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Armando Marrocco Battaglie nel cielo
a cura di Toti Carpentieri
Arte Due, Bollate 2017, 84 pagine, 22,5 x 22,5 cm
euro 30,00
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Torino, Spaziobianco 23 Febbraio - 23 Marzo 2017
Spaziobianco presenta la terza mostra del trittico dedicato ad uno dei maestri dell’arte contemporanea italiana. “Battaglienelcielo” raccoglie le opere create da Armando Marrocco tra il 2003 e il 2016. La mostra è la terza rappresentazione/testimonianza di un percorso artistico originale e complesso iniziato negli anni Cinquanta del XX secolo e ancora in pieno svolgimento. Spaziobianco ha già presentato nelle sue sale ”Il luogo del ritrovo” (nel 2014) e “Uomouniverso” (nel 2015). Ora, con “Battaglienelcielo” offre ai visitatori un nuovo e sorprendente paradigma del mondo poetico di Armando Marrocco.
30/06/23
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SOBRE Pablo Suárez, Eldorado y otras historias
«(…) Pablo Suárez fue un artista tan culto como corrosivo que década a década logró definir su propia vigencia en la escena artística argentina. Iniciado en la pintura informalista a fines de los años cincuenta, fue uno de los protagonistas de la vanguardia artística de los años sesenta y de su radicalización política que lo llevó a suspender su producción en favor del activismo social.
Nueve dibujos inéditos El dibujo expresa de manera inmediata su pensamiento. Porque, como solía afirmar, “dibujar es pensar”, en la colección de dibujos que integran el ensayo no hay hombres desnudos, ni boxeadores, tópicos frecuentes en sus producciones; sí se ve un hombre leyendo, parado sobre un pilar con un libro en la mano, absorto en esa historia. También hay una cabeza humana cuyo bigote tupido acompaña el gesto duro de un rostro asombrado; a su lado una casa, o lo que se supone: es una casa. Un dibujo muy bien logrado es el del arte de tapa, donde se vuelve a un ring de boxeo donde asoma una cara gigante que contempla la escena con un gesto parsimonioso, impropio del contexto de sangre, puños apretados y sudor varonil.»
Álvaro Marrocco en Mirador provincial y en El Litoral
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ARMANDO MARROCCO: convergenze spaziali. Milano, Venezia e oltre
La Galleria Luce rappresenta da quarant’anni lo Spazialismo a Venezia
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Daniel Lee, Bottega Veneta, Cassette, Spring Summer 2021 collection VS Armando Marrocco, Intreccio, 1963-1964
#Daniel Lee#new bottega#bottega veneta#intreccio#intrecciato#bag#it bag#cassette#fashion#Armando Marrocco#miart#art#contemporary art#modern art#collage#collage art#cut and paste
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Tradizioni ed edilizia funerarie a Spongano
di Giuseppe Corvaglia
Nel 1600, come in tutti i paesi di Terra d’Otranto, a Spongano non c’erano cimiteri e i defunti venivano seppelliti nelle chiese. La Chiesa Madre aveva le tombe della comunità che, successivamente, saranno differenziate in: quelle per i sacerdoti, poste vicino all’altare maggiore, quelle per i nobili (sepulchra nobilium) anch’esse poste in prossimità dell’altare o vicino agli altari della famiglia, quelle delle vergini (tumbae virginum), quelle dei bambini (parvulorum sepulchrum) e quelle degli altri abitanti. La prima a essere sepolta in Chiesa Madre, nel 1604, fu una certa Domenica Gallona.
Ancora oggi si può osservare il pavimento della sacrestia, in parte ristrutturato, ma in parte ancora irregolare, deformato dalla pressione dei gas, formati dai processi di decomposizione dei corpi.
I nobili, come detto, avevano urne vicino agli altari, di cui avevano jus patronato, o una tomba vicino all’altare maggiore, ma alcuni di essi potevano essere sepolti nelle cappelle patrizie di proprietà.
Accadeva per gli Scarciglia e i Riccio, ad essi imparentati, che tumulavano i propri defunti nella Cappella di San Teodoro, fatta erigere da Don Pomponio Scarciglia, e per i Bacile che costruirono la propria cappella, prospiciente il Palazzo e dedicata alla Madonna dei sette dolori, grazie all’opera di Don Giuseppe Bacile, Arcidiacono della Cattedrale di Castro. In essa il primo ad esservi tumulato fu Giovanni Antonio, fratello del prelato.
Ricordiamo pure che nella piccola comunità era attiva una Confraternita della Buona morte che garantiva un funerale ai poveri che non potevano permetterselo e pregava in suffragio delle anime, avendo patronato su un altare della chiesa che, in seguito, verrà dedicato a Santa Vittoria.
Quando le fosse della chiesa si riempivano e quando la chiesa fu chiusa, per i lavori di restauro nel XVIII secolo, i defunti furono tumulati nella Chiesa della Madonna delle Grazie che oggi conosciamo come Congrega.
Se il numero dei morti diventava elevato, come accadeva in occasione di epidemie, quali: il colera nel 1836, il vaiolo nel 1880, la difterite nel 1886, la scarlattina, il morbillo nel 1888… si ricorreva al cimitero epidemico (Agro Sancto Epidemico) che si trovava sulla via per Surano, in Contrada Taranzano. La rivoluzione francese aveva affrontato il problema delle sepoltura con l’uso delle tombe comuni poste a distanza dai centri abitati.
A Spongano, come in tutto il Regno delle Due Sicilie, si comincia a parlare di Cimitero solo nel 1817, quando una legge, “per garantire la salute pubblica, ispirare il rispetto dei morti, e conservare la memoria degli uomini illustri”, dispose che i defunti venissero inumati o tumulati in luoghi appositi, chiusi da mura e da un cancello, distanti almeno un quarto di miglio dal centro abitato. A Spongano e nei comuni associati, Surano e Ortelle, si cercarono i siti per la costruzione del cimitero locale. Per Spongano si individuò un luogo detto “Vignamorello”, posto fra l’attuale piazza Diaz e la ferrovia, dove c’era una grotta, usata come neviera in disuso, che avrebbe consentito di inumare le salme più agevolmente.
L’iter fu travagliato e furono proposti, negli anni, altri luoghi, ma senza mai decidersi a realizzarlo, nonostante un altro dispositivo, il Real Rescritto dell’11 gennaio 1840, reso esecutivo in Terra d’Otranto il 25 gennaio 1840.
A questo contribuì l’opposizione, più o meno palese, del Clero, che traeva benefici economici dal tumulare i morti nelle chiese, la credenza dei fedeli che la tumulazione in Chiesa, vicino alle reliquie dei santi e luogo di preghiera, fosse migliore e, soprattutto, la necessità delle varie amministrazioni di stornare i fondi destinati ai cimiteri per spese più necessarie e urgenti, differendo la soluzione del problema.
Nel 1880 la Regia Amministrazione Sabauda ritorna alla carica con leggi apposite e stimola decisamente i Comuni a dotarsi di un Cimitero. In questa temperie, i Decurioni, nel 1883, decidono di costruire il nuovo cimitero acquistando all’uopo un fondo denominato “Campo San Vito” sulla via per Ortelle. Il progetto fu fatto dall’Ingegner Pasanisi e fu approvato dal Genio Civile nel 1885.
Il Camposanto fu inaugurato l’11 maggio 1885 e già il giorno dopo vi fu sepolto il primo sponganese, Ruggero Alamanno. Da allora non furono più seppelliti morti in chiesa (l’ultima salma fu tumulata in Chiesa il 1° maggio 1885).
Ingresso del cimitero di Spongano
Architettonicamente possiamo dire che, nel complesso, la parte più antica risente di quel gusto architettonico, molto in voga nell‘800 fino agli inizi del ‘900, chiamato Eclettismo, qui particolarmente evidente, che utilizza in libertà tutti gli stilemi architettonici del passato, come modelli di riferimento, per progettare edifici esteticamente belli che colpiscono il gusto del fruitore ancora oggi.
La facciata, austera, si ispira a un’architettura classicheggiante; in alto al centro è scolpito il chrismon con ai lati l’alfa e l’omega, all’apice una croce (caduta e non più ripristinata) con due fregi ai lati.
Statua di Cristo risorto di A. Marrocco
Sempre all’ingresso sono situate due epigrafi in latino che ammoniscono gli umani.
Una riporta “La mia carne riposa nella speranza” (CARO MEA REQUIESCET IN SPE) e l’altra dice “Il corpo corruttibile e mortale dell’uomo conduce all’immortalità” (MORTALE INDUET IMMORTALITATEM).
Alcuni anni fa è stata posta, nel piazzale antistante, una bella statua bronzea dell’artista contemporaneo Armando Marrocco che rappresenta Gesù risorto.
Anche la tomba comune, dove trovavano sepoltura tutti i cittadini che non avessero una tomba propria, si ispirava a un sobrio classicismo. L’ingresso, sormontato da un timpano con un bordo modanato in pietra leccese, aveva due nicchie laterali e una porta centrale che conduceva a un semi-ipogeo, che ricordava le catacombe, dove vi erano i loculi che accoglievano le salme e una fossa comune (a carnara). In fondo, al centro, vi era un altare dedicato alla Madonna del Carmine, oggi restaurato. Negli scorsi anni è stata restaurata la tomba comune ricavando al piano terreno dei colombari nuovi e un ampio ambiente coperto; la nuova facciata riecheggia la forma della vecchia struttura.
Più o meno coeve sono diverse cappelle gentilizie, costruite con stili diversi, anch’essi liberamente ispirati all’Eclettismo.
Anche a Spongano, come in quasi tutti i comuni del Salento, le famiglie nobili, borghesi o benestanti, sentivano la necessità di costruire la propria cappella funeraria per custodire le spoglie dei propri cari, ricordarne la memoria, ma anche per ostentare il proprio stato.
La materia usata, prevalentemente, è la pietra leccese che, come dice Gabriella Buffo nel suo articolo su Fondazione di Terra d’Otranto, “Edilizia funeraria a Nardò e nel Salento”, “diventa il morbido tessuto su cui ricamare tutta la simbologia della morte”.
Entrando si può ammirare, sulla sinistra, la tomba della famiglia Rizzelli che sfoggia uno stile classico arricchito, da ghirlande di fiori, scolpite nella pietra leccese. La facciata è abbellita da due colonne sovrastate da un timpano semicircolare che si ripete sui quattro lati. Lo stesso stile classico si può osservare nella più discreta tomba dei Rini.
Cappella della famiglia Rizzelli
Particolare della cappella Rizzelli (lato nord)
Di fronte vi è la cappella della famiglia Coluccia che richiama uno stile neoromanico, come la cappella della famiglia Scarciglia che si trova più avanti. In quest’ultima, oltre al raffinato portale, che richiama le decorazioni di Santa Caterina in Galatina e di San Nicolò e Cataldo a Lecce, si nota un bel rosone con al centro una testa di leone.
Cappella Scarciglia
particolare con il rosone della cappella Scarciglia
Di stile neorinascimentale è la cappella dei Bacile, progettata da Filippo Bacile, architetto e umanista pregevole, sempre seguendo il gusto dell’eclettismo in voga. Il portale è protetto da un elegante loggiato, sormontato da una sorta di baldacchino, con un timpano, sorretto da due colonne, adorne di capitelli corinzi, che reca lo stemma di famiglia e un bordo con gli spioventi decorati a scacchiera, dove si alternano cubetti cavi a cubetti pieni. L’interno della cappella è semplice e le sepolture sono allocante in una parte semi-ipogea.
Cappella della famiglia Bacile
Cappella funeraria della famiglia Rini
Cappella funeraria della famiglia Coluccia
Nel corso degli anni il cimitero è stato ampliato e oggi si possono vedere tombe più moderne, alcune dallo stile essenziale, altre di pregevole fattura come quella che accoglie il Caporal maggiore Antonio Tarantino, caduto a Nassirya durante una missione di pace. La cappella, progettata dall’architetto Virgilio Galati, presenta sulla facciata uno squarcio che rompe due strati: quello del corpo (pietra leccese) e quello dell’anima (cemento). Un altro squarcio spacca la parete posteriore che, con la sua struttura a lamelle sovrapposte, sembra la corazza di un guerriero e quello squarcio diventa un finestrone irregolare che, orientato a est, accoglie la luce del sole che nasce. All’interno, sulla tomba del giovane milite, si ergono due possenti, ma al tempo stesso elegantissime, ali di angelo in marmo greco. La pavimentazione e la volta riproducono cerchi come pianeti di una costellazione. Il tutto esprime la tensione a volare in cielo, ma, allo stesso tempo, la crudele e dirompente realtà della fine di una giovane vita.
Cappella del caporal maggiore Antonio Tarantino, caduto a Nassirya
particolare della cappella funeraria Tarantino
Interessante la cappella di un altro soldato, morto tragicamente mentre era in servizio, Claudio Casarano, figura eclettica di artista prestato all’esercito; in essa è possibile ammirare la riproduzione in marmo di Carrara di una sua scultura in legno d’ulivo, molto suggestiva che esprime il rinchiudersi in se stessi per non vedere la crudeltà del mondo. Interessante anche sulla facciata un sofferente crocifisso in ferro battuto, fatto dal milite nella sua attività artistica.
Particolare della cappella Casarano
Pure di interesse è la tomba Polimeno per gli infissi in ferro battuto di Simone Fersino, che si rifanno al mosaico di Pantaleone della Cattedrale di Otranto (l’albero della vita che poggia su due elefanti e Alessandro Magno sui grifoni), e un bellissimo angelo sull’altare, affrescato da Roberta Mismetti in foggia bizantina.
Altra tomba particolare è la tomba Corvaglia, progettata dall’Architetto Sigfrido Lanzilao, posta dietro la tomba Rini. Segno caratteristico è un piccolo arco a tutto sesto che richiama l’arco romano e poggia su due colonne a sezione quadrangolare (o a pilastro) e che, con armonia ed eleganza, sovrasta le tombe e accoglie un crocifisso in legno, ottenuto da un artista ligure con rami rimaneggiati dal mare. Le tombe ai lati sembrano due ali disposte come un abbraccio che accoglie; all’interno ci sono due fioriere una a forma di ciotola votiva e una che richiama un antico mortaio con i simboli della forza e del coraggio (zampa di leone), dell’estro e dell’allegria (uva), del genio e della tecnica (squadra) e della vita ottenuta dalla morte (spiga di grano) opera, come l’arco, di Bruno Polito.
Fino a qualche anno fa c’era un piccolo cenotafio, un vaso commemorativo, in pietra leccese, scolpito e decorato da un genitore affettuoso e valente artigiano, Oronzo Rizzello, per la piccola figlia Graziella, portata via da una malattia e sepolta in una tomba comune. Il vaso (su cui era scritto A GRAZIA RIZZELLO I GENITORI e poco sotto a soli tre anni ti perdemmo, chi ne consolerà) è stato rubato da mani sacrileghe, durante dei lavori di riposizionamento.
Ma il Cimitero non è solo l’insieme di note storiche, stilemi architettonici, lapidi e sculture: il Cimitero è, soprattutto, un crogiuolo di ricordi, talvolta intimi, evocati dai foto-ritratti o dagli epitaffi e di storie, talvolta, solo immaginate.
Tipico esempio di questa evocazione è il giro che si fa il giorno dei morti, quando si vaga senza uno scopo preciso, oltre le solite visite, per cercare un parente più lontano che ci ha lasciato o un amico che non c’è più e, talvolta, ci si perde a immaginare la vita della persona raffigurata in un ritratto antico.
Di quei giorni e di tante domeniche mi vengono in mente le discese veloci dalla copertura della scala della tomba comune, un piano inclinato, pavimentato di chianche, su cui ci si arrampicava e si scendeva d’un fiato. Il pensiero oggi mi fa rabbrividire per il rischio che correvamo, ma all’epoca chi ci pensava?
Anche un luogo così mesto poteva diventare divertente, come le coccole dei cipressi che diventavano biglie … o pallottole.
Io, poi, ogni volta che varco il portale dell’ingresso e vedo la porta sulla sinistra, non posso fare a meno di ricordare il mio bisnonno, Donato, che, come capomastro, partecipò alla costruzione di quel camposanto e, una volta ultimati i lavori, ebbe anche l’incarico di custode notturno che svolgevano a turno i figli i quali, per farlo, dormivano in una cameretta al primo piano sopra la camera mortuaria a cui si accedeva, appunto, da quella porticina.
Quando c’era un morto, gli si legava alle mani una cordicella che saliva fin nella cameretta e si collegava a una campanella che avrebbe suonato in caso di risveglio del trapassato, come accade nei casi di morte apparente (nell’architrave dell’ufficio del custode che una volta era camera mortuaria, è possibile vedere ancora la carrucola e il foro che portava alla cameretta del custode).
Donato Corvaglia capomastro muratore
Mi ricordo pure di un altro Donato Corvaglia, un caro amico. Era una persona speciale che, come impiegato comunale, svolse diversi ruoli: netturbino, archivista, messo comunale e alla fine custode del cimitero e “precamorti”. Di lui ricordo la bontà e la bonomia, la cura nell’insegnarci il catechismo, la semplicità e la sensibilità delle sue poesie che amava comporre in quella pace, ma anche la delicatezza e la discrezione nei momenti della sepoltura, quando il distacco fra il defunto e i familiari diventava lacerante. Lui mostrava sempre umana pietà, sensibilità, solidarietà e la giusta fermezza, tutte viatico per l’addio. Ha lasciato in eredità ai suoi colleghi un attrezzo da lui inventato che loro chiamano, affettuosamente, Mangone (era il soprannome patronimico) che serve a scardinare la lastra di pietra murata nelle dissepolture.
E poi, ai più attempati verrà in mente un altro Precamorti mitico: u Paulu.
“Paulu” viveva, praticamente, nel cimitero anche se aveva una sua casa in paese. Vestiva abiti dimessi, era solo e, spesso, accettava la carità di un pasto, offerto per “l’anima dei morti”, o anche solo un bicchiere di vino, due, tre….*
Lui accettava volentieri, ma veniva considerato uno sventurato e, spesso, i ragazzi lo prendevano in giro. Allora lui, quando si arrabbiava, urlava minaccioso: « A cquai ve spettu tutti!!!» ( Vi aspetto tutti qui!!! intendendo al Camposanto).
Aveva preso parte in una sacra rappresentazione della Passione di Cristo, rimasta memorabile, (quella, per intenderci, in cui Mesciu Carmelu Carluccio, cantore, era Gesù) interpretando un efficace e credibilissimo Cireneo che, su quelle spalle malferme, sbilenche, si caricava il segno della redenzione del mondo senza essere il Messia.
Altri aneddoti si raccontano su di lui. In particolare si racconta di una giovane vedova, innamoratissima del marito, morto prematuramente, la quale, ogni giorno, portava sulla sua tomba delle pietanze, come se fosse vivo. Paolo se le mangiava e lei ogni giorno non mancava di rinnovare il suo gesto affettuoso nei riguardi del marito. Un giorno di estate, nel caldo della canicola, era scesa nel colombario sotterraneo e non poteva immaginare che Paolo precamorti si fosse infilato in un loculo per sfuggire alla morsa di quel caldo soffocante. Quando lo vide uscire, per poco non rimase stecchita. Era una donna forte, molto cara, che non morì per lo spavento, ma concluse la sua vita in tarda età con la compagnia di due cani affettuosi per poi ricongiungersi al suo amato Salvatore.
*Piccola nota di costume.
Nel Salento si usa offrire delle cose da mangiare, specie a chi è più sfortunato, per ottenere delle preghiere in suffragio delle anime defunte. È quasi come offrirle al caro che non c’è più e, spesso, il cibo o il frutto offerto è quel cibo o quel frutto che piaceva particolarmente al caro estinto.
Talvolta si sogna un caro che manifesta il desiderio di un cibo e si cerca di soddisfarlo, dando quel cibo a qualcun altro che quel cibo può mangiarlo fisicamente. C’è chi racconta di aver regalato dei cibi a qualcuno e che il caro estinto sia andato poi in sogno, esprimendo soddisfazione per quel pasto.
In particolare una conoscente, riferiva di aver preparato e donato delle sagne col sugo da portare a una famiglia benestante che, però, non apprezzava particolarmente quel dono. La domestica, incaricata del servizio, un giorno aveva fame, si sedette e se le mangiò. Dopo aver mangiato si sentì ristorata e soddisfatta e, come si usava, pregò il riposo eterno ai defunti della donatrice. Nei giorni successivi, chi aveva donato il cibo sognò il defunto che mangiava le sagne, seduto su alcuni gradini. Quando la donna rivide la domestica, per ripetere il dono, le chiese se le sagne erano arrivate a destinazione. Di fronte alle domande insistenti, la donna raccontò la verità e il posto dove le aveva mangiate era lo stesso dove, nel sogno, il caro defunto si era seduto a mangiare. Da allora le sagne, quando preparate, furono destinate alla domestica.
Un’altra volta, un’altra massaia aveva mandato del pesce fritto da portare in dono e chi lo portava, inciampando, ne fece cadere, accidentalmente, alcuni. Non poteva rimetterli nel piatto, ma non voleva buttare quel ben di Dio. Così li pulì dalla polvere e se li mangiò con gusto pregando un Recumaterna alli morti sentito.
Giorni dopo la massaia sognò il defunto che raccoglieva del pesce da terra e se lo mangiava. Indagò e scoprì l’accaduto.
Come diceva il Commedantore del Don Giovanni Mozartiano: “Non si pasce di cibo terreno chi si pasce di cibo celeste…” e per noi uomini moderni è difficile credere che ci possano essere dei legami reali e sostanziali diversi da quella che può essere solo una suggestione.
Anche una richiesta, oggi domandata per favore, un tempo veniva perorata chiedendola “per l’anima de li morti toi”. Magari, se la richiesta era particolarmente importante, per meglio ottenerla, si chiedeva il favore per l’anima di un defunto particolarmente caro (Pe l’anima de lu Tata tou, o pe l’anima de la Mamma tua).
Inoltre ogni volta che si voleva ringraziare qualcuno si usava dire “Recumaterna alli morti toi” (in segno di ringraziamento, prego il riposo eterno per i tuoi cari defunti) o anche Ddhrifriscu de i morti, che vuol dire la stessa cosa oppure Ddhrifriscu de Diu che voleva dire che il Signore Iddio misericordioso conceda il riposo eterno ai tuoi defunti. Anche questo andava a consolare le anime che, secondo gli insegnamenti cristiani, potevano stare in Purgatorio in attesa della beatitudine.
Per contro, se si voleva offendere qualcuno in modo estremo, ci si rivolgeva a lui imprecando contro i suoi defunti.
Si ringraziano per le foto Mirella Corvaglia e Antonio Corvaglia
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Armando Marrocco, Rivelazione 2, 1976; in Paolo Albani, Breve storia della cancellatura di parole, Biblioteca Oplepiana, No. 41, October 2016 [Bibl.: Vincenzo Accame, Il segno poetico. Materiali e riferimenti per una storia della ricerca poetico-visuale e interdisciplinare, Edizioni d’Arte Zarathustra, Milano, 1981, p. 170]
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Armando Marrocco
BIOGRAFIA
Armando Marrocco nasce nel 1939 a Galatina (Le). Già nella seconda metà degli anni ’50 elabora tecniche di pittura e scultura del tutto innovative e sviluppa ricerche interessanti precorritrici delle tendenze concettuali.
Dopo aver frequentato l’Istituto Statale d’Arte e insegnato scultura, nel dicembre del 1962 si trasferisce a Milano dove si inserisce nell’ambiente artistico collaborando con architetti e urbanisti.
Dopo gli iniziali interessi informali, le sue prime ricerche si svolgono nell’ambito dell’arte Programmata e Cinetica. La sua prima personale a Milano si tiene nel 1966 presso la Galleria Montenapoleone. Nel 1967 partecipa al IX Premio Silvestro Lega di Modigliana, vincendo il secondo premio ax-aequo con Mario Nigro.
Nel 1969 aderisce al gruppo Art Terminal con il quale partecipa ad alcune importanti manifestazioni artistiche (Area Condizionata presso la Galleria Toselli di Milano e Campo Urbano a Como, organizzato da Luciano Caramel). Nel 1970 Pierre Restay lo invita a partecipare alle manifestazioni che si svolgono a Milano per il X anniversario della nascita del Nouveau Realisme.
Nei primi anni ’70 i suoi interessi comprendono il comportamento, la natura e l’antropologia, fatto questo che lo porterà in seguito ad aderire al movimento Arte Genetica. A conferma di ciò si ricorda l’esposizione Habitat per formiche-2000 formiche vive, tenutasi nel 1971 presso la galleria Apollinaire di Guido Le Noci a Milano. Queste esperienze si vanno concretizzando nel libro Calendario, con testi di Toti Carpentieri e prefazione di Pierre Restany. In questo periodo effettua numerose performance, spesso video-filmate in super-8 o 16 mm. E’ anche tra i pionieri nella sperimentazione della tecnica dell’emulsione fotografica su tela e al contempo realizza numerosi libri d’artista.
Dopo una serie di esposizioni internazionali organizzate dallo stesso Restany sul tema della comunicazione ed altre effettuate nell’ambito della Nuova Scrittura, , negli anni ’80 il primitivo interesse per il recupero dei materiali si fa sempre più vivo, come anche quello rivolto allo spazio e alle installazioni ambientali;, come quelle con il Gruppo Assemblaggi, quelle con il Gruppo XDM e con il Gruppo aperto Opera dei Celebranti. Si apre anche il corso delle opere monumentali: nel 1988, su invito di Pierre Restany, una sua scultura, La città palafitta, è installata nel Parco Olimpico di Seoul, nel 1992 realizza la Fontana del Sole per il gruppo Colacem a Galatina e la Fontana degli angeli a Martano. Nel 1994 la Fontana Nautilus per la Banca del Salento a Lecce.
Intanto progetta scenografie e strumenti musicali che si ispirano alle sue opere, partecipando anche direttamente alle performance sonore con il Gruppo Hiperprism diretto da Fernando Sulpizi.
Nei primi anni ’80 lavora alla ristrutturazione del presbiterio della Basilica di S.Rita a Cascia realizzando le vetrate e i seggi bronzei. Questa esperienza è il preludio all’attività degli anni ’90 anche in ambito sacro. Nel 1998 realizza il manifesto per il 25^ anniversario di Umbria Jazz.
Nel 2002 riceve il Premio Renoir e viene nominato Accademico ad honorem della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti dei Virtuosi al Pantheon.
Negli anni ’80,’90 e negli anni 2000 le sue partecipazioni in ambito laico non hanno subito interruzioni come attestano numerose mostre ed eventi.
Nel 2007 al Palazzo della Permanente di Milano riceve l’omaggio Armando Marrocco artecontemporanea per i 50 anni d’arte e nel 2008 a Brescia, Palazzo della Loggia.
Nel 2010 è presente con Pietra e Messaggio alla Biennale d’Architettura di Venezia.
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Armando Marrocco Luogo del ritrovo
a cura di Toti Carpentieri
Edizioni Arte Due, Bollate 2014, 72 pagine, 22,5 x22,5
euro 30,00
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Torino, Spaziobianco 30 Ottobre - 24 Novembre 2014
Spaziobianco è lieto di presentare la mostra di uno dei padri nobili dell’arte contemporanea italiana. Da più di mezzo secolo Armando Marrocco crea opere originali, rigorose, poetiche, che costituiscono un unicum nel nostro panorama artistico. Marrocco ha sempre lavorato lontano dalle mode, sperimentando tecniche e materiali innovativi fin dai suoi esordi sotto la spinta di Lucio Fontana e Piero Manzoni. Ha avuto curatori illustri come, fra gli altri, Pierre Restany e Renato Barilli, ma la sua ricerca non si è mai adagiata nel corso dei decenni.
Oggi Armando Marrocco continua a produrre lavori straordinari e sorprendenti. La mostra che porta a Spaziobianco, Il luogo del ritrovo, curata da un critico anch’esso “storico” come Toti Carpentieri, è composta in prevalenza da grandi opere, alcune delle quali inedite. Esse fanno parte di uno dei filoni più significativi della sua attività artistica, quello delle “fasciature”, che inizia negli Anni Ottanta e che dura e si sviluppa ancora oggi. Sono opere nelle quali perfino un cuore solido come il marmo viene miracolosamente reso leggero dalla poesia. E’ la prima volta che Armando Marrocco porta a Torino una mostra personale di questa portata e di questa valenza artistica.
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1802/23
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Dimora, tessuto, resine, oro, su tavola, cm. 47,5 x 47,5 , 2010
Le Dimore,tele combuste che fanno riferimento all’informale degli anni ’50 periodo in cui l’artista è in contatto con i maestri dell’epoca.
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Bianco Mediterraneo - Polimaterico su legno, cm 78 x 78, 1960
Polimaterico che raccoglie tutti i colori nella tonalità del bianco, travalicando i confini e suggerendo orizzonti lontani.
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Le perle 1986-92 bronzo e marmo dimensione ambiente
Un'opera installativa degli anni Settanta, dove la matericita' perfetta dei materiali sono infranti dalla gestualità. Infatti nella sperimentazione di natura antropologica dell'artista, la traccia della mano e e della sua forza diviene, la prova stessa della creazione.
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