#Braccio di Ferro (personaggio)
Explore tagged Tumblr posts
Text
"Pochi sanno che il personaggio di Popeye (Braccio di ferro) esisteva davvero. Il suo vero nome era Frank "Rocky" Fiegel, nato in Polonia nel 1868. Emigrò con la sua famiglia in America dove, nel 1887, si arruolò in Marina.
Per stare con i bambini, teneva sempre la pipa con l'angolo della bocca e raccontava loro le buffonate della sua giovinezza, spesso vantandosi della sua forza fisica e sostenendo ad alta voce che gli spinaci sono il cibo che lo rende invincibile.
Il creatore del personaggio di Popeye, Elzie Crisler Segar, è nato a Chester ed è stato uno dei bambini che ha avuto il privilegio di ascoltare "dal vivo" le storie dell'ex marinaio."
7 notes
·
View notes
Text
Braccio di ferro
“Pochi sanno che il personaggio di Popeye (Braccio di ferro) esisteva davvero. Il suo vero nome era Frank “Rocky” Fiegel, nato in Polonia nel 1868. Emigrò con la sua famiglia in America dove, nel 1887, si arruolò in Marina.Per stare con i bambini, teneva sempre la pipa con l’angolo della bocca e raccontava loro le buffonate della sua giovinezza, spesso vantandosi della sua forza fisica e…
View On WordPress
0 notes
Text
4 notes
·
View notes
Text
TOROX [TANTRUM] Power of the Primes / SHARP BLADE Wei Jiang
E finalmente posso parlare dei Predacons Power of the Primes, con leggero ritardo, ok, dato che sono usciti come Titan nel loro gestalt Predaking lo scorso anno... solo che questi che sto prendendo NON SONO gli originali Hasbro, ma una versione di una casa 3P o 4P che dir si voglia, la Wei Jiang, che ha riproposto lo stampo ma con qualche miglioria estetica sparsa... un po' come fece la Takara col suo Devastator, il Combiner Titan precedente, solo che stavolta non si è sprecata l'azienda ufficiale giapponese ma l'ha "dovuto fare" una ditta cinese.
Oltre alle migliorie, a spingermi a prendere questa versione non originale è stato il prezzo complessivamente dimezzato o più, ma anche il poterli acquistare singolarmente piuttosto che non l'enorme gifset in un colpo solo. Per questo sono quindi potuto partire dal mio preferito, Tantrum, ora ribattezzato TOROX, come l'appellativo usato in Italia da Gig per il personaggio, probabilmente per il solito discorso di perdita di copyright sui nomi.
( Il nome farlocco di questo KO è invece SHARP BLADE, che onestamente non c'entra nulla col personaggio od il suo alt mode, vabbè ^^' )
Il ROBOT appare ad un primo sguardo una buona versione moderna del giocattolo originale, equilibratamente antropomorfo nelle misure e con alcuni dei tratti caratteristici ovviamente conservati come i "serbatoi" ai lati dei polpacci, l'ampio torso e le corna dietro la testa, mentre sono assenti gli avambracci da Braccio di Ferro, con delle braccia più sottili, a causa, come vedremo poi, della trasformazione diversa dall'originale.
La colorazione si rifà più al primissimo giocattolo che non al settei visto nel cartone, con quindi anche le tibie delle gambe nere come le cosce anzichè tutte grigie, così come solo un pannello centrale dei serbatoi è grigio, mentre il resto è nero ed arancio, idem le braccia, tutte nere tranne che per la parte interna di polsi e pugni.
Tantrum Potp è bello alto, una testa buona in più di un Constructicon Titan medio, ed con il collega Headstrong è pure fra i due più alti del suo team; a proposito di Constructicon CW, maneggiandolo si rieccheggia la sensazione di quei primi "giganteschi" combiner, sopratutto Miximaster, belli grandi sì ma anche leggeri per la loro massa, ma non per questo fragili.
Ricordiamo che gli Excavator CW avevano qualche limitazione di articolazioni per la loro stazza, in parte ovviata dalla succitata versione Takara, ma qui oltre alle caviglie snodate abbiamo, finalmente!, la rotazione del bacino... però costava tanto pure metterci quella dei polsi, per fare l'en plein? Vabbè.
Il robot insomma non è male esteticamente, con dettagli dipinti iconici e nuovi pure scolpiti, solo che... ok, ci arriviamo... il proverbiale elefante nella stanza, si potrebbe dire... ovvero l'ENORME modulo rettangolare nero che dalla schiena sporge fin poco oltre le ginocchia!
Ovviamente, conoscendo la storia del personaggio, si evince subito che si tratta della coscia e dell'anca del gestalt Predaking: l'idea innovativa, sulla carta brillante, della combinazione di questo Predaking è che, per rendere tutti i componenti della stessa stazza, i componenti degli arti dovessero letterlamente accollarsi le parti "esterne" del torso, per rendere, come vedremo, il gestalt il più antropomorfo possibile.
Per i due componenti che divengono le gambe la soluzione è sobbarcarsi pure la massa di cosce e parte del bacino, notoriamente formate di solito dalle gambe del robot che diviene il torso. A pensarci, l'idea ha senso, dato che di solito appunto i vari combiner tipo Scramble divengono solo le parti inferiori delle gambe, non le gambe intere, mentre finalmente per la prima volta abbiamo un membro del team che divente l'effettiva gamba, non solo una parte.
... Il rovescio della medaglia, però, è appunto ritrovarsi appeso sto popo' di rettangolone dietro la schiena: vabbè, passi per un po' di zaino, non sia mai, ma sarebbe stato più digeribile almeno la sola coscia dietro la sola schiena, mentre la mazzata è pure la parte esterna del bacino che arriva fino alle ginocchia.
Ora, vabbè, diciamo che dato che è la prima volta che usano questa soluzione, gliela si passa, ma è un peccato che non siano riusciti a trovare una maniera per rendere meno ingombrante il rettangolone, magari ripiegandolo lateralmente, anche se presumo che la grandezza e quindi il peso del gestalt abbia bisogno di articolazioni solide e non che si aprano facilmente causa trasformazioni accorcianti o che.
O potevano almeno staccargli il pezzo di bacino e renderlo un'arma? Già perchè il nostro Torox come arma ha solo l'enorme cannone bicanna che, come nel G1, diviene poi il piede di Predaking, ma a differenza del giocattolo originale, ora il nostro robot può utilizzarlo, montato lateralmente sopra la spalla destra.
E... basta. Sappiamo che i Predacon G1 avevano, 4 su 5 almeno, ciascuno due fucili laser ed una spada, ma questi sono stati perlopiù omessi nei Potp, e quindi il nostro Torox, ma anche Headstrong, ha solo il lanciamissilone da spalla... ma la mancanza di ulteriori armi si fa sentire ulteriormente in questa mia versione "singola" KO, che appunto già che vendevano i robot uno "sfusi", il fatto che abbiano solo quell'accessorio è sprecato, e già che c'erano potevano riproporre le armi dei G1.
( Esiste, di questo set, una spadona che si scompone in 5 armi bianche, ma questa è venduta a parte... )
Dicevamo però delle migliorie, e a parte qualche lieve dettaglio colorato come tutta la cornice rossa sul petto e non solo la parte interna di quello che era il pannello mobile del G1, abbiamo rifatti gli snodi dei gomiti, non più su semplici balljoint, e rifatte le gambe, con le cosce ora piene internamente, così come hanno aggiunto un pannellino nei polpacci altrimenti vuoti dell'originale Hasbro.
E ancora, strano che già che c'erano che hanno rifatto gli avambracci, non hanno pure aggiunto i pugni che ruotavano... vabbè, "fedeltà" all'originale, potremmo dire.
La TRASFORMAZIONE in toro ricalca quella originale, con la testa del robot che ruota di 180°, le braccia che ora non si diventano solo i serbatoi anteriori ma direttamente le zampe, mentre le gambe non spariscono dentro il corpo come nell'originale ma si ripiegano alla maniera di Scrapper e Hook CW, appunto, non prima di aver ripiegato all'interno i pannelli esclusivi del KO, con le zampe posteriori che spuntano serbatoi mentre il modulo coscia + bacino di Predaking si nasconde alla bell'e meglio sotto il corpo.
Il TORO ( o bisonte, o bufalo ... ) robotico arancione e rosso con tocchi di nero è un bel bestione, abbastanza evocativo dell'originale, tranne che per qualche dettagio cromatico come zampe anteriori non rosse come le posteriori ma nere, per via che divengono le braccia del robot, e sempre quel nero "comtamina" la parte centrale dei serbatoi sempre anteriori, ma per il resto non c'è di che lamentarsi, con le zampe comunque un po' snodate tutte e quattro e la possibilità di aprire la bocca della bestia.
Peccato per la mancanza di una coda, assente pure nel G1 giocattolo, ma immancabile la possibilità di piazzare il cannonazzo bicanna, ma sopratutto il modulone nero qui serve a dare un po' di massa nella parte inferiore del bestione, anche se poi verso indietro ne da pure troppo di massa, ritornando al discorso che se si limitavano alla sola coscia di Predaking era meglio, ma almeno il modulone nella bestia da molto meno fastidio che nel robot.
Come sempre, dalla bestia la trasformazione in GAMBA del gestalt è intuitiva, con le zampe posteriori che si accorciano, si ruota e solleva la testa per poter estrarre il modulone che diverrà coscia e parte del bacino ( quest'ultima ruota e si raddrizza ), mentre le zampe anteriori si ripiegano a coprire parte del vuoto lasciato, ed immancabilmente il piedone si infila, tramite un apposito perno fra le gambe ripiegate di Torox, un po' come faceva il perno dei pugni nel Predaking originale.
Che dire, intanto, di questa gamba destra di PREDAKING? Semplicemente che evoca benissimo l'originale, con la testa di toro come ornamento della ginocchiera, con il piedone che può inclinarsi e con l'articolazione del bacino del robot che aggiunge la possibilità di ruotare il piede ( anche se ruota metà della tibia, vabbè ), così come è geniale, ripetiamolo, il discorso della robot che forma TUTTA la gamba del gestalt, anche se magari l'anca potevano risparmiarla che poi nel robot stesso va ad appesantirlo, ma again, la prima volta si può pure perdonare questo errore, magari dovuto anche alla stazza del gestalt stesso.
Infine, globalmente un buon Tantrum, ma in generale si sente troppo che si sta guardando più al gestalt, dato che le arme singole sono state omesse; per la versione KO specifica, ovviamente sono gradite le migliorie estetiche, con tanto di adesivi applicabili a parte, ma già che c'erano se aggiungevano pure i fucili del G1 non era male, anche se i pugni di questo Torox KO sono troppo stretti e non possono impugnare le normali armi medie dei Transformers, compreso il piedone bicanna con la sua impugnatura apposita.
#transformers#torox#predaking#tantrum#predacon#titan#potp#power of the primes#wei jiang#4p#ko#sharp blade
5 notes
·
View notes
Text
🗓 1868/1947 - Quest'uomo è Frank "Rocky" Fiegel, una leggenda locale, mito dei bambini del posto, un vecchiaccio estremamente forte, privo di denti, tabagista incallito e che era spesso impegnato in risse da porto. È ritenuto l'ispirazione del fumettista Elzie C.Segar per il personaggio di "Popeye". L’universo creato per Braccio Di Ferro era basato, almeno in parte su personaggi realmente esistiti e vissuti a Chester, la città natale dell'artista.
#Popeye #Fumetto
📷 LaStoriaInFoto
1 note
·
View note
Link
Dopo la recensione, dell’edizione della Cosmo di Braccio di Ferro, arricchita da una serie di informazioni sul passato italico ed USA del personaggio, Gordiano Lupi recensisce il volume su Bongo, storico personaggio creato da Tiberio Colantuoni, edito da Sbam Comics. Scopriamo o riscopriamo chi è Bongo. Buona lettura Mario Benenati, curatore del web magazine Fumettomania […]
0 notes
Text
28 aprile … ricordiamo …
28 aprile … ricordiamo … #semprevivineiricordi #nomidaricordare #personaggiimportanti #perfettamentechic #felicementechic #lynda
2020: Goffredo Matassi, doppiatore e attore italiano. È stato la voce italiana del personaggio di Bluto nei cortometraggi della serie Braccio di Ferro doppiati per conto della Rai negli anni novanta. Ha lavorato anche come attore, fin dall’età di 12 anni, nonché come direttore di produzione e assistente alla regia. (n. 1933) 2012: Patricia Medina, all’anagrafe Patricia Paz Maria Medina, attrice…
View On WordPress
#29 aprile#Amerigo Armando Gilberto Govi#Ben Gage#Ciccio Ingrassia#Clara Petacci#Curtis Wain Gates#Francesco Ingrassia#Francis Timothy McCown Durgin#Gilberto Govi#Goffredo Matassi#Jacob Krantz#Ken Curtis#Morti 28 aprile#Patricia Medina#Patricia Paz Maria Medina#Ricardo Cortez#Ricordiamo#Rory Calhoun
0 notes
Link
Braccio di ferro (Popeye) è un personaggio nato come fumetto nel 1919 dalla matita dell’americano Crisler Segar,e successivamente, nel 1928, trasformato in cartone animato composto da 86 episodi e 74 lungometraggi.
0 notes
Text
Pulitzer e la post-verità
L’ultima volta che ho prestato a un amico Le mille luci di New York di Jay McInerney, quello me l’ha restituito dicendo: «Molto bello, ma non ho capito che lavoro faccia il protagonista». Non aveva poi tutti i torti, considerando che, se negli Stati Uniti le testate più importanti hanno sempre una o più persone in redazione il cui unico compito è verificare la correttezza dei dati e delle notizie, in Italia una figura come quella del fact-checker di professione è pressoché sconosciuta (provate a cercare “verificatore di notizie” su Google: la maggior parte dei risultati rimandano a McInerney).
L’episodio mi è tornato in mente mentre leggevo Joseph Pulitzer. L’uomo che ha cambiato il giornalismo, scritto nel 1920 da Alleyne Ireland – uno dei segretari che vivevano con Pulitzer a bordo del suo panfilo privato – appena pubblicato da Add Editore (traduzione di Alessandra Maestrini) in vista del centenario del premio che porta il suo nome.
Si tratta di un appassionato ma rigoroso resoconto biografico degli ultimi otto mesi di vita dell’imprenditore ungaro-americano, una figura allo stesso tempo generosa e dispotica, ossessiva e ridanciana, un grande Gatsby che non ha mai imparato a festeggiare. Nel raccontare il crepuscolo di un gigante del genere, Ireland ha scritto un libro che dopo cent’anni è ancora incredibilmente moderno; un esempio magistrale di ritrattismo alla Carrère, verrebbe da dire, non fosse che Carrère sarebbe nato solo 37 anni più tardi.
La storia di Joseph Pulitzer è di per sé interessante – per certi versi è l’incarnazione del sogno americano prima maniera: un uomo di umili origini costruisce un impero dal nulla – ma lo è ancora di più se consideriamo lo scenario attuale. Nasce nel 1847 a Makó, cittadina ungherese al confine con la Romania. Arriva negli Stati Uniti solo nel 1864, a 16 anni, come recluta di cavalleria nella Guerra Civile, ma gli basteranno otto anni per mettere da parte i soldi necessari a fondare il suo primo giornale: il Saint Louis Post-Dispatch.
Qui comincerà a testare l’idea di giornalismo che troverà sbocco nel 1883 con l’acquisizione del New York World. Un’idea che, per sua fortuna, è in perfetta sintonia coi tempi. Stiamo parlando della fine del XIX secolo, la seconda rivoluzione industriale sta svuotando le campagne per riempire le fabbriche nelle città, la gente ha più denaro e più tempo per spenderlo, il tasso d’alfabetizzazione è in aumento, i costi della stampa in diminuzione, l’elettricità rende possibile leggere anche di notte.
Pulitzer sa che la stampa periodica è destinata a esplodere, ma perché ciò avvenga – perché lui possa per primo coglierne i frutti – occorre ripensare il concetto stesso di notizia. Dopo che Pulitzer ne afferra il timone, il New York World passa da 15 mila a 600 mila copie al giorno, merito di una formula che prevede: titoli a tutta pagina, illustrazioni, sezioni dedicate allo sport e, soprattutto, un’attenzione speciale per il grande pubblico.
«È mio dovere assicurarmi che [i lettori] abbiano la verità», dice a Ireland in uno dei loro primi incontri. «Ma non solo: devo presentargliela brevemente, affinché la leggano; chiaramente, affinché la capiscano; efficacemente, affinché l’apprezzino; suggestivamente, affinché se la ricordino; e, soprattutto, accuratamente, affinché possano essere guidati dalla sua luce». L’intuizione di Pulitzer non tarda ad attirare l’attenzione di un altro imprenditore, più spregiudicato, di nome William Randolph Hearst.
Nel 1896, forte di un patrimonio familiare sconfinato, Hearst acquisisce il New York Morning Journal e dà il via a una guerra di copie con il World di Pulitzer. Hearst fa sue le stesse coordinate individuate dal rivale lasciandone da parte una: l’accuratezza. L’estenuante braccio di ferro tra i due porta i due giornali a ridurre il costo delle copie e, al contempo, a mescolare senza soluzione di continuità reportage verificati a notizie sensazionalistiche.
Nei libri di storia questa fase prende il nome di Yellow Journalism (da Yellow Kid, protagonista di uno dei primi fumetti stampati a colori, prima sul World e poi sul Journal), ed è una fase cruciale, perché non solo vi affondano le radici della stampa scandalistica, ma anche quelle del giornalismo moderno (l’infotainment oggi è talmente diffuso da essere diventato strutturale) e di quella che oggi chiamiamo post-verità.
In uno scenario in cui virtualmente chiunque può produrre notizie false e diffonderle in rete, mentre il “successo” di un articolo online viene spesso decretato dal numero di click che riceve, il problema sta emergendo in tutta la sua complessità. Quando Alleyne Ireland sale per la prima volta a bordo del panfilo Liberty, Pulitzer ha 62 anni, è cieco, debilitato da una lunga malattia, ma ancora animato da un’inesauribile irrequietezza intellettiva.
Continua a dirigere il World, ma per farlo ha bisogno di una schiera di segretari fidati che ogni giorno si alternano per leggergli la rassegna stampa e raccogliere le sue obiezioni. Quando Ireland ha l’ardire di esprimere un’opinione negativa sul sensazionalismo di alcuni titoli del giornale, Pulitzer si infiamma d’orgoglio dichiarando che non solo il World, ma l’intera stampa americana segue standard di accuratezza nettamente superiori a qualsiasi altro Paese.
Da allora è passato un secolo. Oggi solo il 18% dei cittadini americani dichiara di avere fiducia nelle testate giornalistiche nazionali e la percentuale diminuisce drasticamente per i canali social (4%, dati Pew Research). In una situazione simile, Trump ha gioco facile a screditare gli stessi organi di stampa che ogni giorno vivisezionano i suoi discorsi portandone a galla le incongruenze.
Lo scorso 25 febbraio, dopo aver bandito il giorno prima alcune importanti testate da una conferenza stampa alla Casa Bianca, il nuovo presidente ha annunciato con un tweet l’intenzione di non partecipare alla tradizionale cena riservata ai corrispondenti. Tre giorni dopo, nel suo primo discorso davanti al Congresso, Trump ha improvvisamente cambiato maschera, utilizzando toni più pacati e “presidenziali”; come se, formalizzato il divorzio dalla stampa, fosse finalmente libero di mettere in scena la sua “realtà”, in cui anche un personaggio come lui può essere giudicato un politico rispettabile.
«C’è solo un modo di far camminare una democrazia sulle proprie gambe», ha detto Pulitzer a Ireland, «e cioè tenendo informato il pubblico su ciò che accade». Una frase banale, forse; ma che non possiamo permetterci di dare per scontata.
[pubblicato in origine su Pagina99]
0 notes
Text
New Post has been published on Atom Heart Magazine
New Post has been published on http://www.atomheartmagazine.com/pac-man-40-anni/23167
I 40 anni di Pac-Man, videogame diventato icona degli anni Ottanta
Ideato da Tohru Iwatani, mentre guardava una pizza dopo averne mangiato la prima fetta, fu una grande successo della scuola giapponese dopo Space INvaders. “Volevo fare qualcosa di diverso dalle battaglie spaziali”, racconta il suo creatore. Nell’anno di Shining e di Il nome della rosa, ecco cosa c’è dietro quei pochi pixel che hanno fatto impazzire il mondo
In cerca di biscotti, braccato dai fantasmi, in fuga attraverso labirinti sempre più pericolosi. Ad esser abbastanza abili da superarli tutti il conto dei livelli arriva a 256. Ma sarebbero stati molti di più se un errore di programmazione non avesse impedito a chiunque di andare oltre nel videogame Pac-Man. Oggi compie quarant’anni: il 22 maggio del 1980, fece la sua prima apparizione nelle sale giochi giapponesi iniziando un cammino che lo avrebbe trasformato in un’icona non solo degli anni Ottanta. Ne vennero venduti 100mila in pochi mesi stabilendo un record. C’erano sale giochi con intere file di cabinati tutti di Pac-Man.
Tohru Iwatani, classe 1956, non era al suo primo gioco ma non aveva ancora fatto nulla di indimenticabile. Una sera, uscito dagli uffici nella Namco nel quartiere di Ota a Tokyo, concepì Pac-Man durante una cena solitaria mentre guardava una pizza alla quale era stata appena tagliata una fetta. “Osservai quella pizza e vidi quel che poi sarebbe divenuto Pac-Man”, ricordò in seguito Iwatani quando ci parlammo cinque anni fa. “Ai tempi era pieno di videogame dove andavano in scena invasioni spaziali, dove si sparava a tutto e tutti. Io invece miravo a fare un gioco grazioso, semplice, che piacesse alle donne e che potesse esser giocato dalle coppie. E con un concetto di base: il mangiare. Avevo in testa degli elementi, ad esempio i cibi speciali che Pac-Man divora e che gli permettono, come capita a Braccio di Ferro con gli spinaci, di diventare così forte da dar la caccia ai fantasmi. Ma la loro è una relazione simbiotica anche se conflittuale, la stessa che lega Tom a Jerry”.
Gli anni analogici. Bisogna andare indietro con la memoria, o fare uno sforzo di immaginazione se si è nati dopo il 2000, per ricordare quei tempi. Il 1980 è l’anno della morte del maresciallo Tito, dell’elezione a presidente degli Stati Uniti di Ronald Regan, della strage di Ustica, dell’omicidio di John Lennon, del terremoto in Irpinia. Ed è anche l’anno della pubblicazione di Il nome della rosa di Umberto Eco. Alla radio continuava a dominare Video killed the radio star dei Buggles uscita nel ’79, mentre al cinema fra i campioni di incassi c’erano L’impero colpisce ancora, Shining, The Blues Brothers, Mad Max, Venerdì 13.
Quando il Giappone non era il Giappone. I videogame da noi erano già arrivati con Pong e Space Invaders ma nel 1980 si viveva in una realtà analogica. Il Giappone non era ancora l’incarnazione del futuro, né spaventava con il suo potere economico. Sol Levante, il romanzo di Michael Crichton, è di dodici anni dopo. Ma certo, alcuni indizi erano già visibili, cominciando dal walkman della Sony uscito nel 1979. Donkey Kong della Nintendo, dove compariva la prima versione di Super Mario, sarebbe invece arrivato nel 1981 e il compact disc nel 1982, assieme all’americano Commodore 64. Poi, nel 1983, sarebbe stata la volta della console Nintendo Entertainment System.
Venti anni dopo quel periodo venne raccontato a Tokyo, nella mostra Bit Generation 2000, come l’inizio dell’ascesa del Giappone ad alta tecnologia che avrebbe formato la prima “generazione dei bit” che con la Beat Generation anni Settanta aveva davvero poco a che spartire. “Il Giappone non era affatto cool nel 1980”, spiega oggi il curatore della mostra, Hiroshi Masuyama, esperto di cultura digitale. “Era un arcipelago non ancora scoperto dalla maggior parte dagli occidentali, come le Galapagos, isole delle quali si è sentito parlare ma che poi in pochi hanno visitato. Il primo grande videogame giapponese fu Space Invader del 1978: un tale fenomeno che nella maggior parte dei libri, film e documenti che abbiamo sulla cultura giapponese contemporanea inevitabilmente se ne parla. Fra i ragazzi divenne così popolare che le monete da 100 in yen necessarie per giocarci praticamente finirono. Pac-Man puntava ad allargare il pubblico. Ma la sua vera particolarità sta nel fatto che divenne famoso soprattutto all’estero”.
Il campione contestato. Non a caso il campione del mondo di Pac-Man, il primo ad aver raggiunto nel 1999 il massimo punteggio possibile di 3,333,360, è l’americano Billy Mitchell. Aspetto e attitudine sopra le righe, gilè damascati, cravatte vistose e capelli lunghi luccicanti di brillantina, ha ispirato il personaggio di Eddie Plant (Peter Hayden Dinklage) nel film Pixels del 2015 nel quale compariva anche Iwatani, interpretato dall’attore Denis Akiyama. Fu il grande rivale di Steve Wiebe, insegnante di scienze al liceo, mite, pacato e anche lui campione di Donkey Kong. In Pixels era Sam Brenner (Adam Sandler), anche se il miglior racconto del loro duello a colpi di record è il documentario The King of Kong: A Fistful of Quarters.
“Ho iniziato con i campionati di flipper per poi passare a Donkey Kong e infine a Pac-Man”, ha raccontato con orgoglio in una intervista del 2015. “Nel 1999 feci un comunicato stampa dove annunciavo che avrei raggiunto il massimo. Mi risposero che erano state giocare già dieci miliardi di partite nel mondo e nessuno c’era riuscito. Risposi: ma io sono Billy Mitchell”. Per arrivare al livello 256, quello che si disgrega a causa del bug, ci vogliono sei ore senza mai perdere la concentrazione e compiendo grosso modo lo stesso percorso nello stesso tempo ad ogni livello. Nel 2018 Mitchell è stato accusato di aver barato e tutti i suoi primati sono stati annullati dalla Twin Galaxies, l’organizzazione di riferimento per i record del cosiddetto “retrogaming”. Mitchell, che nel 2019 ha fatto ricorso, attualmente ha una catena di ristoranti in California, i Rickey’s World Famous Restaurant, e una linea di salse: le Rickey’s World Famous Sauces. Memorabile la una delle sue affermazioni: “Qualsiasi cosa dica è divisiva come il tema dell’abborto”.
Giochi di equilibrio. Il bilanciamento del gioco, in tanta semplicità, resta un esempio. Pac-Man mangia i biscotti, che adora. Li amano anche i fantasmi e per questo lo inseguono. Iwatani però non intendeva fare un gioco dove si era sempre inseguiti. E’ una condizione piscologica scomoda a lungo andare e questo lo spinse a creare le condizioni affinché i ruoli in certi momenti si potessero invertire quando il protagonista mangia determinati frutti. Il tutto richiese sei mesi di lavoro e, ovviamente, nessuno immaginava alla Namco che avrebbe avuto tanta importanza.
Entrare nella storia. Con oltre quaranta versioni differenti prodotte negli anni, Pac-Man è stato uno dei primi assaggi nella cultura di massa dell’era digitale giapponese e della sua scuola di videogame. E pensare che oggi una qualsiasi lavastoviglie smart ha una potenza di calcolo molto maggiore della macchina da sala giochi originale, con la differenza che difficilmente entrerà mai nella storia come invece ha fatto Pac-Man.
Fonte: repubblica.it
0 notes
Text
Kathy Bates: 10 cose che non sai sull’attrice
Nuovo post su italianaradio https://www.italianaradio.it/index.php/kathy-bates-10-cose-che-non-sai-sullattrice/
Kathy Bates: 10 cose che non sai sull’attrice
Kathy Bates: 10 cose che non sai sull’attrice
Kathy Bates: 10 cose che non sai sull’attrice
Kathy Bates è una di quelle attrici che ha fatto davvero la storia del cinema con le sue innumerevoli quanto indimenticabili interpretazioni. L’attrice ha sempre lavorato sodo per costruire la sua carrera, facendosi apprezzare in tutto il mondo grazie al suo talento e alla sua classe. Ecco, allora, dieci cose da sapere su Kathy Bates.
Kathy Bates film
1. I film e la carriera. La carriera dell’attrice è iniziata nel 1963, quando appare nella serie The Doctors, per poi debuttare sul grande schermo con Taking Off (1971), continuando a lavorare in film come Due come noi (1983), High Stakes (1989), Misery non deve morire (1990), Pomodori verdi fritti alla fermata del treno (1991) e L’ultima eclissi (1995). La sua carriera continua grazie ai film Titanic (1997), I colori della vittoria (1998), A proposito di Schmidt (2002), Il giro del mondo in 80 giorni (2004), Ultimatum alla Terra (2008), The Blind Side (2009) e Midnight in Paris (2011). Tra i suoi ultimi lavori vi sono Tammy (2014), Complete Unknown – Cambio d’identità (2016), La mia vita con John F. Donovan (2018) e Una giusta causa (2018).
2. Ha lavorato in molte serie televisive. L’attrice non ha prestato il suo talento solo al grande schermo, lavorando anche in diverse serie tv che l’hanno resa famosa anche questo tipo di pubblico. Bates è apparsa, infatti, in Love Boat (1978), L’ombra dello scorpione (1994), Una famiglia del terzo tipo (1999), Six Feet Under (2003-2005), The Office (2010-2011), Harry’s Law (2011-2012), Mike & Molly (2014-2015), The Big Band Theory (2018) e American Horror Story (2013-in corso).
3. È anche doppiatrice, produttrice e regista. Nel corso della sua carriera, l’attrice ha anche vestito spesso i panni della doppiatrice, prestando la propria voce per i film Il viaggio di Natale di Braccio di Ferro (2003), La tela di Carlotta (2006), Bee Movie (2007) e La bussola d’oro (2007). In quanto regista, ha diretto i film tv Fargo (2003), Ambulance Girl (2005) e il film Have Mercy (2006), oltre che alcuni episodi delle serie Oz (1998), Everwood (2002) e Six Feet Under.
Kathy Bates Titanic
4. Ha recitato una scena che è stata poi eliminata. Mentre James Cameron completava il montaggio, decise di eliminare una scena considerata di cattivo gusto e completamente fuori luogo. La scena in questione riguarda il personaggio della Bates, Molly Brown, che alza il bicchiere chiedendo del ghiaccio mentre, alle sue spalle, si vede l’iceberg contro cui andò il Titanic.
5. Non fu la prima scelta. Prima di aggiudicarsi il ruolo di Molly Brown, la produzione del film aveva considerato come interprete Barbra Streisand, preferendo, poi, dare il ruolo a Kathy Bates.
Kathy Bates marito
6. Attualmente non sarebbe impegnata. Della vita privata dell’attrice non si è mai saputo nulla per il semplice fatto che non ha mai esposto nulla sotto i riflettori. Le uniche notizie certe è che si è sposata nel 1991 con l’attore Tony Campisi, dopo ben dodici anni di convivenza, per poi divorziare nel 1997.
Kathy Bates Oscar
7. Ha vinto un Oscar. Bates ha vinto un Academy Award alla Miglior attrice protagonista per il ruolo in Misery non deve morire, diventando la prima donna a un vincere questo premio per un film horror/thriller.
8. Ha ricevuto altre due candidature. Nel corso della sua carriera, l’attrice ha ricevuto altre due nomination agli Oscar, entrambe per la Miglior attrice non protagonista. Nel 1999 ha ricevuto quella per I colori della vittoria e tre anni più tardi quella per A proposito di Schmidt.
Kathy Bates e Rupert Everett
9. Hanno recitato in un film. Nel 2002, la coppia composta da Bates e Rupert Everett ha dato visto al film Insieme per caso. Diretto da P.J. Hogan, il film racconta la storia di tre persone che, con le loro rispettive diversità, si uniranno per trovare il serial killer di un cantante melodico e il meritato successo.
Kathy Bates: età e altezza
10. Kathy Bates è nata il 28 giugno del 1948 a Memphis, nel Tennessee, e la sua altezza complessiva corrisponde a 160 centimetri.
Fonti: IMDb, Cosmopolitan, The Famous People
Cinefilos.it – Da chi il cinema lo ama.
Kathy Bates: 10 cose che non sai sull’attrice
Kathy Bates è una di quelle attrici che ha fatto davvero la storia del cinema con le sue innumerevoli quanto indimenticabili interpretazioni. L’attrice ha sempre lavorato sodo per costruire la sua carrera, facendosi apprezzare in tutto il mondo grazie al suo talento e alla sua classe. Ecco, allora, dieci cose da sapere su Kathy Bates. […]
Cinefilos.it – Da chi il cinema lo ama.
Mara Siviero
0 notes
Text
Botte, spinaci e fantasia: i 90 anni di Braccio di Ferro
Botte, spinaci e fantasia: i 90 anni di Braccio di Ferro
Doveva esserci qualcosa nell’aria, alla fine degli anni ’20. Qualcosa che suggeriva agli autori dell’epoca icone pop incredibilmente durevoli e dall’ efficacia trasversale. Il 17 gennaio del 1929, a pochi giorni dalla prima comparsa di Tin Tin (ve ne abbiamo parlato qui) e a qualche mese dalla nascita di Topolino, Elzie Crisler Segar dava vita ad un altro personaggio dalla fama mondiale. Popeyena…
View On WordPress
0 notes
Text
One Step Beyond #53: Salernitana, Lazio, Genoa, Spezia, Napoli, Empoli
One Step Beyond #53: Salernitana, Lazio, Genoa, Spezia, Napoli, Empoli
Granata South Force Salerno: Come già fatto in passato – per due disegni: uno sempre dedicato al tifo per la Salernitana, l’altro a proposito degli Irascibili Trani – torno a utilizzare il personaggio di Braccio di Ferro (Popeye the Sailornella lingua originale) creato dal fumettista statunitense Elzie Segàr alla fine degli Anni ’20. Questo simpatico e popolarissimo marinaio – che ha spesso…
View On WordPress
0 notes
Text
Fine estate
Siamo di passaggio accanto alla gola di un fiume quasi asciutto - una strada sterrata scendeva tra le erbacce, c'era questo ruscelletto con pochissima acqua grigia, spazzatura e plastica ovunque, noi tre a spingere la vecchia auto per cercare di farla ripartire.
Una fatica del diavolo, un caldo atroce.
Bestemmie e spinte, la macchina sussulta ma non parte. Decidiamo senza neanche pensarci un'attimo: giu' per la discesa - forse era la zona vicino Brucoli. Saltiamo su', la macchina scende, prende velocita', “Dentro la seconda!” GROOOOOO, “Non parte, alza il pedale! la ingolfi! riprova!” GROOOOOO! “ Niente! la discesa continua, 2, 3 tornanti, GROOOOO! GROOOO! questo rumore sordo come di tubo affogato, di spurgo di fogna. “Non parte!”
Arriviamo in fondo, pian piano l’auto si ferma.
Silenzio. Sudore.
Ci aspetta la fatica di spingere l'auto dall'altra parte, in salita.
Siamo in quattro, ma sara' una faticata.
Cominciamo a spingere, arriviamo laddove c'era il corso del fiumiciattolo, o ruscello, tra cumuli di spazzatura, tabulati di computers, rottami di metallo, bottiglie di plastica, lattine, riviste strappate, erbacce bruciate.
Ed ecco un ragazzo scuro, tarchiato, avra' avuto si e no 17 anni, a terra, al centro del rigagnolo, a tenersi la testa sanguinante, masticando bestemmie; una giacca lurida, strappata, jeans corti sopra le ginocchia, una scarpa di cuoio ai piedi, l'altra piu' lontano, nell’acqua stagnante tra le pietre.
Piu' discosto un'altro ragazzo, piu' alto, tozzo, in braghe di tela, il torso nudo sotto quel che restava della giacca di un'abito da sera con le maniche strappate, scalzo, si allontana o, meglio, gira nei dintorni frugando tra l'erba, anch'egli bestemmiando; ogni tanto raccoglie qualche bottiglia o rottame e lo scaglia contro l'altro personaggio seduto a terra, cercando di colpirlo.
Mentre noi spingiamo la fottuta auto, poco prima di passar loro accanto, la faccenda si fa piu' seria: il tipo alto punta deciso verso quello seduto a terra brandendo una sbarra di ferro coperta di fango ed urlando “T'ammazzo! T'ammazzo!” mentre l'altro si rialza da terra con un grosso motore di lavatrice tra le mani, rispondendo “Bastardo!”.
In mezzo a tutto questo noi spingiamo l'auto; questi si pestano stancamente con fare da ubriachi, come se andassero avanti cosi' da ore, stremati.
Li vedo avvinghiati, cadere a terra tra pezzi di polistirolo nelle pozzanghere fetide del ruscello, rialzarsi, strattonarsi ansimando, la sbarra di ferro scivola via, finisce in acqua, quelli continuano, scambiandosi sputi e insulti.
Noi spingiamo l’auto; come al solito in casi come questi vorremmo scomparire, diventare invisibili - mai mettersi in mezzo a certe storie coi tempi che corrono, c'e' da restarci secchi - e non possiamo far altro che passar loro accanto, respirando piano, cercando di diventare trasparenti, ma la strada arriva per forza davanti a loro, attraversa il ruscello proprio li’.
Spingiamo cercando di passare piu' in fretta possibile, senza guardarli, come se non esistessero, come se noi non esistessimo, facendo quasi finta di niente, ma e' impossibile: loro sono a pochi metri e si stanno scannando, o meglio stanno facendo del loro meglio per farsi del male ma sembrano talmente sfiniti da non riuscirci nemmeno.
Al che, passando accanto a loro, spingendo sta macchina maledetta, tutti sudati, io incrocio il loro sguardo.
Si fermano per un istante, ansimando, a guardare noi quattro idioti che spingiamo il nostro rottame di auto attraverso il guado nel ruscello, ed ecco che automaticamente compio il gesto epocale, che sul momento ha raggelato gli altri ma che per molte sere ci fara' sbellicare dal ridere davanti al fuoco.
Mi giro verso di loro, spingendo, alzo un braccio, e con un sorriso a 32 denti ed il volto radioso della VERA ALLEGRIA, saluto platealmente muovendo un poco la mano, quasi gridando: “BUONA GIORNAAATAAA!!!”.
E' un'attimo.
Frazioni di secondo.
Ricominciano a picchiarsi con furore.
Noi passiamo, si fermano nuovamente un istante a guardarci, io li saluto nuovamente! “BUONA GIORNAATAAA!!!”, continuiamo a spingere come pazzi.
Loro riprendono a pestarsi.
Nuova energia ci fa spingere l’auto su per la salita come se niente fosse - Carmelo mi guarda e fa “ma CHE CAZZO ti salta in mente?”.
Abbandoniamo l'auto 3 Km piu' avanti e quel pomeriggio rientriamo al campo a piedi.
La sera furono grandi risate ripensando all'accaduto. L'indomani andammo senza speranza a recuperare l'auto: la trovammo smontata e incendiata.
0 notes
Text
“Il sogno dell’India multiculturale di Gandhi oggi è in serio pericolo”: dialogo con Carlo Buldrini
Certo, c’è l’incontro con Indira Gandhi, memorabile. Accadde il 4 novembre del 1981. La chiusa emoziona. “Al termine dell’intervista strinsi la mano a Indira Gandhi. Mi accorsi allora di quanto fossero piccole e fragili le mani di quella donna che era stata spesso accusata di usare il pugno di ferro”. Indira conferma ciò che Carlo Buldrini sa ormai da tempo. “Quello che tiene unita la gente in India non è la religione, non è l’appartenenza a una stessa etnia, non è la lingua e non è neppure un particolare sistema politico o economico. A unire gli abitanti di questo Paese è un senso di «indianità», un vincolo di appartenenza. Questo, malgrado le differenze etniche, linguistiche e religiose che ci contraddistinguono”. Buldrini, che è stato addetto reggente dell’Istituto Italiano di Cultura a New Delhi e ha insegnato all’università islamica di Delhi, è partito per l’India sull’onda del Sessantotto, dei Beat e con Siddharta sotto al braccio, come tanti. Come pochi, però, anzi, come nessuno, ha conosciuto l’India per davvero, al di là dei lisergici pregiudizi occidentali. Certo, c’è l’incontro con Jiddu Krishnamurti, folgorante. Buldrini ne è affascinato dagli anni Settanta, lo ascolta, lo intervista a Rishi Valley, nel dicembre del 1982. “Vivere con la morte significa vivere senza violenza, senza attaccamento. La morte e la vita non sono separate. Finire significa cominciare”, dice Krishnamurti a Buldrini. Ma c’è altro, oltre a questi incontri formidabili, in quel continente dove gli dèi danzano un ballo sfrenato e le contraddizioni emergono, dilanianti. Cronache indiane (Lindau, 2018, pp.304, euro 23,00; in copertina una fotografia di Buldrini ritrae “una marionetta yakshagana risalente ai primi anni del secolo scorso”), che va letto sinotticamente agli altri libri di Buldrini (Pellegrinaggio buddhista e Lontano dal Tibet, sempre in catalogo Lindau), non è soltanto un registro di reportage, dal sapore intenso. Il libro ha l’effetto di un risveglio dopo lunga gestazione onirica: l’India, appunto, non è l’Eden di chi cerca ristoro dagli afrori d’Occidente – è una terra brulicante di dolore e di stupore. Così, il libro di Buldrini, che ha abitato trent’anni in quel Paese senza negarsi nulla, senza fare sconti all’utopia occidentale, fa l’effetto di un vasto romanzo, che passa dal Kumbha Mela (“Osservai i miei compagni di viaggio e, improvvisa, ebbi la sensazione di essere salito sul treno della morte”) alla storia di Phoolan Devi, la bella maledetta, che “aveva collezionato taglie per 225.000 rupie e 66 mandati di cattura. Rapina a mano armata, sequestro di persona, strage”, raccontata con il piglio dello scrittore assai attrezzato (“Dopo aver aspettato a lungo, la gente poteva finalmente vederla. Era salita sul palco per la cerimonia di resa. La giovane donna era tesa, con lo sguardo assente. Aveva gli zigomi sporgenti, le labbra carnose e una grande benda rossa che le fasciava la fronte. Era piccola di statura. La canna dello spietato Mauser 315 che teneva tra le mani con il calcio piantato a terra, le arrivava all’altezza del cuore. Si chiamava Phoolan Devi. Aveva ventisei anni ma sembrava una ragazzina”). Da qui, da questo atavico, demonico desiderio d’India che preda tutti almeno una volta nella vita, s’alza il dialogo con Buldrini. (d.b.)
Parto da lontano: quando nasce il suo amore per l’India, e perché? Folgorazione meridiana, studi, incontri, l’egida del caso, cosa?
Quest’anno, con libri, articoli di giornale e trasmissioni televisive si è celebrato il cinquantenario del “Sessantotto”. In verità ci sono stati due Sessantotto. In Italia, quello ufficiale, racconta di lotte studentesche (“Abbasso la scuola dei padroni”) che si saldarono con quelle degli operai. C’è stato poi un altro Sessantotto, meno provinciale e che veniva da lontano. Era la continuazione di un sogno che fu già del movimento Beat e dell’Underground americano, fino ad arrivare agli Hippies, i Figli dei fiori. I giovani che appartenevano a questo spezzone del movimento credevano in un mondo migliore, senza la violenza, senza le guerre, senza lo sfruttamento economico, senza il consumismo borghese. Per questi giovani, l’India aveva un’importanza particolare. Il “Viaggio in India” non era un’avventura ma un ritorno; un ritorno alle origini, alle fonti della civiltà, a quel sacro Oriente dove ogni giorno sorge il sole. Ho vissuto in quegli anni completamente immerso in questa “contro-cultura”. Lessi anch’io Siddhartha di Hermann Hesse e il Diario indiano di Allen Ginsberg. Già allora, in oscure stanze che odoravano di incenso e di hashish, ascoltavo le musiche ipnotiche che uscivano dal sitar di Ravi Shankar accompagnato dai tabla di Alla Rakha. Ricordo – era il 1967 – che in un cineclub di Roma, il Filmstudio, vidi il film in bianco e nero di una conferenza del filosofo indiano Jiddu Krishnamurti. Uscito dalla piccola sala cinematografica, mentre camminavo nel Lungotevere romano, pensando a Krishnamurti mi dissi: “Questo lo devo conoscere”. Con queste premesse, il mio “Viaggio in India” fu inevitabile. Ed è durato trentadue anni.
Mi avvicino. Ancora oggi, per noi, alla provincia del mondo, India è Siddhartha, il bagno rituale nel Gange, documentari patinati, tramonti abbacinanti, Mowgli, Kim, Tiziano Terzani e magari un romanzo di Salman Rushdie, I figli della mezzanotte. Al di là del dato culturale mediato, cos’è oggi l’India? Con quali aggettivi la descriverebbe? Da dove, soprattutto, possiamo partire per conoscerla?
Per conoscere l’India bisogna innanzitutto spezzare le lenti deformanti attraverso le quali, per secoli, l’Occidente ha guardato a questo paese. Un esempio. Fin dall’antichità, l’Occidente ripete che l’India è un paese “spirituale”. È proprio così? Ho avuto modo di affrontare l’argomento nel corso di una lunga intervista che ho fatto a Indira Gandhi alla vigilia del suo primo (e ultimo) viaggio in Italia come primo ministro dell’India. A questo riguardo, Indira Gandhi mi ha detto: “È molto romantico mettere al centro dei propri discorsi la spiritualità indiana. Ma io credo che nella nostra gente ci sia la stessa combinazione di spiritualità e di materialismo che caratterizza tutti gli altri popoli del mondo”. Ha poi continuato: “Nei tempi antichi siamo stati abili costruttori di navi, esperti navigatori, scaltri commercianti. Abbiamo dato vita alla più importante industria tessile del mondo e abbiamo costruito città e fortezze inespugnabili. Kautilya, che visse nel III secolo a.C., con il suo Arthashastra ha anticipato per molti versi il vostro Machiavelli. Gli indiani hanno prodotto una raffinata letteratura urbana e le loro sculture sono famose in tutto il mondo per la loro sensualità. Come avremmo potuto fare tutto questo se fossimo stati quasi esclusivamente un popolo spirituale?”. Dunque, per cercare di conoscere l’India, bisogna iniziare con l’eliminare tutti gli stereotipi con cui l’Occidente l’ha sempre descritta. Bisogna poi procedere con cautela, senza arrivare a conclusioni affrettate. Parlando dell’India, Amartya Sen, indiano, premio Nobel per l’economia (1998), è solito citare la sua vecchia insegnante, Joan Robinson, che gli diceva: “Qualsiasi cosa vera tu dica dell’India, è vero anche il contrario”. Per descrivere l’India si può dunque usare qualsiasi aggettivo. L’importante è aggiungervi, subito dopo, anche l’aggettivo di significato contrario.
Qual è stato l’incontro ‘indiano’, tra i tanti, che la ha più impressionata?
L’incontro per me più importante è stato quello con il filosofo indiano Jiddu Krishnamurti. L’ho intervistato a lungo nella sua scuola di Rishi Valley, in Andhra Pradesh, quando Krishnaji era già vecchio e malato. Ma non sono stato il solo a essere colpito dall’incontro con questo personaggio. Lo scrittore e filosofo inglese Aldous Huxley, dopo aver ascoltato a Saanen, in Svizzera, un discorso di Krishnamurti, scriverà a un amico: “È stata una delle cose più impressionanti che io abbia mai sentito… È stato come ascoltare un discorso del Buddha, tale è stata la sua forza, la sua innata autorità, il suo rifiuto senza compromessi di offrire all’homme moyen sensuel una via di fuga, un surrogato, un guru, un salvatore, una guida, una chiesa”. Krishnamurti è stato un filosofo e un rivoluzionario. Diceva che l’individuo deve essere completamente libero. Negava ogni autorità spirituale. Affermava che tutti i credo, tutti gli ideali, altro non sono che tragiche illusioni. Paralizzano l’uomo e distorcono il suo rapporto con la natura e con gli altri esseri umani. Sono stati questi credo e questi ideali a creare conflitto nel mondo. L’uomo deve invece cercare la verità dentro di sé. Nessuna religione, nessun insegnamento, nessun testo sacro, nessun guru, possono aiutarlo a liberarsi. Nel corso della mia lunga intervista (riportata integralmente nel mio libro Cronache indiane, Lindau 2018) ho chiesto a Krishnamurti: “Esiste un limite tra libertà individuale e responsabilità collettiva?”. Krishnamurti mi ha risposto: “Esiste davvero l’individuo? In ognuno di noi è racchiusa l’intera coscienza dell’umanità. Ognuno di noi è il mondo. Tutti gli uomini hanno in comune la medesima coscienza. Quando si capisce questo diventa impossibile uccidere un altro essere umano”.
Carlo Buldrini con Indira Gandhi, intervistata il 4 novembre 1981
E qual è stato, invece, l’episodio che è stato fonte di turbamento?
Tra i tanti, ne cito uno molto piccolo e apparentemente insignificante. Era il 1971 ed ero in India da pochi mesi. Frequentavo i corsi della School of Planning and Architecture, la scuola di urbanistica e di architettura di New Delhi. Con un piccolo gruppo di studenti della facoltà ci recammo in un villaggio dell’Haryana per studiarne la struttura sociale che, in India, vuole dire la divisione in caste. Camminando tra le casupole di fango del villaggio, ricordo che vidi un baracchino di legno dove si vendevano sigarette e paan, le foglie di betel che gli indiani masticano con avidità. Si avvicinò un uomo corpulento vestito con una dhoti e un kurta bianchi. Chiese tre sigarette. Le sigarette vennero poste su una specie di mensola di legno che sporgeva dal piccolo chiosco. L’uomo le prese e, per pagare, gettò a terra, tra la polvere, i pochi centesimi di rupia del costo delle sigarette. “Perché ha fatto questa cosa?” chiesi ai miei compagni di corso? “È un brahmino – mi risposero – e, pagando, ha voluto evitare di toccare le mani del venditore di sigarette”. “È un pezzo di merda!” esclamai. I miei compagni furono sorpresi dalla mia reazione. Per loro era tutto normale. Sono tremila anni che l’India funziona così… Questo episodio ci riporta agli stereotipi occidentali. Tiziano Terzani, famoso giornalista, arrivato in India è caduto anche lui nelle solite banalità che si scrivono nel raccontare un’India “mistica e spirituale” che, spesso, non c’è. A proposito del modo di salutarsi degli indiani, Terzani scrive: “Noi ci stringiamo la mano dopo averla aperta per mostrare che non nascondiamo armi. Qui [in India] la gente unisce le mani al petto e si dice reciprocamente namasté, saluto la divinità che è in te”. Terzani evita di dire che il vero motivo per cui gli indiani si salutano con le mani giunte è perché sono terrorizzati dall’idea di poter toccare le mani di una persona di casta inferiore.
Come si conciliano (se si conciliano) musulmani e hinduisti? Ricordo, a proposito, i saggi di Naipaul… la convivenza è possibile, difficile, satura di futuro?
Per poter rispondere a questa domanda, serve una premessa. Nel 1947, con la partition, la drammatica “spartizione” dell’India, nacquero due stati indipendenti, l’India e il Pakistan. Ma mentre il Pakistan diventò una nazione confessionale di fede islamica, l’India scelse di essere una democrazia in cui tutte le religioni potevano convivere pacificamente tra loro. La partition provocò “la più grande migrazione umana della storia”. Milioni di musulmani si trasferirono in Pakistan e milioni di hindu trovarono rifugio in India. Ci furono violenze efferate, con decine di migliaia di morti. Nel nuovo Pakistan trovarono dimora i musulmani ricchi e potenti, ansiosi di diventare la classe dirigente di un nuovo stato islamico disegnato tutto per loro. Fuggirono in Pakistan anche molti musulmani poveri che vivevano nelle regioni dell’India situate a ridosso della nuova – e assurda – linea di confine tracciata dalla matita dell’inglese Sir Cyril Radcliffe. Ma molti musulmani altrettanto poveri che vivevano nel vasto territorio indiano lontani dalla nuova linea di confine, anche per mancanza di mezzi, decisero di rimanere in India. È così che oggi, in India, ci sono 180 milioni di musulmani, il 14,9% della popolazione totale. Musulmani e dalit, gli ex “intoccabili”, costituiscono le due sezioni più oppresse della società indiana. (I dalit, che sono 200 milioni, sono chiamati anche “intoccabili” perché dediti ai mestieri impuri, trasportare le carogne degli animali, pulire le latrine). Ma torniamo ai musulmani dell’India. Il partito del Congresso di Indira Gandhi li ha sempre sostenuti ricevendone in cambio il voto durante le elezioni politiche. La cosa ha provocato a Indira Gandhi forti critiche da parte dei gruppi fondamentalisti hindu. Con il declino del partito del Congresso, che fu già del Mahatma Gandhi, di Nehru e di sua figlia Indira, ha preso sempre più forza in India il Bharatiya Janata Party (Bjp), un partito nazionalista hindu. Si arriva così alle ultime elezioni politiche generali indiane (2014) dove il Bjp di Narendra Modi ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi nella Lok Sabha, il parlamento di New Delhi. Ma il Bjp è un partito “di facciata”. Alle sue spalle opera la potente organizzazione hindu chiamata Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss), l’Associazione dei volontari nazionali. Questa organizzazione nacque nel 1925 e, negli anni ’30, si ispirò direttamente al fascismo di Mussolini e al nazismo di Hitler. M.S. Golwalkar che ricoprì la carica di “leader supremo” dell’Rss, scriverà parole di elogio della Germania nazista che “per mantenere la purezza della sua Razza, ha purgato il Paese delle sue Razze semitiche: gli Ebrei”. E aggiunse: “Questa è una buona lezione che noi nell’Hindustan dobbiamo imparare e da cui dobbiamo trarre profitto”. Sarà un ex militante dell’Rss, Nathuram Godse, ad assassinare nel 1948 il Mahatma Gandhi, accusato di appeasement nei confronti dei musulmani. Ancora oggi i militanti dell’Rss vedono nei musulmani e nei cristiani dell’India degli intrusi, appartenenti a due religioni che definiscono “non indiane”. È così che nell’India odierna di Narendra Modi, sempre più spesso musulmani e dalit – molti di questi ultimi convertiti al cristianesimo – vengono linciati in pieno giorno perché accusati di uccidere la vacca che gli hindu ritengono essere sacra. Con l’ascesa al potere del Bjp, il sogno che fu già di Nehru e di Gandhi di un’India laica, multiculturale, inclusiva e nonviolenta, sembra essere improvvisamente svanito e la convivenza tra hindu e musulmani è messa seriamente in pericolo.
Cosa le ha lasciato l’India?
Rispondo a questa domanda brevemente. Dei trentadue anni in cui ho vissuto in India, per almeno venti di essi sono stato molto povero. Dopo i due anni della borsa di studio offerta dal governo indiano, decisi di rimanere in India perché mi interessava studiare a fondo quel paese. Ma non avevo un lavoro fisso e uno stipendio. Scrissi, molto saltuariamente, per alcuni giornali italiani e cominciai a insegnare la lingua italiana per poche rupie al mese. In quegli anni in cui ero molto povero, anche l’India era molto povera. Questo mi permise di vivere come gli indiani e di rimanere in stretto contatto con loro. Potei così capire a fondo quel paese. E questo mi permise anche di ascoltare e a volte di farmi cullare da quella che Gandhi chiamava “la musica triste e dolce dell’umanità”. Questo è quello che l’India mi ha dato e questo è quello che porto ancora dentro di me.
L'articolo “Il sogno dell’India multiculturale di Gandhi oggi è in serio pericolo”: dialogo con Carlo Buldrini proviene da Pangea.
from pangea.news https://ift.tt/2Nl6qHs
0 notes
Text
Commento al femminile su motogp le Mans 2018
Libertè Glactique
Egalitè Ecletique
Fraternitè Aerodynamique
Robespierre Marc Marquez
Revolution francaise Motomondiale
1700 2018
PARDIEU!!!!!
Marquez conquista anche "la France" come un moderno Napoleone con una mano sul petto e una sulla manopola del gas, imprime il suo terzo sigillo consecutivo a Le Mans nel circuito Bugatti , (che negli ultimi due anni non gli è stato tanto amico ) e questo grazie anche all'uscita di scena di Dovizioso che gli ha servito su un piatto d'argento la possibilità di allungare il vantaggio nei suoi confronti in classifica generale di quasi 50 lunghezze , la rabbia mista a delusione del ducatista è constatare la banalità dell'errore (parole dette da lui) scaturito paradossalmente non in una situazione al limite anzi in uno status ottimale di performance dove forse la troppa sicurezza ha fatto sottovalutare un imprecisione che poi a fatto si che in quel frangente solo la matita di Andrè Franquin creatore del personaggio fumettistico goffo e maldestro di Gaston Lagaffe , potesse soccombere peggio di lui.
Un mea culpa quello di Dovi nei confronti di se stesso e dell'intero team che si accompagna metaforicamente a pugni sul petto atti a far si che il boccone indigesto della scivolata scenda subito , per quanto possibile giù nello stomaco, senza essere ruminato più volte , per digerirlo prima possibile , azzerrare tutto e ripartire con un spirito positivo e combattivo, perchè ancora tutto è possibile anche se con qualche difficoltà in più.
L'argomento principale che ha tenuto banco nei giorni che hanno separato la gara di Jerez da quella di Le Mans è stato il rinnovo del contratto della ducati con Andrea Dovizioso, un braccio di ferro che ci ha tenuto sulle spine sopratutto quando hanno girato le voci che i giapponesi dell'honda si sono affacciati al muro eretto dalle due parti in causa facendo una proposta che sicuramente avrà lusingato il forlivese idealizzando nell'immaginario collettivo un'accoppiata vincente da far invidia, ma con una piccola e peculiare postilla non scritta ma sottintesa e ovvia anche ai meno esperti del settore, di essere considerato eternamente il secondo. Ora come ora fare da ombra non è più nelle corde di Andrea visti gli anni di gavetta e la nuova consapevolezza delle sue potenzialità , la scuderia rossa tenendone conto degli ottimi risultati ottenuti lo scorso anno ma, rimanendo orfana del principale sponsor TIM che ovviamente ha fatto si che il potere d'acquisto dell'offerta ducati per l'ingaggio dei pilotii si ridimensionasse notevolmente, ha comunque fatto in modo di tirar fuori il coniglio dal cilindro per non spezzare la magia creata dal vicecampione del mondo ed ecco un biennale fresco che non fa esitare la firma in modo che ora tutte le energie e le forze si concentrino sulle gare ed infatti fatto l'accordo, nelle prove la ducati di Dovi si fa dare del Lei.
Marquez è comunque lì , ma chi più di tutti ha saputo cogliere l'attimo e aggiudicarsi la pole è Zarco il pilota di cannes che indubbiamente preferisce la prima posizione in griglia piuttosto che una comparsata sul red carpenter.
il francese sta tornando a far sognare i francesi in questo sport, a digiuno da diversi anni di top rider in motogp, con la pole ha virtualmente ipotecato le prime pagine delle testate giornalistiche sportive francesi.
La griglia di partenza si presenta così:
1 Zarco 2 Marquez 3 Petrucci 4 Iannone 5 Dovizioso 6 Lorenzo 7 Miller 8 Vinales 9 Rossi 10 Pedrosa
per par condicio è giusto spendere due parole per Cructhlow che nonostante la rovinosa caduta nelle prove decide di salire in sella e giocarsi le sue carte nonostante tutto chapeau!
La partenza come la volta scorsa vede Lorenzo partire come un kamikaze pronto ad immolarsi per la causa , Iannone dopo pochi secondi esce di scena forse il troppo impeto mal gestito e supportato da gomme fredde , Marquez per un pelo non rischia il contatto con lui il suo salvataggio gli costa diverse posizioni , Dovizioso si fa sentire da subito e dopo aver superato Zarco che a fatica si era ripreso la seconda posizione , si mette in coda al compagno di squadra, questa volta è consapevole del suo potenziale e appena può supera jorge ma dopo pochi secondi i suoi sogni di gloria si inabissano tra la polvere di un uscita fuori pista e Marquez che era consapevole del potenziale di Dovizioso in questa gara ,virtualmente tira un sospiro di sollievo e sa che ora le chance a suo favore solo maggiori , portata a temperatura la gomma dura posteriore può iniziare la sua risalita , si instaura un mini duello con Zarco che purtroppo oltre ad essere superato da Marc poco dopo cade con la stessa identica dinamica di dovizioso, la pressione di correre in casa lo aveva si caricato in senso positivo ma anche un po' oppresso si sentiva in obbligo nei confronti dei fan della nazione ad un risultato forse un pò troppo ambizioso , ma si sa per i francesi la parola "Impossible n'existe pas!.e lui ha fatto bene a crederci e provarci fino in fondo.
Marquez lanciato verso l'oblio in perfetta simbiosi con la sua honda va a prendere Lorenzo a metà gara , e ripropone la sua fuga solitaria, che dovrebbe zittire i critici che trovano il coraggio di definirla noiosetta, brutta bestia l'invidia!
Lorenzo comincia a perdere colpi e comincia ad essere superato da Petrucci, Rossi, Miller, Pedrosa tagliando il traguardo sesto ,Petrucci per una buona metà di seconda gara si è attaccato alla scia di Marquez tenendo nervi saldi e alta concentrazione tenendo a debita distanza un Rossi che nonostante la sua m1 non renda come dovrebbe si è guadagnato ed ancorato alla terza posizione fino alla fine.
Miller è riuscito a superare un Pedrosa ancora non tanto performante per via dell'intervento al polso, e si è aggiudicato un 4 posto di tutto rispetto.
Marquez come sappiamo ha vinto , anche se ha rischiato anche lui infatti a fine gara ha mostrato alle telecamere il gomito della sua tuta graffiato eredità impressa, dovuta ad uno dei suoi funamboleschi salvataggi dove gomito e ginocchio si alleano contro un anteriore bloccato ed hanno la meglio, salirà sul podio con Petrux e Rossi, con quest'ultimo si ignorerà cordialmentee ciò non ci stupisce, cosa invece che ci stupisce sono i progressi di Petrucci che si candida pare, per una sella di una ducati ufficiale...
ora pregherei chi non sopporta Marquez e che comunque trova sempre una scusa per non evidenziare in questo momento la sua superiorità affermando che è merito della moto che va quasi da sola , che l'unica honda che va è la sua ...leggette attentamente la classifica generale come leggereste il bugiardino delle medicine e ditemi a che punto trovate un altra honda,.... in questo caso è il pilota che fa la differenza non trovate?
vediamo il Mugello cosa ci riserverà oltre una bella fiorentina e un calice di chianti......
0 notes