Distopia: dalle osterie delle Lambrette e delle bestemmie mammarie al Covid, dalla grammatica della fantasia alle sfide a freccette e ai giochi della bottiglia. Un rapporto Kinsey esplicito basato su un io plurale.
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Il piacione viaggiatore
Sfarfalla il piacione viaggiatore, quando giunge al paesello è tutto un fermento di vulvine, vulvette e vulvone. Tra le ragazzine allegre e tra le signore borghesi, leggero e leggiadro nel suo muovere il cazzo.
Frulla nelle passere agrodolci a ravanar carne e raccoglier succo, si gusta con frivolezza i differenti sapori delle pelli, ne constata consistenza e trama, ne trova i pregi e li decanta, deformazione dell'arte del vendere e del suo conoscere le stoffe.
Fremono mentre lui accarezza, mentre prende le misure del mugolare e mette in ordine il montare della brama prima e del piacere poi. Maniaco nel suo campionario, nel catalogo dei sensi.
Ammalia e tesse la voglia, come quando con le mani accarezza il velluto per mostrarlo alla merciaia, alla sartina, alla signora, giù alla boutique. In quel suo spazio, in quel regno che sa della polvere dei tessuti, in quel mondo ovattato dai rotoli morbidi, vive i suoi scampoli di sesso e taffetà.
Puttane, sante, vergini rotte in culo, le prende, ne prende, le vuole di carne, le sente, una via l'altra, insieme, esposte davanti a lui, bramose che colano, da fottere, da soddisfare e mischiare, negli schizzi dello sbattere dentro e contro lei, lui, loro. Si piegano, mentre soddisfatto si ammoscia, a raccogliere quel che resta, quel che ha dato.
C'è sempre però quel seme di tristezza nei suoi occhi, dopo l'orgasmo così, dopo la piacioneria sapiente e l'ostentata sicurezza. È la consapevolezza di volere essere se stesso, fuori da un ruolo, senza viaggiare, in una casa che sia pace, amato così. Ma mai concede quel momento, a nessuno esso stesso compreso, prigioniero della sua arte di vendere chiffon e sé stesso.
Magari un giorno diventerà piccione, e allora sarà felice.
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Terapia d'unto
"Signora mia, divarichi bene, è necessaria una terapia d'urto vista la mancanza di cura adeguata".
Iniezione carnale nel gonfiore di voglia, di labbra grasse di brama di cazzo. Senza mezze misure, nei termini, nei mezzi e nei modi.
Solo delicatezza d'inizio, tesa al raggiungimento dell'elasticità dei tessuti, poi colpi, come cure d'isteria d'un tempo, ma calde, di minchia, di verga, di corpo e di pelle.
Pesa il medico condotto, nel pieno esercizio della sua funzione disinibitoria, compare dei mariti consenzienti e delle mogli inappagate, categorie che abbondano in ogni luogo e in ogni tempo, all'ombra dell'illecito desiderio e dell'immorale pensiero di condotta.
Pesa sopra di loro, ostenta quel peso dei tessuti cavernosi e usa la sostanza della sua struttura per raggiungere le profondità sessuali nonostante la dotazione tozza. Dentro infilato a forza con adeguata disposizione dei corpi, perchè lei s'appaghi di quel toccare e di quel dilatare.
Indicazioni precise, ma anche cura, nel rispetto di Ippocrate e della sua morbosa carnalità clinica. Morboso, ecco sì, nei dettagli, nell'osservare, nell'aprire per guardare meglio la natura delle forme e concretizzarne il fremere.
A lungo, quanto basta a placare la brama dell'attesa di quella visita, dal medico condotto, che ora sente il pompare alla base, sente il fluire dalla prostata a raccogliere il contenuto scrotale da eiaculare nel ventre.
Anche piscio, poi, a lavare con l'immondo il sozzo seme che già inizia ad appiccicarsi all'epitelio sfatto dell'apertura, quasi tumida, bella da vedere solo per l'uomo porco che ora è, ma sbircia anche la paziente consapevole e complice e sorride per quello che hanno.
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Sensi di polpa
Il modo in cui rigira la carne trita tra le mani per impastare mortadella e manzo, come aveva imparato dai suoi trascorsi bolognesi, macinata grossa, consistente, ma morbida, da cuocere, da ungere, da leccarsi i baffi, da volersela mettere in bocca così.
Quel modo eccitava palesemente la dolce astante, lui l'aspetta e lei sbircia con pudore, ogni volta, i gesti preparatori, le mani che si muovono.
Vede la carne mischiarsi, sente la carne mischiarsi, sente l'odore, e sente colare. Lo sa come è lui, le assaggia ogni volta addosso quelle mani, nella sua di carne. Perchè è così che finisce, lo sanno entrambi, mentre l'uomo fa e la guarda.
Ha qualche anno in più di lei, quanto basta per lasciare che lei si ecciti anche dei suoi tratti grigi, di quei luoghi che lui conosce e che possono esplorare insieme, nuovi ancora, anche per lui.
E lui la vede quella voglia, quella brama fatta anche di "no" e "basta", che poi sono i suoi sì, sono i suoi continuare a rovistare nella carne fino a che lei, sa come fermarlo, sempre al sicuro, sempre sicura.
E allora ancora dentro quelle mani, come fossero addosso, sono addosso ora in effetti, la sporca del suo essere, del suo lavoro, la rende presente e scaldano l'odore freddo della macelleria.
Lo scaldano con i respiri, suda lui, addosso, a irrorarle la pelle già lucida, ad asciugarsi la faccia prima di baciarla, per lasciarle intatto il visino dolce, che poi sfregerà di seme.
La macella, con un coltello di carne, la apre, come si fa, la dilata, la penetra, in fondo con ritmo e dovizia. Istinto e basta, maiale, manzo, bufalo, spinge.
La rigira, per goderne i pezzi pregiati, seziona e prende, sceglie, dispone e lei intanto si prende il suo trattamento, le conseguenze e gode, rumorosa, per niente sommessa, vitella che scopre il calore, ancora. E lui monta.
Ma sono i baci, le carezze, il massaggio, i contorni, a dare il sapore, ad aumentare il colare dei corpi, a dare forza, spinta, ancora, forte, dai, baciami cazzo, tira fuori la lingua, così.
Sul viso cola, perchè lì andava sporcata, perchè questo prevede il disciplinare istintivo del macello odierno. Pulisce con cura le tracce nei punti più esposti, per non bruciare negli occhi, ma lascia i segni da rimirare e leccare appena, perchè senta tirare la pelle e senta anche l'odore nei momenti a venire.
Esce con il suo pacchetto, per fare un ragù che sa della sua stessa carne, condita di altra carne. Come manzo e mortadella, secondo tradizione, a dar gusto anche nel nostro borgo lungo il Ticino. Di eccitazione e conforto, in pace, con tutti i sensi di polpa del caso.
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Buona da baciare
Ogni volta che entra, ogni volta che si apre la porta sul suo visino, ogni volta sorride. Varcata la soglia della Panetteria Corbelli, lei è lì, ma ancora prima il suo profumo, di pane e forno.
È lì, lei e il suo sorriso e lui sorride. Insieme.
C'è prima lo sportello per andare dietro il banco, solo quando non ci sono altri clienti, e baciarla sulla bocca. Anzi, baciarla in bocca. Perchè a lui piace baciarle l'interno della bocca. Perchè lei è buona da baciare.
Poi la porticina che dà sul laboratorio, che a quell'ora del giorno ha l'aroma che ricorda l'infornata notturna, ma riposa. Allora le mani, che la sporcano della farina e quella brama che contrasta con il desiderio di calma di lei. Un po' di lotta, di giochi delle parti, di "fai piano" e di "ma ti voglio", "ti voglio anch'io", "piano e ancora", "ora", "spingo", "forte", "amore", "piano", "ancora", "così", "oddio", "amore", "sì"...
Buona, sempre, la pelle. Buona di pane che piano diventa focaccia, salamoia, salata, unta, bella, riluce. Impasta, nella carne e nella farina, si amalgamano, lievito madre dei sessi, e poi condire la voglia, riempirla, lavorarla ancora.
Guardati, ti guardo. Sei buona da baciare. Sorridi ancora mentre ti assaggio.
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La perversione pura dei puri
Ha una purezza eterea, ben definita e delineata, nei tratti dei fianchi, nel modo dolce di muoversi, nell'emozione degli occhi.
Tu non la vedi passare, mai. Tu la devi guardare, deliberatamente, decidere di farlo, indagare con il desiderio per scoprire una natura che sta oltre l'isola che non c'è. Devi farlo con forza e discrezione, altrimenti lei sfugge, nel suo pudore, vestita di una paura che adombra la voglia.
Quella natura abita esclusivamente tra le sue pareti, sue proprie, nelle quali racchiude quello che non si concede fuori, quello che magari pensa pure di non meritare.
Ma poi c'è quella stanza, che ha una carta da parati colorata d'amore. Non è nemmeno un luogo, può essere ovunque, quando è con lui se la tappezzano in un giardino, in un museo, al tavolo di un ristorante. Dove gli va.
Li vedi, che la va a prendere e poi se ne vanno di là, ovunque. È se stessa al sicuro, come nella sua camera, come nei suoi desideri specchi delle sue brame.
Forse tutto questo le ricorda i morbidi tappeti e le stanze colorate di ogni infanzia, dei giochi, dei sorrisi. E sorride allo stesso modo, anche nelle perversioni, perchè si concede anche lì, il dono della purezza.
Emozionati, nelle fauci delle loro voglie che escono da un vaso di Pandora a forma ora di figa ora di buco del culo ora spruzzate da un cazzo sfacciatamente animale nella forma e nell'espressione.
Deformi i sessi, nelle perversioni gonfie, quando dilagano. Fottono candidi, puri, negli insulti, nelle umiliazioni, nei fluidi che colano nella carta da parati e impregnano, mischiano, avvolgono amore e sesso.
Ogni abitante di Sborrate vorrebbe entrare in quel negozio, nella Tappezzeria Contardi e portarsi a un rotolo avvolto di quella carta da parati, coprirci le pareti, farne alcova e fotterci dentro, orgia, odori, insieme e riportarla, per aggiungerne altri, in un voyeurismo olfattivo e gustativo.
Dilaga, ancora, la sua voglia di fottere avvolta, senza macchiare mai quella purezza, ma corrompendo le viscere di tracce organiche diffuse, multiple, palpabili. E lui con lei. Ancora. Dentro, nei pensieri che si rovesciano addosso, incontenibili.
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BB
Modernismo anale
All'angolo di via della Madonna dei Campi, con doppia vetrina con una zuppa tecnologica. Uno di quei negozi che sta all'homo maschio quanto la butìc fransés sta all'homo femmina.
Eppure si intrufolano le donne curiose, perchè si dice che il tecnosofo che la gestisce, abbia una certa abilità.
Si dice ch'egli sappia che l'amore greco non sia solo omoerotico. Si dice che il sesso dietro non sia solo affare da maschifemmine. Si dice che la beltà del cazzo in culo sia libertà per tutti.
È così che se le prende, tutte, non schifando la cosina bagnata, ma usandola, strumentale alla preparazione del piacere, del terreno viscoso, della distrazione piacevole per i primi strappi dilatatori, ma anche come diversivo stimolante di una doppia penetrazione asincrona, al singolare, alternata.
Pare ovvio, quando a parole tutti lo prendono in culo nel mondo d'oggi, e non è il caso dell'elogio anale, ma solo della considerazione della beltà di rendere il culo figa, per il gusto anche di sporcarsene se capita, se serve, che in fondo è il gusto umano del fare le cose sbagliate, che il cazzo manco andrebbe in bocca.
E allora dentro, con calma, con cura, con voglia, a pasticciare in culo fino al diletto perverso del farsi poi colare sul viso ciò che le ha schizzato nelle viscere, mentre guarda stillare il buco giusto e magari ci infilza due dita, per spremere e sentire godere.
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Piscio e ragù
C'è una perversione che disegna confini indefiniti nei sapori, o forse è essa stessa a renderli indefiniti.
Il confine tra il disgusto e il gusto, tra il profumo e l'odore, forse persino tra il bene e il male, sano e insano.
C'è il gusto delle cosce, carne e piscio, lo ritrovi nella cucina del quinto quarto, quella della moglie porca carnosa del macellaio magro stinco e stinco di santo.
Cucina così, gaudente sorriso, con la voglia umida addosso e nel tegame, unge di burro, impasta, massaggia, sensibile all'erotismo del gesto.
Sesso e cucina, sesso in cucina, la palpano spesso gli astanti, ne godono le grazie sempre bagnate, quel suo costante odore sessuale di piscio e ragù, tra le cosce e le labbra.
È la cucina di una campagna perduta quella di Sborrate sul Ticino, la cucina insalubre che fa crepare felici, che stringe le vene e gonfia il cazzo, la cucina che quando la annusi ti viene solo voglia di ciucciarla mentre la vedi sul tavolo. Che ti ficchi in bocca roba morbida, mentre le cacci il duro nel deretano, come ripieno nel pollame.
E la baciano, oddio come la baciano, cercando quella lingua essa stesso quinto quarto, scarto di lusso, fibroso, muscolare, attivo, da assaggiare di sesso e d'amore. Porcizia elegante.
Cucina di paese, cucina di tutti, popolare e puttana, popolana.
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Abbondanza e fame
È la sua abbondanza a scoparsi la fame. A saziarne l'asprezza dura.
Basta guardarli, lo vedi, lo capisci come lei nutre la sua l'erezione con i succhi e come la placa avvolgendola di carne, frattaglie morbide e bagnate, tante, oltre, da riempirgli anche la bocca e sovrabbondargli la necessità.
Le annusa appena entra, appena la vede, appena lei gli mostra con un pudore emotivo che da solo basta ad aizzargli il cazzo.
Una malizia che lui vuole quasi immatura, perchè gli piace così, come quelle tettine acerbe. Una malizia che in realtà mal cela una consapevolezza delle erezioni provocate dal suo essere femmina deliziosa.
A lui piace premere proprio lì ogni volta che entra in quella cucina, ogni volta che sente nell'aria il sapore sapido del sugo, ogni volta che prende a piena mano tra le gambe sapendo cosa trova, sapendo che lì in mezzo placheranno la voglia che ribolle.
Pulito vergine e lurido, litania dei contrasti, il delicato bucato santo del monte di venere glabro e il salato glutammato di piscio e vagina delle labbra gonfie sessuali.
Cucina, salsa e figa, cuoce lenta la voglia che monta nei giorni d'attesa, cresce la fame del digiuno, che diventa gusto al solo odore, mentre si mostra alla finestra, vicina e lontana, lì, domani.
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Comare morbosa
Se ne sta in silenzio, nel voyeur emotiva, scava nei pensieri che ascolta per caso, avida e sadica.
Gode come il perverso geloso cornuto dell'angolo, gode di quel suo sapere che le va tra le gambe.
La comare morbosa è insospettabile, anche nello sguardo, sacrosanto e puro, eppure va lì, va lì dove si nasconde l'antro malizioso delle sessualità altrui.
Gira e indugia, nell'ascolto e nelle domande, dritta al punto, assetata preme e strizza i pensieri, per spremerne fuori i dettagli.
La vena sul cazzo, grosso era, dentro, ma sporco, schizza lungo, a spruzzo, ho macchiato, scappata la pipì, un goccio, puzzicchia, stava sotto e subiva, in culo le dita, a lui, frocetto, intanto io, è entrato anche lui nel letto, più grosso, ancora, schizzato io, orgasmo, dildo, confronto, rideva, ho ceduto.
Godeva, ci si masturbava, nel sadico che diventa masochista, su di sé, comare, senza sesso, solo sesso.
Se ne sta all'angolo, su una panchina, placida, così in subbuglio. Ascolta le parole delle quali godrà.
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Pan'unto
Pan'unto dove il pizzo s'intride, pranzo erotico, d'oste baffuto.
Si accascia tra le cosce, con la faccia dentro, a condire e conciare di saliva, laddove già cola.
Abbonda, come con il burro nel risotto, abbonda la cucina d'osteria, tra le gambe.
Il fuoco è vivo, ribolle l'interiora sessuale, ribolle il quinto quarto di piacere, ribolle viscida, scivolosa, mentre si insinua a mescolare.
Mestoli carnosi, di lingua, di dita, di cazzo. Dentro. Rimesta.
Il pizzo lo infila nella sua bocca, dopo averlo consumato d'olfatto. Sporco. Macchiato.
Prende il pane, lo passa, lo preme, lo infila, schifoso maniaco in viso, gustoso, la guarda e ne prende.
La mangia, cannibale, spalmata sul pane.
Serve come il pane sentirsi sfregare il pizzo sulla pelle.
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Bambolina umida
C'è una bambola nell'angolo della vetrina della merceria, un negozio che sa di stoffa nuova, di mutande di cotone, di scampoli maltagliati, di color carne.
È un negozio femminile, da comari e sposine eccitate che cercano il pizzo, nel retrobottega le calze velate, la malizia, l'erotico ammiccare alla merciaia.
C'è quel venditore, che arriva dalla città, già sorride quando vede il ponte, quando sente l'umido del canale, quando parcheggia e vede la bambolina, lì.
Entra, la guarda, lo sa, aspetta che le ragazzette escano con il raso nella borsa e l'erezione nei pensieri. Ne gode la vista, l'emozione, se ne riempie.
Restano soli e la prima cosa che fa è prenderla per la vita, dedicarle il suo sorriso, e farla ballare. Con calma, con il sole, con la voglia, con l'amore morbido.
"Sei la mia bambolina", fa piano, la guida, la cinge, la stringe, la accarezza, la bacia, la palpa, la spoglia, e le sorride, e la bacia, e la porta dietro, e condensa la malizia conservata nelle scatole dei négligé, la bacia, la bacia, "umida, ora". Sorride, mentre lo dice.
Si stacca solo per turbarsi nella sua bellezza, nel suo pudico timore, nei suoi occhi innamorati. Commozione ed eccitazione, insieme, mentre ne penetra il sesso, senza perderne lo sguardo, senza attendere l'invito, con la calma concessa dal desiderio.
Sorridono, della bambola, del giocare adulto che hanno e del godere maturo che li ricopre.
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Sussurro, sussulti
Il Giannetti è il sarto del paese, cuce, cuce la festa e rammenda il quotidiano. Le cuce al ritmo della macchina da cucire.
[Io lo conosco quel ritmo, mi ricordo il muover di gambe di mia nonna, quel far andare i piedi, a volte uno a volte due, scalza anche. Inciso il ricordo, inopportuno, ma frutto del flusso dello scrivere. Punto.]
Ha un'abilità tutta sua nell'unire le stoffe, le più diverse, a volte seta, a volte tela sdrucita. Lui ti guarda e te lo cuce addosso.
Ora lei è lì. E lui imbastisce anche con le parole. È bravo cazzo. La veste. La guarda. Dolce. Delicato. Bambagia lavorata a percalle. Accarezza. Misura. Non c'è un filo di malizia. E sussurra, vicino, mentre la spoglia con leggerezza, come fosse ancora cartamodello.
Non servono altri mezzi con lei. Sa. E vuole. E sapere e volere è tutto quello che serve. La ricopre, di sé. La veste, di sé, mentre è nuda, a protezione del pudore. Continuando a guardarla, a vederla bella, a cucirle addosso i desideri.
Sussurra lui, sussulta lei, dietro lui, le mani, i pensieri, l'impuro dire, l'assenso per addentrarsi nelle fantasie, nel corpo, nella carne e intanto continuare a rimboccarsi la pelle addosso, a scaldarla di sé.
Forte ora, forte come quando le dice "dai", come quando usa l'erezione, veloce, come quando cuce, dentro, come quando attende il "basta" per appuntarle il senso d'abuso che l'allarga e che gli cola addosso, per rimanere odore. In fondo. Mentre ancora le parla, anche dopo. Sempre.
È lei che immagina, ogni volta che pensa ad un vestito bello di primavera.
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Rimboccare la notte
È un'abitudine, un vizio, quello di accoccolarsi in una spalla che ha preso la sua forma.
È come l'anima la spalla, come il cuore, come quello spazio che tu vuoi si faccia per una sola persona. Quello spazio privato, quello spazio che non lasci nemmeno a te stesso.
Quello stare sulla nuvoletta coi piedi a penzoloni, che ti concedi nella felicità, ma che ancora più concedi -alla- felicità. In due allora. E hai ragione, è zucchero filato, rosa al mattino, scuro alla sera, e lo si nutre di dolcezza, se lo vuoi proprio mangiare, altrimenti si cade giù. In due.
Sentili: "Dolce allora, fata rizzacazzo, dolce ho detto, anche dolce, come dici tu, come facciamo, come siamo noi".
Se ne stanno su, a dondolar le gambette a cosce aperte, fino a sera, a rientrare che la mamma vita chiama urlando, teneramente e sguaiatamente, alla finestra.
E allora si ritrovano poi, il commesso viaggiatore e la funzionaria, a rimboccarsi piano la notte, a guardarsi e a salutarsi mille volte prima di dormire, a darsi una mano e a dirsi "a dopo" senza staccarsi fino a quando gli occhi si chiudono e si mette un punto, infinitamente lì. Di là.
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Felicità
È tenersi per mano, anche nei giorni lontani, nei giorni tristi, nei giorni belli, nei giorni che hanno il sapore dolce delle fragole, nei giorni acerbi mentre ti innamori, nei giorni colorati d'estate, nei giorni cupi del temporale, nei giorni, tutti.
Che quando si tengono per mano per le prime volte due persone belle le guardi e le vedi, lo capisci subito, perchè tenersi in mano da grandi è come imparare a camminare, perchè non bisogna pensare, perchè si va di istinto e allora la senti l'armonia, la sincronia, l'intesa, l'intimità del passo. Che è come baciarsi, o c'è o non c'è.
E se si cammina insieme, si può parlar di tutto, felici sempre perchè si cammina in due. Perchè amare è sempre e solo plurale, pari, minore di tre. Combinazione difficile, che mi chiedo sempre perchè perder così tanto tempo con l'alchimia dell'oro e poco con quella dell'amore.
Felicità è assolutamente tenersi per mano, da subito.
Va' come vanno quei due lungo il greto, giù nel parco sotto gli olmi, per le vie, di là. Va' che son belli quando si tengon per mano, che non fan nemmeno rumore, per rispetto e per cura, si senton solo i baci, mentre le mani sono ancora lì.
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Io non so come mai, ma il 4 di gennaio da un po’ di tempo succede sempre qualcosa di bello.
Un ricordo indelebile, una nascita, una promessa che coincidono in un rinnovato amore ed una evidente felicità.
Così sta scritto.
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La voglia porca di Porco e Porcella
In campagna anche le parole hanno un colore più fangoso.
In campagna non ci sono i maiali, in campagna ci sono i porci.
I porci e le porcelle, sono quelli che se ne vanno in riva al fiume con il chiaro intento di infilarsi le mani sotto, di scodellare fuori le minchie dal cotone e di sbatacchiarle tra le cosce pronte.
Così, contro una roverella o meglio ancora dentro alle fronde del salice vicino al ponte. Nemmeno hanno la decenza di nascondersi troppo, perchè tanto sono solo loro e la loro foia.
Frugano, pastrugnano, impastano, dentro, strizzano i tessuti spugnosi, si riempiono di liquido, colano, ingoiano, mordono, baciano, lingue, succhiano, ancora, dentro, dita, dentro, sesso, porco, porcella, sì.
Se lo tengono addosso mentre tornano, vogliono un'alcova, sbirciano le altre coppie, spalle nude, baci, palpano anche loro, ne vogliono, si mischiano con lo sguardo, si cercano, a volte si vogliono nella fantasia, le usano, anche dopo, rivangano nella memoria sessuale.
Si ferma lui, si fa reggere il cazzo mentre piscia, rendendo sessuali anche le deiezioni, lei regge, sente l'urina passare vibrando nel sesso, vorrebbe tappargli il buco, farglielo gonfiare, infilarselo così, pieno, svuotarlo anche di quello.
Se ne vanno allegri ed eccitati, a consumare la voglia porca.
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Riempire l'inverno
È un inverno caldo, come fosse al mare, nella pianura che non trova nemmeno la forza di essere umida. Nel riposo dei campi che attendono il freddo placido.
L'inverno oggi è come fosse solo la primavera che dorme.
Ma l'inverno è il sesso lento sotto le coperte, il sesso di necessità, il sesso che scalda dentro un freddo che seppur non c'è, si sente. Il freddo che è bisogno nell'istinto delle pelli nude.
"Vieni vicina", le sussurra, "che riempiamo l'inverno". E intanto la penetra, duro e caldo, mentre la adagia, la dispone, ne dispone.
Perchè è cosi che fa Marcello, mentre le piega le gambe indietro e le guarda il sesso schiudersi, quasi prolassato nelle carni per il desiderio. Pregusta, le sbircia nell'umore viscido, prima di farla cagna, tenendoselo in mano, guardone di loro stessi.
Scopano, forma sublime d'amore, insulti e baci, fluidi, mischiati, basta e ancora, avvinghiati, caldi, si riempiono di sesso e di tutto il resto che li scalda nel cigolare ritmico del giaciglio.
L'inverno è fatto per rendere il sesso ancora più necessità. E si guardano, consapevoli dell'odore di cui si stanno riempiendo, mentre ancora non fa freddo attendono pazienti e sfiniti.
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L'inverno e il suo vento
Oggi è arrivato il vento dell'inverno, quello che secca l'aria dell'aia, quello che le galline stanno strette, quello che ci si deve scaldare anche con la pelle nei letti.
È il tempo dei fortini fatti di lenzuola e coperte, del rinfocolarsi per amore e per necessità. Quasi i sessi fossero acciarini cui legare la sopravvivenza.
Ci si scalda per sfregamento, per frizione, per il collimare delle carni nelle carni, mentre fuori il vento asciuga la rugiada per farne brina. Lo senti sulle persiane, nelle pergole nei giardini che piangono l'abbandono della stagione.
Bello quel piccolo spazio lungo il Naviglio, con l'erba incolta piegata dal freddo. Quasi da farne un giardino d'inverno con un gazebo di cristallo, dove farci l'amore e il sesso, dove prendere i raggi di sole per illuminare quel che accade, rendere gloria alla vanagloria della vanità dei corpi.
Affonda e scalda nel tepore del corpo, il vecchio, il padre, il giovane, la sarta, la comare, la bibliotecaria. Imposizione viziosa, dell'inverno e del suo vento.
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