lorenzoconigli
Lorenzo Conigli
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lorenzoconigli · 10 years ago
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Sedute Solitarie - Seduta 4
Allora come sta?
...
Non si è fatto vedere per un pezzo.
...
Potrei dirle quasi iniziavo a preoccuparmi se non fosse per un senso di verbalitá professionale che non mi permetterebbe di dirglielo né tantomeno di esprimerlo.
...
Non deve parlare per forza lo sa. Ma se non mi aiuta mi riesce difficile aiutarla.
...
...
Sa, una volta ho visto in un film di Woody Allen dove un paziente chiedeva al suo analista di infilargli un tacco spillo in bocca.
Vuole che le infili il mio tacco a spillo in bocca?
L’attrice era Demi Moore.
Non sarò attraente abbastanza, ma un tacco a spillo per quanto ne so di per sé ha poca attraenza, escludendo ovviamente quelli che ho sono stata costretta a comprare lo scorso fine settimana. Di un altezza vertiginosa con tre lacci sul collo del piede e dita di fuori.
Costretta? Sa, oggi quello che dice non ha poi un granché senso.
La ringrazio.
Mi sembra quasi contenta.
Perché non dovrei?
Rigiri la padella. E lo richieda.
Chiedo scusa?
Voglio dire rigiri la domanda. Perché dovrebbe essere felice.
Sa, nella filosofia tibetana di Sylvia Plath tutti dobbiamo alla fine dobbiamo morire ma...
É una citazone di Fight Club dottoressa.
Lo so. So che le piace. Per quello lo citavo.
Sylvia Plath ha lasciato i bambini a letto, ha preparato loro la colazione e s’è infilata la testa nel forno per quello che ne so io. E non credo che stesse controllando nessuna resistenza difettosa, perché e quei tempi i forni domestici dovevano essere a gas e soprattutto perché c’é rimasta con la testa nel forno.
...
..
Ho visto che ha cambiato ancora. Ho visto che è a Bangkok adesso.
Come fa a saperlo?
É una domanda retorica?
Potrebbe esserlo.
Esserla.
Esserlo. E comunque lo è.
Le piace?
Se le dico ora cosa penso di Bangkok cosa scrivo nel prossimo articolo?
Non lo so. Cosa scriverà nel prossimo articolo.
Che sto pensando di trasferirmici.
E pensa che possa interessare alla gente dove lei pensa di trasferirsi.
Scrivo perché mi piace scrivere. Non sono uno scrittore. Sono solo uno cui piace scrivere. Per il solo e semplice desiderio di infilare parole l’una dietro l’altra, incastrandosi come lego. Che poi il lego piaccia o meno, m’importa poco.
I suoi romanzi, come vanno? Li scrive ancora?
No purtroppo. Sono li a marcire.
Mi piaceva l’ultimo. Dovrebbe terminarlo.
Quale?
Quello della chiamata per avere delle protesi. Dell’albergo. Quello insomma.
E lei coma fa a saperlo?
Vuole continuare a chiedermelo pur sapendo la risposta?
Ho l’impressione che questa seduta sia ben poco professionale sa dottoressa.
Le dispiace?
No. Direi di no.
Pensavo solo ne avesse bisogno.
...
...
Si infatti lo credo anche io.
Le dispiace se ora stiamo un po’ in silenzio?
Prego.
(29 minuti dopo)
Il nostro tempo é scaduto. Ci vediamo la settimana prossima.
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lorenzoconigli · 10 years ago
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Sydney ed il triste Natale di Martin Place
Il 15 Dicembre scorso, nel bel mezzo di un assolato shopping natalizio, tra i viali pedonali e le corsie con guida rigorosamente a sinistra, le stesse vie poco lontane da Circular Quay dove attraccano gigantesche navi da crociera e viaggiatori scendono dalle scalette instabili con sfavillanti occhiali da sole e cappelli e ombrellini asiatici per ripararsi dal sole, dove l’Harbour Bridge unisce due lati della città di Sidney, osservando tra silenzio e acciaio il Teatro dell’Opera e le sue punte smussate, e con i flash delle fotocamere di tutto il mondo che lo ritraggono, tra le code delle gelaterie, che poi un gelato tanto buono non fanno, tra i Babbi Natale in bikini visti i trenta gradi all’ombra, e le decorazioni natalizie, tra gli artistici alberi natalizi, come solo dalle parti di Sydney riescono ad esserlo, sarà che per il resto del mondo qui sono di capo sotto, sarà che la lontananza dall’Europa li porta a fare della Free Art sempre a modo loro, tra le borse d’acquisti di Natale, tra un vestito scontato in vetrina, ed una scatola di cioccolatini in rialzo, perché delle feste i commercianti cercano di fare più soldi che si può, e che aumenti un po’ il prezzo poco importa, tanto uno se deve farlo un regalo lo compra comunque, tra canottiere sudate e ciabatte mezze consumate, tra il traffico della città, le palme per strada, l’asfalto rovente, le grida di qualche bambino, ed un frullato di idiomi e accenti che si è fortunati a capirci qualcosa, il 15 Dicembre scorso un uomo entra in una cioccolateria Lindt nel centro di Sydney, entra con una borsa ed un arma in mano, chiude la porta, e lì ci rimane per diciassette ore. Uno pensa che l’uomo abbia da fare chissà quale shopping natalizio per una formidabile famiglia numerosa, ma quello no, si chiude lì dentro e sequestra la ventina di persone che aveva trovato all’interno.
La notizia si diffonde come un gelato cioccolato e fragola che si scioglie sull’asfalto. Vengono chiuse tutte le banche ed i negozi intorno alla zona di Martin Place, dove si trova la zona del sequestro. Vengono fatti evacuare edifici, bloccato il traffico di treni ed autobus. Svuotate le scuole, svuotate gli uffici perché mamme e papà possano correre a prendere i propri bambini e tornarsene a casa. Gli edifici in tutta la città si vuotano per metà perché la città è in subbuglio, ed uno non sa per quanto durerà né se riuscirà a prendere un treno per tornare a casa. Gira un’email per tutte le caselle di posta degli impiegati della città, con manager e capi che consigliano di lasciare gli uffici se necessario, assicurandosi che amici e parenti siano al sicuro. In tutti i televisori della città c’é la diretta con le telecamere fisse davanti alla cioccolateria. E quello dentro che spiaccica una bandiera nera con qualche scritta incomprensibile sulla finestra del negozio. Ci sono due ostaggi che la mantengono. In bella vista. Si vedono appena i loro volti. Ma non si vedono i cuori che scoppiano nel petto, perché mentre loro tengono la bandiera quello da dietro tiene un fucile puntato.
Si diffonde la voce di una bomba nel negozio, si pensa ci siano altre bombe sparse per la città. Ogni sorta di notizie é potenziale e possibile e non improbabile. Ma polizia e giornalisti non dicono poi un granché di quello che succede all’interno, perché non sai mai, che quello si stia guardando il notiziario dalla cioccolateria sul suo smartphone di nuova generazione e prenda iniziativa. Mentre il telegiornale speciale passa le notizie, i social si riempiono di selfie a tema, con video e foto di ragazzi che se la spassano ad immortalarsi davanti al luogo del sequestro, condividendo il momento, tra adrenalina ed entusiasmo, che non si sa se una bomba scoppia da un momento all’altro e quelli lì a postare su Twitter, Facebook ed Instagram, tanto che il capo della polizia quando se ne accorge gli parte l’embolo e sguinzaglia un esercito di cani ammaestrati sbavosi che i ragazzi se la danno a gambe con tutti gli smartphone.
Alle due di notte, senza sapere se quello sta facendo una pennichella o stia ancora lì col fucile spianato, le forze speciali irrompono nel negozio. Si vedono i flash nelle vetrate della cioccolateria, uno per ogni sparo, e urla, e fumo, e i poliziotti di fronte all’entrata che sembra la sagra di paese e le lattine e bottigliette sugli scaffali che uno cerca di prenderne più che può per portarsi a casa l’orsacchiotto più grande, ma in questi spari non c’è né festa né divertimento. Mentre la telecamera riprende l’assalto delle forze speciali al negozio, una ragazza si affaccia all’obiettivo in primo piano ed accenna un saluto entusiasta, e sullo sfondo un uomo in giacca e cravatta si sporge dalla strada per vedere quello che sta succedendo. L’uomo non avrà tanto da guardare, perché tutto si consumerà in meno di trenta secondi.
Le breaking news del mattino parlano di un bilancio di tre morti, uno dei quali é l’attentatore, e mentre la giornalista Natalie Barr di Channel 7 legge i nomi delle altre due vittime, scoprendo in diretta di conoscerne una, madre di tre figli, scoppia in lacrime commuovendo una nazione intera, mentre il suo collega di scrivania, davanti alla telecamera, tra sconcerto e compassione va anche lui nel pallone.
A partire dal giorno dopo la tragedia, tutta la zona di Martin Place é diventata un luogo di commemorazione a cielo aperto. Pare di essere in qualche campo fiorito alle porte di Rotterdam, ed invece siamo al centro di Sydney, tra grattacieli e asfalto, dove la gente, fin dal giorno successivo alla tragedia, continua ad arrivare, ed aspettare in coda per depositare nell’immenso viale pedonale che attraversa il centro, un mazzo di fiori, e lettere, e ricordi, e pensieri, e scrivere frasi con gessetti colorati, frasi di cordoglio, ed affetto e tristezza sulle mattonelle che circondano la zona, che nessuno più ci cammina su, e tutti passeggiano di fianco al muro ormai, lasciando indenne e immacolato quell’immenso libro scritto per terra all’aria aperta, che forse un giorno la pioggia spazzerà via lasciando solo il ricordo, ma siamo a Sydney nel bel mezzo dell’estate e qui non pioverà almeno per un bel pezzo, quindi va bene così, perché a Sydney il natale arriva d’estate, lo sanno i turisti e lo sanno quelli in coda adesso a Martin Place con i fiori in mano da depositare, dimenticandosi dell’assolato shopping natalizio, degli sconti in vetrina, degli alberi, delle decorazioni e delle navi da crociera che attraccano a Circular Quay, sempre lì dove l’Harbour Bridge ed il Teatro dell’Opera restano a guardare. Ancora.
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lorenzoconigli · 10 years ago
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L'uomo sul treno
“Il treno correva lungo i binari, circondato da prati desolati riempiendo l’aria di sbuffi di fumo regolari. Il rumore assordante ad ogni fumata correva per le lunghe distese di terreno piantate di niente. Erba. Erba ed erbacce e poco altro. Il treno tirava dritto come una freccia scagliata da un arco troppo lontano per essere visto. Nascosto lì da qualche parte della collina. Il caldo torrido surriscaldava i binari roventi che sembravano fondersi sotto il raggi del sole battente. Come un rumoroso ammasso di ferraglia impazzito, il treno richiamava a sé l’attenzione della gente dei campi che d’un tratto alzava il capo ricurvo sui campi di piantagione poco lontani. Qualcuno preso dallo spavento iniziava a guardarsi attorno smarrito, quelli che ormai sapevano che il treno correva da qualche settimana rimanevano solo in ascolto di quell’oscuro e misterioso rumore proveniente da poco lontano. Al passaggio del treno nelle piantagioni più vicine decine di bambini lasciavano il loro inseguimento serrato a delle lucertole più rapide di loro, e correvano. Correvano a perdifiato rincorrendo il treno, avvicinandosi ai binari il più possibile. Cercando di inseguirlo. E le loro voci riecheggiavano per le valli desolate. “Il treno, il treno”. “Il mostro a vapore”. “La macchina di ferro”. E lo rincorrevano, si avvicinavano ai binari sempre urlando a squarciagola fin quando quel rumore assordante non copriva le loro voci. E con le mani alle orecchie per proteggersi dal rumore, rimanevano lì poco distanti dai binari con la bocca spalancata e gli occhi fuori dalle orbite. Quella era il mostro a vapore, e loro erano lì per vederlo correre via più veloce di dieci cavalli, sui binari infuocati.
Quello che era ancora strano da immaginare per i ragazzi che correvano intorno al treno era: “Che cosa diavolo fa la gente sul treno?”. La locomotiva era stata introdotta solo pochi mesi prima, e nei paesi di campagna in molti pensavano ancora che la storia del treno, di quel mostro d’acciaio fosse solo un’invenzione pittoresca, una diceria di città, perché nessuno, nessuno, si diceva, era in grado di far correre tanto ferro a più di centoventi chilometri all’ora. Era fisicamente impossibile. Così le dicerie sui treni iniziarono a espandersi, e distorcersi, e diffondersi, e diffondersi distorte. Qualcuno pensava che la gente nel treno fosse costretta a camminare di corsa per non cadere, mantenere il passo con l’incredibile accelerazione a cui quella macchina infernale sottoponeva i suoi passeggeri. Qualcuno diceva che salendo su di un treno si poteva facilmente perdere l’udito a causa degli sbalzi di pressione. Qualcun altro raccontava che a causa della velocità una donna aveva partorito direttamente sul sedile passeggero di fronte a lei. Qualcun altro ancora pensava che il treno fosse solo un’altra invenzione del diavolo, o in una versione rivisitata della teoria che fosse proprio il diavolo in persona. Ma del resto le cose non stavano proprio così.
La signorina Brigitte Duncan McCartney De George Philip Giorgina De Riccardis, da tutti conosciuta come Josephine l’attaccabrighe, sedeva al posto numero centoventisette, lato finestrino, carrozza tre. Osservava il paesaggio correre veloce, e strano a dirsi per chi saliva su di un treno inventato e lanciato per la prima volta a più di cento chilometri all’ora solo qualche mese prima, Josephine sembrava annoiata. Osservava con un broncio oblungo quello che lo spettacolo del suo finestrino offriva, senza emozione. Impassibile. Il suo cappello rotondo gigante rosa le ricopriva la testa e in parte il volto. Il suo lungo vestito, anch’esso rosa, con merletti bianchi ed una cintura che le comprimeva il petto, come si competeva ai costumi dell’epoca, la rendevano in parte goffa e impacciata seduta nella striminzita panca in legno che le era stata riservata sul treno. Josephine aveva ricevuto quel magico biglietto come dono da uno dei suoi spasimanti giù in città, dicendole che sarebbe stata un’esperienza unica e indimenticabile. Il suo spasimante, che in realtà non realizzava quanto noioso tutto fosse per la signorina Josephine, le sedeva di fianco ed era tutto uno spasmo. Gli sarebbe esploso il cuore in petto tant’era l’emozione, ed era lì a dimenarsi sulla panca, con lo sguardo che saltava da un finestrino all’altra esclamando ad alta voce ogni volta che un nuovo campo appariva all’orizzonte, o che il treno faceva una leggera curva. Ogni volta poi che il treno mandava i suoi sbuffi impazziti nell’aria torrida, lo spasimante della signorina Josephine, avvocato in carriera della città, meglio conosciuto come Markus manico-di-scopa, perché era lungo e secco che tanto ricordava una mazza da scopa, si esprimeva in un esaltato isterico risolino, facendo trasalire parte degli altri passeggeri nella carrozza. Markus non sapeva che una volta scesa dal treno la signorina Josephine si sarebbe cimentata in un lungo silenzioso sbadiglio, e dopo aver tolto la mano davanti alla sua bocca ed essersi scusatasi avrebbe accettato la sua mano. Così, giusto per noia.
Il dottor Francis Cullen era seduto al posto trentaquattro della carrozza quattro. La sua folta barba abbracciava i suoi ancor più folti baffi, lasciando intravedere solo parte delle sue sottilissime labbra. Indossava una bombetta nera pece in testa che faceva il paio con il resto del suo abbigliamento. Dei pantaloni neri consunti e delle scarponcini che pareva avessero all’incirca la sua età che ci mancava poco si aprissero in due ad ogni scarpata che prendeva. Una camicia bianca ed una cravatta lasciata cadere un po’ molle ne esaltavano la pancia rotonda di chi apprezza dei piaceri della vita così come solo chi ha imparato a conoscerla e l’ha vista andar via più di una volta riesce a fare. Il Dottor Francis Cullen era un chirurgo. Nel suo paese si narravano delle sue gesta come uno dei più esperti dottori nella zona, in grado di salvare la vita di qualche suo paziente più di una volta. Anche due pecore, tre vacche ed una gallina, il che però esula da questo racconto. Il Dottor Francis era stato contattato per curare un grave caso di appendicite dall’altro lato della regione in cui viveva. Avviarsi con un calesse avrebbe significato non riuscire ad arrivare in tempo per operare il povero ammalato. Così il Dottor Cullen approfittò di quell’invenzione diabolica per raggiungere l’altra parte della ragione in sole due ore. Quello sarebbe stato un miracolo. Salvare il paziente ed arrivare in tempo. Ma soprattutto arrivare sano e salvo. Perché il dottor Cullen aveva sentito di strane storie in cui i treni esplodevano o prendevano fuoco, e correvano via sui binari con gente che urlava terrorizzata e si scaraventava dal treno in corsa saltando e rompendosi la più parte delle volte l’osso del collo. Ma a Francis Cullen le sfide piacevano. E poter salvare una vita cercando di rischiare la sua sarebbe stato più eccitante di quella volte che aveva aiutato la vecchia signora Pollack a partorire scoprendo che ne era venuta fuori una mucca intera che muggiva come un’indemoniata.
Al posto passeggero quarantaquattro della carrozza due c’era invece un uomo. Dall’aspetto un po’ trasandato e dalla barba incolta. Una calvizie incipiente iniziava a farsi largo al centro della sua nuca lasciando intravedere parte di quella che probabilmente in qualche anno serene diventata una chiazza ben più larghi. I capelli tagliati corti e di un colore indefinito che andava dal biondo, al castano scuro al castano chiaro si confondevano all’altezza delle basette con quella che era una barba rossastra che cresceva misteriosamente senza forma. Una maglietta stropicciata con qualche buco qua e là rendeva il passeggero del posto quarantaquattro della carrozza due decisamente inappropriato. Quello che lo circondava in quel mucchio di ferro che correva a centoventi chilometri all’ora era di gente aristocratica, e ben vestita. I prezzi ancora affatto economici non permettevano alla borghesia media di prendere parte a quei primi viaggi in treno che avrebbero fatto la storia del paese. O se si vuole, anche semplicemente la storia. L’uomo era seduto immobile sulla sua panca di legno. Qualche sguardo indiscreto degli altri passeggeri pareva cadere sulla sua figura, ma quello, ignaro, pareva non curarsene. Guardava fuori dal finestrino con occhio fermo. I paesaggi correvano ad una velocità che fino ad allora nessuno avrebbe potuto nemmeno immaginare. Ma l’uomo fissava quello scorrere di immagini come una pellicola mal registrata che accelerava sui dettagli, tanto da non permettere di osservarli. Focalizzare. L’uomo non focalizzava, ma sarebbe parso forse ovvio ai più, se qualcuno vi avesse fatto più attenzione che l’uomo osservava fuori dal finestrino, preso da una inaspettata distrazione. Aveva la ginocchia strette. I suoi scarponcini consumati si toccavano appena. Schiena leggermente ricurva. L’uomo teneva stretto tra le mani qualcosa. Era un libro. O qualcosa che ricordava un libro. Se qualcuno vi avesse dato un’occhiata più da vicino avrebbe visto la copertina con un uomo barcollante ubriaco che trascinava una gigante bottiglia di whiskey. Vestito in abito scozzesi e con volto tutt’altro che sobrio, la bottiglia che era raffigurata citava “Scotch Whiskey, Single Malt. 12 years. Scotland”. La copertina inferiore del libro aveva una semplice scritta rossastra. “Keep Cal…” e un’inguacchio di macchie rosse sparse in una sfondo bianco. Le macchie avrebbero ricordato del sangue, ma l’uomo pareva avere le mani tute intere a parte qualche callo e qualche ferita. L’uomo stringeva con forza il libriccino tra le mani. Ed ogni tanto lo apriva. Rimaneva fisso su di una pagina per qualche istante. Lasciando che il paesaggio ignaro corresse via veloce fuori dalla finestra. Il libriccino conteneva delle foto. Foto in bianco e nero. Foto di una donna. Con un volto misteriosamente distorto su di un vetro. Il naso le si comprimeva contro la facciata esterna del vetro, e gli occhi venivano compressi in una smorfia esilarante. L’uomo rise. Guardo ancora la foto e poi comparve l’immagine di due sagome di spalle. Una, quella femminile con il capo riposto sulle spalle di quella maschile. Il mare sullo sfondo. Quello che nessuno si era mai chiesto ancora, del viaggiare in treno era come la velocità condizionasse le lacrime. La domanda era se uno viaggia lato finestrino con volto direzione treno, come si comportano le lacrime? Cadono giù dritte? Schizzano avanti come schegge? O van dietro come scoregge? Nessuno aveva una risposta soprattutto perché nessuno ancora si era posto la domanda. L’uomo seduto con la barba incolte, le ginocchia unite e il libriccino tra le mani, sveló silenziosamente il segreto ancor prima che qualcuno si ponesse il problema. Le lacrime su di un treno che viaggia a centoventi chilometri orari cadono oblique. Abbracciano la guancia diradandosi verso il collo. Perché le lacrime sul treno sono più nostalgiche. Cadono silenziose, perché il treno rimane comunque un luogo pubblico, ed essendo un luogo pubblico a nessuno é permesso piangere in treno. Ma l’uomo, che di certo non era un’aristocratico non lo sapeva ancora. La lacrima gli scese dall’occhio, salutando l’iride e le palpebre. Scivolò lenta perdendosi nella curva superiore della guancia. Poi tirò dritta verso il colo e lí si perse dentro la maglietta consumata e maleodorante dell’uomo. Il controllore del treno dopo essersi avvicinato lo guardò con qualcosa che sembrava un misto di stupore, disprezzo, tristezza ed una salsa all’aglio. “Biglietto prego” gli disse il controllore. Con gli occhi irrorati da un leggero strato di lacrime e la tristezza nel cuore, l’uomo prese il suo biglietto che teneva ripiegato in tasca. Lo mostro al controllore che lo guardò con attenzione. Poi guardò l’uomo. E poi guardò il biglietto. Si guardò intorno un po’ spaesato. Indosso gli occhiali che aveva nel taschino. Riguardò il biglietto. Si schiarì la voce con un colpo di tosse, e si avvicino con aria sospetta di chi confessa un segreto e sussurrò all’uomo: 
- “Signore, sono spiacente di comunicarle che lei ha il biglietto sbagliato”
- … - L’uomo lo guardo con aria un po’ spaesata.
- Questo é un treno per Bucarest. Ma a quanto pare il suo biglietto è per Budapest.
L’uomo diede un’occhiata al libriccino che teneva ancora stretto tra le mani. E poi scoppiò a ridere."
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lorenzoconigli · 10 years ago
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Sedute Solitarie - Seduta 3
La massima e più profonda dimensione dell’essere. Qualsiasi cosa voglia dire. C’é un mondo là fuori fatto di singolarità ed incertezze. Ed il sentirle tutte o la più parte di esse a volte spaventa. Non come un film horror nella sala buia di un cinema che termina dopo meno di due ore. É la costante ansia e tormento del sentire, del percepire. Cogliere ogni sottile astrazione di un atteggiamento, di uno gesto, di uno sguardo. Inflessione fonetica di una parola, una frase. Di un singolo, che già rende complessa l’interazione perché richiede una riflessiva risposta con consequenziale ragionamento delle conseguenze della stessa. E questo, se si tratta di una conversazione a due. Se la conversazione coinvolge uno o più elementi allora le interazione, e conseguentemente le analisi, aumentano in maniera fattoriale. Perché ogni elemento rimane a sé stante per espressione e interazione, ma a questo si aggiunge l’interazione con ogni singolo elemento del gruppo. Ogni singolo elemento. Al quale si somma l’interazione con il gruppo stesso. Percezione ed elaborazione di emozioni, frasi, espressioni. E come se non bastasse vi é la propria personale interazione. A volte é semplicemente troppo. A volte é giusto più del necessario. É come se il subconscio allora avesse un perché. Avesse un ragione. E motivazione d’essere. Perché da qualche parte tira fuori le risposte. Quelle giuste al momento sbagliato, o quelle sbagliate al momento giusto. Non ha importanza. Fa parte del suo compito immagino, come uno sguattero in cantina che fa il lavoro sporco che nessuno vuole fare. Perché il subconscio permette quel distaccamento e quell’alienazione dal mondo circostante, e mentre uno si permette qualche escursione al di là del contesto circostante, lui sta lì a fare il suo dovere. Perché a dirsela tutta il subconscio é a volte spesso molto più scaltro di quello che non siam noi. C’é quella storia della percentuale di cervello che utilizziamo. Che é enormemente ridotta, intorno al dieci forse dicono, rispetto a quello che il cervello realmente possa fare. Produrre. Elaborare. La vuole sapere una cosa? A me va bene il dieci. Anzi sono più contento se si riduce ad un otto o magari un sette e mezzo. Ridotto al minimo indispensabile. Indispensabile per tirare avanti. Qualsiasi cosa voglia dire tirare avanti. Perché in fondo com’é che si tira avanti. Riuscire a coprire bollette e affitto é già un passo avanti. E poi il riscaldamento, quello bisogna coprirlo anche, perché a volte in quelle sere d’inverno uno si maledice per non avere un po’ di legna da poter bruciare nel camino, che il freddo pare entrarti nelle ossa. Che poi il camino al giorno d’oggi non ce l’han poi in molti. Ma se l’utilizzo del cervello é ridotto a meno del dieci, allora si riduce forse anche la capacità percettiva, e di elaborazione, e di analisi. Perché �� forse questo il punto da dover perseguire. Ridurre al minimo la percezione e conoscenza del mondo circostante. Del contesto. Della serie infinita di eventi che inesorabilmente si susseguono. Incontrollabilmente. Perché quella del controllo é poi un’altra storia. Che se uno anche un tantino di prova finisce col farsi fregare dal controllo. Delle circostanze, degli eventi, delle persone nel peggiore dei casi, degli affetti e forse anche dei sentimenti. C’é una serie di eventi che non sono più, né forse lo son mai stati, a sé stanti. Perché c’é l’idea del contesto che li ingloba e li inghiotte. La storia dell’effetto domino di una tessera che spinge l’altra senza poterne vedere la fine e con svariate diramazione della coda stessa delle tessere che si amplia e si unisce e si ramifica. Tessere che si spingono l’un l’altra come studenti all’uscita di una scuola. E le tessere che generano una caduta, effetti. C’é quella storia del caos che, se mi permette, adoro. La storia della farfalla che sbatte le ali a Pechino e piove a New York. Una farfalla dottoressa. Sbatte le ali. A Pechino. E a New York. New York, Stati Uniti d’America, dall’altra parte del mondo. Piove. Ha un fascino tutto particolare. Sarà perché mette a paragone una roba così piccola e minuta come una farfalla con la pioggia, che con la farfalla se uno vuole c’entra poco e niente, a distanze esorbitanti come Pechino e New York. Mezzo pianeta ed una roba così piccola come una farfalla riesce a far piovere. Se la immagina?
Non la sto annoiando mica dottoressa vero?
No. Lei non mi annoia affatto.
Non lo dice giusto per quello che la pago a seduta vero?
No. Non lo dico per quello.
E non dice che non-lo-dice-per-quello per una sorta di intrinseca ed elegante composta professionalità vero?
No, affatto.
Che tra l’altro non so perché ma penso che se qualcuno ascoltasse le nostre sedute o anche solo le leggesse morrebbe di noia.
Morrebbe?
Si morrebbe. É un po’ una forma arcaica di morirebbe solo che in pochi la usano.
Nessuno accolta ne tantomeno legge le nostre le sedute, non si preoccupi.
I miei venticinque lettori, per dirla alla Manzoni.
Come, mi scusi?
Niente lasci stare. Senta dottoressa le dispiace se taccio e mi sto zitto per il resto della seduta.
Faccia pure.
(39 minuti dopo)
Il nostro tempo é scaduto. Ci vediamo la settimana prossima.
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lorenzoconigli · 10 years ago
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Sedute Solitarie - Seduta 2
Qual’é il punto dottoressa?
Non capisco, si spieghi meglio.
Il punto qual’é?
Il punto di cosa?
Ogni cosa. Non importa quale. Ma il punto qual’é?
Voglio dire, lei siede qui. Ogni santo giorno con i suoi problemi, la sua vita vissuta quotidianamente giusto? Suo marito ed i vostri litigi. Non so, lei ha marito?
No
Non importa. Però intendo avrà qualcuno che si diverte o che prova ad amare. Saltuariamente o regolarmente. Qualcuno che forse ama o di cui é solo innamorata. E anche non fosse l’amore, voglio dire il suo lavoro, lei siede qui ogni santo giorno, ascolta i problemi della gente, prende appunti, li studia, gli elabora e poi la gente cammina via, fuori dalla porta e poi quando arriva l’ultimo lei rimane per un po’ nel suo studio vuoto illuminato dagli ultimi sbuffi di luce che entrano dalla finestra. Si guarda un po’ ancora intorno per un po’ e poi lascia lo studio. Chiude la porta e passeggia via. Con tutti i suoi pensieri e quello che ha in testa, quello che ogni singola persona che si é seduta sul suo divano le ha raccontato. Forse. O forse pensa solo a cosa preparare per cena. Pensa che vorrebbe tanto mangiare del pollo con verdure ma che pollo e verdure non ne ha e di come debba mettersi in fila al supermercato con il suo pollo e le sue verdure nel suo carrello aspettando il suo turno e pagare. E poi a casa, fornelli accessi, pollo cottura a fuoco lento, e le verdure bollite o soffritte in una padella che avrà usato chissà quante volte e rimarrà li nella luce soffusa della sua cucina nuova di zecca, forse Ikea, con quelle luci incastonate nella parte superiore, giusto sopra i fornelli, con i pensili che ancora odorano di legno, di vernice o di quell’odore che hanno addosso le robe appena comprate anche se appena comprate non lo sono più. Tutto, mentre aspetta che il pollo sia cotto, come le piace? Come le piace il pollo cotto dottoressa?
Voglio dire ben cotto o le piace assaporare la pelle ancora un po’ cruda?
D’accordo la cottura del pollo non é il punto della conversazione. Il punto é piuttosto perché fa tutto questo?
Non dovrebbe dire qualcosa ad un certo punto dottoressa?
Dannazione dica qualcosa!
Perché diavolo la gente la paga se lei finisce a star qui in silenzio senza dir nulla?
Dottoressa un porno é più entusiasmante delle sue sedute.
Mi sto deprimendo.
Ecco sono depresso. Curi questa adesso dottoressa, depressione da seduta fallimentare. Come la cura questa?
Ma questa é una catastrofe si rende conto? Mi parli, che il diavolo mi porti. Lei sta peggiorando la mia situazione anziché migliorarla. Non é affatto utile. Sto seriamente pensando di smetterla con le nostre sedute.
(46 minuti dopo)
Il nostro tempo é scaduto. Ci vediamo la settimana prossima.
D’accordo.
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lorenzoconigli · 10 years ago
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Mallaig e quei posti dimenticati da Dio
Mallaig, costa ovest della Scozia. Un posto dimenticato da Dio, o almeno così lo definisce Phil. Phil che si ferma con il suo Land Rover quando mi vede con il pollice alzato sull'isola di Skye cercando un passaggio verso il porto, dove ho un traghetto che mi aspetta. Ammetto, avrei potuto prendere un autobus, ma non si incontrano poi tanti abitanti del posto su di un autobus pieno di turisti, quindi pollice alzato. Phil ha una vita disegnata in volto, tra le rughe ed i capelli biancastri che vengono fuori disordinati dal cappello militare. L'altra vita me la racconta per la strada verso il traghetto. Mentre un vecchio cd country canta con voce roca dall'autoradio e i paesaggi dell'isola di Skye corrono via fuori dal finestrino. Per essere un nonnetto che ha lavorato una vita per il governo, Phil ha un esilarante senso dell'umorismo, mi racconta di come abbia viaggiato intorno al mondo e dopo sia tornato qui a casa, nell'isola di Skye dove é nato e cresciuto. Mi racconta degli abitanti dell'isola, di come sopravvivano tra la pesca ed un'innumerevole quantità di attività che uno nemmeno se lo immagina. Visto il temporale che piomba sull'isola, sul Land Rover che corre veloce per le strade deserte e sul parabrezza dell'auto, mi accompagna direttamente al porto allungando la strada di mezz'ora rispetto a dove era diretto. Perché gli isolani dell'isola di Skye son così in fin dei conti. Ti beccano con il pollice alzato per la strada, ti prendono a bordo, ti accompagnano nella loro vita giusto il tempo di qualche miglio e poi finisce lì. Ed infatti così finisce tra me e Phil, mentre si allontana con la musica country che canta allegra fuori da finestrino; Phil il giramondo che dopo aver visto peste e corna torna a casa, Phil che dà un passaggio al porto ad uno che il mondo sceglie di girarlo ancora. Lorenzo in questo caso. Io. Al porto dove il mio traghetto mi aspetta per attraversare una sottile striscia di mare che mi porterà a Maillaig. Il posto dimenticato da Dio, appunto.
Mallaig. La prima impressione che si ha di Mallaig è quella di un acquario con navi piazzate qui e là, di quelle navi che un po' ricordano i pirati e un po' sembrano fatte con dei Lego scoloriti, quelle navi messe lì per rallegrare un po' i pesciolini rossi o tropicali che uno si diverte a comprare a cento ottanta euro ad esemplare da un negozio specializzato. Quel tipo d'acquario insomma. Lo stesso acquario che cade piombando e fischiando dal cielo ed esplode con un tonfo sordo sparpagliando navi e pesci un po' dappertutto. Navi, pesci e pezzi di legno. L'acquario precipita sordo, esplode e lascia tutto lì inondato d'acqua. I vetri spariscono magicamente e quello che ne rimane è Mallaig. Come uno sputo di un vecchio pirata mozzo, con gamba di legno ed alito di una vecchia botte di whiskey rancido, il paese giace sulla costa ovest della scozia e cresce, gravita e, volendo, muore, giusto intorno al porto. Le poche case che vi si trovano sono abitate da individui sconosciuti che molto probabilmente non avrò nemmeno il piacere di conoscere. La strada principale è qualcosa che ricorda la distanza da percorrere per andare da Vicolo Stretto a Parco della Vittoria, senza passare per la prigione, con un tiro fortunato di dadi. La prima cosa che ti colpisce di Mallaig é il porto. La seconda, sempre il porto. Pare vi sian più navi che abitanti. La terza, che serpeggia in genere con aria spaesata e zaino in spalla, è il turista medio di Mallaig. Come se attendesse da un momento all'altro di veder comparire davanti un'incommensurabile monumento, o qualche castello medioevale che sia valsa la memoria di venir a vedere fin quaggiù, arriva alla fine della strada, Vicolo Stretto - Parco della Vittoria, senza passare per la prigione, e sconsolato ritorna indietro verso dove era partito. Ovvero cinque minuti di cammino prima. I più fortunati si spingono lì dove la strada abbraccia la montagna scoscesa e ripida con una curva e sparisce inghiottita dall’orizzonte del mare. Statistica vuole che tornino indietro anche quelli poco dopo, ma uno non può mai sapere.
Passeggio per il porto quando il sole è già calato e mi trovo circondato da un mare che - è proprio il caso di dirlo - è pieno di navi, barche e pescherecci. Una sorta di nave da crociera è ormeggiata dall'altro lato del porto. Cosa ci faccia una nave da crociera da queste parti potrebbe destare più di un sospetto. Io per sicurezza le chiedo di rimanere immobile e di fare un sorriso per una foto ricordo. Lei non si muove. Cartelli e manifesti cospargono le poche pareti della città invitando a visite guidate in barca, a gite turistiche in barca, a visite ai delfini in barca (con la speranza che i delfini si presentino, sotto asterisco scritto in piccolo) e una panoramica delle isole vicine di qualche ora. Pare che lo spasso di Mallaig sia andarsene in barca lì intorno e poi tornare alla base, al porto. Ma io ho una destinazione ben precisa. E si chiama Old Forge, che poi è uno dei motivi per cui son venuto fino quaggiù. Old Forge che non è un isola, che non è una spiaggia. Old Forge che si trova in un posto che sarete fortunati a trovare se la mappa ricorda di riportarlo. Old Forge che si trova dalle parti di Inverie.
Il fascino di Inverie è appunto l'Old Forge. Che poi se volete, Inverie è l'Old Forge. Confonde un po' all’inizio, ammetto. Mescolate le carte, e distribuitene cinque ad ognuno dei giocatori al tavolo, sedetevi comodi e sorseggiate un bicchiere del vostro Chardonnay Sauvignon o Martini o qualsiasi cosa sorseggiate mentre giocate a carte e siete con i vostri amici e vostra moglie pensa siate con l'amante. L'Old Forge é semplicemente conosciuto per essere uno dei pub più remoti del Regno Unito. Remoto come il passato che usate per scusarvi quando dovevate esser in un posto e in realtà non c'eravate. Remoto come il tempo in cui usavate cruciverba nelle vostre solitarie escursioni in bagno prima che qualcuno vi piazzasse un iPad sulle ginocchia. Remota come la possibilità che giocare ad una slot machine vi cambi effettivamente la vita e vi dimentichiate dei vostri problemi per sempre. Insomma quel genere di remoto. Il remoto pub che quando uscirete barcollanti per qualche birra di troppo nessuno vi noterà semplicemente perché è remoto, per l'appunto. Il pub è conosciuto in tutto il Regno Unito perché l'unico modo per raggiungerlo, o perlomeno quello più facile, è con un traghetto, lo stesso che mi ha scorrazzato fin qui. In alternativa la città più vicina ad Inverie, e quindi all'Old Forge, dista una quarantina di chilometri. Fate un po' voi. Entrando nell'Old Forge quello che ti chiedi é come diamine ce la portino la birra fin quaggiù. Dopo la birra inizi a chiederti la stessa cosa per la rete WiFi. Perché intorno all'Old Forge non c'è campo. C'é il mare, quello sì. Qualche montagna anche. Ma per il resto nient'altro. Il pub è un caratteristico pub scozzese, nondimeno la musica che viene fuori: gli altoparlanti finemente incassati nel telaio di legno buttan fuori cornamuse e violini a palate. Il Pub è orgogliosamente tempestato, in ordine sparso e antiorario partendo dalla finestra che affaccia sullo specchio d'acqua, di: una chitarra in legno arancio che da sul rosso, una specie di tappezzeria raffigurante degli uomini (sobri ci terremmo a precisare) in barca a vela che solcano coraggiosamente degli impervi mari, dei tavoli, tre vecchi uomini scozzesi seduti che urlano e sbraitano (probabilmente sbronzi, ci terremmo a precisare) non facenti parte però dell'arredamento, e delle magliette e felpe appese che riportano orgogliosamente una scritta in grassetto "Old Forge", una testa di capra, un fiddle (parola scozzese significante violino), tavoli, il bancone. Dopo questo entusiasmante tour virtuale a trecentosessanta gradi, il ragazzetto si stacca dal bancone, veleggia verso il mio tavolo e mi chiede con un forte accento scozzese se oltre ad una birra gradisco la zuppa del giorno. Io abbocco con entusiasmo e gli dico che sarebbe un piacere. Questo ed altro è l'Old Ford. Altro del resto sono solo lunghe chiacchierate con sconosciuti al tavolo vicino, qualche birra del posto traboccante di schiuma versata nel mio bicchiere, una esorbitante serie di fotografie che immortalano locale e paesaggio, possibilmente cercando di farceli stare nello stesso riquadro ed il viaggio di ritorno in traghetto. Siedo con presunzione e faccia seria di fianco al pilota del traghetto che guarda fisso dietro un vetro che non ci si vedrebbe niente attraverso nemmeno a ferragosto col solleone, figurarsi con la pioggia battente che casca su tutta la barca. Lui pare vederci benissimo tanto che ad un tratto esclama: «guarda, dei delfini!» Dove? Gli faccio io, non vedo un'accidente. «Laggiù, eccoli». Faccio per sporgermi e sbatto la testa contro il minuscolo parabrezza della barca. Trattengo il respiro, una sfilza di impronunciabili parole, conto fino a dieci e gli rispondo: tò li visti, che belli.
Non ho visto nessun delfino dalle parti di Inverie, ne tantomeno dalle parti di Mallaig. Ma ne ho visti abbastanza adesso di posti remoti. È tempo di spostarsi su di un'isola deserta.
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lorenzoconigli · 10 years ago
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Raccontando Borondo
Quando siedo sulla poltrona la lampada all’angolo della stanza illumina l’arredamento di una luce soffusa e un po’ rossastra. Un mozzicone di sigaretta manda via i suoi ultimi sbuffi dal posacenere sul tavolino di legno intorno al quale io e ed il mio interlocutore siamo seduti. Oggi parlo con Borondo. Borondo pittore. Borondo artista. Borondo che ha girato il mondo con i suoi pennelli, con i suoi dipinti perché nonostante la sua giovane età, questo mondo l’arte di Borondo la conosce già. E nel caso voi non la conosciate ancora, forse vi capiterà a volte di camminare per le strade di Roma, Londra, Madrid o chissà quale altra città del mondo e rimarrete come folgorati per qualche istante quando gli occhi vi si poseranno per caso su di uno dei suoi dipinti. Vi piombano addosso con violenza i dipinti di Borondo, dipinti lì sulle pareti, per strada, come rubati da un museo in tarda notte e piazzati lì immensi, prepotenti e in bella mostra. Vi turba lo sguardo per un po’. I tratti leggermente sfumati, le sagome accennate fino quasi a scomparire e quelle ombre in cui il dipinto pare essere immerso.
Gli sguardi alle opere di Borondo lasciano un po’ così a prima vista, con l’impressione che ci sia qualcosa che non vada: anche se non in quell’esatto momento, la sensazione è che ci sia qualcosa di storto, un fuoripista da qualche parte. Ti cattura lo sguardo preso da uno strano senso di irrealtà. Fino a sfiorare l’ipnotico. Un'ipnosi che dura il tempo di distinguere forme e figure, che spesso nelle opere di Borondo si abbracciano e si confondono e si immergono l'una nell'altra, dove una sagoma riesce sempre a rubare un po' di spazio e contorni a quella che le sta di fianco. Statico movimento di ombre e colori, le pennellate tracciate da Borondo spariscono lasciando spazio ad un oscuro fotogramma. Un fotogramma che spesso stona e stride con tutto il paesaggio circostante. Come il sassofono di un jazzista che bruscamente si distacca dalla melodia e va per conto suo. Continua a suonare nell'insieme di note d’accompagnamento, ma suona una melodia tutta sua. É un po’ così Borondo. Solitario nel suo stile e singolare nelle forme. Riesce a stridere con i suoi dipinti in tutto il contesto che lo circonda.
Parliamo seduti intorno al basso tavolino di legno e sorride, Borondo. Ha il sorriso di un ragazzo di una semplicità estrema, che a guardarlo difficilmente lo si ricollega alla forza dei suoi dipinti. I pantaloni e le mani sono ancora sporchi di colore. Blu scuro. Del rosso vulcano. Un po' di grigio e qualche chiazza di nero qua e là. Mi racconta della sua arte Borondo. E ne parla con gli occhi decisi e scuri che mi fissano sotto la luce rossastra della lampada. L'arte per l’arte. Nient'altro. Dietro lo sguardo deciso, dietro al sorriso del ragazzo con le mani sporche di colore c'é una visione del mondo dell’arte pregna di un lontano nostalgico romanticismo. Dell'arte in quanto arte. Disinteressata e lontana dal business che infimo e solerte è solito insediarsi anche in questo mondo. Sempre. Corteggiando sfacciatamente talenti e promesse, inebriandoli di prospettive con l’obbiettivo di spremerli fino ad ogni getto d’arte, senza interesse per quello che in realtà viene dipinto, raffigurato, creato. Ma Borondo non é una promessa, e forse non lo é mai stato. Perché chi vive l’arte e la pittura come Borondo, non ha niente da promettere. Quelli come lui hanno un mondo dentro che soldi e business probabilmente non riusciranno mai a comprare. E quel mondo, che ci riempiresti magazzini interi, quel mondo in cui ogni artista, lo si creda o no, vive e vede il mondo sotto il filtro di quegli occhi neri e spigolosi come i suoi. Gli stessi che mi fissano ora.
Borondo non é una promessa, perché non ha niente da promettere. Perché quel mondo, quel mondo di idee, di pennellate nascoste non ancora tracciate su di una tela, su di una parete bianca, sono il suo mondo, ed ogni opera, ogni dipinto, ogni linea tracciata, non é solo un quadro, una tela, una parete raffigurante sagome scure e soffuse, dai contorni accennati. Ma ogni sua opera è solo l’artista, Borondo, che prova a trascinarvi in quel suo mondo per un po’. Il tempo di uno sguardo. Il tempo di lasciare che lo stomaco vi si contorca al primo sguardo e che vi lasci quel senso di irrequietezza un po’ inspiegabile, l’irrequietezza oscura che si scosta per lasciarvi trasportare, non senza un po’ di paura, in quello che é il suo mondo. Il mondo di Borondo. Parliamo di Street Art e del mondo suburbano che striscia sotto le vite della gente. Gli chiedo su costa sta lavorando. Lui mi sorride come al suo solito e mi dice: vieni, ti faccio vedere.
Entriamo in una stanza buia, Borondo mi precede e tira dritto avanti deciso, mentre io cammino a tentoni cercando di tastare invisibili pareti per non fracassami un ginocchio, una caviglia, o qualsiasi cosa ci si possa fracassare in una stanza buia. Faccio solo pochi passi riuscendo ad inciampare solo in un barattolo che inizio a pregare sia vuoto. Il barattolo rotola via. Sento un click. E vedo Borondo lontano in fondo alla stanza che non è una stanza ma al contrario una sala piuttosto grande. Sento ancora un altro click. Poi un altro. E poi un altro ancora. La sala ora é illuminata da diversi fari sparsi per le pareti, ci sono delle zone di penombra ma riesco a vederlo chiaramente. Siamo nel suo laboratorio. La stanza e rivestita da pareti in legno. Il pavimento é parquet. Guardo poco più lontano dal mio piede ed un barattolo si muove ancora un po’ dopo averci inciampato. È vuoto. Preghiera esaudita. Su tutte le pareti della stanza ci sono quadri e tele, alcuni che mi paiono già terminati, altri ancora in corso d’opera. Occupano una buona parte della parete e sono immensi. Mi chiedo come faccia a dipingerli. Vedo dei barattoli con dei pennelli. Passo con lo sguardo da un quadro all’altro. Lí in quella penombra, circondato da quelle ombre, visi appena accennati con grosse pennellate, corpi disegnati per metà non ancora terminati, vedo un gruppo di teste si confondono l’una con l’altra, un uomo dai contorni sfumati ritto in piedi ma di cui non riesco a vedere il volto, vedo dei vetri con delle pennellate bianche che qualcuno é riuscito in parte a graffiar via. I forti colori scuri dei suoi dipinti inghiottono la sala illuminata come tanti buchi neri. Ed anche io mio sento un po’ inghiottito da qualche parte. In qualche luogo lontano. Qui, nel suo laboratorio, ho fatto un passo più verso il mondo di Borondo. Con gesto contratto tiro su la mia mascella che nel frattempo ho notato penzolava in maniera indecente, mentre lui é lì dall’altro lato della stanza. Mi avvicino ed inizia a raccontarmi alcuni dei suoi quadri. Seguo i gesti delle sue mani che, ancora sporche di colore, indicano tele, forme e ombre. Borondo mi racconta dei suoi piani per il futuro, di quello cui sta lavorando e di cosa ha in programma di fare nei prossimi mesi, dove e come. Ma questo non ve lo dico perché é stato detto in maniera confidenziale. A voi, se avrete la fortuna di imbattervi in uno dei suoi dipinti in giro per il mondo o essere spettatori di una delle sue mostre. Perché con Borondo, l’indipendente, l’artista dell’arte per l’arte, del resto non si può mai sapere cosa gli passa per la testa, in quel suo mondo in cui ho avuto il piacere di muovermi per un pomeriggio. Dopo aver chiacchierato ancora un po’, scelgo di lasciarlo, spegniamo le luci e la sala ritorna dell’oscurità in cui l’abbiamo trovata.
Ed é così che ho conosciuto Borondo.
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lorenzoconigli · 10 years ago
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Sedute Solitarie - Seduta 1
Post che non é un post, ma piuttosto una seduta terapeutica di uno psicologo altamente economico, gratis si direbbe, che infatti é gratis, nondimeno che scritto e nondimeno che non esiste nemmeno. Perché quando del resto non vi é niente da scrivere e nemmeno uno psichiatra nei dintorni l’unica cosa che uno del resto può fare é solo far finta che vi sia un interlocutore e farsi due domande. Così che poi é sempre meglio di starsene sul cesso a fissare le mattonelle ingiallite dai vapori dei bagni in po’ troppo caldi. Inizio a scrivere e chissà perché mi viene in mente Oriana Fallaci ed il suo “Oriana Fallaci intervista Oriana Fallaci”.
Buongiorno dottoressa.
Buongiorno si accomodi.
La luce color arancio sporco come un frutto marcio viene fuori dalla finestra, infilandosi tra le tende appena socchiuse e illuminando tutta la stanza. É il tramonto ed io devo essere forse l’ultimo di questa lunga giornata. Inizio a chiedermi come sono stati gli altri prima di me. Come sia stata la sua giornata di ieri. Se magari ha litigato con qualche suo amante o se magari in realtà ci ha solo fatto l’amore. Non so perché ma é quello che mi viene in mente mentre mi siedo. Così appena il divano di pelle nera abbraccia con seducente lentezza i miei jeans scoloriti la prima cosa che mi viene da dire é: é stata a letto con qualcuno ieri sera dottoressa?.
Lei mi guarda non si scompone. Non prova nemmeno a spostare gli occhiali un po’ più sul naso per vederci meglio. Che poi quello del dottore, dello psicologo, con gli occhiali é un cliché decisamente imbarazzante probabilmente ormai passato. Ma a me del resto piace. E considerando che questo psicologo del resto nemmeno esiste, gli occhiali ce li mettiamo.
Non esattamente, lei risponde.
Nel senso che eravate più di uno a dimenarvi sotto le lenzuola?
Non esattamente in quel senso di esattezza verbale.
Se questa conversazione la imbarazza possiamo evitare.
Perché le sembro imbarazzata?
Non lo so é imbarazzata?
No, affatto.
Bene.
Bene.
Mi dica dell’isola. Come si trova.
Quale isola?
L’isola in cui sta vivendo. L’isola in cui si é trasferito. L’ultima volta che ci siamo visti mi ha detto che avrebbe mollato tutto e sarebbe andato a vivere in un isola sperduta. Alla ricerca di qualcosa di primitivo, disintossicazione sociale l’ha chiamata. Che é un termine decisamente interessante.
Cercavo solo di impressionarla a dire il vero. Mettere parole sofisticate l’una dietro l’altra a volte sortisce effetti interessanti nelle conversazioni monotone.
Ritiene che le nostre conversazioni siano monotone.
Non monotone nel senso di noiose. Non so se ha presente. Monotone come un tasto schiacciato con forza su di una tastiera e riecheggia nella sala vuota per un tempo lungo e imprecisato.
Perché la stanza é vuota?
Mi fermo a fissarla per un attimo. E la prima cosa che mi viene in mente é se porta le mutandine oggi. La seconda é: ma che domanda del cazzo.
Ma che domanda del cazzo dottoressa.
Non sia così aggressivo.
Non sono aggressivo, sono espressivo.
Mi racconti dell’isola.
E va bene. E isola sia.
E così le racconto dell’isola in cui vivo. É un posto strano, che poi non é tanto strano. Perché di posti davvero strani se uno vuole ne trova a volontà. Ma questo poi tanto strano non é. Quindi non ce lo mettiamo nella categoria. É solo un’isola, nord-ovest della Scozia. Una ventina di anime, distanziate da qualche chilometro, l’una dall’altra. Buffo a dirsi che la gente qui dorma con le porte aperte. Aperte non nel senso di non chiuse a chiave. Ma aperte come spalancate. Sarà l’estate, ma poi in Scozia in estate tanto caldo non fa. Si dorme a porte aperte dicevo, ma questo é solo un inutile dettaglio. Perché il resto é solo un ritratto barbaramente dipinto che si diverte a cambiare ogni giorno. Il soggetto é sempre lo stesso, ma le pennellate sono diverse.  A volte un po’ confuse, sfocate, a volte trascinate che sembrano tracciate male di proposito. Mentre altre volte sono nitide. Ma di un nitido che riesci a vedere a decine e decine di chilometri di distanza. E più in la, tracciate un po’ sullo sfondo si vedono delle isole. Ma sono messe la come cascate dal cielo, senza splash né suoni, senza nemmeno uno schizzo d’acqua. E sono come ipnotiche. Perché le si potrebbe guardare per ore. Sono come un corpo di donna. Resteresti li a guardalo per ore. E poi il resto dell’isola é…
Vuole continuare?
Su cosa si é soffermato?
Posso chiederle a cosa sta pensando?
Silenzioso. Restio al dialogo. Chiuso in se stesso. Vago. Cause plausibili: timidezza, incertezza, timore dell’interlocutore, pensieri sovrapposti che lo rendono sovrappensiero. Strategia: silenzio. Lasciare che il tempo venga inghiottito nel silenzio fin quando non sia lui a fare la prima mossa. A dire la prima parola. Ecco a cosa sto pensando dottoressa.
(57 minuti dopo)
Il nostro tempo é scaduto. Ci vediamo la settimana prossima.
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lorenzoconigli · 10 years ago
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Inghilterra, Italia e frittatona di cipolle
Sarà che in Inghilterra sole e caldo li vedono giusto un paio di volte l’anno, sarà che gli organizzatori pensavano gli Italiani tra feste in spiaggia e costumi da bagno a certe temperature fossero abituati, ma Inghilterra - Italia di questi mondiali di calcio 2014 si gioca allo stadio di Manaus. Manaus nel cuore della foresta amazzonica che se il tasso di umidità potesse andare oltre il 100% ci andrebbe di corsa senza nemmeno scusarsi. Il pullman degli azzurri arriva allo stadio con tanto di finestrini appannati che nemmeno le macchine di coppie di diciottenni nei parcheggi alla periferia della città in tarda notte. I giocatori escono già sudati fradici pensando di aver giocato già metà partita, ma in realtà sono solo appena arrivati allo stadio.
Inghilterra - Italia non inizia con i migliori presupposti, quando in mattinata il capitano Buffon facendo un castello di sabbia sulla linea di porta inciampa in una conchiglia e si fa male. Casacca indossata e panchina assicurata, lascia la maglia da titolare a Sirigu che ha un accento più sardo di un pecorino e che (così ha dichiarato) ha iniziato a chiamare all’impazzata parenti, amici e genitori cercando un po’ di conforto, perché la prima partita ad un mondiale un po’ di tremarella la dà sempre.
Manaus, ore 23 qui nel Regno Unito, calcio d’inizio della prima partita dell’Italia a questo mondiale.
La partita inizia con un possesso palla di un lentezza mostruosa, così mi trovo a combattere contro i colpi di sonno, fuori una pecora inizia a belare e si becca la mia attenzione per qualche istante. Poi, un calcio d’angolo. Un colpo provato e studiato a tavolino, Pirlo lascia passare a gambe divaricate in stile Heather Parisi degli anni d’oro e Marchisio che arriva di gran carriera, calcia il pallone.
Il resto sono solo rumorosi stati di euforia, piatti di popcorn e coppe di patatine esplosi improvvisamente, gatti scaraventati per aria, birre rovesciate sul tappeto, abbracci esplosivi e baci roventi ed un immensa caciara nazionale. Questo in Italia. Qui, in Scozia, non si muove una foglia. Italia uno, Inghilterra zero.
Sugli spalti si inizia a cantare a gran voce “Seven Nation Army”, il pubblico si entusiasma ed inizia ad esultare rivangando il mondiale 2006 in cui la canzone la mettevan su anche ai neonati come ninna nanna per farli addormentare. Trenta secondi, trenta, e Sturridge sotto assist di quel toro scatenato di Rooney infila una stangata pazzesca e la palla si infila in rete. Spume di birra esplodono e qualche abbraccio. L’inghilterra festeggia. È uno a uno. E a quanto pare “Seven Nation Army” a questo mondiale un po’ di sfiga la porta. Uno a uno, tutto da rifare. La partita prosegue con Chiellini che pare abbia perso le chiavi dell’auto prima di uscire di casa e cerchi di trovarle un po’ dappertutto sulla linea del fallo laterale senza successo. Quando ha la palla tra i piedi ed é nella metà campo avversaria cerca per qualche inspiegabile motivo di chinar il capo e tirar dritto. Ci riesce sempre con successo, peccato ogni volta gli freghino la palla da sotto le gambe immediatamente.
Il resto sono calci sugli stinchi, e qualche simulazione. I minuti passano e Balotelli che ad un tratto vede una porta vuota ci infila un pallonetto a girare ma quel nano del difensore avversario trova lì per caso uno sgabello, ci sale, s’arrampica sulla traversa e butta la palla fuori con una capocciata. Così qualche minuto dopo Candreva imbufalito sceglie di buttare una pezza sul palo per vedere se con tutti i problemi che hanno avuto qui in Brasile prima del mondiale, nessuno si sia dimenticato di fissarli per bene nel terreno, non si sa mai, mancanze dell’ultimo minuto. La palla ci sbatte con violenza contro e rimbalza sonoramente per volare via verso la linea laterale. Il palo tutto ok, Inghilterra - Italia non si sa. Ancora uno a uno e tutti a prendersi a secchiate di ghiaccio negli spogliatoi.
Inizia il secondo tempo che Candreva vede un autostrada a tre corsie, accelera, mette la freccia, sorpassa, mette una delle sue canzoni preferite all’autoradio, tira fuori il braccio dal finestrino come un tamarro e già che c’é tira un freno a mano, fa cadere un paio di difensori per terra per lo spavento e poi vede Balotelli che si annoia un po più un là nell’area di rigore, così gli dà una palla con servizio in camera programmato e piatto d’argento, che Balotelli tant’è l’entusiasmo che ci dà una capocciata che ci manca poco prenda il palo e lo faccia in due. Stati di euforia, piatti di popcorn e coppe di patatine esplosi improvvisamente, gatti scaraventati per aria (ancora), birre rovesciate sul tappeto, abbracci esplosivi e baci roventi e qualche bestemmia tirata giù senza troppa attenzione. Italia 2. Inghilterra 1. Sirigu che se lo allunghi non si spezza, nel frattempo  salta da un palo all’altro perché a sto punto che qualcuno gli infili la palla dietro la linea di porta inizia davvero a dargli ai nervi così non lascia passare nemmeno i moscerini della foresta amazzonica che gli ronzano intorno dall’inizio della partita.
Il resto é Rooney che tira una zappata al calcio d’angolo che la palla nemmeno entra nel terreno di gioco. Cerca di nascondersi la testa sotto la maglietta, ma con questi nuovi modelli tutti attillati non ce la fa nemmeno a staccarsela di dosso tant’è sudata, così corricchia a testa bassa andandosene in punizione in un angolo. C’é così tant’acqua nelle magliette dei giocatori che se le strizzi ci annaffi una piantagione di patate. Inizia il walzer dei cambi e tra tabellone illuminato e magliette bianche e azzurre che si alternano volano via i minuti. Intorno all’80’ la sagra della scarpa male allacciata inizia a colpire come un virus entrambe le squadre. Calcioni e calci al pallone che prende strane traiettorie e va fuori che pare un palloncino d’elio. A fine partita i giocatori dichiareranno: non so se si vedeva da casa ma alla fine c’avevamo le allucinazioni tant’era il caldo qua a Manaus. L’arbitro ha una bomboletta spray che deve essergli avanzata da carnevale e si diverte a tracciare linee per terra, prima di ogni calcio di punizione. Un po’ di tiro a segno dell’Inghilterra nel finale che a perdere due a uno proprio non ci sta. Ma sarà che Sirigu riesce a spostare la porta un po’ dove gli pare con un braccio e portarsela a spasso, sarà che proprio schifo stasera non facciamo, ma riusciamo a resistere a non prendere il gol del pareggio. Cinque minuti di recupero e la partita diventa piena di zombies che cascan per terra e si trascinano per il campo a velocità supersonica però, é comunque la prima partita di un mondiale. I cinque minuti di recupero si bloccano al 2.30 quando la palla si ferma ad una distanza proibitiva dalla porta inglese. Pirlo dà uno sbuffo ai capelli, si dà una grattata alla barba e si piazza per prendere la rincorsa. Qualche passo e parte una bordata che tira via fuori qualche ciuffo d’erba, il portiere sente probabilmente qualcuno che gli fischia e lo chiama da un lato, così si dimentica della punizione ed inizia ad incamminarsi, la palla nel frattempo va dall’altro lato della porta e con passione si cimenta in un bacio alla francese con la traversa. Pirlo butta gli occhi al cielo, ed il pensiero che tiri giù qualche santo dal cielo in effetti ci viene.
Minuto 95, Immobile palla ai piedi temporeggia vicino alla linea e l’arbitro fischia la fine della partita. Inizia la festa di abbracci e saluti e scambio di magliette sudate. Balotelli si avvicina ad un cameramen ed indica con le dita due a uno, e poi l’indice sulle labbra. Silenzio. Ed infatti pare abbia ragione. Il mondiale é iniziato e l’Italia ha appena vinto la sua prima partita. Olé.
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lorenzoconigli · 10 years ago
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Inverness ad altri mostri
Inverness. Scozia.
Sono finito dalle parti di Inverness per una inspiegabile serie di motivi casuali e non sequenziali. Per cui ora mi trovo seduto al tavolo di un café vicino alla stazione a discorrere di Scozia e pesca d’altura con David. David di cui ignoro il cognome, per cui sarà definito per tutto il testo che seguirà come Professor David. Insegna filosofia qui, all’università di Inverness, meglio conosciuta come University of the Highlands and Islands. Mi racconta della sua vita David, degli anni spesi ad insegnare, della sua barca ormeggiata su di una costa poco lontana da qui e di come spesso parta per settimane dal porto di Inverness, scendendo giù per il Caledonian Canal. Il Caledonian Canal che unisce la costa est a quella ovest della Scozia.
Il canale scende giù lento e placido, accelerando dove il corso d’acqua si restringe e la pendenza diventa più ripida. Per tutta la sua lunghezza il Canale esplode in maniera fragorosa come un palloncino d’elio ad una festa di compleanno, in degli specchi d’acqua. Tra questi si annoverano il Loch Lochy, che ricorda tanto un antinfiammatorio ma che in realtà é solo uno straordinario lago della lunghezza di qualche chilometro, e il più famoso, nonché immenso, nonché leggendario, nonché un mare di altri lunghi esaustivi aggettivi che qui verranno tralasciati, lago di Loch Ness.
C’é poco da meravigliarsi che tutti i laghi qui in Scozia si chiamino Loch-qualcosa. Semplicemente perché in scozzese, quello vero, quello grezzo, da roccia scavata in miniera, da spugna sporca da bancone da bar, lago si traduce semplicemente come "loch". Gaelico scozzese. Antico irlandese. Da dove derivi la parola poco importa. Ma "loch" significa lago. Loch Ness del mostro del lago. Loch Ness di Nessie. David mi parla col suo accento nord-ovest scozzese, mi parla di Nessie, del mostro. E ride. Mi dice che anche quest’anno, come ogni anno del resto, hanno trovato il modo di tenere viva la tradizione e attirare i turisti. Qualche settimana fa é stata fatta girare una foto da satellite delle Apple Maps del lago di Loch Ness ed un mostruoso oggetto non identificato giusto sotto il pelo dell’acqua. Un’ombra grigia che si muoveva lentamente poco sotto le barche. Per i più fanatici un regalo di Nessie ad un satellite in orbita, per David e molti altri, semplicemente la canonica periodica annuale trovata commerciale per tenere viva la leggenda del mostro, meglio detto: solo una scia lasciata da una barca in movimento. Un falso, ma che apparentemente funziona.
Tutta questa storia del tenere vivo il turismo in fin dei conti mi ricorda tanto Amsterdam e l’Olanda. Amsterdam dove ho vissuto per un po’ in una della case sul canale che ogni anno, verso ottobre, annuncia che é la fine delle droghe leggere liberalizzate. E lì tutti con le mani nei capelli a diventar matti e prenotare voli verso la capitale dei mulini e dei canali circolari. Perché se uno non l’ha mai fatto un giro tra i coffee shops di Amsterdam nella vita sente sempre di doverlo fare. Twilight Zone in busta grigio topo. Speakeasy in carta trasparente. Sanementereg macinata ma non tritata. E poi Rookies, e Ocean, e Extreme, e tutto il parco di erbe che il menu di un coffee shops in una stradina nascosta della capitale non può tralasciare. Quindi, la storia di Nessie mi ricorda tanto la strategia olandese, perché anche li nessuno si sognerebbe mai di toglier via una fumata legalizzata, l’ufficiale annuncio della chiusura, del resto, è solo un modo per dire al mondo qui-da-noi-l’erba-é-legale. Tutto qui.
Ma tornando a Loch Ness e parlando di erba, un mostro del nome Nessy tanta paura non dovrebbe fare. La storia narra, che fin dal basso medioevo vi furono i primi avvistamenti "…nella più straordinaria forma di animale mai incontrata… dotata di un lunghissimo ma stretto collo di quasi otto metri, poco più grande di una proboscide d’elefante, e molto ondulato". Ora, una bestia con un collo ondulato di otto metri che attraversa il lago potrebbe avere certamente diverse interpretazioni, tra le quali non trascurabili sarebbero LSD ed oppio. Ma poco si sa probabilmente del consumo di droghe e stupefacenti dalle parti del lago in quel periodo storico, così nasce la leggenda di Nessie, che tra l’altro negli anni successivi pare si sia concessa ad un paio di scatti indiscreti ai fotografi tirando su fuori la testa dal lago. Giusto una capatina per i fotografi insomma. Gli scatti sono stati prontamente smascherati e rivelati come falsi col tempo, ma poco importa.
Chiedo a David se qualcuno sguazza un po’ nelle acque del lago e lui ride ancora. Mi dice che vista la profondità delle acque e la sua larghezza (giusto per avere un’idea il lago si estende in lunghezza per 35km) l’acqua e talmente gelida che un bagno la gente se lo risparmia con piacere.
David mi racconta del canale che partendo dal centro della città e distaccandosi poco prima della foce, conduce ad un posto singolare e raro, di quelli che se nessuno ti racconta difficilmente riusciresti a visitare. La fine del canale punta verso nord-est dove la periferia di Inverness termina tra qualche cottage trascurato e surreali montagne grossolanamente disegnate sullo sfondo. Quindi penso che da visitatore un consiglio così uno non dovrebbe lasciarselo scappare.
David mi parla anche dei pescherecci da queste parti e di come i molti porti dove per anni hanno ormeggiato pescatori di recente vengono convertiti in porti turistici e commerciali, dove ormeggiano mastodontici yacht e navi che poco hanno a che fare con la pesca. Peccato, pare rimanga davvero poco romanticismo in questo mondo. Mi dice che per cercare qualche piccolo paese di pescatori occorre spostarsi verso la costa ovest. Dove la costa diventa più frastagliata, i paesaggi mozzafiato e la pesca più essenziale e rudimentale. Così inizio a pensare che quel lato della Scozia deve essere decisamente più nostalgico che il porto di Inverness, pieno di navi da carico che buttano giù tonnellate di legno, qualche altro carico di merce e nient’altro.
David mi chiede come ho voglia di andarci sull’altra costa. Ed io gli dico che mi piace muovermi lentamente, in treno o in bus. E allora lui mi suggerisce di muovermi ancora più lentamente. Great Glen Way, mi dice. Un percorso da fare e piedi per le colline scozzesi, attraversando Loch Ness per tutta la sua lunghezza e proseguendo giù a sud fino alla città di Fort Williams, centoventi chilometri più a sud per poi risalire verso il porto più vicino della costa ovest, Mallaig.
Grazie David un’idea insensata era proprio quello che mi ci voleva.
David mi chiede mentre ci stringiamo la mano e ci salutiamo del perché cerco un paesino sperduto nella costa scozzese dove la gente vive di pesca e nient’altro. «Perché se uno vuole raccontare della vita di un pescatore in Scozia il pescatore deve farlo sul serio per qualche mese», gli dico. Mi stringe la mano sorridendo e augurandomi un in bocca al lupo. Ed io torno in hotel ad impacchettare tutto, perché domani sarò in cammino per il Great Glen Way.
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lorenzoconigli · 11 years ago
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London Marathon 2014
Domenica 13 Aprile 2014.
Londra é costellata di fermate della metro. Un po’ come il volto di un giovanotto alle prese con la pubertà lo é di brufoli. Un po’ come il pane con le olive lo é di olive. Insomma credo l’idea sia chiara.
Il fascino di una fermata della metro é spesso paragonabile ad un film in tarda notte che cerca di attirare la vostra sopita attenzione con qualche scena erotica, ma non troppo, con la sola conseguenza del farvi addormentare sul divano. La differenza è che qui a Londra nella metro non ci dorme nessuno. Nemmeno i senzatetto. Forse qualche teenager un po’ sbronzo ogni tanto, ma poi qualcuno lo sveglia e quello se ne va dritto a casa. Barcollante, ma a casa.
Preambolo terminato.
Ciononostante c’é una fermata della metro di Londra che ha un fascino tutto suo. E banalità delle banalità, la fermata é quella di Westminster. Westminster del parlamento. Westminster di Westminster Abbey. Di Westminster Cathedral. E così via. Il fascino della fermata é singolare perché venendo fuori dalla metro, arrancando tra uno scalino e l’altro vedrete dipingersi a pennellate orizzontali, passo dopo passo, scalino dopo scalino quell’immensa torre dell’orologio che si erge al lato del Parlamento. La stessa delle cartoline che qualcuno via invia quando trascorre un weekend nella capitale Londinese. La stessa delle piccole riproduzione che spuntano su di una mensola del salotto di vostra zia, tra una palla di vetro con la miniaturizzata riproduzione di Piazza San Marco a Venezia, o di un santino immerso in una bolla d’acqua con improbabili e fluorescenti coriandoli colorati tutti intorno pronti a galleggiare ad ogni movimento. La torre dell’orologio, nonché simbolo di Londra, é, senza sorpresa, il Big Ben.
Così voi risalite le scale della metro e ve lo trovate lì davanti, immenso e mastodontico. Il tempo di serrare qualche mascella penzolante, e di fare qualche foto e l’effetto dovrebbe svanire in pochi minuti. Pochi minuti a meno che non vi siano migliaia di persone che urlino e si agitino tutte intorno. Vengo fuori dalla fermata ed un mare di palloncini colorati mi investe come l’odore di noodle e involtini primavera in un ristorante cinese alla periferia della città. Qualcuno strilla qualcosa da un megafono un po’ scarico. Qualcuno si arrampica su delle transenne messe lì un po’ di traverso per regolare il flusso di gente. Si cammina appena dalle parti di Westminster oggi, ed oltre la fiumana di gente, oltre le transenne, i palloncini, e le voci roche che incitano qualcosa di scarsamente comprensibile é possibile scorgere della gente che corre, con magliette colorate ed un numero stampato sul petto. Uno diverso dall’altro. É il 13 Aprile, ed avevo completamente dimenticato che oggi è il giorno della London Marathon.
Senza dubbio l’idea di una maratona é un concetto piuttosto famigliare ai più. Ma quella di Londra ha qualcosa di particolarmente singolare. Oltre che per le naturali scenografie cittadine, come parrà ovvio, richiama l'attenzione anche per la curiosa e variegata formazione del corpo corridori. Senza troppe pretese vengono riportati di seguito i rari esemplari di maratoneti che hanno attraversato la zona di Westminster nel pomeriggio del 13 aprile, un po’ arrancando, un po’ corricchiando, un po’ passeggiando a passo svelto. Del resto erano pur più di quaranta chilometri da percorrere.
Il corpo corridori risultava composto da:
Due clown con acconciatura da circo un po’ sbavata ma va bene uguale;
Otto ballerini perlopiù in sovrappeso con tutu rosa scodinzolante e caviglie non troppo fini, ne tantomeno un granché depilate;
Due bob giganti in comma piuma, che a quanto pare devono aver confuso un po’ le competizioni cui partecipare;
Uno scimpanzé con pelo arruffato e coda mozzata;
Un auto da corsa fuori corsa;
Un grazioso topolino gigante con cappello rosa in stile Ratatouille ma meno parigino;
Un Luís Nazário de Lima Ronaldo, con tanto di maglietta a strisce e panza perfettamente riprodotta a suon di birra e hamburger, pallone Nike, stesso doppio passo e stesse movenze;
Un boccale di birra alla spina in spugna verde;
Un boccale di birra alla spina marchio Guinness, probabilmente di origine irlandese;
Un Babbo Natale fuori stagione che tanto ricorda però il nonno di Heidi;
Un Cattivissimo Me giallo limone di Sicilia;
Un improbabile, nonché molto probabilmente noioso, addio al nubilato;
Due fatine color verde pistacchio con qualche fish and chips di troppo sullo stomaco;
Un pinguino di lana alla ricerca di un ghiacciaio che molto probabilmente non troverà mai nel raggio di qualche migliaio di chilometri;
Un tedoforo, con tanto di fiacca olimpionica, che si stenta a capire sia un po’ in ritardo dalle passate olimpiadi o troppo in anticipo per le prossime;
Dieci orecchie da coniglietta di playboy, meno attraenti delle originali e senza nessun un Hugh Hefner a tenerle sott’occhio;
Un orsacchiotto di lana senza nessun bimbo che lo abbracci;
Un pollo fritto, non ancora fritto, ma decisamente via di cottura visto il caldo;
Una sorprendente rimpatriata di supereroi tra cui é con orgoglio che si annoverano: Batman e Cat Woman, Batman e Robin, Superman e Wonder Woman, che tra l’altro nella rivisitazione inglese pare sia un uomo bello che muscoloso, Dartagnan senza gli altri moschettieri;
Una enorme cabina telefonica in classico stile british ed un telefono fisso color verde quercia secolare;
Un cubo di Rubik non ancora risolto;
Indiana Jones senza tomba dell’imperatore;
Un giocatore di hockey senza disco né ghiaccio ma con tanto di divisa, casco e spalle che a vederlo pare un armadio;
Diversi animali sfuggiti alla giungla selvaggia e con scarsa voglia di correre tra cui si annoverano: tre coccodrilli in gomma piuma, una tigre della Malesia portata in spalla da un maratoneta, cinque rinoceronti con zanne in avorio placcato ed una incazzatura in volto che paion scappati or ora dal Madagascar;
Un orchestra sinfonica con tanto di tromba, trombone e tamburo suonando una Radetzky March un po’ affannata e singhiozzante;
Un cavallo portato al trotto da 4 corridori in divisa verde e cappello rosso che ricorda la Russia stalinista;
Un bebe un po ingrassato con tanto di ciucci o rosa in bocca;
Un esercito di Re Artù senza Re con tanto di armature, e scudo ed elmo (senza cavalli da galoppare);
Un palombaro senza acqua intorno;
Biancaneve, che anche qui nella rivisitazione inglese pare sia é un uomo bello che villoso, ed i sette nani con tanto di barba ed orecchie pensolanti;
Uomo che corre con frigorifero gigante sulle spalle, possibilmente, si spera per lui, vuoto senza che nessuno l’abbia riempito con la spesa del sabato pomeriggio;
Un gondoliere venezia che sembra un gondoliere ma che probabilmente non é un gondoliere;
E poi a seguire: un puffo gigante, Topolino, un girasole. un giullare di corte, l’ape Maia, The mask, una Queen Elisabeth un po’ più gommosa del solito ma con tanto di corona e faccia sorridente poco stanca.
London Marathon 2014. Quarantamila paia di gambe. Venticinque gradi, circa. Qualche trentina di caviglie rotte. Centocinquantasette muscoli sfilacciati. Centotrentotto cerotti. Qualche centinaio di gambe rotte ed andatura zoppicante in stile Pinocchio.
London Marathon 2014. Tutta la caratteristica fauna podistica fin qui riportata deriva, oltre che da uno spiccato senso dell’umorismo inglese, dalle corse fatte per beneficenza. Nei mesi precedenti buona porta di questa folkloristica mandria di corridori non ha fatto altro che raccogliere dei fondi per sponsorizzare la loro corsa e darli in beneficenza ad ospedali, associazioni, fondi di raccolta per ricerca contro il cancro, leucemia, eritroblastosi fetale e quant’altro. Il corridore macina poco più di venti chilometri sotto al sole. Si becca una medaglia celebrativa e le associazioni di ricerca raccolgono il resto.
London Marathon 2014. Una coppia si tiene per mano e corre a passo lento. Lei zoppica, lui la sorregge. Il traguardo é solo a qualche centinaio di metri di distanza e loro ci vogliono arrivare insieme con una mano che stringe l’altra. Con un braccio che sostiene l’altro. Attraversano la cornice di Westminster ed un applauso scrosciante riempie l’aria afosa tutta intorno. Loro alzano un braccio in senso di saluto, sorridono e continuano verso il traguardo.
London Marathon 2014. Un uomo di quarantadue anni tiene i denti stretti per tutta la durata della corsa. Attraversa il traguardo. Sorride. Le pupille gli si dilatano. E poi stramazza a terra stroncato da un attacco cardiaco.
Un uomo che avrà poco più di sessant'anni mi passa davanti. Passo lento ma regolare. Ha indosso un visiera che lo protegge dal caldo. Dei pantaloncini molli e scoloriti. Ed un sorriso involto che si confonde con una smorfia di dolore. Mi passa davanti e leggo una scritta dietro la sua maglietta: “London Marathon, Never Again”.
Anche questa è Londra.
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lorenzoconigli · 11 years ago
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Ritratto di carnevale
Carnevale. Immaginate il carnevale. Immaginatelo intenso. Mascherato. Come lo sognereste. Come vi piacerebbe vederlo. Così come il carnevale dovrebbe essere. Adesso togliete dalla vostra testa le maschere di piazza San Marco a Venezia e concentratevi sul resto. Sul Carnevale. Nel caso vi siano venute in mente immagini di Rio de Janeiro, con danzatori e ballerine che si cimentano in sfilate per le strade con tutte le telecamere del mondo a riprenderli. Allora dimenticate anche quelle. Dimenticatele, perché quelle sono scuole di danza. Dimenticate i vestiti succinti. Le scollature procaci e la gente che balla ben ordinata. Tutti in fila come una scacchiera in movimento. Regina. Re. Alfieri. Torri e pedine. Dimenticatelo. Perché quella è Rio de Janeiro. Adesso, chiudete gli occhi e provate ad immaginare il carnevale. Provate solo ad immaginarlo e noi vi guidiamo.
C’è un posto da qualche parte nel mondo in cui si respira una povertà inumidita. Una povertà di cui sono pregne le pareti dei palazzi. Delle case. La si respira nell’aria, quella povertà che la gente un po’ inconsapevolmente indossa. La indossa sugli occhi. Nei movimenti. È una povertà essenziale che molto probabilmente non avete mai sperimentato, né tantomeno provato ad immaginare. È una ricerca essenziale. È una forzata e dovuta messa a fuoco sulle priorità. Priorità personali e di chi vi circonda. È una roba che non la si spiega nemmeno a provarci. Ora, immaginate quel posto. Immaginatelo con tutti i vostri problemi, i problemi che inondano la vostra vita e quella di ognuno, tra ansie, disperazione, batticuore e tutto quello che avrete sperimentato, se siete stati fortunati abbastanza, più di una volta nella vita. Tenetelo stretto. E adesso. Adesso chiudete gli occhi. Non qualche istante, ma chiudete gli occhi, diciamo, per una settimana. Cecità. Completa. Dimenticatevi per una settimana di tutto quello che avete da risolvere, da sistemare, una volta per tutte, di quello che vi affligge e vi angoscia, e vi da pena, e ansia. Dimenticatevene. Mettetelo in un cassetto impolverato tra qualche calzino mal piegato, perché lo riprenderete dopo. Dopo, tra una settimana, diciamo.
Occhi chiusi, immaginate una strada. Una strada qualunque, non importa. Metteteci un autobus, di quelli a cielo aperto, su cui di solito vi piazzano per farvi fare il giro panoramico di una città a prezzi modici perché siete turisti. Metteteci su un gruppo musicale. Ma uno di quelli belli e rumorosi. Dipingeteli. Facce. E vestiti. Ma non troppo perché fa caldo. Fa un caldo da pazzi che nemmeno nel vostro ufficio a ferragosto senza aria condizionata. Ora avete una strada ed un autobus ed un gruppo musicale che fa tanto di quel rumore da sentirlo a chilometri di distanza. La band suona. E la cantante in vestiti tipici salta da una parte all’alta dell’autobus come un’ indemoniata. Cantando a squarciagola. E saluta. La cantante saluta la gente sui balconi. Ah già, non dimenticatevene. I balconi sono stracolmi di gente. Gente che canta, balla. Gente fatta di bambini, uomini, donne, nonni, nonne, zii, qualche cane e tutto quello che riuscite a farci stare in un balcone spremendo la vostra immaginazione. Cercate di essere un po’ coreografici. Aggiungete dei drappi colorati sui balconi. Dei palloncini. Ed una pioggia di pezzi di carta colorata. Pioggia interminabile in una tempesta di festa. Come il compleanno del piccolo di casa. Tutto addobbato. Solo che guarda caso è il compleanno di tutti i bambini in tutta la strada. Ma proprio tutti, anche dove bambini in casa non ce ne sono. Uno fa finta di avercelo e addobba tutto comunque. Ricapitolate. Strada, autobus, musica, gruppo musicale rumoroso, ballerina che salta come un canguro, balconi tappezzati a festa, balconi sovraffollati. Adesso manca la gente. Metteteci gente per strada. Ma non qualcuno sparso qua e la. Dovete immaginare una fiumana come non l’avete mai vista. Non sono persone, ma un tappeto. Ecco, immaginate un tappeto di gente. Un serpente che inonda tutta la strada che abbraccia tutto. Ma proprio tutto. Sommerge l’autobus, il gruppo musicale, la segnaletica stradale, i palazzi. Non sono persone. Sono un fiume continuo senza sosta. A dire il vero non è un fiume tipo la Senna a Parigi che scorre lento e placido. È più un torrente, un serpente, in piena che salta e si dimena e si muove e cammina e balla. Il serpente balla. Ma non balla con dei passi di danza studiati nello studio del vostro insegnante di ballo, ondeggiando sulle tavole di un parquet, rumorose e consumate. No, balla e salta come se fosse indemoniato. Perché la cantante sembra un canguro e quindi non c’è alcun motivo per cui il torrente, il serpente, il tappeto non debba saltare a sua volta. Balla il serpente. Balla ad occhi chiusi dimentico di quello che ha lasciato nel cassetto tra i calzini sporchi. Balla spensierato e senza sosta e canta e grida e urla a squarciagola ma è una caciara. E nessuno lo sente. Perché c’è la musica che vien fuori dagli altoparlanti, e la cantante, e il batterista, e altre centinaia di migliaia di persone stanno lì a cantare e parlare.
Ora che dovreste avere l’immagine ben dipinta in mente, manca solo una cosa. Un dettaglio, la ciliegina sulla torta, l’ultima spruzzata di panna sulla torta nuziale. E quella cosa siete voi. Non siete spettatori in quest’immagine. Voi siete lì in mezzo. Siete nel tappeto, nel torrente, nel serpente. Insomma avete capito. Prendetevi e posizionatevi nel mezzo della gente. Non importa dove a dir la verità, tanto verrete sbalzati via dopo qualche istante. Ma sarete lì nel mezzo. E prima che ve ne rendiate conto starete ballando e saltando e cantando una canzone che nemmeno conoscete e probabilmente starete parlando portoghese senza nemmeno saperlo. Da lì sotto, da lì in mezzo, guardate in alto. Guardatevi intorno. Ed osservate l’autobus, osservate la gente sui palazzi, osservate la gente sui camarote, senza sapere cosa un camarote in realtà sia. Se siete fortunati abbastanza qualcuno vi spiegherà come i camarote in realtà siano delle specie di tribune che affacciano sulla strada. Si paga un biglietto e si balla e si osserva tutto da lì. Ma del resto questa è un’immagine, e un po’ di fantasia non costa poi granché, quindi voi mettetevi pure in mezzo della gente che salta. Va bene uguale. Lasciate i camarote a chi vive la vita a metà, a chi non ha niente di così grande da mettere nel cassetto con i calzini.
Salterete al ritmo di chi vi sta accanto, dimenticandovi di essere stanchi. Tra una miriade di magliette colorate, perché ogni autobus è un gruppo, ogni autobus è una maglietta, ogni autobus è un colore e voi potrete starci proprio attaccati sull’autobus, o salirci, o saltarci intorno, circondati da una corda. Una sottile cordicella tenuta da chi balla che delimita chi la maglietta l’ha comprata, dal resto del mondo. Dal tappetto informe che si muove. E vi troverete immersi in un mondo che non vi appartiene ma che vi accoglie. Tra mani sconosciute nelle vostre tasche che con un sorriso vi sfilano quello poco che avete scelto di portare con voi, tra strette di mano, abbracci e baci rubati in quella che non è una strada, non è una festa, è musica che vi assorda le orecchie, sono gambe che saltano, magliette sudate, spruzzi d’acqua, di birra, per aria, che atterranno allegri sulla vostra testa, e coriandoli che si attaccano perché la cantante saluta la gente sui balconi e quelli buttan giu palloncini e coriandoli per strada, ma voi siete per strada che ballate saltate e tutto vi cade in testa, per terra, ed un uomo che balla vi sorride e vi ruba la sigaretta dalla bocca e vi ringrazia danzando via, ed una donna vi bacia sulle labbra e poi scivola via. E poi. E poi continuate finché ci riuscite. Anche oltre perché non avete scelta, vi lasciate trasportare, il corpo, la mente, l’anima e probabilmente anche il portafogli.
Siete al tavolo di un bar all’aperto che sorseggiate una birra. Esausti. Qualcuno pulisce le strade. Qualcun altro inizia ad addobbare il balcone, perché dopo qualche ora si ricomincia. Perché gli occhi, del resto, ce li dovete aver chiusi per una settimana. Perché qui, da queste parti, il carnevale dura una settimana intera.
Benvenuti al Carnevale di Salvador de Bahia.
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lorenzoconigli · 11 years ago
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Edimburgo tra gotico e ciambelle senza buco
Questa settimana alloggio al Marriot di Edimburgo, Scozia. Il Marriot è uno di quegli alberghi che ti lasciano addosso come un senso di fastidio. Come avere gli occhiali da sole in una giornata di pioggia. O come mettere il sale nel caffè, al posto dello zucchero. Quel genere di fastidio. Il fastidio del cameriere che ti riempie il bicchiere ancor prima che sia finito. Il fastidio di una carta magnetica per usare l'ascensore. Il fastidio di un lusso cui non si è abituati, né cui molto probabilmente ci si abitua mai. O almeno credo. In breve, il Marriot.
  Edimburgo. Edimburgo è probabilmente la città meno scozzese della scozia. Così come del resto Londra è la città meno inglese dell'Inghilterra. È la città del gotico che te lo senti addosso quando cammini per i marciapiedi. Il gotico di quei palazzi zeppi di archi a sesto acuto. Con finestre ordinate a scacchiera in edifici mastodontici e delle vetrate che son tanto pesanti quanto la vecchiaia che si portano addosso. C'è così tanto stile gotico a Edimburgo che paiono non sapere più dove metterlo né cosa farsene. Ce n’è talmente tanto in abbondanza che alla fine finiscono per infilarvici dentro Starbucks e pub. Ci si passa davanti pensando sia un museo. Pensando sia forse dove David Hume ha trascorso la sua infanzia. Ed invece una volta all’interno si può solo ordinare un caffè macchiato ed un muffin al cioccolato. Ma anche questo fa parte della città immagino.
La ragione per cui Edimburgo ha così tanto Gotico del resto è grazie ai tedeschi. Quando durante la seconda guerra mondiale, per qualche motivo, hanno ben pensato di non sganciare qualche bomba qua e là e raderla al suolo. Così la capitale scozzese è scampata ai bombardamenti ed ora la si può apprezzare per quella che è sempre stata. Così, rimanendo sott'olio per tutto il secolo scorso. Intatta. Londra invece, quella, hanno ben pensato di buttarla giù come si deve e per bene.
Ci si perde in uno strano fascino antico camminando per le strade di Edimburgo. Anche senza una guida che vi illustri storia e significato dei monumenti. C’è da prenderla così com’è. Con il solo gusto di perdersi per ogni piccola viuzza per respirare il sapore di Scozia. Sentirete qualche cornamusa lontana che racconta vecchie storie senza parole. Troverete negozi che venderanno kilt tipici, ma non troppo, a prezzi da turisti, ma non troppo. Perché del resto, quello si sa, in scozia in gonna ci vanno anche gli uomini. I più audaci e fedeli al folklore, ci vanno anche senza intimo. Perché così vuole la tradizione.
Edimburgo dei Jazz Club nascosti. Edimburgo del The Jazz Bar che ne è il più famoso. Uno di quelli chiusi in una penombra, dove se sole luci saranno quelle lampade rossastre, una per ognuno dei piccoli tavolini rotondi, che troverete nella piccola ed unica sala del locale. Una specie di polaroid a colori sbiadita degli anni venti. Dove l’unica cosa che vi mancherà sarà il fumo delle pipe che svolazza e resta immobile nell’aria che sa di chiuso.
Edimburgo del parlamento che pare un lego montato al contrario e senza criterio. Il parlamento che sta di fronte al castello della Regina, sempre Elisabetta, che lì ci passa qualche giorno l’anno. Per tradizione. Per abitudine. Edimburgo che sembra una ciambella senza buco. Dove al posto di un buco ci hanno messo una montagna. O se volete dove ci hanno costruito la città intorno ad una montagna. Lo chiamano Arthur’s Seat, perché pare lì Re Artù avesse il suo castello. Il castello di Camelot. Ma tutta la storia di Artù, della spada, di Camelot del resto è un po’ come Bocca di Rosa di De Andrè, pare posseduta un po’ tutti e po’ da nessuno e alla fine nessuno ci capisce più niente. Ed è così che nasce la leggenda. L’Arthur’s Seat richiede un po’ di trekking per farla complicata. Per farla breve, basta un paio di scarpe da ginnastica. Anche rotte va bene uguale. E lo sforzo, la scalata, varrà tutto l’impegno che ci avrete messo. Perché da lassù, dalla cima della ciambella senza buco avrete di quella sensazione del sentirsi in cima al mondo per un po’. Un po’, giusto il tempo che il vento non vi trascini via, il tempo di una panoramica con la vostra fotocamera, il tempo di osservare un po’ tutto intorno. In silenzio. Osservare un pezzo di Scozia senza esser troppo disturbati.
Edimburgo è la città delle visite notturne nei sotterranei della città, nelle segrete ricche di segreti, raccontate da uomini incappucciati. Storie di omicidi. Di misteri. Storie nella storia. Che se volete anche quelle hanno un fascino. E come succede per alcune delle cose dal fascino discreto, dovrete pagare per vederle.
Edimburgo è anche la città dei locali notturni, delle feste nascoste e senza fine, dei fiumi di birra e di whisky scozzesi, prodotti in isole scozzesi in barili scozzesi. Ma quelli, se rimarrete sobri abbastanza da ricordarvene, potrete benissimo scoprirli da voi.
Questa è Edimburgo. O perlomeno una parte. Quella che riesci a spremere in qualche giorno. E per adesso va bene cosi.
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lorenzoconigli · 11 years ago
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London - Camden Town
Giocolieri. Acrobati. Facce dipinte di colori sgargianti. Palle, palline e birilli che ondeggiano in aria. Ondeggiano e poi ricadono tra le mani del giocoliere, con la faccia dipinta, le bretelle consumate ed una goccia di sudore sulla tempia che porta via un po’ di trucco. Uomini altissimi che barcollano su trampoli ancora più alti. Che salutano da lassù con il loro cappello cilindrico. Fabbricano giraffe e barboncini con un palloncino mezzo sgonfio. E sorridono a bambini che stringono tra le mani con forza palloncini svolazzanti. E griglie. Griglie che grigliano carni alla griglia. E perché no anche qualche scimmia arrampicata sul semaforo. Due elefanti che giocano a carte. Ed una giraffa che prende il sole. 
Non saprei dire esattamente perché. Ma la prima volta che mi hanno parlato di Camden Town era così che me la immaginavo. Colorata. Colorata ed in continuo movimento. Robe che ruotano costantemente per aria ed una fiumana di gente rumorosa. Ammetto che giraffe ed elefanti erano un po’ frutto della mia immaginazione. Immaginazione circense pare. Ma per il resto Camden, quella che ti consigliano sempre di visitare a Londra, Camden Town doveva essere così.
Ed in effetti, che voi ci crediate o no, Camden Town è davvero così. Vi servirà un po’ di fantasia, ma Camden è così per davvero. Vi servirà un po’ di fantasia perché vediate come i trampoli, quelli alti, altissimi, in realtà siano solo degli stivali neri borchiati con una zeppa così alta, che sembra un tagliere da cucina messo di traverso. E lui, il trampoliere, non è che abbia sul serio un cappello cilindrico in testa, ma piuttosto una di quelle pinne da squalo oceanico. Pinna fatta di punte. Punte nere ingelatinate e tirate a lucido. Di quelle che il primo palloncino ad elio nelle vicinanze scoppia per lo spavento e si affloscia per terra. Sarà per quello che i trampolieri di Camden non regalano palloncini ma cercano piuttosto di piazzarvi un tattoo o un piercing. Non lì per strada. Sono li a dirvi dove possiate tatuarvi un quadro sul braccio ed avere il vostro primo piercing a prezzi modici fatto da professionisti del posto. Di trampolieri ne è piena l’intera Camden High St.
Per il resto di elefanti che giocano a carte e di giraffe che prendono il sole neanche l’ombra. Ed anche lì dovreste chiedere alla vostra fantasia di fare un piccolo sforzo. Perché l’unico animale che vedrete sarà un dragone. Lui, le sue otto mani, la sua pelle squamata e la sua coda. Niente di cui aver paura comunque. Perché il dragone se ne sta lì buono buono a dimensione naturale sulla parete. Sì, perché le pareti di Camden sono così. Sollevate il naso dalla fiumana di gente, e dal marasma di voci, accenti, lingue e dialetti che vi avvolgerà per tutto il pomeriggio e fermatevi ad osservare in alto. Troverete un aeroplano che vien fuori da un edificio. Una scarpa da ginnastica che spinge su di una parete scolorita. Una sedia a dondolo, che di nonni ne farebbe dondolare una decina. Una gigante sedia a dondolo sospesa per aria. Ed il dragone. Ed un mare di oggetti che per qualche strano motivo fioriscono su dalle pareti dei vecchi edifici a due piani. Vi sentirete in una sorta di Gulliver’s Travel senza la fatica di dover integrarvi tra lillipuziani e giganti, e senza nemmeno dover far la fatica di leggerne il libro. Nel caso non l’abbiate ancora mai fatto.
È così Camden. Un po’ fuori forma. Un po’ gigante. Un po’ lillipuziana. Un po’ senza tempo. Perché a Camden si respira un’aria di strana libertà. Liberta dal condizionamento. Ammesso che vi possa essere un’idea di condizionamento. Libertà. Di poter ascoltare un chitarrista sul ponte che passa sopra il prolungamento del Regent’s Canal. Dell’uomo che spende il pomeriggio a far versi di uccelli che non avrete mai immaginato potessero esistere. Vi sentirete addosso quell’odore di Londra un po’ suburbana. Un po’ underground. Che poi underground non è. Vedrete il fantasma di Amy Winehouse che vi osserverà da qualche murales. Vedrete i graffiti di Banksy sparsi per le vie più nascoste di Londra, racchiusi e condensati in un quadro. In un dipinto. Per vedere gli originali, quelli meritano un altro post, tutto per loro. Banksy che è un po’ come la sorella della fidanzata di vostro cognato. Di quelle che avete visto e rivisto ai pranzi di Natale e che vi pare di conoscere abbastanza bene da descriverla, ma che non ricordate mai come si chiama. Proprio quel Banksy lì.
Camden inoltre, se volete, è anche un melting-pot di odori e sapori. Quando arriverete giusto sopra al ponticello che passa sul fiume, avrete a destra un’area dei mercatini dove per poche sterle potrete assaggiare cinese. Giapponese. Indiano. Thai. Messicano. Spagnolo. Italiano. Francese. Russo. Colombiano. E qualsiasi altro tipo di cucina possa venirvi in mente. Calibrate e dosate il vostro appetito con attenzione. Perché passando da ognuna delle bancarelle, potrete assaggiare prelibatezze a volontà col rischio di arrivare alla fine della strada satolli come uova sode. E nel peggiore dei casi rotolare. Questo avviene a destra del ponte. A sinistra invece c’è una più curiosa rappresentazione delle cucine del mondo. Stesso stile. Ma più curiosa. Al ponte voltate a sinistra se avete voglia di scoprirla. Altrimenti fatevi mandare una foto. Altrimenti una cartolina. Altrimenti se nessuno ve la manda lasciate che vi basti così. È solo più curiosa. 
La cosa divertente però, è che proprio quando vi pare di esser sazi di curiosità, colori, stranezze, burritos ed alette di pollo fritte. Quando avrete dato l’ultimo sorso alla vostra lattina e il cibo messicano inizierà a piazzarsi con prepotenza sul vostro stomaco. Quando arrivate al punto in cui pare il marasma stia scemando. E che Camden non abbia più nient’altro da dare. È proprio lì che nella vera attrazione di Camden dovete ancora entrarci. Buttate gli occhi in alto e vedrete un’insegna che ne delimita l’ingresso. Camden Lock. I Camden Lock che di Camden sono il cuore.
Camden Lock che sono un mondo nel mondo.
Camden Lock che meritano anch’essi di essere narrati in un altro racconto.
Camden Lock, di cui a quanto pare, qui non si parlerà.
Fine.
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lorenzoconigli · 11 years ago
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Saloon - Solo un'altra storia
- Allora?
- ...
- Allora cosa prendi da bere?
- ...
- Senti no so chi diavolo tu sia, ma nessuno sta in piedi di fronte al bancone del mio bar fissandomi a quel modo. Dimmi cosa diamine vuoi da bere prima che ti prenda a calci in culo.
Willy Lo Squarcio spostò lo sguardo sulle bottiglie alle spalle del barman. Le osservò una per una. Ne osservava la forma. Il contenuto. Il colore. Una per una. Lentamente. Vedeva la sua immagine riflessa nello specchio, Willy. Vide il suo cappello sporco grigio impolverato e sudicio. La sua mantella stretta sul collo che cadeva sulle sue spalle ricurve. E proprio all'altezza del petto vi trovò un paio di fori e strappi. "Vista cosí fa davvero schifo" pensò. Quando il suo sguardo raggiunse l'ultima bottiglia della mensola torno a fissare il barman. E poi abbassò lo sguardo sul bancone.
Cosí disse Willy. Per dirla tutta non disse proprio un bel niente. Semplicemente, niente.
Willy era detto Lo Squarcio. E quando lo si chiamava cosí, qualcuno lo guardava attentamente in volto, cercando qualche cicatrice, qualche segno che potesse giustificarne il nome. Un segno di un taglio, magari vicino alla guancia, o all'altezza del collo, o meglio un proiettile che forse l'aveva sfiorato in un duello, lasciandoli un segno profondo in volto. Ma in volto la gente vi scorgeva solo un barba grigiastra e incolta, e non vi era niente che potesse giustificarne il nome. 
Cosí si pensava una cicatrice Willy l'avesse sulla coscia. Forse una lunga cicatrice dall'inguine fin giù per il ginocchio, di quelle lunghe e profonde, da far paura solo a guardarla. Una di quelle robe da renderti zoppo e claudicante a vita, ma Willy, quando lo si vedeva arrivare camminava ben dritto sulle gambe. Aveva certo un'andatura che ricordava un cammello, con la schiena ricurva e qualche sputo di catarro che volava via sul pavimento, la strada, la polvere o dovunque si trovasse. Ma quando camminava non zoppicava affatto. Arrivava cosí Willy Lo Squarcio, camminando come un cammello, schiena ricurva, sguardo basso ed il mondo che pareva essere la sua sputacchiera personale. Tutti si chiedevano perché magari non lo si chiamava Willy Il Cammello allora. É per quello che si usano quei nomignoli. E se non si chiama Il Cammello uno che cammina e sputa come un cammello, ci sarebbe pur dovuta pur essere una ragione. Il Cammello non sarebbe suonato cosí inquietante come Lo Squarcio, ma chiamare qualcuno a quel modo senza nessuna ragione era scomodo, faceva sentire come avere una tarantola che si muove nei calzoni dopo aver chiuso la lampo. Infastidiva e rendeva nervosi. Quando lo vedevano arrivare nessuno sapeva perché Willy fosse detto Lo Squarcio. Solo quando Willy voltava le spalle e andava via, allora era chiaro a tutti. La tarantola dai pantaloni spariva e tutto tornava come prima. Quando Willy si voltava per andarsene la prima cosa che si notava erano la schiena ricurva e la lunga mantella impolverata che scendeva lunga fin dietro alle ginocchia. Ma quando toglieva la mantella allora lo si capiva. Lo si vedeva. Tutti lo vedevano con i proprio occhi. Lo squarcio. Willy aveva il culo di fuori. Perché l'unico squarcio che aveva era uno lungo e sfilacciato sur retro dei suoi pantaloni. Un lungo enorme pezzo di stoffa mancante che partiva da sopra le chiappe e scendeva giù per la gamba sinistra. Si notavano le cuciture e ricuciture che nel tempo qualcuno aveva provato a metter su per saldare insieme i pezzi di stoffa. Ma la strappo nei pantaloni era ancora li. Penzolante.
- Quello deve avere una scoreggia da far tremare la terra.
- Magari gli viene bene quando va al cesso.
- Magari non gli stanno le chiappe nei pantaloni.
Questo diceva la gente di Willy Lo Squarcio. Quando andava via e non aveva la mantella indosso.
Ma in quel momento nel Saloon Willy era seduto e nessuno ne aveva ancora visto le chiappe.
- Che c'é Marnix, questo cerca rogna?
- Ed io che ne so Phil. Sta qui fermo immobile da quando é arrivato. Non beve. Non parla. Non dice un cazzo.
- Hey tu. Dico a te cowboy hai qualche problema?
Willy fissava il bancone. Senza voltarsi.
Marnix, il barman Marnix, aveva le entrambe le mani strette sul bordo del bancone, con la maniche della camicia rialzate ed un enorme chiazza di sudore all'altezza del petto.
Phil, detto Spacca-Naso-Phil perché una volta era talmente ubriaco da riuscire a rompersi il naso contro la porta del bagno per tre volte di fila, una per ogni volta che era andato a farsi una pisciata in bagno, guardó ancora una volta Marnix negli occhi e poi si avvicino a Willy. Gli si sedette di fianco, osservandolo da vicino.
- Ma respira?
- Ed io che ne so. Da qua pare di no.
- Magari non parla la nostra lingua. Magari é un forestiero. O chessò io.
- Prova a mettergli un dito nel naso Phil, magari ha qualche reazione.
- O magari gli spacco quel naso con un pugno forse qualcosa la dice.
E mentre lo disse Phil, detto Spacca-Naso-Phil gli posò una mano sulla spalla.
L'attimo seguente il mondo si fermò. Il saloon si fermò. 
Jackie-Tre-Mani, il pianista Jackie tre mani che con una mano fumava una sigaretta, con una beveva il suo bicchiere di succo di more e con l'altra suonava un movimentato boogie woogie si fermo su un Do diesis scordato che vibrò nell'aria per un eternità. I fratelli Duncan che non avevano detto nemmeno una parola per tutta la giornata seduti ad un tavolo in fondo alla sala, continuarono a non dire niente ma si voltarono verso Jackie-Tre-Mani. Jackie che si era voltato verso Bill. Bill meglio conosciuto come Provaci-ancora-Bill per la sua incontinenza ed il suo continuo dirigersi verso il bagno del saloon, fermarsi sulla porta e poi tornare al suo posto. Risedersi e subito rialzarsi fino ad arrivare alla porta del bagno del saloon. La maggior parte delle volte al terzo o al quarto tentativo Bill entrava in bagno e li rimaneva per un pò. Usciva con un aria soddisfatta Provaci-Ancora-Bill. Si sedeva, ordinava un'altra pinta e li rimaneva fino a che non li fosse scappata ancora una volta. Quando i fratelli Duncan guardarono Bill, Bill si era fermato giusto un passo prima della porta del bagno. Bill guardava Marnix al bancone, e Phil seduto vicino allo straniero. 
La lunga canna del revolver si infilava in parte nella narice, la guancia destra gli si era accartocciata intorno all'occhio.
Respirava appena Spacca-Naso-Phil, mentre Willy impugnava saldamente la revolver con uno sguardo assente e perso nel vuoto premendola contro il suo naso.
Marnix fissò attentamente il naso distorto di Phil. Poi gli occhi di Willy. Di nuovo la revolver. Ed ancora lo sguardo di Willy. Osserva entrambi Marnix. Fin quando si voltò e sospirò un rassegnato:
- Fanculo.
Scrollò le spalle e si voltò iniziando ad asciugare qualcosa che pareva un bicchiere sporco.
Provaci-ancora-Bill era ancora vicino alla porta del bagno del saloon quando strinse le ginocchia, poi strinse le guance, poi strinse la bocca, poi strinse gli occhi e poi si voltò verso Jackie-Tre-Mani. Jackie-Tre-Mani sollevò le mani dolcemente dai tasti ed il Do diesis scordato si perse lentamente tra le sudicie pareti in legno del saloon. Tirò una boccata di sigaretta e si volto verso i fratelli Duncan seduti in fondo alla sala. I fratelli Dancan che non avevano detto nemmeno una parola per tutta la giornata si guardarono senza dirsi niente, fin quando uno di loro non esclamò:
- Per me se la sta facendo adosso.
- Io dico che ce la fa.
- Ti dico che se la sta facendo addosso.
- Ed io ti dico che ce la fa.
- Cinque monete sul tavolo.
- Perché non facciamo dieci. Sei stretto di chiappe.
- Allora vada per venti.
- E venti siano.
Cosí sbatterono entrambi quaranta monete sul tavolo. Le sbatterono con forza senza nemmeno guardarle. Erano uno di fronte all'altro i fratelli Duncan. Muso a muso. Uno tirò un cazzotto al tavolo che fece barcollare i due boccali colmi di succo al pompelmo. L'altro fece altrettanto ed i boccali si rovesciarono per terra, tra le tavole di legno scuro che tappezzavano l'intero saloon.
- Guarda che cosa hai combinato, pezzo di deficiente.
- Cosa ho combinato io? Cosa hai combinato tu piuttosto.
Cosí, il fratello Dancan, quello di destra, prese la testa del fratello Dancan, quello di sinistra, ed iniziò a sbatterla con violenza contro il bordo del tavolo. Quando il fratello Dancan, quello di sinistra, gli strinse la mano mentre il suo sopracciglio iniziava a sanguinare, il fratello Dancan di destra si fermò e disse:
- Hey tutto ok?
- Si, non preoccuparti.
E cosi il Dancan di sinistra tiro un calcio allo stinco di Duncan di destra. Caddero sulle sedie, spinsero il tavolo ed alcune delle quaranta monete messe sul tavolo caddero e si sparsero per il locale. Jackie-Tre-Mani, che con una mano fumava una sigaretta, con l'altra iniziò a suonare The Entertainer come colonna sonora del momento con l'altra mano rimastagli, raccolse una moneta rotolata fino ai piedi del piano la guardò e disse:
- Io dico che se la fa addosso.
E senza guardare con una mano la lanciò all'indietro, mentre con l'altra continuava a suonare e con l'altra ancora ordinava un altro bicchiere di succo di more.
Quando Jackie-tre-mani lanciò la moneta senza guardare alle sue spalle, la si vide roteare in aria attraversando l'intero saloon, passando sopra le teste dei fratelli Duncan ancora presi ad azzuffarsi e dirigendosi verso Robert uno-due-tre che dormiva con la faccia spalmata su di un manto di succo di mela che ricopriva il suo tavolo. La moneta finì nel suo boccale, schizzando gocce di succo un po dappertutto. Un paio caddero sul volto di Robert che improvvisamente si svegliò, si rizzò in piedi scaraventando per terra sedia e tavolo, mentre il suo boccale di succo di mela esplodeva sul pavimento iniziò ad urlare: 
- Cazzo, arrivano gli indiani!
Cosí mentre Jackie-Tre-Mani suonava un pezzo a tre mani, Willy-Lo-Squarcio teneva ancora salda la pistola nella mano, Marnix asciugava dei bicchieri sporchi con un panno sudicio, mentre Spacca-Naso-Phil aveva ancora la canna del revolver che gli faceva da tappa-moccio, i fratelli Duncan se le davano di santa ragione  e mentre Provaci-Ancora-Bill si era chiuso in bagno scaricando Dio solo sa cosa, mentre il sole continuava a tramontare e la terra a roteare, le porte del Saloon si spalancarono. Ed un ombra iniziò ad avanzare.
Silenzio. 
Tutti si bloccarono. Nemmeno il vento aveva più voglia di soffiare fuori per la strada, né tra le finestre ombrate. Silenzio. Le mosche si dileguarono e nessuno ricordava mai di aver sentito una tale assenza di rumore nel Saloon. L'ombra avanzava con passo claudicante. E mentre si avvicinava al bancone del bar nella quiete più assoluta, si senti il rumore di un enorme scorreggia provenire dalle porte del bagno e l'urlo disperato di Bill, detto provaci-ancora-Bill che diceva:
- Scusatemi, ma sta volta ce l'ho fatta!
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lorenzoconigli · 11 years ago
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Solo un post di risposta
Un blogger del Fatto Quotidiano si é cimentato nella descrizione delle abitudini degli italiani all'estero. Di solito quando leggo un articolo così non rispondo, ma mi limito a buttar gli occhi al cielo. Questa volta però mi sono lasciando andare ad un post. Con permesso.
Questo l'articolo
Caro Matteo,
é con immenso dispiacere che ho letto il tuo il articolo sulle nuove tendenze degli italiani all’estero. Il mio dispiacere nasce parzialmente dallo stile un po’ scolastico che aveva il tutto. Espressioni, frasi, terminologie, tutto un po’ come scritto sui banchi di scuola. Ma forse vista la tematica che hai trattato e come l’hai trattata, era probabilmente un approccio voluto. Forse una di quelle tecniche di giornalismo avanzato, che uno che si diverte a scrivere solo racconti e storie come me non può capire, né molto probabilmente capirà mai.
Sono alcune le cose che si evincono dalle righe che sei riuscito a buttar giù. Anche se non starò di certo qui ad elencarle tutte, per non tediare né te ne gli altri lettori. E soprattutto perché non sono mai stato bravo ad evincere un granché da un blog post. Se c’è una cosa che però sono sempre stato bravo a fare e perdermi. Mi è sempre piaciuto perdermi nelle stradine di una città che non conosco, per delle vie di campagna che non mi appartengono e spesso e volentieri per delle città in cui non sono mai stato o in cui vivo da anni. Perdersi a volte è una spiacevole conseguenza. Per me è solo un’entusiasmante scelta. Perché una volta che ci si è persi, la parte divertente sta nel ritrovarsi. E ti assicuro, Matteo, che una volta che si ritrova si ha sempre qualcosa in più addosso. Non che uno riesca a spiegarsela. Né tantomeno riesca a spiegarla agli altri. Ma ce la si sente addosso. O meglio ce la si sente negli occhi. Perdersi e poi ritrovarsi, ti cambia gli occhi con cui guardi le cose. Quello che hai intorno. Guardi le stesse cose, ma con occhi diversi. Non è presunzione. Non è disprezzo. Non è amore. Ti cambiano solo gli occhi. E ti assicuro che tutta la gente che ha commentato il tuo articolo, si porta addosso quello sguardo che ha maturato e cambiato negli anni. Perché caro Matteo, non importa se all’estero si stia con italiani, o si senta freddo o si puliscano cessi (da quando poi pulire cessi è un lavoro che merita tutto questo disprezzo?). L’importante è che quella gente ci stia provando. Ci stia provando a perdersi. C’è chi lo fa in un modo, c’è chi lo fa in un altro. Ma la loro esperienza, qualunque essa sia, li cambierà in parte. In bene o in male? Ha importanza? La domanda è retorica, perché la risposta è no. Perché anziché apprezzare la capacità di qualcuno di reinventarsi, rigenerarsi e ripartire, pare tu ti diverta a buttar giù. Tutto. Per il semplice gusto di farlo. Il che, se mi permetti, mi sembra decisamente fuori luogo.
Ora, sempre caro Matteo, nessuno te ne fa una colpa. Per quello che hai scritto, né tantomeno per come l’hai scritto. La domanda che ci si pone è solo perché qualcuno quell’articolo te l’abbia lasciato pubblicare.
Sai, c’è una frase che ho trovato ieri in un tweet di un ragazzo che riportava una citazione di Carlo Mazzacurati. Ed era più o meno così:
“Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai niente. Sii gentile. Sempre.”
Ecco Matteo, cerca di essere gentile, soprattutto se scrivi e posti articoli per un giornale letto da milioni di persone.
PS: Il post scriptum è decisamente poco elegante in un articolo.
Saluti
Lorenzo Conigli
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lorenzoconigli · 11 years ago
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Occhi con cui si guarda alle cose - ed altri deliri mattutini
Il controllo. Il controllo ho imparato a perderlo tanto tempo fa quando ho scoperto come sia importante fare piani con la consapevolezza che la sorte, la vita, spesso gioca a dadi in un sottoscala. E quando perde. Il destino. La vita, giocando una mano sfortunata a dadi t'arriva sempre come una secchiata d'acqua gelata in faccia. Non d'estate con quaranta gradi all'ombra. Ma d'inverno. Quando stai già morendo di freddo, che se tiri fuori un alluce da sotto la coperta senti il polo artico. O antartico. Ho visto pezzi di vita crollare. Cadere. Spezzarsi. Miei e di chi mi stava intorno. Di chi amavo e amo tutt'ora. Famiglia. Amici. E a volte anche il dolore di amici e famiglia ti si attacca addosso e non ti si stacca più. Si condensa, coagula appallottola e rotola giù per lo stomaco tipo sassolino. E lì ci rimane. Per sempre probabilmente. Lui e l'altra montagna di sassolini che uno ha accumulato nello stomaco nel corso del tempo. Lui cade. Arriva. Si presenta agli altri sassi. Buongiorno-buonasera-a-tutti-salve-come-va, si fa un po’ di spazio, trova il suo posto e lì rimane. Come detto per sempre, probabilmente. Io ho un idea. Una visione delle cose. Che a vederla. Ad avercela non la si crederebbe. Ho quest'idea, di come vedo il mondo, che me la porto addosso e ma la tengo stretta. E mi fa vedere le cose tutte a modo mio. Che poi a me piace vedere le cose come le vedo io. Che la vita alla fine è tutta una questione di punti di vista. Di come le si guardano le cose. O perlomeno per la più parte. Altre fan solo schifo e basta. Che se avessi una mazza spaccheresti porte e portoni. E anche quando non ce l'ha, uno una mazza se la va a cercare comunque.
I punti di vista. Gli occhi con cui si guarda alle cose. Ed altri deliri mattutini insomma.
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