce, Martello, 1913
Il coro della Cattedrale di Bisceglie, in Napoli nobilissima, v. I (1920), pp. 97-100
Bibliografia storica della Terra di Bari per gli anni dal 1915 al 1920, Società tipografica editrice barese, 1921
Storie e storielle di Puglia, Laterza, Bari, 1923
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fondazioneterradotranto · 5 years ago
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Libri| Luigi Semola. Agronomo, economista e politico
Marco Imperio, Luigi Semola. Agronomo, economista e politico, Lecce, Eusist, 2016
  PREFAZIONE di Franco Antonio Mastrolia, Docente di Storia Economica – Università del Salento
Tra i personaggi che hanno avuto poca attenzione da parte degli storici è senz’altro Luigi Semola, nato a Muro nel 1783 da ricca famiglia di origine spagnola. Studia ad Otranto per trasferirsi a Lecce e, infine, a Napoli dove vive l’esperienza liberale. Per il suo carattere forte e la vasta intelligenza, ricopre numerosi e delicati incarichi. Prima verificatore di sale e dogana ad Otranto, poi decurione di Otranto dal 1814 al 1815 e consigliere distrettuale dal 1836 al 1839 e ancora consigliere provinciale di Terra d’Otranto dal 1840 al 1843 e dal 1853 al 1856. Sorvegliato negli anni Venti dalla polizia in quanto carbonaro, partecipa ai moti liberali del 1848. E’ il primo presidente della provincia di Terra d’Otranto nell’Italia unificata e deputato al Parlamento, rappresentando il collegio di Maglie nella IX legislatura dal 1865 al 1867. Muore ad Otranto nel 1872.
Oltre al suo impegno politico, poco conosciuto, Semola è ricordato come attento amministratore e impegnato per la crescita agricola ed economica di Terra d’Otranto. Inizia con l’amministrare il patrimonio regolare della diocesi di Otranto e subito le sue capacità sono riconosciute dai pochi attenti latifondisti. Viene chiamato a gestire dal 1828 e sino al 1860, come amministratore generale e vicario generale della casa Granito-Pignatelli, le diverse proprietà introducendo nuove coltivazioni, attrezzi agricoli e pressoi idraulici, con una gestione innovativa. La fiducia del principe Angelo Granito di Belmonte è massima, tanto da affidargli la costruzione a Galatone di un grande stabilimento oleario illuminato a gas nel 1845, il primo in Terra d’Otranto e ricordato, tra gli altri, dal Castiglione, Balsamo, De Giorgi, Arditi, e di recente da Zacchino, da Imperio e da chi scrive.
Non manca il suo contributo, in qualità di socio ordinario, della Società Economica di Terra d’Otranto. Gaetano Stella, segretario perpetuo, lo ricorda per il suo talento, le cognizioni scientifiche ed agrarie. Il 23 gennaio 1864 il prefetto di Lecce lo informa che, per il suo contributo “al progresso agricolo”, il Ministero di agricoltura, industria e commercio gli concede il diploma magistrale di cavaliere.
Un personaggio, dunque, di spessore ma anche “enigmatico” sul quale il dott. Marco Imperio, dopo l’importante contributo su Vincenzo Cepolla, ha lavorato con non poche difficoltà, scavando diversi fondi archivistici. Le approfondite ricerche hanno dato il giusto valore ad un personaggio di rilievo, che vive in un periodo di grandi difficoltà e di cambiamenti. Nonostante l’esiguità delle fonti archivistiche e bibliografiche, grazie all’attenta e appassionata ricerca dell’Autore, possiamo inserire senza alcun dubbio Luigi Semola tra i “benemeriti” di Terra d’Otranto.
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fondazioneterradotranto · 5 years ago
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Dal Fanfulla a Quinto Ennio, nel segno di Antonio Bortone
di Paolo Vincenti
Nel 2012, nella leccese Piazzetta Raimondello Orsini, venne inaugurata la restaurata statua del Fanfulla, opera di Antonio Bortone (1844-1938), famoso scultore ruffanese trapiantato a Firenze. L’intervento di restauro, voluto dall’Amministrazione Comunale di Lecce, è stato effettuato grazie ad un finanziamento del Lions Club Lecce. Questo monumento, modellato in gesso a Firenze dallo scultore salentino nel 1877, venne fuso in bronzo nel 1921 e inaugurato l’anno seguente. Inizialmente collocata a ridosso di Palazzo Carafa, la statua venne poi trasportata nella collocazione attuale.
Scrive Aldo de Bernart: “Antonio Bortone è scolpito sul plinto, che regge quella famosa statua, nel testo epigrafico del prof. Brizio De Santis: Sono/ Tito da Lodi /detto il Fanfulla/ un mago di queste contrade /Antonio Bortone/ mi tramutò in bronzo/ Lecce ospitale mi volle qui/ ma qui e dovunque/ Dio e l’Italia nel cuore/ affiliamo la spada/ contro ogni prepotenza/ contro ogni viltà/ MCMXXII. La statua raffigura il Fanfulla, uno dei tredici cavalieri della Disfida di Barletta, ritratto ormai avanti negli anni quando orbo di un occhio e col saio domenicano faceva penitenza nel fiorentino convento di S. Marco, mentre affila la misericordia, un acuminato spadino che all’inquieto lodigiano era servito in tante battaglie.
Modellata a Firenze nel 1877, l’opera è figlia della tensione tra i circoli artistici fiorentini e il Bortone, che si era prodotto, e bene, nel nudo, con il Gladiatore morente, ma non aveva ancora dato prova di sé nel drappeggio. Tale prova il Bortone la darà appunto con la statua del Fanfulla, inviata alla Mostra Internazionale di Parigi, dove però giungerà ammaccata in più parti. Invitato a ripararla, il Bortone non andò mai nella capitale francese, forse per il suo carattere che a volte lo rendeva spigoloso e quasi intrattabile. […] Comunque la statua fu esposta ugualmente a Parigi e vinse il terzo premio, previo il restauro praticato dal grande scultore napoletano Vincenzo Gemito, che si trovava nella capitale francese a motivo della stessa Esposizione.”[1]
Il personaggio di Fanfulla da Lodi è tratto dal romanzo di Massimo D’Azeglio Ettore Ferramosca, o la disfida di Barletta del 1833 (incentrato sulla contesa fra tredici cavalieri italiani e tredici francesi, combattuta nelle campagne pugliesi nel 1503), e poi dal successivo Niccolò de’ Lapi ovvero i Palleschi e i Piagnoni del 1841, ambientato durante l’assedio di Firenze del 1530.
Dovuta quindi all’ingegno creativo di Antonio Bortone, “il Mago salentino dello scalpello”, come ebbe a definirlo il prof. Brizio De Santis, la statua del Fanfulla campeggia nel bel mezzo di una caratteristica piazza, nel cuore del centro storico di Lecce. Ma l’iter della statua per essere collocata in questa piazza è molto più lungo e tortuoso. Scrive in merito Giovanna Falco: “Le traversie di quest’opera non finiscono qui: sono state raccontate da Teodoro Pellegrino in La vera storia del Fanfulla.  Durante la lunga permanenza a Firenze, il gesso rischiò di essere distrutto, lo salvò Brizio De Sanctis, preside dell’Istituto Tecnico leccese, che si prodigò affinché fosse trasferito a Lecce. Qui, grazie all’intervento di Giuseppe Pellegrino, grande estimatore di Bortone, nel 1916 la scultura fu donata al Museo Civico di Lecce (all’epoca alloggiato nel Sedile).
Rimandata a Firenze per essere fusa in bronzo, nel 1921 fu inaugurata e sul basamento fu apposta la targa commemorativa scritta da Brizio De Sanctis. La statua, destinata originariamente all’atrio dell’Istituto Tecnico, fu collocata nello slargo delle ‘Quattro Spezierie’, di fronte a Palazzo Carafa, poi fu trasferita nel «ridente giardinetto della P. Raimondello Orsini», da dove fu rimossa per essere sistemata lungo il viale principale della Villa Comunale di Lecce. In occasione dell’inaugurazione del Museo del Teatro Romano, avvenuta l’11 settembre 1999, l’Amministrazione Comunale dell’epoca ha deciso di sistemare nuovamente il monumento in piazzetta Raimondello Orsini, collocandolo al centro di un’aiuola.”[2] Grazie ad un sapiente intervento di restyling ora la statua splende di nuova luce.
Sempre Giovanna Falco, nel succitato articolo, scrive: “Nel 1913 fu inaugurato in piazza Sant’Oronzo il monumento a Quinto Ennio, che sorgeva di fianco all’inferriata che cingeva la porzione dell’Anfiteatro Romano riportata alla luce in quegli anni. Era formato da «un basamento sul quale si eleva una colonna prismatica ed un’aquila romana poggia sopra fasci littorii»; l’aquila in bronzo si ergeva su una pergamena recante uno scritto del grande poeta romano.” [3]
Proprio negli stessi giorni dell’inaugurazione del Fanfulla, infatti, ricorreva il primo centenario del monumento a Quinto Ennio, dovuto sempre ad Antonio Bortone; e infatti Aldo de Bernart, ricordando quell’evento, in una sua plaquette del 2012,[4] si soffermava sulla figura del grande poeta latino Quinto Ennio, pubblicando una foto d’epoca nella quale compare ancora la statua sormontata dall’aquila. Come ricorda Giovanna Falco, “in occasione dell’ultimo conflitto mondiale l’aquila fu fusa per costruire armi”.[5] Stessa sorte capitata a molti altri monumenti di Terra d’Otranto, in alcuni casi orrendamente mutilati. Il monumento, in pietra di Trani, ornato da un fascione in bronzo finemente scolpito, si trova vicino l’Anfiteatro Romano ed è stato molto ammirato e visitato da studiosi ed amanti dell’arte, soprattutto in occasione del doppio evento del restauro del monumento del Fanfulla e dell’anniversario del monumento a Quinto Ennio.
Lo scultore Antonio Ippazio Bortone, nato a Ruffano, dopo la formazione napoletana, si trasferisce a Firenze dove raggiunge la gloria, divenendo uno dei più ammirati artisti italiani dell’epoca. Basti pensare che a Firenze viene chiamato a lavorare alla facciata di Santa Maria del Fiore, per la quale realizza, tra gli altri, le due statue di Sant’Antonino e San Giacomo Minore (1887) e i due bassorilievi di Michelangelo e Giotto (1887), oppure al Michele di Lando (1895), nella Loggia del Mercato Nuovo. Per quanto riguarda le opere salentine, molte sono quelle degne di menzione, fra le quali: il busto di Giuseppe Garibaldi (1867), in marmo, che si trova presso il Castello Carlo V di Lecce;  i busti in marmo di Giulio Cesare Vanini (1868), di Francesco Milizia (1872), di Antonio Galateo (1873) e di Filippo Briganti (1875), presso la Biblioteca Provinciale N. Bernardini di Lecce; la statua in marmo di Sigismondo Castromediano (1890), che si trova nel Museo omonimo di Lecce, e il Monumento a Sigismondo Castromediano (1903), nella omonima piazzetta leccese; il Monumento a Francesca Capece (1900) a Maglie; il monumento a Salvatore Trinchese (1907) a Martano; il ritratto di Pietro Cavoti (1912), presso il Convitto Colonna a Galatina, e molte altre.
  L’estensore di questo articolo ha recentemente pubblicato sulla rivista “L’Idomeneo” un saggio in cui attribuisce ad Antonio Bortone una statua inedita, in marmo bianco di Carrara, intitolata The Girl Knitting For the Front, che si trova nella cittadina di Christchurch, in Nuova Zelanda, e che viene censita per la prima volta. Attraverso la stampa neozelandese dell’epoca e un’indagine ad ampio raggio della produzione bortoniana, dello stile e dei rapporti personali e professionali dello scultore, ricostruisce la genesi ed il lungo percorso fatto dalla statua.[6]
  [1] ALDO DE BERNART, Antonio Bortone e la sua casa natale in Ruffano, a cura dell’Amministrazione Comunale, Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis, 2004, pp.5-10.
[2] GIOVANNA FALCO, Fanfulla da Lodi e altre opere leccesi di Antonio Bortone, in http://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/11/fanfulla-da-lodi-ed-altre-opere-leccesi-di-antonio-bortone/
[3] Ibidem.
[4] ALDO DE BERNART, Nel primo centenario del Monumento di Antonio Bortone a Quinto Ennio, Ruffano, Tipografia Inguscio -De Vitis, 2012. Sull’erudito ruffanese Aldo de Bernart, si veda: PAOLO VINCENTI, Aldo De Bernart: Profilo biografico ed intellettuale, in AA. VV., I luoghi della cultura e cultura dei luoghi, In memoria di Aldo de Bernart, a cura di FRANCESCO DE PAOLA e GIUSEPPE CARAMUSCIO, Società Storia Patria, sezione Lecce, “I Quaderni de L’idomeneo”, n.24, Lecce, Grifo, 2015, pp.11-38.
[5] GIOVANNA FALCO, Ivi.
[6] PAOLO VINCENTI, L’arte commemorativa postbellica. Antonio Bortone da Ruffano e una sua opera inedita, in “L’Idomeneo”, Soc. Storia Patria Lecce- Università del Salento, n.26 -2018, Castiglione, Grafiche Giorgiani, 2019, pp.247-282.
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Gli Arcadi di Terra d’Otranto (3/x) : Tommaso Niccolò d'Aquino di Taranto (1665-1721)
di Armando Polito
Ebalio Siruntino il suo pseudonimo1. Ebalio è dal latino Oebalius=relativo ad Ebalo, spartano, a sua volta da Oebalus=Ebalo, re di Sparta.2 Chiaro il riferimento alle origini spartane di Taranto. Ma si sente anche l’eco dell’episodio del vecchio di Corico celebrato da Virgilio nel quarto libro delle Georgiche (vv. 125-145):
Namque sub Oebaliae memini me turribus arcis,
qua niger umectat flaventia culta Galaesus,
Corycium vidisse senem, cui pauca relicti
iugera ruris erant, nec fertilis illa iuvencis
nec pecori opportuna seges nec commoda Baccho.
Hic rarum tamen in dumis holus albaque circum
lilia verbenasque premens vescumquepapaver
regum equabat opes animis seaque revertens
nocte domum dapibus mensas onerabat inemptis.
Primus vcererosamatque autumno carpere poma
et, cum tristis hiemps etiamnum frigore saxa
rumperet et glaciecusus frenaret aquarum,
ille comam mollis iam tondebat hyacinthi
aestatem increpitans seram Zephyrosque morantis.
Ergo apibus fetisidem atque examine multo
primus abundare et spumantia cogere pressis
mella favis; illi tiliae atque uberrima pinus,
quotque in flore novo pomis se fertilis arbos
induerat, totidem autumno matura tenebat.
Ille etiam seras in versum distulit ulmos
eduramque pirum et spinos iam pruna ferentis
iamque ministrantem platanum potantibus umbras.
Verum haec ipse  equidem spatiis  exclusus iniquis
praetereo atque aliis post me memoranda relinquo.
  Infatti ricordo sotto le torri della rocca ebalia,
per dove il bruno Galeso bagna bionde coltivazioni,
di aver veduto un vecchio di Corico, che possedeva
pochi iugeri di terra abbandonata, infeconda ai giovenchi,
inadatta alla pastura di armenti, inopportuna a Bacco.
Questi tuttavia, piantando radi erbaggi fra gli sterpi,
e intorno bianchi gigli e verbene e il fragile papavero,
uguagliava nell’animo le ricchezze dei re, e tornando a casa
tornando a casa colmava la mensa di cibi non comprati.
Primo a cogliere la rosa in primavera e in autunno a cogliere i frutti,
quando ancora il triste inverno spaccava i sassi
con il freddo e arrestava con il ghiaccio il corso delle acque,
egli già tosava la chioma del molle giacinto
rimproverando l’estate che tardava e gli Zefiri indugianti.
Dunque era anche il primo ad avere copiosa prole
di api e uno sciame numeroso, e a raccogliere miele
schiumante dai favi premuti; aveva tigli e rigogliosi pini,
e di quanti frutti, al nuovo fiorire, il fertile albero
si fosse rivestito altrettanti in autunno portava maturi.
Egli ancora trapiantò olmi tardivi in filari,
e duri peri e prugni che ormai producevano susine,
e il platano che già spandeva ombra sui bevitori.
Ma impedito a ciò dall’avaro spazio, tralascio, e affido
questi argomenti ad altri che li celebrino dopo di me.
  La seconda parte dello pseudonimo (Siruntino) mi pone un problema di non poco conto. Premetto che Il numero degli Arcadi col tempo aumentava e i nomi dei luoghi da scegliere o attribuire diventavano sempre meno; così il nostro Ebalio rimase senza campagna fino al 1711, quando Vincenzo Leonio da Spoleto (pseudonimo arcade Uranio Tegeo), incaricato di ridistribuire i nuovi “lotti” all’Arcadia, aggiornò il catalogo così scrivendo: Ebalio Siruntino, dalle campagne presso la terra di Sirunte in Acaia: d. Tommaso d’Aquino Tarentino. Fino ad ora non son riuscito a reperire in alcuna fonte antica il ricordo di questa fantomatica Sirunte, tanto meno in alcuno scritto posteriore al Leonio. So che la storia si fa con le fonti, ma anche, sia pure provvisoriamente, con le ipotesi di lavoro, che per definizione inizialmente potrebbero avere poca o nulla scientificità, proprio come quella che sto per formulare, non casualmente sotto forma di domanda: con la Sirunte d’Acaia del Leonio potrebbe avere qualcosa in comune la masseria Sirunte in località Battifarano, nel comune di Chiaromonte, in provincia di Potenza, in Basilicata?
Tommaso in vita3 non pubblicò nulla e potrebbe non estraneo alla sua scelta anche il fatto che non son riuscito a reperire di lui nulla in raccolte di altri autori, come spesso succedeva per gli Arcadi. Il suo Deliciae Tarentinae, il cui autografo risulta disperso, fu pubblicato per i tipi della Stamperia Raimondiana a Napoli nel 1771 da Cataldantonio Artenisio Carducci (nell’immagine che segue tratta da Domenico Martuscelli, Biografia degli uomini illustri del regno di Napoli, tomo IX, Gervasi, Napoli, 1822), che lo corredò di traduzione e commento.
        Nel 1964 il tarantino Carlo D’Alessio rinveniva a Roma tra alcuni manoscritti arcadici Galesus piscator Benacus pastor, ecloga del D’Aquino che venne pubblicata a cura di Ettore Paratore per i tipi di Laicata a Manduria nel 1969.
A riprova che l’omonimia è sempre in agguato, tanto più pericolosa quando ha la cronologia come complice, chiudo dicendo che il nostro non è da  confondere con il contemporaneo e quasi omonimo Tommaso D’Aquino di Napoli, principe di Feruleto, poi di Castiglione e grande di SpagnA, pure lui socio dell’Arcadia con lo pseudonimo di Melinto Leuttronio.
__________
1 Assente nel catalogo del 1696 ed in quello in calce a Rime di Alfesibeo Cario, Molo, Roma, 1695, compare per la prima volta, ma privo del secondo componente, in Giovanni Mario Crescimbeni, L’Arcadia, Antonio de’ Rossi, Roma, 1711, p.  367.
2 Sulle fonti relative a questo nome vedi http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/01/08/taranto-piazza-ebalia-le-origini-di-un-toponimo/.
3 Per la biografia vedi Francesco Sferra, Compendio della storia di Taranto, Latronico e figlio, Taranto, 1873, pp. 96-98.
  (CONTINUA)
Per la prima parte (premessa): http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/
Per la seconda parte (Francesco Maria Dell’Antoglietta di Taranto):  http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/15/gli-arcadi-di-terra-dotranto-2-x-francesco-maria-dellantoglietta-di-taranto/
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Il nuovo libro di Boccadamo, “Gli sposi di Monteruga”
E’ stato appena pubblicato, con Spagine Edizioni (Fondo Verri) – Lecce, il nuovo libro dello scrittore e giornalista salentino Rocco Boccadamo “Gli sposi di Monteruga” – Lettere ai giornali e appunti di viaggi.
Di seguito, un’interessante recensione al volume redatta dal poeta e critico letterario Marcello Buttazzo.
  La scrittura del narrastorie Boccadamo
di Marcello Buttazzo
Fortunatamente, l’uomo preserva la memoria, la ravviva continuamente di linfa vitale. La memoria, conchiglia di vissuti, che navigano sulle spiagge del tempo. Rocco Boccadamo è un narrastorie salentino attento ai ricordi, ai trascorsi traversati con lo sguardo composto, discreto. Ogni anno Rocco ci ha abituato alle sue pubblicazioni, raccolte di articoli e lettere ai giornali. A fine anno, Boccadamo fa un compendio di ciò che l’ha colpito nel sommerso e nel manifesto e ci dona il suo libretto di storie. È appena uscito dell’autore salentino “Gli sposi di Monteruga”, appunti di viaggio, edito da Spagine (Fondo Verri Edizioni).
I luoghi sono sacri per Rocco, i luoghi della sua storia, della nostra storia, della sua infanzia e giovinezza, bordeggiate ai margini del sogno, della semplicità, della purezza fanciulla. Marittima, paesino natale dell’autore, l’insenatura dell’Acquaviva e Castro, sono delle perle, non solo di splendore paesaggistico, ma anche carne viva di memoria, di ricordo rosso d’incanto. In particolare, l’Ariacorte, piccolo quartiere di Marittima, viene evocata in tutta la sua francescana compostezza, abitata da gente del popolo, devota al lavoro e alla fatica. Si staglia limpidissimo il ricordo della madre Immacolata, morta giovanissima, che per Rocco è stata una fulgida figura di riferimento, capace di accoglienza e d’amore.
La narrazione di Boccadamo è, per l’innanzi, descrizione della gente, che scende essenzialmente fra le viuzze, fra le strade, di Marittima, di Castro, e di altre località vicine. I protagonisti dei suoi racconti sono pescatori, contadini, muratori, ciabattini, gente umile, con la notazione di spontaneità e di genuinità. Ma protagonista fondamentale delle pagine di Rocco è anche il paesaggio, il mare adamantino, la terra generosa, la via del tabacco, i quartieri assolati d’amore e d’attesa, d’umana speranza. Nel libro viene esaltato il valore e il sapore dell’amicizia. Una costellazione di persone s’affolla fra le righe, Nzino, Nino, Luigi, Antonio, tutta gente del popolo. Potremmo dire, con una vulgata scontata, che Rocco sia scrittore popolare, perché gli umili sono tenuti in massima considerazione. Loro fanno la storia.
Il nostro autore dedica pagine d’amore e di commozione a un grande uomo di Marittima, Vitale Boccadamo, distintosi per eroismo nel corso della Prima Guerra mondiale. Leggendo “Gli sposi di Monteruga” si comprende che Boccadamo, pur senza particolari implicazioni confessionali, abbia una precipua propensione per la mansione spirituale e religiosa. Molto belli sono i racconti su Castro e la sua Protettrice, la Madonna, Maria SS. Annunziata, e su S. Maria Maddalena, venerata a Castiglione d’Otranto. In un’era in cui eccessivamente si pontifica su grandi sistemi, ben venga questa prosa minimalista di Rocco, questo florilegio sulla vita quotidiana, ordinaria, che ci indica il passo, che ci segna la danza. Dobbiamo dire anche che ne “Gli sposi di Monteruga” il racconto si dispiega su due fronti coincidenti: il presente e il passato. Esiste un continuum nel tratteggio di ciò che è avvenuto tanti anni fa e di ciò che fluisce attualmente. E Rocco, marito, padre e nonno, dal suo osservatorio prediletto e buon ritiro della “Pasturizza” con pazienza tesse e ci rede partecipi. La fluidità della scrittura di Boccadamo si amplia con la meraviglia che l’autore prova in certi frangenti. Rocco descrive con stupore da poeta la magnificenza della Natura, i voli di storni paesani. E introduce scenari di fiaba con le storie del rospetto Pancino e del riccio Culèo.
La prefazione del libro è di Ermanno Inguscio. Nella postfazione Raffaella Verdesca tocca una corda cruciale quando scrive: “Uno scrigno, questo, che Rocco Boccadamo ci consegna grazie ai suoi scritti: parola-chiave, l’AMORE”. E, in effetti, l’amore è il motore che tutto muove, che ci rende compartecipi agli umani, che scioglie il gelo. Che ci salva la vita.
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CASTILIONUM INSIGNIA: alla riscoperta di Donato Castiglione e della sua antica famiglia
Donato Castiglione, detto l’Argentario.
  di Marcello Semeraro
Donato Castiglione, detto l’Argentario, medico, filosofo e umanista vissuto fra il XVI e il XVII secolo, è uno dei tanti personaggi illustri della storia di Oria. Qui nacque, probabilmente fra il 1530 e il 1540. Conosciamo il nome del padre (Mariano) e quello del fratello (Giulio Cesare). Non ancora ventenne, si recò a Napoli per studiare medicina, disciplina nella quale egli divenne espertissimo e che si prodigò ad insegnare al suo rientro ad Oria.
Uomo dottissimo e versatile, la sua preparazione e sua fama erano tali che gli valsero la nomina a precettore “in tutte le dottrine” di Alessandro Mattei, conte di Pamariggi, e di altri signori del reame napoletano. Dopo la morte di Quinto Mario Corrado (1475) – il grande umanista oritano del quale l’Argentario fu allievo e parente – fu chiamato a sostituirlo alla guida del Seminario di Oria, ma, stando a quanto scrive il Matarrelli Pagano, “per essere di differente professione non vi fece profitto che si ne sperava”. Ci è ignota la data del suo decesso, ma sappiamo che morì ad Oria, ottuagenario.
Fra i suoi scritti più noti va annoverato il De coelo uritano, un’opera in tre libri che purtroppo è andata perduta, nella quale il Castiglione disquisì di storia, topografia, clima e salubrità del territorio oritano. Scrisse inoltre gli argumenta del De Lingua Latina e del De Copia Latini Sermonis di Quinto Mario Corrado, con cui ebbe altresì un’intensa corrispondenza epistolare, ben testimoniata dalle lettere presenti nell’Epistolarum libri VIII.
Della sua famiglia e delle sue origini si sa pochissimo. Le uniche informazioni sono quelle riportate dallo storico Domenico Tommaso Albanese (*1638 †1685) in una pagina del suo celebre manoscritto intitolato Historia Dell’antichità d’Oria Città della Provincia di Terra d’Otranto. “La famiglia de’ Castiglioni assai antica e nobile in Oria, originaria della Francia sin dal tempo di Carlo primo d’Angiò che da Argentona, città della Francia donde si partì, lasciato il primitivo cognome de’ Castiglioni hoggi si dice degli Argentoni si come appare da un’iscrizione posta sotto le armi et imprese nel loro palaggio in Oria”. Ai  tempi in cui lo storico oritano scrisse la sua opera, questa famiglia era quasi estinta, “non vi essendo rimasti che alcun pochi, li quali fanno la loro Stanza nel villaggio, over Castello di Erchie, ove possedono molti loro poderi”.
Grazie agli studi di Pasquale Spina sulla toponomastica oritana, siamo riusciti a localizzare il luogo dove anticamente sorgeva il palazzo di famiglia del quale parla l’Albanese. Si tratta dell’edificio ubicato fra via Milizia (l’antica via Santa Lucia) e vico Barletta,  attualmente di proprietà di Mario Sartorio. Fortunatamente il palazzo, nonostante i rimaneggiamenti e i cambi di proprietà a cui è stato soggetto nel corso dei secoli, conserva ancora intatte le “armi et imprese” e l’epigrafe descritte dall’Albanese, che appaiono murate sulla parete della terrazza del primo piano.
Lo scudo presenta una foggia ovale accartocciata ed è racchiuso in una lastra rettangolare delimitata da una cornice modanata, al di sotto della quale compare un’iscrizione in lettere capitali che recita così:  CASTILIONUM INSIGNIA / QUIBUS  AB ARGENTONA/  GALLIARUM URBE UT MI / GRARUNT ARGENTONI / BUS COGNOMEN  FUIT.
Fig. 2. Oria, particolare dello stemma Castiglione/Argentone murato sulla parete della terrazza del primo piano dell’abitazione ubicata fra via Milizia e Vico Barletta.
  Lo stemma reca un’aquila monocipite, al volo abbassato e coronata (fig. 2). Un esemplare simile, ma di dimensioni minori e in uno stato di conservazione non ottimale, è invece scolpito sulla parete del piccolo giardino del primo piano, sempre all’interno di uno scudo ovale munito di cartocci (fig. 3).
Fig. 3 – Oria, particolare dello stemma murato sulla parete del giardino del primo piano dell’abitazione posta fra via Milizia e vico Barletta.
  Diversamente da quanto dovette essere in origine, questi manufatti si presentano oggi privi di indicazioni cromatiche e costituiscono le uniche attestazioni a noi note dell’arma alzata da questa famiglia, il cui nome, è bene precisarlo, non va confuso con quello di altre famiglie omonime, ma dotate di stemmi diversi. Circa la cronologia d’esecuzione dei manufatti in esame, l’analisi storico-araldica ha evidenziato fattezze stilistiche riconducibili a un periodo compreso fra seconda metà del XVI  e la prima metà del XVII secolo. Alcuni atti notarili riportati da Pasquale Spina mostrano che in quel lasso di tempo il palazzo appartenne effettivamente a Donato Castiglione e ai suoi discendenti, perlomeno fino al 1656 (terminus ante quem per la datazione degli stemmi e dell’epigrafe), quando Tomasina e Isabella Argentone vendettero l’edificio, che all’epoca era costituto da “una casa a volta con tre terrazze e scala in pietra”.
Come abbiamo visto, l’epigrafe e il passo tratto dall’Albanese accennano al passaggio del cognome di famiglia da quello primitivo (Castiglione) a quello derivato dal toponimo francese (Argentone). L’analisi delle fonti scritte coeve mostra che, finché visse, Donato Castiglione venne individuato ora con la forma cognonimale primitiva, ora con quella toponimica, mentre quest’ultima caratterizzò i suoi discendenti ed è rimasta ancora oggi in un toponimo rurale di Oria. Pasquale Spina ha individuato in Argenton-sur-Creuse, un comune francese situato nel dipartimento dell’Indre, nella regione Centre-Val de Loire, la località di origine della famiglia, ma questa ipotesi è tutta da dimostrare, anche alla luce dell’abbondanza di toponimi simili riscontrabili in Francia (Argenton-Château, Argenton-l’Église, Argenton-Notre-Dame ecc.).
Nel 1899 una delibera del consiglio comunale dedicò a Donato Castiglione due strade (una via e un vico), la cui denominazione si conserva ancora oggi. Da allora, tante cose sono cambiate e oggi presso le nuove generazioni la memoria dell’Argentario, della sua famiglia e della sua dimora sembra essersi persa.
Anche la storigrafia locale, se si eccettua il lodevole contributo di Pasquale Spina, non è da meno. L’auspicio è che questa indagine stimoli la curiosità di qualcuno e, magari, dia avvio a nuove e più approfondite ricerche.
BIBLIOGRAFIA
T. Albanese, Historia Dell’antichità d’Oria Città della Provincia di Terra d’Otranto. Raccolta da molti antichi e moderni Geografi, ed Historici Dal Filosofo e Medico Domenico Tomaso Albanese della stessa Città, nella quale anco si descrive l’origine di molti luoghi spettanti alla sua Diocesi, Brindisi, Biblioteca pubblica arcivescovile A. De Leo, Manoscritti, ms_D/15, 1750.
Amorosi, A. Casale, F. Marciano, Famiglie nobili del Regno di Napoli in uno stemmario seicentesco inedito, Roma 2011.
M. Corrado, De lingua Latina ad Marcellum fratrem libri XIII, Bologna 1575.
M. Corrado, De copia Latini sermonis libri quinque, Venezia 1582.
M. Corrado , Epistolarum libri VIII, Venezia 1565.
G.B. di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, Pisa 1886-1890, rist. anast. Bologna 1965.
Foscarini, Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, Lecce 1903, rist. anast. Bologna 1978.
D.R. Greco, Memorie biografiche sui letterati oritani, Napoli 1838.
Matarrelli Pagano, Raccolta di notizie patrie dell’antica città di Oria nella Messapia, Oria 1976.
Spina, Oria, strade vecchie, nomi nuovi, strade nuove, nomi vecchi, Oria 2003.
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Gli stemmi dell’antico palazzo Rondachi di Otranto
  di Marcello Semeraro e Antonella Candido
  L’identificazione di stemmi anonimi presenti su edifici, affreschi e manufatti è un esercizio molto importante non solo per l’araldista, ma anche per lo storico dell’arte. Le insegne araldiche, infatti, sono tra pochi elementi in grado di fornire uno “stato civile” (una datazione, una provenienza, una committenza) e un “contesto” all’opera su cui sono riprodotte. Questo più ampio e proficuo approccio nell’interpretazione dei segni araldici manifesta tutta la sua validità scientifica nel caso degli stemmi scolpiti sui resti dei parapetti di due balconi monumentali conservati all’interno del castello aragonese di Otranto.
Come vedremo, l’analisi storico-araldica delle insegne ha consentito di gettare una nuova luce sulle origini e le vicissitudini edilizie dello storico palazzo idruntino di via Rondachi sul quale un tempo erano collocati i balconi.
Per comodità di esposizione, preferiamo iniziare la disamina partendo dal parapetto quasi integro che fa bella mostra di sé nella sala rettangolare del castello (fig. 1).
Fig. 1. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, particolare del parapetto monumentale
  Il manufatto è formato da nove lastre rettangolari in pietra locale, scomposte e allineate su una pedana. Sulle sette lastre centrali si ammirano decorazioni in bassorilievo recanti sette busti maschili e femminili in maestà, ognuno dei quali è racchiuso da un serto di alloro, tipico corollario dell’iconografia celebrativa. Sulle due lastre laterali, decorate a traforo, campeggiano due scudi sagomati con contorni mistilinei, di foggia diversa, databili al XVI secolo. Purtroppo, come spesso avviene, e contrariamente a quanto doveva essere in origine, questi manufatti si presentano oggi privi di smalti. Il primo esemplare mostra una colonna con base e capitello, sostenente un putto che impugna con la mano destra una croce latina (fig. 2); il secondo reca nel primo quarto lo stesso stemma, benché stilisticamente diverso, partito con un altro raffigurante un albero nodrito1 su un ristretto di terreno2, movente dalla punta dello scudo (fig. 3).
Fig. 2. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, particolare dello stemma
Fig. 3. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, particolare dello stemma di alleanza matrimoniale
  Quest’ultimo esemplare partecipa evidentemente delle caratteristiche dell’arme di alleanza matrimoniale: a destra (sinistra per chi guarda) le insegne del marito, a sinistra (destra per chi guarda) quelle della moglie. Il balcone appare nella sua interezza in una riproduzione fotografica realizzata nel primo decennio del Novecento (1910 ca.) dai fratelli Alinari, dalla quale si evince che esso dominava il prospetto di casa Carrozzini e che gli stemmi erano posizionati ai lati del parapetto (fig. 4).
Fig. 4 – Balcone di casa Carrozzini, Otranto ca. 1910, stabilimento tipografico dei fratelli Alinari (Archivi Alinari, Firenze)
  Altre foto d’epoca con altri particolari del suddetto edificio sono contenute fra le illustrazioni del secondo volume del Tallone d’Italia di Giuseppe Gigli3, pubblicato nel 1912 (fig. 5).
Fig. 5. Balcone di casa Carrozzini (dal Tallone d’Italia di Giuseppe Gigli, foto Perazzo).
  Tuttavia, nessuno dei due stemmi poc’anzi descritti corrisponde all’arme portata dalla famiglia Carrozzini, la quale sia nella versione blasonata dal Montefusco (“un cervo che tira un carro su cui è inginocchiato un uomo nudo con le mani giunte; il tutto sulla pianura erbosa”4), sia in altre varianti lapidee attestate a Soleto, differisce per la presenza di un emblema parlante5 costituito da una carrozza o da una sua parte (la ruota). Ciò significa che la committenza del balcone deve essere ricercata necessariamente altrove. Va premesso che l’identificazione dei titolari si è rivelata un’operazione particolarmente difficile, sia per la scarsità di fonti storiche su questo edificio, sia perché il contenuto blasonico degli stemmi non è facilmente ascrivibile a famiglie note. In casi di questo genere, le ricerche mediante collazione sulle fonti più specificamente araldiche (gli stemmari) possono rivelarsi fruttuose. E così è stato per il primo stemma e per il primo quarto del secondo, mentre si possono formulare solo delle ipotesi a proposito del secondo quarto del partito. Nel celebre Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, lo storico e araldista Amilcare Foscarini descrive un’arme identica, attribuendola ai Rondachi: “una colonna con base e capitello su cui sta un puttino ignudo che impugna colla destra una croce”6. Lo stesso blasone viene riportato nello Stemmario di Terra d’Otranto di Luigiantonio Montefusco7. In entrambi i casi non si hanno indicazioni sulla cromia delle figure e del campo.
I Rondachi furono una nobile famiglia idruntina di origini greche, annoverata fra le più illustri della città dallo storico Luigi Maggiulli8 ed estinta nella seconda metà del Seicento9. Fra il XVI e il XVII secolo la casata possedette vari feudi in Terra d’Otranto, tra i quali vanno ricordati Casamassella, Castiglione d’Otranto, Giurdignano, una quota dei laghi Alimini, Serrano e Tafagnano10. Un Domenico, vissuto nel XVII secolo, fu canonico della cattedrale di Otranto oltre che dotto nelle scienze e nelle lettere11.
Fra le famiglie nobili di Otranto, i Rondachi non furono comunque i soli a vantare un’origine ellenica giacché essa è attestata anche per altre schiatte come i Leondari, i Morisco e i Calofati12. Resta da capire, dopo aver identificato la famiglia di provenienza dello stemma in esame, a quale singolo personaggio detta arma apparteneva. Sfortunatamente non è stato possibile raggiungere questo obiettivo a causa soprattutto della difficoltà di stabilire, sulla base delle fonti a nostra disposizione, dei precisi riferimenti storico-genealogici sui vari membri di Casa Rondachi.
Ancora più problematica risulta essere l’identificazione dello stemma muliebre rappresentato nel secondo quarto dell’arma di alleanza matrimoniale, allusivo, come abbiamo visto, alla consorte di un Rondachi. Ciò dipende da una serie di limiti oggettivi a cui lo studioso va incontro nella lettura dell’arme, legati sia alla composizione araldica in sé, che si presenta acroma e generica nella sua figura principale – il termine ���albero” è stato non a caso usato perché non se ne conosce la specie – sia alla lacunosità delle fonti con cui poter fare un raffronto. Va osservato, a tal proposito, che fra tutte le famiglie nobili e notabili idruntine riportate dal Maggiulli e dal Foscarini, solo di alcune di esse si conosce il blasone13.
Fra queste ultime, soltanto i Cerasoli (“d’argento, al ciliegio di verde”14), i Pipini (“d’azzurro, alla quercia al naturale, sostenuta da due leoni controrampanti d’oro”15) e i Dattili (“d’azzurro, alla palma di dattero d’oro, accostata da due stelle dello stesso”16 ) innalzavano un albero come figura principale, ma nessuno dei tre blasoni, nel suo complesso, sembra corrispondere a quello in argomento. Il quadro risulta ulteriormente complicato dal fatto che, come abbiamo poc’anzi ricordato, non disponiamo di solide fonti storico-genealogiche sui vari esponenti di Casa Rondachi, dalle quali avremmo potuto ricavare dati utili per la conoscenza delle insegne araldiche delle rispettive consorti.
Nel corso delle nostre indagini, tuttavia, siamo riusciti a rintracciare una fonte che si è rivelata di notevole importanza. Si tratta di una lettera del 15 ottobre 1893, scritta dal barone Filippo Bacile di Castiglione e pubblicata nel 1935 dalla rivista Rinascenza Salentina17. Storico nonché studioso di araldica, il Bacile apparteneva ad una nobile famiglia di origini marchigiane che possedette in Terra d’Otranto i feudi di San Nicola in Pettorano e di Castiglione d’Otranto, lo stesso, quest’ultimo, che qualche secolo prima era appartenuto ai Rondachi18.
La lettera, indirizzata a Luigi Maggiulli, descrive un viaggio ad Otranto durante il quale il Bacile poté visionare di persona uno storico palazzo di cui all’epoca era proprietario tale Don Peppino Bienna. In quell’occasione egli vide sulla facciata non uno, ma due parapetti che costituivano “la parte più notevole”19 dell’edificio. “Quei parapetti hanno in tre lati corti e su fondi a trafori geometrici che indicano il passaggio dal XV al XVI secolo […] tre armi: una sola con una figura; le altre con due, perchè partite, ripetendo però a destra sempre questa figura; e a sinistra un’altra. La prima, dunque, è una colonna, su piedistallo, sormontata da un puttino tenente nella destra una croce. Nelle armi partite vi è 1°: la descritta; 2°: un albero su breve terrazza direi quasi accorciata”20.
Il secondo parapetto, posto “in linea quanto divergente dal primo ma, tripartito e con bassorilievi”21, conteneva dunque un terzo scudo che replicava la stessa combinazione d’armi per alleanza coniugale che abbiamo osservato nell’esemplare riprodotto nella figura 3. Ammirato dalle fattezze dell’edificio, il Bacile volle cercarne i proprietari originari e seppe era appartenuto alla famiglia Rondachi “che si era imparentata con la Scupoli, a cui dovrebbe appartenere la 2° partizione delle due armi”22.
Si tratta di un documento importante perché oltre a confermare la committenza Rondachi, offre anche un indizio per l’identificazione dello stemma muliebre. Di origini ignote e non annoverata dal Maggiulli fra le più illustri di Otranto, la famiglia Scupoli divenne celebre per aver dato i natali a Lorenzo (*1530 †1610), chierico teatino nonché autore del celebre Combattimento spirituale23, e probabilmente anche a Giovanni Maria Scupola, pittore otrantino contemporaneo dei fratelli Bizamano24. Purtroppo non si conoscono altre attestazioni dell’arma portata da questa famiglia.
Allo stato attuale delle nostre ricerche non possiamo pertanto né confermare né confutare l’ipotesi di attribuzione del quarto muliebre suggerita al Bacile che, tuttavia, va tenuta in considerazione in vista di ulteriori, auspicabili approfondimenti. Nella lettera summenzionata si parla anche di un secondo parapetto presente sulla facciata, che dovette essere di dimensioni minori rispetto al primo. Fino a qualche settimana fa i resti di questo manufatto giacevano isolati e decontestualizzati nella sala triangolare del castello.
Tuttavia, grazie al nostro interessamento, si è provveduto a spostarli nell’adiacente sala rettangolare, dove sono attualmente ammirabili. Essi corrispondono perfettamente a quanto descritto dal barone di Castiglione. Si riconoscono tre lastre rettangolari decorate con pregevoli bassorilievi che riproducono diverse figure, comprese tre colonne che sembrano avere una relazione allusiva con l’arma Rondachi (fig. 6).
Fig. 6. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, particolare delle lastre del parapetto del secondo balcone di palazzo Rondachi
Una quarta lastra, che si presenta in uno stato frammentario, reca scolpito su un fondo a traforo uno blasone partito Rondachi – (Scupoli?) del tutto simile a quello raffigurato sul parapetto maggiore, sebbene la composizione risulti stilisticamente differente (fig. 7).
Fig. 7. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, frammenti della lastra del parapetto del secondo balcone di palazzo Rondachi, con stemma partito Rondachi – (Scupoli?).
  L’analisi dell’araldista salentino presenta, invece, alcuni aspetti problematici per quanto riguarda il numero originario delle lastre del parapetto più grande. Egli, infatti, descrive “cinque scompartimenti racchiusi in elettissimi pilastrini” recanti “cinque medaglioni con teste che sporgono da serti circolari25, mentre se ne contano due in più nelle foto novecentesche di casa Carrozzini e nel manufatto visibile nella sala rettangolare del castello. Riteniamo che questa divergenza si possa spiegare ipotizzando un errore di conteggio da parte dello studioso. Tale supposizione si basa sul fatto che la sequenza dei sette busti raffigurata su ogni pannello difficilmente troverebbe una spiegazione se non venisse considerata come parte integrante dell’intero corredo decorativo della parte frontale del parapetto maggiore, lo stesso manufatto, peraltro, che qualche anno dopo apparirà nella sua interezza nelle riproduzioni novecentesche del balcone di casa Carrozzini.
E’ probabile che ogni busto racchiuso dalla corona d’alloro sia da intendersi come allusivo ad un personaggio di Casa Rondachi e che, di conseguenza, l’insieme costituito dai bassorilievi figurati e dalle insegne araldiche agnatizie e matrimoniali (che all’epoca erano sicuramente radicate nell’esperienza visiva degli osservanti) sia stato ideato per celebrare la famiglia proprietaria del palazzo nonché per ostentarne il rango. E’ bene precisare, però, che allo stato attuale delle nostre indagini queste considerazioni sono e restano delle mere ipotesi, da prendere con le dovute cautele.
Da un punto vista cronologico e stilistico, entrambi i parapetti presentano fattezze ascrivili al XVI secolo, probabilmente opera raffinatissima di Gabriele Riccardi26. Nel primo decennio del Novecento lo storico palazzo sito in via Rondachi dovette subire dei rimaneggiamenti che andarono a modificare in parte la struttura della facciata, tanto è vero che il prospetto dell’edificio, nel frattempo divenuto casa Carrozzini, era costituito da un solo balcone.
Le vicende che interessarono questa dimora nel lasso di tempo successivo a quello documentato dalle foto presentano, invece, non pochi lati oscuri. Stando a quanto si ricava dall’introduzione alla lettera del Bacile – pubblicata, come abbiamo visto, dalla rivista Rinascenza salentina agli inizi del 1935 – a quella data l’edificio non esisteva più perché fu abbattuto a causa delle sue precarie condizioni27. Si apprende che grazie all’interessamento del Maggiulli e della Soprintendenza ai Monumenti della Puglia e alla munificenza della famiglia Bienna, i pezzi del balcone furono smontati, affidati all’amministrazione comunale e conservati “in apposito luogo”28.
Di parere diverso è lo studioso Paolo Ricciardi, secondo il quale casa Carrozzini fu acquistata dall’arcivescovo Cornelio Sebastiano Cuccarollo (1930-1952) e abbattuta dal suo successore Mons. Raffaele Calabria (1952-1960) per far posto ad una palazzina attualmente utilizzata come archivio diocesano (piano terra) e uffici pastorali (primo piano)29.
Comunque sia, delle lastre lapidee dei due parapetti si perse ogni traccia fino agli inizi degli anni ’90, quanto esse furono rinvenute all’interno del materiale di riempimento del fossato del castello aragonese e collocate nelle sale interne della fortezza idruntina. Ulteriori e più puntuali indagini, basate soprattutto su fonti archivistiche, potranno chiarire meglio le fasi e le vicissitudini edilizie a cui andò incontro quella che un tempo era l’antica dimora di una nobile famiglia otrantina della quale oggi non restano che i frammenti degli antichi balconi e un’intitolazione toponomastica a perpetuarne la memoria.
  * Desidero esprimere il mio più profondo ringraziamento alla dottoressa Patricia Caprino (Laboratorio di Archeologia Classica dell’Università del Salento), alla quale va il merito di avermi segnalato il caso, suscitando il mio interesse e la mia curiosità. Un ringraziamaneto particolare va anche a Mons. Paolo Ricciardi, noto cultore di storia otrantina, per la sua generosa disponibilità. (Marcello Semeraro)
Si dice di vegetali che nascono o escono da una figura o partizione.
Terreno che è molto ridotto o isolato da entrambi i lati.
Cfr. G. Gigli, Il tallone d’Italia: II (Gallipoli, Otranto e dintorni), Bergamo 1912, pp. 86-87.
Cfr. L. Montefusco, Stemmario di Terra d’Otranto, Lecce 1997, p. 35.
Le armi o le figura parlanti sono quelle che recano raffigurazioni allusive al nome del titolare.
A. Foscarini, Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, Lecce 1903, rist. anast. Bologna 1978, vol. 1, p. 181.
Cfr. L. Montefusco, op. cit., p. 106.
Cfr. L. Maggiulli, Otranto: ricordi, Lecce 1893, p. 97.
Cfr. A. Foscarini, op. cit., p. 181.
Cfr. ibidem; cfr. inoltre L. Montefusco, Le successioni feudali in Terra d’Otranto: la provincia di Lecce, Lecce 1994, ad voces.
A. Corchia, Otranto toponomastica, in Note di storia e cultura salentina (a cura di F. Cezzi), Galatina 1991, p. 133.
Cfr. A. Foscarini, op. cit., pp. 32, 118, 146. Quello delle famiglie nobili di origine ellenica giunte in Terra d’Otranto e, più in generale, nel Sud Italia per sfuggire alla dominazione ottomana, resta un fenomeno tutto sommato poco esplorato dagli studiosi. L’araldica, da questo punto di vista, potrebbe fornire un interessante terreno di ricerca.
Cfr. L. Maggiulli, op. cit., pp. 93-104; A. Foscarini, op. cit., ad voces.
Cfr. A. Foscarini, op. cit., pp. 46-47.
Cfr. ivi, pp. 169-170.
Cfr. ivi, p. 59.
Cfr. F. Bacile, Il palazzo dei Rondachi in Otranto, in Rinascenza salentina, 1 (gen-feb 1935), pp. 42-45.
Cfr. A. Foscarini, op. cit. p. 16.
Cfr. F. Bacile, op. cit., p. 43.
Cfr. ivi, p. 44.
Cfr. ibidem.
Cfr. ivi, p. 45.
Cfr. P. Ricciardi, Lorenzo Scupoli e il presbitero Pantaleone. Due maestri idruntini intramontabili e universali, Galatina 2010, pp. 9-10.
Cfr. ivi, p. 307.
Cfr. F. Bacile, op. cit., p. 44.
Cfr. M. Cazzato, V. Cazzato (a cura di), Lecce e il Salento. Vol. 1: i centri urbani, le architetture e il cantiere barocco, Roma 2015, pp. 320-321.
Cfr. F. Bacile, op. cit, p. 42.
Cfr. ibidem.
Cfr. P. Ricciardi, Otranto devota, Galatina 2015, p. 255.
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