“E con la leggerezza delle dita sulla carta, delle parole dette al silenzio e delle carezze del vento...la storia che parlerà sarà solamente intonata da una melodia chiamata amore.”
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Do you concider translateing your story to english! I'm rl curious but i don't know italian! :(
As we said in the previous message we are looking for someone who can do the translating process ~Thanks for your interest!
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have you ever though of translating your works? i would really love to read them!
Hi! Sorry for late reply!We’re glad that you’re interested in it, it makes us very happy :) About the translation we thinking about it and searching for a translator ~ ♥
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“Marius is a special bday gift” thanks to loputyn for this drawing ♥
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Figure of Hänsel from Les Trois Roses ( Made by Nobu Happy Spooky )
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La foi des diamants - Capitolo 3
Il luogo si estendeva superbo con la sua immensa massa verdeggiante dinnanzi a voi. Nuotavi silenzioso, muovendoti sinuosamente, sotto gli occhi attenti di Alvio ai limiti del fiume, intento ad illustrare su pergamena l'acqua e gli alberi che costeggiavano il paesaggio. L'aria era calda, leggermente afosa ma nonostante ciò sopportabile. Avevi appreso in quegli ultimi tempi che Pompei era sicuramente più calda di Roma e che allo stesso tempo l'inverno era meno freddo. La cosa ti allietava parecchio, tu che il freddo non lo avevi mai sopportato neppure nella Città d'Oro. Ecco forse una cosa positiva di quel lungo: il caldo. Quel caldo che pareva scemare sull'imbrunire per far spazio ad un'aria più fresca, pungente. Dalla tua domus riuscivi persino a vedere il Vesuvio, quell'enorme cratere che troneggiava verso il cielo quasi si fosse issato in quel punto unicamente per riuscire a toccarlo. Fra cielo e montagna. Nei momenti in cui tuo padre ti imponeva di rimanere all'interno della casa, guardare l'enorme vulcano era l'unica tua strategia di fuga. I servi passavano, più e più volte, lanciando fugaci occhiate a te, mite statua in contemplazione del cielo, e di rimando non potevi far altro che continuare a rimirare ciò che lo sguardo ti offriva dinnanzi: l'immenso. Quale immagine poetica suggeriva la tua mente. Prendesti un respiro profondo, chiudendo gli occhi, prima di immergerti totalmente, lasciando che i riccioli dorati si impregnassero di quell'acqua limpida e fresca. Rimanere fermo, inerme, protetto in eterno. Che proposta allentate. Saresti potuto restare così, per sempre ad occhi chiusi, sott'acqua, e senza respirare in quella quiete pomeridiana dove il sole filtrava silenzioso nel fiume senza riuscire a sfiorarti. Tu eri il cielo, il manto azzurro che il Vesuvio era incapace di raggiungere. Godere di quell'utopica libertà era sicuramente una splendida sensazione per uno come te, relegato perennemente ai propri doveri ai quali, però, riuscivi a sottrarti di volta in volta. Lontano dagli occhi vigili di Clelio, ti abbandonavi a piaceri nascosti. a gioie momentanee che nè lui, nè la tua casa riuscivano a donarti. Fuggire unicamente per deliziarti della tua emancipazione, o meglio nasconderti per rallegrarti della tua inadempienza. La cosa ti faceva oltremodo sorridere. Fin dall'arrivo a Pompei l'unica tua preoccupazione era stata scomparire nel momento in cui tuo padre oltrepassava l'uscio della domus, per poi rincasare sull'umbrunire prima che egli facesse ritorno. Favorito dalle parole e dagli occhi bassi di tua madre Lucretia, evadevi da quelle quattro mura affrescate insieme ad Alvio che, accomodante, non faceva altro che esaudire qualsiasi desiderio pronunciato dalle tue labbra, senza troppe contraddizioni. Ed era lì, in quel luogo nascosto dalla vegetazione e ai limiti del fiume Draconzio, che abbandonavi le tue vesti e la tua mente per immergerti totalmente nella pace assoluta. A Pompei i giorni passavano piatti, uno conseguente all'altro senza cambiamenti, senza variazioni. Nulla mutava; non il sole che di giorno in giorno sorgeva e poi tramontava per far spazio alla luna e agli astri, non la gente che popolava il Foro, non le letture nella tua biblioteca e di certo non l'arrendevolezza di Lucretia per la vita che era obbligata a seguire. Per quanto la tua mente non capisse come potesse anche solo aver tradito la figura di tuo padre, ciò che realmente non comprendevi era con quale coraggio e con quale magnanimità d'animo egli fosse riuscito a perdonarla senza incriminarla per la colpa commessa. In quell'ultimo anno non facevi che chiedertelo, domandarti perché così tanta generosità da un uomo così severo quale Clelio o perché tanto controllo nei tuoi confronti se poi non era riuscito neppure a badare alla donna a lui moglie. Domande, comunque, senza alcuna risposta. Tutta quella clemenza immeritata non aveva portato che decadenza. Quell'essere: donna, moglie, progenitrice, nulla aveva da invidiare. Toccò con mano un suolo nobiliare eppure preferì la povertà, rendendosi ancor più misera ai tuoi occhi. Risalisti in superficie, boccheggiando per qualche secondo in cerca di nuova aria con cui riempire i polmoni. Avevi passato così tanto tempo in acqua da dimenticare a quale mondo appartenessi, quale fosse realmente la dimensione in cui risiedeva il tuo corpo e certo non era il fiume. La brezza fresca ti accarezzava la schiena facendoti sussultare leggermente al contatto, freddo seppur piacevole, mentre i tuoi occhi rimanevano serrati ancora a quel mondo irreale e fragile che albergava i tuoi pensieri. Perché aprirli? Perché ora? Riscendi nuovamente senza essere notato e lasciati in balia dell'acqua e del suo tocco delicato. Nessuna bugia, mai più. Nessun dolore. Il tuo corpo apparterrà alle Camène. «Ah, quale invito più dolce». Nulla più che un sussurro pronunciato a labbra dischiuse prima di aprire gli occhi e mettere fine a quel gioco ormai troppo infantile perché funzionasse realmente. Nessuna camèna abitava quel fiume, né tanto meno ascoltava i tuoi desideri lamentosi. Esistevi tu, solo tu e l'acqua e, per quanto silenziosa e riservata, non era certamente di compagnia. Voltasti lo sguardo oltre la riva in cerca di quello di Alvio, scorgendolo esattamente nella stessa posizione in cui l'avevi abbandonato in precedenza. Dal viso serio, guardava con occhi attenti un foglio che appariva talmente meraviglioso da non permettergli di guardare altrove, nemmeno verso di te. Lo sguardo scuro era severo e rigido mentre controllava la mano che, decisa, tracciava con la grafite forme o lettere a te ignote su quei leggeri fogli di papiro. Neppure il tuo sguardo fisso riusciva a mettergli soggezione, in una situazione tale quella. «Alvio?» Lo chiamasti una volta solamente, per toglierti quella fervente curiosità, quasi infantile, verso l'oggetto a cui egli prestava così attenzione. Poteva davvero essere più importante di te, più della tua figura? Sciocco, nient'altro che sciocco. Dopo una breve pausa ripetesti ancora il suo nome, come una lieve cantilena, cercando di catturare la sua presenza nel tuo sguardo. Nel momento in cui sollevò i suoi occhi placidi stavi portando all'esterno il tuo corpo. «Alvio, portami la stola, voglio uscire» la voce era ferma mentre l'acqua cerchiava la tua cinta pallida. La figura di Alvio si alzò velocemente lasciando cadere le pergamene che portava gelosamente in grembo fino a qualche istante prima e rovesciando così per terra il suo creato. Si fermò, ma solo per qualche secondo, quasi a decidere cosa fosse più importante, se la scoperta di cosa avresti visto impresso su quei fogli oppure la stola che gli avevi ordinato di portare. Deglutì, avvampando in viso. Patetico. Ecco come riuscivi a definirlo in quel momento, nient'altro che un giovane patetico. «Allora? Per quanto ancora devo aspettare?» fu la tua voce a spingerlo avanti, verso il cavallo posto vicino al grande salice in fiore, per prendere rapidamente la stola bianca. Il volto chino lasciava intravedere la sua natura sconfitta e modesta, quasi conquistata da te che, visibilmente, apparivi più sicuro nella tua nudità totale. Imbarazzato, ti porse tremante il lungo drappo candido con il quale avvolgesti totalmente il tuo corpo quasi a simulare un mantello. Obbediva ai tuoi comandi senza opporre resistenza, non aveva diritto di parola né d'azione. Una marionetta perfetta con la quale giocare in quell'immenso teatro di vita. L'aver domandato un servo di circa la tua stessa età, negli anni passati, si era rivelata una buona scelta e, di conseguenza, tuo padre era stato più che felice di assecondare quel tuo piccolo desiderio. Fu in quell'istante, mentre Alvio si scusava impacciato, che i tuoi occhi vennero rapiti dai fogli caduti per terra. Paesaggi e visi in graffite si fondevano insieme in un unico spazio visivo, attirando il tuo sguardo. Così come cavalli, mele e alberi, alcuni visi erano solo abbozzati, mentre in altri riuscivi a scorgere te stesso. La tua espressione posata era impressa in numerose pergamene così come il tuo corpo intento nei più comuni movimenti. Passeggiavi, dormivi, bevevi dell'acqua dalle mani. A labbra dischiuse, cantavi inni ad Apollo. Alvio aveva ritratto di te la naturalezza, l'ingenuità d'animo che stentavi a mostrare. E possedevi un'espressione inspiegabilmente pura. Era forse così che il tuo servo ti vedeva? Puro ed etereo nella semplicità di movimenti comuni? Ti chinasti a terra raccogliendo un disegno, l'unico che ancora non avevi preso in considerazione. L'ambientazione era la medesima in cui vi trovavate, potevi notare come fosse stato scrupoloso nel ritrarre perfettamente le increspature dell'acqua, i numerosi alberi presenti e la tua figura, ancora una volta, eterea ed impervia eretta al centro del fiume. Portavi una stola sulle spalle, quella stessa stola che ora cingeva il tuo corpo, e un numeroso mazzo di rose rosse. Alcuni petali erano finiti in acqua. In quell'aurea visuale, la la tua espressione era assorta La bellezza di quel disegno ti disarmava. «Sei molto bravo, Alvio...» sussurrasti accarezzando la pergamena, senza alzare gli occhi al giovane «Che triste sfortuna, il tuo è un meraviglioso talento. Nato così ingente ma incapace di essere visto da occhi altrui. Saresti stato un grande pittore, se solo fossi nato cittadino romano» Serrasti fra le tue mani il disegno per poi lasciarlo scivolare in quelle di Alvio che, silenziosamente, ti ringraziò chinando nuovamente il capo. «La...ringrazio, signorino Emilio. Questo è più di quanto potessi desiderare. Non ho alcun interesse nel diventare pittore, il mio unico compito è seguirla. Perciò...per questo motivo sono felice di essere stato assunto dalla sua famiglia» la sua voce appariva sinceramente grata tanto da stupirti. Per quanto le sue parole fossero strane e per quanto tu stesso non capissi quale gratitudine potesse esserci nell'essere subordinato a qualcuno, non riuscisti a fare a meno di sorridere interiormente. Tuo malgrado, la sua giovialità era piacevole. Nel momento in cui si abbassò a raccogliere i fogli di pergamena precedentemente caduti, alzasti lo sguardo al cielo, sbuffando. Il giorno seguente si sarebbe svolto il banchetto che tuo padre aspettava da così tanto tempo. Finalmente, dopo settimane di preparativi, sarebbero giunti i senatori da Roma con nuove notizie riguardanti Tito e il suo operato. Pompei, per quanto facesse parte di Roma stessa, era da sempre stata isolata, o meglio dire autonoma, per quanto riguardava economia e politica. Temi ai quali, però, non facevi altro che sfuggire. «Domani sarà il giorno del banchetto...» sussurrasti più a te stesso che ad Alvio «E sarò obbligato a presenziare. Scelta di mio padre, ovviamente» Perché presenziare anche tu? Non bastava la presenza di Lucretia da esibire al pubblico? Era sicuramente una scelta che non condividevi. Se per tuo padre l'idea di intrattenimento era tenere sotto controllo i tuoi movimenti durante l'intera serata, non gli avresti dato alcun motivo di divertirsi. «Io penso che sarà una buona occasione per incontrare i senatori venuti da Roma. Un po' la invidio!» rispose Alvio. Tornasti a guardare il cielo, sbuffando più volte per ciò che sarebbe stata la tua prigione la sera seguente. Una buona occasione per incontrare i senatori venuti da Roma. Non ci sarebbe stato alcuno svago, alcuna compagnia. Perfino Alvio non era stato autorizzato a parteciparvi. Quale assurdità.
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La foi des diamants - Capitolo 2
Il sole illuminava, con il suo disco circolare e giallo, la figura seduta sul basso muro in granito. L’esile corpo era sporto oltre il bordo della fontana e gli occhi ne osservavano il giovane riflesso, sfocato, nell’acqua dal movimento inasprito. Pareva non volesse che il giovane si beasse della sua stessa immagine, distruggendone, sotto la guida di una brezza gentile, i contorni decisi. Ti osservavi con attenzione, ammirando gli splendidi capelli biondi, dai ricci morbidi e lucenti, che adornava il tuo viso come una tiara dorata. Leggermente spiegazzata, portavi una splendida toga pretesta, bordata di porpora e candida come un cigno. Si muoveva seguendo il ritmo del vento primaverile. I tuoi occhi guizzavano azzurrini sulla tua figura captandone i lineamenti giovani e dolci, la pelle chiara, il naso e la bocca sottile e le membra avvolte, accuratamente, dai tuoi stessi abiti. Alvio ti osservava la schiena, senza fare alcun rumore, mentre tu, sereno, avvicinavi la mano al tuo riflesso e immergevi le dita a toccarlo. Tu, avido di bellezza come il meraviglioso Narciso. Nel racconto di Ovidio, il ragazzo era figlio della divinità fluviale Cefiso e della ninfa Liriope. Era un giovane di una tale fresca bellezza che ogni abitante della città, uomo o donna, vecchio o giovane, si innamorava di lui; eppure Narciso, orgogliosamente, li respingeva tutti con finto sguardo dolente. La ninfa Eco, castigata da Giunone, si innamorò di lui e nel tentativo di un approccio venne prontamente allontanata dal giovane borioso; rimase, così, sola con il cuore infranto, gemendo per il suo amore non corrisposto finché di lei rimase solo una voce lontana.Fu allora che Narciso, per il suo comportamento troppo superbo, venne punito: Nemesi lo maledisse rendendolo schiavo della sua stessa bellezza e facendolo innamorare del suo riflesso in una pozza. Di lui, lasciatosi morire, rimase solamente il fiore di cui prese il nome. Il Narciso, dall’odore penetrante ed inebriante ma dal bulbo mortalmente velenoso. La tua immagine perfetta ti fissava di rimando, con un bisogno impellente d’essere ammirata quasi volesse risucchiare la tua umanità, farla propria e imprigionarti al suo posto. Nessuno, date entrambe le vostre bellezze, avrebbe mai distinto la verità dalla falsità. Stufo della brezza che distorceva il tuo riflesso, ti sollevasti a guardare il tuo servo. La pelle era olivastra, diversa daltuo colorito roseo; gli occhi erano scuri come il fumo, accesi di forte curiosità per i tuoi comportamenti. Di carattere longevo e permissivo riuscivi a rigirare il suo senso del dovere, nel rispetto dei tuoi genitori, per convincerlo a muoversi come una tua pedina chiusa fra il rimbombo della tua voce. Notando il tuo sguardo fisso sulla sua figura portò immediatamente una mano ai capelli persistemarli, come se il problema fosse ricollegato al suo aspetto. Tutt’altro, quanto più ti interessava era totalmente diverso da ogni sua aspettativa. Mentre Alvio si concentrava sul suo aspetto e sull’intenzione di apparire al meglio, non facevi altro che pensare a quanto il suo aspetto ingenuo fosse facilmente impressionabile dagli eventi circostanti. «Voglio uscire, Alvio». L'idea che tanto più poteva venirti negata dai tuoi genitori non poteva esserlo da un tuo pari. «Ma…signorino Emilio, è già pomeriggio. Suo padre ha-» con un gesto di totale disinvoltura lo avevi messo a tacere, sorridendo. «Mi accompagnerai, non è così?» Avevi espressamente richiesto un servo della tua stessa età per poterlo trascinare e renderlo vittima degli eventi. Era divertente. L’ampio spazio che ti circondava era occupato da immensi portici colonnati che ospitavano molteplici botteghe diverse fra loro. Il vasaio, con un ampio sorriso, ti aveva riconosciuto e aveva mostrato il più gioviale riconoscimento, abbassando il capo, ricordandosi della cospicua somma spesa dalla tua famiglia per la precedente commissione affidatagli. Non avevi risposto al saluto, ma avevi spostato il viso dalla sua figura al negozio accanto. Le stoffe che esponeva sul banco di marmo erano sgargianti e luminose. Rossi accesi, arancioni caldi, verdi chiari e scuri e poi ancora blu intensi, bianchi candidi e altre stoffe dorate pregiate. Il negoziante, uscito dalla tabernae, si era avvicinato con aria socievole, «In cosa posso servirla?» e pertanto si era rivolto a te con educazione avendo notato il tuo abbigliamento altolocato. Non avevi bisogno di nulla in realtà, solamente di ammirare quanta più ricchezza potesse estendersi davanti al tuo campo visivo. «Potrebbe mostrarmene altre?» lo avevi chiesto con la tua candida voce e lo sconosciuto, garbatamente, aveva accolto la tua richiesta. Era un uomo molto alto, dalla pelle chiara e gli occhi altrettanto limpidi da farne intravedere le venature gialle opache. Portava una tunica color panna e le sue vesti non erano di lino, come le tue, ma semplici da normale cittadino romano. L’eleganza con cui ti mostrava ogni variopinto tessuto era da considerare tipica di una persona patrizia, nonostante fosse semplicemente un plebeo di scarso valore: questo almeno era quanto avrebbe detto tuo padre Clelio. Tua madre, al contrario, avrebbe passato il tempo con te a complimentarsi per il tuo gusto simile al suo per i colori. Che fingesse o dicesse la verità, ogni volta, ti importava poco. Nonostante la tua domus non mancasse di nulla, ti piaceva la via polverosa e caotica del mercato. Le pareti erano affascinanti ma immutabili, gli affreschi e le statue dalla bellezza eterna. Eppure nulla di ciò era vivo. Gli oggetti non lo sarebbero mai stati come le persone e il Foro di Pompei ne era la prova vivente. Ogni opera pubblica presente veniva animata dalla massa di gente che popolava tale luogo. La piazza centrale del Foro era rettangolare, molto lunga, estesa verso Nord sulla quale si affacciavano gli edifici pubblici imponenti. Il tuo insegnante l’aveva sempre designata come un importante luogo d’incontro per gli abitanti di Pompei. Tutto quanto era stato costruito con precisione e nei minimi dettagli rendendo plateale la magnificenza di quel luogo. Tuo padre stesso teneva discorsi al suo interno insieme ad altri senatori, spesso eri andato ad ascoltarli. Il tempio di Giove si estendeva a settentrione, possente e affiancato da due archi costruiti in tufo che lasciavano aperta la vista verso l’orizzonte. Lunghe file colonnate contornavano l’interno del Foro, avvolgendolo dall’esterno. Spostando lo sguardo alla tua sinistra potevi ammirare la Basilica e il Tempio di Apollo, entrambi luoghi d’incontro per cittadini comuni. La vitalità di quel luogo era impressionante per i tuoi occhi: vi erano innumerevoli persone, di ogni età, di ogni sesso e di ogni professione che popolavano quell’ampio spiazzo. Poco più avanti, sentendo il rintocco del denaro che piombava sulla bilancia potevi sentire due uomini contrattare sul prezzo di un cavallo. Tutto quanto stava accadendo in quel luogo era del tutto diverso dalla monotonia che sentivi rimanendo all’interno delle tue quattro mura. Erano poche le volte in cui ti allontanavi dalla tua dimora senza la compagnia dei tuoi genitori e sopratutto non oltre una certa fascia oraria: la mattina era l’unico momento stabilito per poter uscire oltre alla quale non era più permesso. O almeno era ciò che ti veniva detto. Disobbedire a quella regola, pressapoco ferrea per tuo padre, era stato un gesto impulsivo e presuntuoso. Una voce si era innalzata improvvisamente e invitava la clientela ad avvicinarsi al suo banco proponendo i suoi pesci freschi, pescati la stessa mattina, ad un prezzo migliore del suo concorrente. L’uno contraddiceva l’altro mettendolo in cattiva luce davanti a presenti che apparivano come bestie spaurite, confuse, incapaci di scegliere dove acquistare la merce. Dall’altra parte, una donna richiamava la propria prole con voce stizzita mentre un terzo uomo svegliava il suo asino, tirando le corde che lo trattenevano, per fargli trasportare l’enorme carro ricolmo di casse dalla frutta variopinta. Le ruote cigolarono quando la bestia da soma cominciò a camminare trainando l’ingente peso. Eri talmente preso dal panorama che non avevi notato il negoziante di tessuti, spazientito dall’attesa. Portava fra le braccia un vasto assortimento di stoffe ormai inutili poiché avevi già perso tutto il tuo precedente interesse. «Posso mostrargliene altre, se lo gradisce. Ho un vasto assortimento di seta proveniente dal vicino Egitto». Mentre accarezzavi i tessuti con la mano candida, Alvio, rimasto poco più indietro, si era avvicinato affannosamente. «Signorino Emilio, l’ho cercata fra la folla! La pregherei di non allontanarsi mai più da solo, ero così preoccupato!» Come avevi premeditato non era stato complicato convincere una personalità malleabile quale la sua ad accompagnarti al Foro. Aveva acconsentito restio, ripetendo che non sarebbe stato un comportamento adeguato, ed era quindi rientrato in casa fingendo di adempiere a diverse mansioni nel momento in cui gli occhi di tua madre Lucretia si erano spostati su di lui. Eri certo che se ne sarebbe accorta e in qualunque caso ti avrebbe coperto le spalle davanti a tuo padre. Avrebbe fatto qualsiasi cosa in suo potere per preservare la tua incolumità, sebbene ti interessasse relativamente poco dei suoi riguardi nei tuoi confronti. Non avevi più provato un senso di attaccamento infantile verso la sua figura dall’episodio verificatosi a Roma che, con il senno di poi, aveva spinto tuo padre a decidere per un trasferimento repentino. Mortalmente stupido da parte sua tradire la fiducia di suo marito. La vostra famiglia era stata da sempre considerata una tra le principali dinastie più imponenti di tutta Roma: tuo padre era un senatore che otteneva, da chiunque incontrasse, una grande stima. L’ha sempre avuta anche da te e perfino quell’ingrata donna diceva di averne. Affermava, in ogni situazione, quanto riguardo riponesse nella tua figura paterna. Un riguardo così copioso che attendeva solo il momento di rintanarsi nell’antro più oscuro della sua mente, poco prima di concedersi ad un altro uomo. Un comportamento a dir poco patetico. «Signorino Emilio, necessita di qualche stoffa in particolare? » la buona voce di Alvio si fece sentire fra la folla che continuava a perpetrare con i suoi rumori caotici. La frase risultava tremolante, pareva aver riflettuto molto prima di interrompere i tuoi pensieri con una delle sue domande. «No, nulla» sussurrasti beffardo lasciando che la tua attenzione ricadesse su altro disponibile per il tuo affamato campo visivo. Il sole, ormai basso, illuminava flebile gli immobili e potevi ammirare, di seguito, le innumerevoli gemme poste sul banco del seguente commerciante. Brillavano, molteplici, sotto i raggi solari ed erano di colori differenti, quasi desiderassero essere, tutte quante, osservate singolarmente. L’artigiano aveva intagliato perfettamente alcuni cammei, lucidato le sue gemme fatte di onice nero, diaspro rosso e ametista rosata e disposto il tutto sopra una semplice fibra tessile. I tuoi occhi glauchi si spostarono velocemente sul materiale esposto ed erano messi in difficoltà dalla bellezza dell’oggettistica luminosa presente davanti a essi. Scegliere un gioiello non era mai stato particolarmente complicato ma la bellezza di quei monili era, fra di loro, differente. Quasi mistica. «Signorino Emilio, mi perdoni, ma è molto tardi, se la riaccompagnassi a casa in ritardo la colpa ricadrebbe su di-» «Alvio, comprami una pesca». Un’imposizione netta, la tua. In un momento tale quello, l’insofferente comportamento del tuo servo sarebbe stato solamente un problema. Cercò di aprir bocca nuovamente ma i tuoi occhi si posarono seri e autorevoli sulla sua figura obbligandolo ad abbassare la testa mora e acconsentire al tuo nuovo desiderio. Freddo e severo. Guardando una scena del genere, tuo padre si sarebbe sicuramente congratulato con te e con la tua autorità simile alla sua. Tornasti quindi a concentrarti sui gioielli, sollevando con le dita piccole e affusolate un bracciale d’oro. Era lucido e luminoso, un piccolo specchio dorato dalla superficie accuratamente lavorata. Portandolo più vicino osservasti come le gemme traslucide di diversa dimensione spiccassero fiere ed orgogliose nell’insieme, incastonate a regola d’arte nel metallo. Un gioiello in grado di compiacere la tua cupidigia. Lo provasti senza troppi complimenti, deliziandoti di come riuscisse a fasciare elegantemente il tuo polso piccolo e magro. «È interessato a qualcosa in particolare?» sussurrò l’uomo sporgendosi verso di te per guardarti. Abbassasti lo sguardo al bracciale e, con un movimento silenzioso, tendesti il braccio a mostrargli quanto esso indossava. «Prendo questo» rispondesti deciso. L’uomo, senza distogliere lo sguardo, annuì in silenzio appagato del tuo acquisto. Sfilasti nuovamente il bracciale, dandoglielo fra le mani così che potesse appoggiarlo sulla vecchia bilancia color rame. Il piatto si abbassò e il commerciante attese i due denari d’argento come tributo al peso dell’oggetto. Sfilasti prontamente le monete dalla borsetta di cuoio legata in vita per poi poggiarle sul piatto opposto. Entrambi avevate ottenuto qualcosa di prezioso: lui il suo denaro e tu un nuovo oggetto di vanto da sfoggiare al banchetto successivo. La giornata stava volgendo al termine, Alvio non aveva tutti i torti. Il cielo sereno aveva assunto una tonalità nettamente più ombrosa mentre l’aria si era fatta lievemente più fresca. Proseguisti lungo lo strada, esaminando ormai distrattamente gli ultimi banconi rimasti fino a quando il tuo sguardo non fu nuovamente attirato da un semplice carro ad ostruire il normale passaggio. Sopra di esso potevi osservare le numerose casse di frutta e verdura ancora colme, segno di una giornata non troppo fortunata per il venditore. Posto vicino ad esso, riuscivi a vedere un cesto colmo di rose; il loro colore rosso e il loro aroma intenso ti attirò a guardarle più da vicino. Il profumo di quei bellissimi fiori ti avvolgeva e ti penetrava le narici. Potevi sentirne, al tatto, i petali vellutati e morbidi. Avvicinasti il volto all’intero mazzo per inebriarti di tale bellezza; pungente e penetrante, il loro aroma riusciva ancora a permettere ai tuoi ricordi di riaffiorare. Le rose erano da sempre le tue predilette: sin dalla tua infanzia trascorsa a Roma la servitù era solita adornare le tue stanze e i tuoi oggetti con tali boccioli. « Sono le ultime rose della giornata…» una voce gentile seppur pacata fece capolino di fianco a te. Voltasti lo sguardo ritrovandoti a delineare i contorni della figura che aveva appena parlato. Era un uomo dal volto scarno e solcato da visibili rughe, i pochi capelli erano arruffati e ingrigiti dal tempo. Portava una cassa di frutta fra le braccia e pareva pesargli molto. Dopo aver accolto fra le tue braccia l’enorme mazzo di rose, lo spazio venne colmato dalla cassa che lui stesso stava trasportando. Sorrise, debolmente, rizzandosi a fissarti. I suoi occhi scuri si riflettevano nei tuoi, lagunari e incuriositi dall’oggetto del tuo desiderio. « Le può prendere, se le desidera. Essendo le uniche rimaste, non deve pagarle.» Gentile, da parte sua, incalzarti in questo modo. Con un breve movimento, scrutasti interamente il mazzo fra le tue braccia; erano tutte prive di spine e tinte di vermiglio. Tutte tranne una. In mezzo ad esse, si ergeva fiero quell’unico fiore differente, dal colore raggiante e oltremodo volgare per piacere ad un gusto raro quale il tuo. Il suo giallo insistente pareva imporsi sopra al rosso dell’intero fascio, obbligando lo sguardo ad esserne attratto. Volgare, indubbiamente. « Le prenderò tutte…» un lieve sussurro il tuo, quasi più a te stesso che all’uomo che si ergeva dinnanzi a te « Tutte tranne questa.» La tua mano andò leggermente a sfiorare i petali ocra, per poi afferrarne lo stelo e porgerlo all’uomo insieme alle cinque assidi bronzo. Un movimento veloce e non curante. Avevi donato a quell’uomo fin troppa attenzione e la fresca brezza serale cominciava ad attraversare, infausta, la leggera veste che indossavi. Avresti dovuto portare un mantello a coprirti così come Alvio ti aveva consigliato di fare, ma, come ogni volta, ogni sua parola risultava lontana alla tua mente. “Ritorneremo prima del tramonto, non servirà alcun mantello”, così gli avevi sussurrato incamminandoti per primo verso il Foro. Prima del tramonto. Ti stringesti le rose al petto quasi esse potessero donarti il calore di cui necessitavi, annusando ancora una volta la loro flebile fragranza. Per essere le ultime di un intero raccolto il loro colore risultava ancora luminoso. « Ho visto la bellezza…» Un’unica frase sussurrata cautamente iniziò a farsi spazio nel tuo udito facendo arrestare improvvisamente i tuoi passi. La voce era estranea alle tue orecchie così come il tono basso e pungente. Una voce maschile, sicuramente. Troppo grave per appartenere ad Alvio, un’intensità irriconoscibile per te. Forse di un mercante. Prontamente, il tuo viso si voltò da ambedue i lati della larga strada in cerca dell’uomo che aveva pronunciato tali parole: c’era chi comprava freneticamente gli ultimi oggetti esposti sulle lastre di marmo, chi invece caricava sui carri la merce invenduta, chi la riportava nel retrobottega e chi, soddisfatto del suo bottino giornaliero, si accingeva a tornare alla propria dimora; nessuno pareva dar peso alla tua figura immobile al centro della piazza. Avevi davvero sentito qualcuno parlare? Era stato forse un brutto scherzo causato dalla stanchezza? In fin dei conti non eri solito uscire per recarti fino al centro della città essendo, la villa, ai limiti di Pompei. Scuotasti debolmente la testa quasi a scacciare il ricordo di tale voce dalla tua mente. Un abbaglio, sicuramente un abbaglio. Non c’era altra spiegazione se non quella. Fu solo in quel momento che notasti gli occhi. Due affilate biglie ambrate fecero capolino nel buio delle colonne, a diversi metri da te, guardandoti insistentemente. A tale contatto, il tuo corpo si immobilizzò prontamente, il respiro si mozzò in gola costringendoti a deglutire la tua stessa saliva. Apristi e chiudesti gli occhi, una, due volte ripetutamente ma la visuale non pareva cambiare. Quegli occhi guardavano te. E non solo, nell’oscurità, sfidavano il tuo sguardo a rimanere fisso, a mantenere quel contatto visivo insensato. Perché li guardi? Perché li stai guardando? Tutto sembrava non avere senso in quella danza fatta di semplici sguardi. “Occhi pieni di depravazione”. La tua bocca si mosse appena disegnando sulle tue labbra quella semplice e concisa frase. Spaventosi e allo stesso tempo di un colore così meraviglioso. Traslucidi e cristallini, tinti di sole, d’oro e di miele, portavano tutte le loro sfumature in un’unica iride. Come poteva la paura richiamarti a sé in un modo così osceno, così immorale? «Signorino Emilio… signorino Emilio! Signorino Emil—» Con un movimento repentino della testa, ti voltasti incontrando allo stesso modo gli occhi scuri del tuo servo. Alvio era ritto in piedi davanti a te, una mano era occupata a mantenere saldo un pesante sacco scuro mentre nell’altra portava una pesca. «Alvio io…» « Sembra scosso. Le ho portato la pesca che desiderava…» dolcemente, con voce lieve, la sua mano si tese per porgerti l’oggetto da te richiesto ore prima. L’esterno era morbido e vellutato ed emanava un dolce aroma leggero «Oh, ha comprato delle rose! Che meraviglia, vostra madre le adorerà sicuramente!» «Mi stavano guardando, Alvio. Degli occhi mi stavano guardando» chiara e concisa la tua voce pronunciò tali parole guardando in viso il ragazzo dai capelli scuri, il cui sguardo rimase interdetto. Occhi. Alvio aggrottò un sopracciglio, accigliandosi alla constatazione del suo padrone. «Sicuramente, signorino Emilio…» disse piano.« È difficile non notare una persona quale la vostra» Era impensabile non notare Emilio in una stanza ricolma di gente, figuriamoci in una piazza, o per lo meno era ciò che Alvio pensava. Lì dove la merce veniva esposta su candide stole e ripiani di marmo, Emilio si esibiva al mondo con scaltra disinvoltura. Il perché ne fosse scosso questa volta gli era quantomeno ignaro. «Non capisci, stavano guardando me. Ed erano così… il loro colore, Alvio…» «Così come, signorino?…» La sua domanda era più che legittima ma ciò che non riuscivi a pronunciare era quella parola, l’aggettivo legato a quegli occhi visti in precedenza. Quale dargli fra i tanti pensati? «Meravigliosi» sussurrasti infine. La verità più limpida. Prima ancora di trovare malizia al loro interno, eri stato rapito dal loro colore singolare e atipico. Dopo un breve respiro fu Alvio a rispondere nuovamente. «È forse stanco? Vuole riposare? Ormai si è fatto tardi è meglio se rientriamo…» Lo vedesti scettico riguardo la questione, più preoccupato di tornare a casa che stare a sentire le lamentale di un giovane padrone convinto di un’utopia. La strada di ritorno fu facile da percorrere. Illuminato unicamente dalle stelle, camminasti lungo tutto il sentiero fino alla Villa lì dove ad attenderti come sentinelle infaticabili troneggiavano delle torce accese. Rilucevano nel buio della notte. Con le rose ancora strette al petto attraversasti l’intero porticato della casa incontrando la figura vigile di tua madre, Lucretia, accovacciata alla fontana. Sfiorava lo specchio d’acqua con le dita, lasciando che alcune ciocche di capelli bruni, sfuggite all’acconciatura alta ed elaborata, toccassero anch’essi la superficie cristallina, bagnandosi inesorabilmente. Nonostante ciò, sembrava non curarsene. Sentendo dei passi, alzò lo sguardo mostrando un immenso lieto sorriso nel vedere la figura del figlio avanzare verso la soglia della dimora. Si rizzò in piedi, afferrando il mantello celeste lavorato in oro posto vicino a lei. «Avete fatto tardi, ero così turbata!» sussurrò piano venendoti incontro con il manto fra le mani. Era di certo rimasta sveglia ad aspettarvi fin dal pomeriggio, momento in cui avevi deciso di recarti al Foro insieme ad Alvio. Si era preoccupata nel momento in cui era calato il buio e la preoccupazione si era poi fatta angoscia. Per quel motivo si era rintanata lì, nel porticato, ansiosa di vedervi tornare al più presto. «Mi dispiace, signora…» rispose prontamente Alvio, chinando il capo addolorato «Il sole è calato prima ancora che ce ne accorgessimo. Ho comprato della verdura per il pranzo di domani, inoltre ho trovato della frutta di stagione…» Debolmente, la donna mise a tacere il servo posando una mano sulla sua testa. «Grazie per esserti preso cura di Emilio ancora una volta, Alvio.» La voce risultava dolce e pacata nella calma notturna e così anche il suo tocco. Accarezzò la testa scura del ragazzo facendolo avvampare debolmente sulle guance per il semplice complimento. A pochi passi di distanza, guardavi la scena con occhi esterni. La dolcezza del tocco di tua madre, il sorriso cordiale e le parole gentili venivano filtrate una dopo l’altra dalla tua mente diffidente. «Emilio le ha comprato delle rose» disse infine Alvio, alzando lo sguardo ai tuoi occhi. Impossibile per uno come il tuo servo non entusiasmarsi e lodarti solo per aver comprato delle semplici rose. D’altro canto non erano altro che un piacere per te stesso e te soltanto, ma per Alvio il significato intrinseco era il rapporto fra te e tua madre. Poteva davvero pensare che il desiderio di comprarle fosse stato condizionato, oppure mirato semplicemente a farle piacere? Sciocco, senza dubbio. Alvio risultava il sovrano degli sciocchi. Lo sguardo di Lucretia si accigliò per poi addolcirsi maggiormente a tale parole: «Che meraviglia, vado subito a cercare un vaso…» «Non importa» sbottasti secco senza guardare in viso la donna, precedendola oltre l’uscio della porta «Le metterò nella mia stanza». Risultava davvero ridicolo il modo in cui Alvio, instancabile, cercava una qualsiasi giustificazione pur di farti dialogare con tua madre. Spesso, come questa volta, risultavano nient’altro che bugie. Alvio stesso sapeva che quei fiori non erano per Lucretia, né lo erano i precedenti e né lo sarebbero stati i prossimi. L’insistenza non avrebbe certamente aiutato. Era una battaglia già persa dal principio. Entrando nella stanza, afferrasti il vaso purpureo posto sopra ad un piccolo tavolo di legno, mettendo all’interno di esso le rose, fiero bottino di quell’ambigua giornata. Ne annusasti un’ultima volta l’inebriante profumo prima di lasciarti scivolare sull’ampio letto dai lenzuoli variopinti. “Occhi pieni di depravazione”. Quella frase non faceva che tormentarti. Erano molteplici le persone a possedere occhi marroni, Alvio stesso ne era la prova, ma nessuno di esse portava una tonalità tanto accesa e lucente. Oro. Quegli occhi, piangevano oro. « Ho visto la bellezza. Guardalo, Savannah, è come una rosa: l’apparenza fragile, gli occhi pungenti e i capelli dorati come la gelosia».
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This is our cosplay with Loputyn at Lucca Comics & Games *v* ~~ ❤
Family portrait by Loputyn
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François De Lacroix by Loputyn ♥
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La foi des diamants - Capitolo 1
«Non ne sono certo, non infonde fiducia al suo popolo eppure ne parlano e ne elogiano le gesta ritenendolo un eroe.» «Sono del modesto avviso che appartenendo alla dinastia Flavia si rivelerà un ottimo sovrano. Negli anni passati fu più volte console durante il regno del padre, ricordo anche l'elogio al ritorno della guerra in Giudea...» « Non per questo dovrebbe avere necessità di abbandonarsi a vizi e relazioni illecite!» La cappa di parole si faceva sempre più densa nel triclinio privato dove tu stesso, tuo padre, e i due uomini sconosciuti con cui dialogava, presenziavate. Le loro voci dai toni maturi risultavano lontane nella tua mente, troppo occupata a schermarle il più possibile, incapace di sentirne ancora il suono. Parlavano, discutevano animatamente, gesticolando talvolta con le mani quasi ad enfatizzare ciò che veniva pronunciato dalle loro labbra. E c'erano risa, c'era persino divertimento in quella grande sala rettangolare dove il color sabbia dei lenzuoli, disposti a coprire i letti sui quali eravate posti, e la pavimentazione a quadri bianchi e neri, lottavano contro il rosso cinabro delle pareti, sormontate da un fregio pittorico, ove la figura di Bacco spiccava vivace in primo piano. Era raffigurato glabro e tonico, seduto su di un trono bronzeo, il viso acceso dall'ubriachezza e un calice nella mano destra alzata mentre l'altra era intenta a coprire i genitali con una sola stola bianca. Portava l'uva fra i capelli ricci e scuri. Intorno a lui vi erano radunate diverse donne e uomini, chi in adorazione per la sua figura e chi, invece, come te, più distante, osservava silenzioso la scena beandosi semplicemente della gioia nella partecipazione. Seduto o in piedi, infante o emancipato, quel Dio, sovrano del vino e dell'ebrezza, risultava tanto piacente quanto evanescente in ogni sua rappresentazione. Ogni suo dipinto, ogni sua scultura era fonte di interesse per te. «Il tabellare di quest'oggi parla chiaro, le parole che vi erano scritte mi sono state riferite da un uomo presente alla lettura: il Colosseo verrà presto inaugurato dallo stesso Tito. Non vi è da biasimare il popolo per ritenerlo un uomo tale da essere chiamato imperatore.» Sottratto dagli occhi espressivi e surreali dell'affresco ti eri estraniato dalla stanza senza più dar peso alle frasi degli altri commensali. Chi aveva appena pronunciato tali parole era il senatore Clelio, nonché tuo padre. Un viso affascinante era incorniciati da una folta chioma di capelli biondo cenere, scendevano lunghi e lisci lungo la mandibola squadrata e ancora più in basso fin sotto le spalle possenti. La sua toga era quanto di più onorevole tu avessi mai visto. Indossata da quell'uomo serenamente sdraiato sul letto donava lui un'aria maestosa e imponente. Ti piaceva guardare il rosso acceso dei bordi: simbolo di importanza in quei tempi. Eri figlio di un senatore e di una buona matrona, ma quei discorsi fatti appena dopo pranzo non erano digeribili per un ragazzino. La politica non era mai stata una fonte di grande interesse per te molto più incline alla letteratura e alla pittura che all'ascesa di un imperatore. Cicerone e Bacco reclamavano la tua mente ma la tua attenzione dovevi posarla su quella questione politica per amor tuo e per l'onore di tuo padre. L'invito a quel banchetto era stato improvviso nonostante sapessi dell'arrivo dei due pretori. Quella mattina tuo padre era stato chiaro e conciso: serviva la tua partecipazione al triclinio e non ci sarebbe stata alcuna giustificazione, non una scusa ad impedirlo. Ormai eri ben formato per poter intrattenere tu stesso una conversazione con tali invitati ed era ciò che Clelio sperava fin nel profondo. Ciò che però aveva attirato particolarmente la tua attenzione era stato l'accenno a Roma non certo al piano politico e militare del novello monarca ancora intento a scongiurare le malelingue dovute alle numerose dissolutezze legate alla sua persona. Tuo padre stesso poneva dubbi su Tito, quasi fosse incerto sul credere o meno nel suo principato. Figlio di Vespasiano, portava sulle spalle il fardello di un padre grandioso e liberatore che aveva posto fine alla guerra civile e all'instabilità dovuta al principato di Nerone. Era suo dovere essere all'altezza di suo padre poiché era nato in funzione di questo, per lo stesso motivo per cui eri nato tu. Per questo motivo era importante la tua presenza al banchetto nonostante i tuoi momenti di partecipazione fossero minimi o quasi nulli. Ti eri perso in adorazione della vendemmia finendo con l'essere rapito dal rosso presente nel dipinto e successivamente nel vestiario dell'uomo come un insulso sognatore. Nulla poteva essere più stupido dei sogni e della mera fantasia. Tuo padre lo sapeva bene nel momento in cui aveva deciso di trasferirsi a Pompei per le vicissitudini passate: "Non pensare che i sogni possano giovare alla tua felicità, sapranno solo essere fonte di rimpianti". Poteva, dunque, essere fonte di rimpianto l'aver lasciato Roma? Eccome, poteva. Una nuova casa e una nuova città non avrebbero certamente riunito una famiglia i cui frammenti erano stati dispersi e poi combinati nuovamente insieme alla rinfusa. Una finzione, una ridicola mascherata. «Hai deciso di prestarci attenzione, Emilio?» Eccola nuovamente la voce di tuo padre. Silenzioso verso di te per tutta la durata del banchetto, ora reclamava la tua attenzione come un genitore severo. Gli occhi vitrei e lagunari scrutavano nei tuoi del medesimo gelido colore in cerca di una risposta esatta al quesito appena posto. Attenzione, dovevi prestare attenzione. «Roma, padre. Parlavate di Roma» Una risposta scaltra rimanendo però vago sulla questione. Nonostante la tua attenzione fosse stata rapita da altro e con essa anche i tuoi occhi, le tue orecchie non erano state abbastanza capaci di allontanare le loro forti voci. Ti erano, quindi, giunti distratti echi di parole, discorsi lasciati a metà, frasi e commenti sarcastici. E infine Roma aveva rapito ogni altro interesse. La Roma imperiale, la tua città d'oro nella quale eri vissuto fino a pochi mesi prima, era divenuta una terra lontana ed irraggiungibile ad occhio nudo dalla tua nuova dimora, ubicata ad un centinaio di metri di distanza dalle mura della città di Pompei. E se a Roma potevi godere di una vista urbanistica, ciò che ti si presentava dinnanzi agli occhi ora era il Golfo della vicina città di Napoli che, come Stabiae, non avevi ancora avuto il piacere di visitare. Non che piacere fosse la parola più consona da utilizzare. Uscivi a stento dalla villa se non per recarti al foro con Clelio, parlavi poco e minimo era il tuo interessamento, ma soprattutto mantenevi continuamente sul viso quell'espressione annoiata mista a spavalderia senza che nessuno ti facesse notare quanto fosse sbagliato o maleducato da parte tua tale atteggiamento. Il trasferimento avrebbe giovato a tutti, pensava tuo padre, ma non era stato per nulla così. Pompei risultava una città molto più tranquilla, fin troppo per te abituato ai veloci ritmi della capitale. La gente era silenziosa, le rappresentazioni teatrali nell'Odeion superficiali e scialbe. Nulla ti motivava a rimanere in quel luogo se non l'autorità di tuo padre. «Tito ha promesso cento giorni di festeggiamenti e giochi per l'inaugurazione del Colosseo!» «Eppure, nonostante le promesse, non ha dato al suo popolo un giorno preciso per il completamento di questo capolavoro» I due pretori di fronte a Clelio, uno estasiato e l'altro scettico, discutevano vivacemente su argomenti attinenti la capitale, le provincie e le opere che fiorivano in esse rendendole più ricche di meraviglie. Nell'ascoltare i discorsi che imperavano nell'aria della stanza non ti rendesti conto della presenza del servo, Alvio, che nel frattempo pareva essersi annunciato a tuo padre e a voi altri presenti con atteggiamento educato. Nonostante la sua giovane età, pressoché vicina alla tua, si presentava davanti agli occhi di voi commensali come un qualunque servo diligente, impossibilitato a esprimere il suo parere diversamente da quanto avresti potuto fare tu. La sua espressione non faceva trapelare nulla se non un mite ossequio nei riguardi di chi apparteneva sicuramente ad un ceto sociale superiore al suo. Avresti persino potuto provare interesse nell'ascoltare la sua parola riguardo gli argomenti espressi in precedenza: cosa pensava della costruzione del Colosseo? Cosa di Roma? Potevi notare, visibilmente, la totale differenza che coesisteva nel mezzo fra te e lui: l'eduzione impartita da tuo padre ne era la prova e con essa ne era conseguito il tuo comportamento. Chi invece aveva preso le redini dell'educazione di quel ragazzo? Tali quesiti di assillavano. Se avesse avuto la possibilità di esprimere il suo pensiero sicuramente avrebbe trovato parole più appropriate al tuo silenzio. Mettendo a tacere i tuoi pensieri, ti soffermasti a guardarlo: i capelli ricci e bruni erano portati accuratamente dietro le orecchie e un laccio li tratteneva sulla schiena gracile, raccolti in una coda bassa poco folta. Gli occhi altrettanto scuri erano intenti ad osservare i movimenti degli uomini, cercando anche un solo leggero cenno per riempire nuovamente i loro calici di vino mielato. Attendeva paziente, senza creare impicci o affrettare il suo congedo. Pareva compiaciuto dell'essere stato scelto per il servizio al triclinio, un pensiero così distante dal tuo da sfiorare l'orlo del ridicolo. Alzò gli occhi nel preciso momento in cui lo stavi osservando con fare distaccato e rigido, per poi spostarlo repentinamente sulle sue stesse mani giunte, arrossendo. Era inconcepibile che ti guardasse negli occhi senza provare disagio. La sua sottomissione ti nauseava. Con un semplice e borioso cenno della mano, tuo padre lo congedò semplicemente senza proferire alcuna parola, ponendo così un freno alla sua agitazione. «Vi annuncio solamente ora la mia intenzione di indire un banchetto a breve, nel decimo giorno prima della fine del mese, durante il quale spero in una vostra presenza.» Quale migliore idea per coronare la sua idilliaca fantasia di stabilirsi a Pompei. Probabilmente sarebbe apparso come un evento da rimembrare fino alla fine dei tempi cui avrebbero partecipato numerose persone, anche provenienti dalla stessa città eterna qualora avessero ricevuto l'invito. Una comica alla quale non avresti mai voluto prendere parte. «Comunico con altrettanta contentezza che interverrà un senatore, sotto nomina di Tito stesso, per portare notizie della nostra amata Roma» dopodiché fece una pausa osservandoti. Il tuo comportamento non emanava alcuna sensazione se non pensieri di totale e piena boria. Sbandieravi la tua superbia con sguardo nauseato, completamente seccato. Tuo padre però aveva le idee ben chiare su come ti saresti dovuto comportare nei suoi riguardi. Oltretutto, il sederti sui letti senza tenere conto degli sgabelli destinati ai figli era sicuramente un guanto di sfida da raccogliere. «Mi auguro che sarai presente anche tu Emilio, magari con più di una misera partecipazione fisica» Ti aveva incastrato con le sue parole e il suo sarcasmo cinico. Clelio era un uomo nettamente superiore a te. Molto più colto, molto più forte, un padre da emulare e al quale rendere grazie e questo era ciò che avevi sempre fatto, giorno dopo giorno. Avevi vissuto i tuoi giorni a Roma sotto la sua egemonia: seguivi silenzioso gli studi senza dettare parola in materia e senza sottrarti al sapere. Qualsiasi cosa era accettabile. Era tuo dovere apprendere ed essere all'altezza di Clelio. Non sapendo cosa rispondere cercasti una fra le più ipotetiche scuse credibili. Cercavi nel pensiero la fuga, quasi emulando quella precedente di Alvio, servo chiaramente sottomesso alla sua autorità. «Preferirei ritirarmi nelle mie stanze con il vostro permesso, padre. Penso di aver appreso appieno le caratteristiche militari e politiche del nostro nuovo imperatore.» Non avrebbe avuto alcuna speranza quel convivio, non con te intento a perderti in pensieri tutt'altro che appropriati a tale situazione. Alzasti lo sguardo verso gli occhi di tuo padre, cristallini e limpidi. L'espressione risultava serio e gelido, segnata solamente da una venatura collerica nei tuoi confronti per quell'ultima frase. Preferirei ritirarmi nelle mie stanze, avevi detto, ma non eri tu a dettare legge, non esisteva alcuna tua preferenza, avresti dovuto abbassare il viso e digerire ancora discorsi su guerre, sui nuovi imperatori e sulle nuove e ingenti costruzioni nella florida Roma. La tua impertinenza non era certamente qualità di vanto e ben lo sapevi ma ritirare il tuo commento inopportuno avrebbe sicuramente peggiorato l'umore di tuo padre che stava lentamente mutando. Evitando altri malintesi, Clelio fece un cenno stizzito con il capo, guardandoti con gli occhi di un padre bilioso: sguardo che tu, pur temendolo, ti spronasti a contrastare. Era incredibile il distacco che vigeva fra le vostre figure qualche secondo dopo; scivolando fuori della stanza avevi percorso pochi passi e ti eri diviso dalla sua presenza. Dopo aver ascoltato il vociare di quelle quattro mura, il silenzio era divenuto quantomeno piacevole. L'aria si era fatta pesante, troppo insistente perché tu potessi respirarla. Uscire era divenuta l'unica soluzione, l'unica via di fuga per nasconderti dalle loro parole e idee maniacali ma soprattutto dall'autorità del senatore divenuta soffocante ormai per te. Aveva desiderato portarti a Pompei, trascinandoti in una città ben diversa dalla tua Roma solo per un capriccio di dominio. Cosa avresti potuto fare se non accettare di buon grado tale decisione? Non avevi voce in capitolo e tanto meno tua madre Lucretia, colei che sola aveva causato tale partenza. Ma ella avrebbe potuto opporsi così come si era opposta alla sua vita fino a mesi prima, giocando a fare la nubile per poi rifugiarsi nel suo labirinto di rimpianti. Desiderare la libertà e poi abbassare il capo e vivere nuovamente nella schiavitù di una vita non voluta non era di per certo una scelta congruente. Poteva esistere donna più debole? Tu di certo con la tua giovane età non eri destinato a commentare un comportamento del genere, soprattutto non di un tuo genitore. Esisteva, però, una minima parte del tuo cervello che la definiva sì debole ma allo stesso tempo sciocca. L'emblema della donna in catene.
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What a beautiful composition played on your blog?
Tosca Fantasy by Edvin MartonA Thousand Years piano/cello cover by ThePianoGuysMon essentiel piano cover by NeokroN
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Love story by Loputyn ------------------------------------- This isn't an illustration for Les Trois Roses! They are Schneewittchen and the Blue Prince from Sound Horizon. Loputyn gave us this fabulous drawing about our cosplay.
Thanks so much ♥
#sound horizon#schneewittchen#blue prince#tettere#märchen#fanart#art#loputyn#snow white#prince#princess
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Try to read trough my silence by Loputyn
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"Oh François(e), tu es une personne très charmante ..." La sonate d'amour, chapter 6: Jean-Louis is so intrusive! (Non-sense sketch by loputyn)
#images#sketch#nonsense#humor#immagi#Jean Louis De Lacroix#François De Lacroix#Emilio De Medici#les trois roses
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La sonate d'amour - Capitolo 6
Passarono davanti a te con un’espressione vitrea negli occhi e loro aura di perfetta famiglia nobile. Apparivano perfetti nella loro aura austera e di incredibile scoperta. Un buon casato, i De Lacroix, e questo pensiero era condiviso fra la maggior parte delle famiglie aristocratiche che usavate invitare a ricevimenti e incontrare alle feste. L’abbigliamento di tutti in quella serata era semplicemente sublime: Jean-Louis indossava l’abito con il quale ti aveva consegnato la comunicazione di Jacqueline mentre Jean-Antoinette portava magnificamente un abito dalle tinte chiare. Le stampe sulla gonna riprendevano quelle delicatamente ricamate del corpetto stretto in vita. Uno splendido vestito pieno di fiori colorati di un tenue azzurro capace di donarle un’aria giovanile, di modo che potesse permettersi di vantarsene un po’. Tu stesso indossavi un abito confezionato appositamente per l’occasione: color panna, dalle rifiniture oro e il pizzo turchino in perfetta armonia con la tua carnagione chiara. La giacca, dal taglio molto semplice, era in tinta unita, con al di sotto un panciotto blu e un camicia totalmente nascosta dagli strati superiori. Il bavero al collo, impreziosito da una gemma zaffiro, riempiva il poco spazio rimanente a mostrare il colletto della camicia. Le chiome di tutti i tuoi familiari erano raccolti ordinatamente, fatta eccezione per Laurent grazie al suo taglio di capelli corto e sbarazzino. Il bambino era forse la persona più gioiosa per quella serata mentre osservava il mondo circostante mutare in paesaggi, alberi, luci e suoni. I profumi lo attraevano e lo spingevano a sporgersi oltre il finestrino appannato della carrozza che vi trasportava alla villa del ricevimento. Anche il suo abito era sfavillante: la giacca era perfettamente cucita e abbellita con perline, pizzi e merletti. Le passamanerie ne inondavano i bordi lasciando poco spazio alla stoffa color perla e molto di più alla bellezza. Non aveva nulla di imperfetto, se messo a confronto con la madre e il fratello, se non fosse stato per i capelli biondi, come il colore del grano e del sole all’alba. Trattenerlo, quella sera, sarebbe stata una grande impresa essendo la sua prima partecipazione ad un vero e proprio evento con tanto di invito scritto dal pugno personale del padrone di casa Montespan. Di questo, però, non spettava a te preoccuparti, ciò che doveva interessarti era mostrarti come un buon gentiluomo ed entrare nelle simpatie dei commensali semplicemente presentandoti in modo educato e posato, senza metterti in bella mostra ed esagerare. A quell’ultima raccomandazione, Jean-Antoinette, credeva ci avrebbe pensato il figlio maggiore, sebbene sperasse non si comportasse in malo modo. La donna lo osservava con aria scaltra e attenta, cercava di carpire ogni minuscola informazione possibile dallo sguardo scivoloso del figlio dalla chioma ramata. Raccolta in una perfetta coda di lato, ordinata e pulita, si appoggiava sulla sua spalla destra, rompendo la sua solita abitudine di portarla sull’altra. « Mia cara, siamo arrivati » esordì il nuovo compagno di Jean-Antoinette. Pierre-Étienne de Lacroix sovrastava tutti con la propria voce. Un uomo rigido nei comportamenti ma dal cuore buono. Doveva esserci un buon motivo se la sua donna aveva concesso a lui il suo cuore dopo la morte di Baptiste. Era il primo fratello del padre di Jean-Louis, pertanto la persona, dopo il marito, più vicina a Jean-Antoinette nel momento del più totale sconforto. La dipartita di Baptiste De Lacroix era stata un duro colpo ma, nonostante ciò, la donna si era ripresa particolarmente in fretta. Non senza soffrirne, eppure in un modo che tutti ritenevano pressapoco magico. Ora Antoinette sorrideva a quell’uomo salvatore, mentre lo guardava: reso estremamente bello dalla giacca nuova e dai preziosi anelli alle mani. «Molto bene, occorre presentarci al padrone di casa, non vorrei mai che pensasse male riguardo la nostra educazione » E da quel frangente ne nacque un dialogo dal quale tu ne traesti poco interessamento. Scendendo dalla diligenza dorata il paesaggio che si distese davanti ai tuoi occhi fu splendido: il cancello era spalancato e presentava uno svariato numero di siepi ben curate, dalle forme differenti, cresciute su un manto di un verde smeraldino. Sotto ai tuoi piedi, la ghiaia del viale scricchiolava leggermente al passaggio. I tuoi tacchi erano nettamente più rumorosi della suolapiù bassa di Laurent, eppure le sue scarpe impreziosite si notavano persino ad un orario così tardo. La casa era di modica grandezza: tinteggiata di un color bianco sporco, tendente al grigio, si abbinava perfettamente all’atmosfera tranquilla che le si stagliava intorno. Era piuttosto larga rispetto alla sua altezza tanto che non sembrava avere più di due piani, ma non pareva neppure troppo piccola. Deciso ad entrare ti soffermasti ad osservare quanti più particolari riuscisti a raccogliere con il solo sguardo, senza porre domande a nessuno dei tuoi accompagnatori. La tenuta Montespan era elegante: le finestre erano illuminate da ogni tipo di luce all’interno delle stanze e alle volte intravedevi delle figure camminarvi dinanzi. La musica era lievemente udibile poiché attenuata dal frastuono del vociare nel salone oltre la porta d’ingresso. I commensali, vestiti di risa e di parole buone, pullulavano in ogni stanza e in ogni angolo nel quale un comune occhio esterno potesse posarsi. Il modesto servitore vi aveva accompagnato all’interno e si era congedato con disinvoltura ed eleganza pochi secondi dopo avervi scortato nel vivo della situazione. Diversamente da come te la immaginavi, l’abitazione era colma di affreschi appesi alle pareti da varie tonalità oro e da un caldo colore rosso che adornava i particolari di buona parte del mobilio. Una grande scala di marmo si stagliava davanti a voi mostrando il piano superiore e due corridoi che portavano a diverse ale della grande villa. Era incredibile come i tuoi occhi beneficiassero di una tale bellezza architettonica e che nessun altro vi facesse molto caso. I presenti non si soffermavano a guardare verso l’alto per scovare da dove provenisse tutta quella luminosità estrema. Un affresco circolare raffigurava un cielo abitato da angeli, i quali facevano da corona a due enormi lampadari pendenti dal soffitto. I molteplici candelieri posti in ogni angolo della casa diffondevano la luce, che risultava ancor più evanescente nel momento in cui i piccoli raggi entravano in contatto con i rivestimenti oro delle pareti e del corrimano della scala marmorea. Ti guardavi intorno e tutto ciò che vedevi era solo un’ingente massa di persone intente a chiacchierare e a malignare su chi era o non era presente . Voci tutte diverse tra le quali ne spiccava una particolarmente frizzante e mascolina alla quale però non riuscivi ad attribuire nessun viso. Molti nobili si fermarono ad osservarti, presentandosi così a te e alla alla tua famiglia. Ciò che accomunava ognuna di loro, qualvolta non fosse il cognome di famiglia o una caratteristica fisica, era la stima che essi avevano per Pierre-Étienne De Lacroix. Ovunque passasse, chi lo conosceva o meno, rimaneva investito dalla sua aura di perenne giovinezza. Non era il tipico quarantenne incatenato alla sua vecchiaia. I capelli biondi chiari erano lisci, dal taglio particolarmente corto sulla nuca e l’attaccatura lasciava libera la fronte spaziosa. Gli occhi erano chiari come quelli del figlio Laurent e si affiancavano al naso aquilino. Gli zigomi ben squadrati donavano al suo volto un’aria tanto nobiliare da definirlo esageratamente misterioso: cosa che in realtà non era per nulla. La bocca era sempre aperta in un gioviale sorriso ammaliante, probabilmente uno dei principali motivi per cui le persone rimanevano facilmente soggiogate dal suo savoir faire. Mentre lo guardavi amalgamarsi con i suoi coetanei una mano si poggiò sulla spalla. Jean-Louis ti guardava con aria assorta e allo stesso tempo tinta di una febbricitante gioia infantile. L’ambiente mondano era quel che più preferiva della sua vita: essere circondato da pettegolezzi, belle donne e discorsi interessanti da farsi raccontare per assimilarne il contenuto succoso e poi gettarle via. Per come le vedevi tu non erano altro che una concentrazione di soggetti frivoli e dall’aspetto civettuolo. «Coraggio François, è pieno di persone importanti e donne! Affascinale con il tuo charme, mon bijou! » e subito dopo, adocchiando un suo conoscente, si dileguò lasciandoti solo fra una cerchia di sconosciuti. Come se non bastasse oltre che essere delle persone totalmente nuove parlavano di argomenti che non arricchivano la tua conoscenza. Non avevano argomenti quali arte, musica, cultura e religione. Non parlavano di nulla se non di questioni personali, non tanto loro quanto di loro conoscenti o addirittura parenti: una totale mancanza di riservatezza personale nei confronti dei diretti interessati. Una biblioteca sarebbe sicuramente risultata migliore di una sala chiusa i cui volti non avevano significato alcuno per te. Eppure la società e le famiglie importanti impongono diversi usi e costumi, e pertanto non avresti potuto estraniarti nemmeno se ti avessero dato l’autorizzazione. Pochi secondi erano bastati per allontanarti dai commenti adulatori di alcune persone e altrettanti pochi per riportarti alla realtà : Pierre-Étienne suggeriva di presentarsi al proprietario dell’abitazione e pertanto di riunirsi in gruppo e dare l’idea di buona famiglia, cosa che non valeva per Jean-Louis, disperso in chissà quale stanza a parlare di chissà quale argomento e a fumare tabacco importato. «Dov’è Jean-Louis? » domanda di Antoinette che non aveva ricevuto risposta poiché nessuno sapeva effettivamente dove si fosse realmente diretto. Il suo essere indisciplinato non sarebbe mai cambiato, tutti voi ne eravate certi: padrone delle vostre domande e dei vostri pensieri sebbene non fosse in vostra compagnia « Spero solamente che non venga scoperto in qualche atto indecoroso » Era, sul serio, l’unica cosa in cui sperava in quel momento? Lo aveva sussurrato con tono pressoché indifferente mentre percorrevate il corridoio principale che mostrava l’esterno, ormai oscurato, tramite tante finestre affiancate. La notte rendeva l’ambiente così calmo e piatto da farlo sembrare un paesaggio dipinto da un meraviglioso artista e riposto al sicuro in una galleria d’arte. Con la velocità di un soffio uno dei molteplici domestici, vi presentò davanti agli occhi la sala da ballo. Per entrarvi vi bastava oltrepassare una gigantesca porta di legno scuro, intarsiato, antico al tatto non appena vi appoggiasti la mano per verificarne il materiale. Il freddo ti raggelò le ossa tanto da farti rabbrividire e faceva contrasto con la temperatura della sala: agghindata a dovere, luminosa e calda come il fuoco, viva e ridente quanto il paradiso descritto dai libri di testo. «Je vous souhaite la bienvenue madame et monsieur! » e vi invitò ad entrare con un solenne inchino e un gesto della mano attuato per mostrarvi l’interno con riverenza, sebbene esso si fosse manifestato da sé con tutta la sua bellezza. Le persone che lo occupavano avevano assorbito la magnificenza della stanza e apparivano belle a qualsiasi occhio giovane o vecchio che faceva la sua entrata nella stanza. Lo sguardo di qualsiasi persona saltava da un singolo ad un altro senza soffermarvisi troppo e poi tornava a donare una magica attenzione a chi aveva davanti. C’era chi camminava da un angolo all’altro, facendosi servire dai domestici che versavano loro vino in numerosi bicchieri già ricolmi, altri si affacciavano al balcone in fondo alla sala scendendo poi nel giardino utilizzando le due gradinate a sfera. Non avevi cambiato idea riguardo gli ambienti festaioli eppure in quel luogo riuscivi a sentire una maggiore solitudine che in una stanza colma di poche persone; non avendo frequentato molti balli non eri neppure una persona estremamente conosciuta quanto i tuoi genitori adottivi. Loro comunicavano spesso con molti amici di famiglia, vecchie conoscenze oppure relativamente nuove , alle quali, durante il primo inizio della serata, ti presentarono. Tra i vari dialoghi nati, qualche domanda riguardo il figlio maggiore era sorta, ma di lui neanche l’ombra e fu solamente nel momento in cui smetteste tutti di pensare a lui che fece la sua comparsa accompagnato dal Duca di Montespan. Joséph Montespan, ricco uomo di società mondana, era un uomo piuttosto basso ma proporzionato fisicamente, dai lunghi capelli e baffi neri e lo sguardo adulatore. Sorrideva mentre camminava al fianco di Jean-Louis sentendosi perfettamente a suo agio. «Bonsoir, Famille De Lacroix, c’est un plaisir de vous avoir ici ce soir » La voce era baritonale ma piacevole all’udito e il comportamento era posato e impeccabile. Non c’era da meravigliarsi che fosse abbastanza conosciuto per i suoi ricevimenti e che, ogni qual volta fosse possibile, la grande maggioranza della nobiltà francese vi presenziasse senza rimandare. «Bonsoir, monsieur Montespan, la ringraziamo caldamente per il vostro invito » «È stato un piacere, la vostra è una famiglia di cui molti dei miei conoscenti hanno parlato recentemente e vostro figlio maggiore è di una spiccata intelligenza, ho avuto il piacere di fare la sua conoscenza e ha fatto una figura impeccabile » Fu a quel punto che il rivestimento di egocentrismo di Jean-Louis lasciò spazio a qualcosa di innovativo e mai visto addosso a lui. Se pochi giorni prima era stato definito da sua madre come un nullafacente che alimentava troppo le sue gracili e magre speranze, in quell’istante aveva salvato e migliorato la reputazione della sua famiglia facendola entrare nelle grazie di una persona dalla modica influenza nella società. «La ringrazio, monsieur, la sua compagnia sarà di sicuro una fra le più interessanti della serata, mi aspetto le più calde conversazioni in sua compagnia! » e lo esclamava con tanto charme che il padrone di casa stesso non poteva togliergli gli occhi di dosso e neppure tu. Le calamite che venivano lanciate dal suo sguardo azzurrino erano impossibili da evitare o aggirare per qualche istante. Jean-Louis De Lacroix sarebbe stato un nome degno di nota. Pierre-Étienne aveva lasciato il campo al figlio acquisito e prendeva le parti di un attento osservatore che captava i suoi movimenti facendolo sentire ammirato: era fiero che, dopotutto, quel ragazzo di diciannove anni, in un posto sconosciuto, avesse tastato il territorio in suo nome. Fare le veci della famiglia però non era un compito che spettava a lui. Fu solamente dopo allontanamento di Montespan che Jean-Antoinette esordì con una delle sue spiccate frasi: « Oh caro, non pensavo di trovarti già a viziarti della presenza dell’alta società. Mi sorprendi sempre» Sebbene fosse un rimprovero plateale e sentito, la donna era contenta dei complimenti ricevuti dal Duca. Non era solita sentirsi orgogliosa di un personaggio particolare quale era suo figlio eppure in quell’occasione ne era rimasta particolarmente sorpresa. «Sono contento della splendida sorpresa madre. Non mi stavo viziando ma beando di tutte queste ricchezze e continuerò a farlo per il resto della serata » E con il sorriso sulle labbra era scomparso qualche secondo più tardi dai vostri occhi. Brillava come una splendida stella in alto e al di sopra di tutti: se il destino avesse mai desiderato la sua caduta allora sarebbe piombato nuovamente sulla terra e si sarebbe distrutto in mille pezzi. Ciò che ne derivò dalle ore successive furono dialoghi schivi, confusionari e fin troppo boriosi con dame dalla lingua pungente. Se la tua voce e i tuoi sorrisi sembravano assecondarle, i tuoi occhi vagavano lontano alla ricerca di un viso familiare. Fu allora che scorgesti la figura di Jacqueline, la donna che tanto desiderava vederti, avvolta dalle braccia di un aitante gentiluomo dagli occhi bruni. Danzava insieme a lui con la leggerezza di fuscello, le braccia forti la tenevano stretta e pareva non volersi divincolare. “La bellezza delle donne è che esse sono sempre leggere, in movimento. A cavallo di una brezza dal profumo floreale come la loro pelle. Non sai mai la sorpresa che possono avere in serbo per te ” Il profondo aforisma di Louis lo capivi solamente ora. Non che la situazione ti mettesse a disagio, ti stupiva unicamente. «Il fatto che danzi con un uomo che non sei tu non sembra infastidirti, François » la voce dell’uomo ti sorprese di scatto. Sebbene fosse il fratello minore di Jean-Antoinette, e pertanto una sorta di zio, ciò che aveva in comune con la donna era solamente un cognome. Molto più pacato e silenzioso, Auguste incarnava l’emblema della quiete. Sorseggiava tranquillamente un bicchiere di vino rosso e il suo colore scuro lasciava leggeri aloni all’interno del contenente. Quella sera indossava un abito che gli avevi sempre invidiato: la carnagione rosata si sposava perfettamente con il colore verde scuro della giacca. Le passamanerie erano la principale fonte di luminosità del vestito e lo adornavano con il loro colore. Ti piacevano da sempre i suoi capelli ramati: gli donavano un’aura perennemente giovane anche a distanza di anni. Con il suo bell’aspetto ogni donna si soffermava a scambiare due parole in sua compagnia. Gli piaceva farle sorridere: era uno dei piccoli piaceri che carpiva dalle situazioni casuali. «Buonasera, Auguste, non pensavo di incontrarla qui, è un piacere! » La volta precedente avevate discusso riguardo la donna sotto un cielo in lacrime: paesaggio ideale per descrivere l’umore della giovane fino a qualche giorno prima. Non biasimavi Jacqueline, sua madre da buona donna forte doveva averle detto di cercare altri pretendenti e non stare a soffermarsi sull’unico che sembrava non donarle attenzioni adeguate. Sotto una visuale più ampia della situazione era anche un bene che cercasse un secondo spasimante: avrebbe potuto guadagnare più facilmente la felicità che tanto bramava. Ancora non sapevi come rispondere alla constatazione dell’uomo per cui cercasti una via di fuga sicura. «Lei cerca di svagarsi per non arrecarti disturbo. Secondo Louis le donne sono tremendamente malleabili, però pare che lei abbia già qualche vago sospetto di un tuo possibile rifiuto, per quanto galante ed educato possa essere » «Non dubito della sua intelligenza, in alcun caso » Ripensando continuamente a come rapportarti con tuo zio senza ignorare quanto ti aveva detto in precedenza, tutto ciò a cui riuscivi a pensare non era altro che a Jacqueline e al suo rapido modo di consolarsi. Strano che un commento sarcastico di Louis non fosse ancora giunto al tuo orecchio. «Ed io non dubito della tua bontàd’animo. Cerca di riflettere sulla tua vita, Francois, ma senza perdere alcuna occasione. Ciò che potrebbe starti davvero a cuore potrebbe fare molto più male di un rifiuto» Non aveva altro da dire, supponevi stesse perfino ragionando un modo per abbandonare il vostro discorso e dedicarsi ad altre attività. Sarebbe stato un sollievo per entrambi, sebbene aveste stima l’uno dell’altro, tanto che non facevi neppure caso agli elementi femminili che Auguste osservava. Non eri di certo il tipo di persona che si faceva trascinare dalle abitudini di altri soggetti: ti congedasti semplicemente con un breve cenno del capo, lasciandolo conversare con una dama al centro del salone. Ti dirigesti dal lato opposto, sull’ala sinistra della sala, in cerca di tranquillità avendo intravisto, poco dopo il tuo arrivo, diversi posti a sedere. Superasti la grande porta finestra che dava sul parco, beandoti solo per qualche istante della fresca brezza primaverile, arrivando al traguardo da te prefissato. D’istinto poggiasti le membra su un divanetto in velluto rosso. Non era nella tua natura agitarti a tal punto. «Del tempo mio ho fatto il peggior uso, e mal uso fa il tempo ora di me » Improvvisamente la silenziosa campana di vetro che ti eri calato indosso venne distrutta da un suono soave come il canto di un angelo purificatore. Il tocco gentile della voce aveva fatto breccia nelle tue orecchie oscurando il rimbombo insistente del quartetto di archi. Non sapendo da dove provenisse un profumo inebriante ti spinse, con leggerezza, a voltare lo sguardo alla tua destra e a posarlo su chi aveva pronunciato tali parole. Rimanesti stupito dal vedere un ragazzino: un semplice giovane di una bellezza impressionante e da un’intelligenza sopraffina, per il semplice fatto di conoscere le opere di Shakespeare alla sua giovane età. La prima cosa che notasti furono i suoi occhi celestini e freddi. Il suo sguardo era imbevuto di serietà: innaturale per una gioventù così splendente perfino analizzare un contesto con tanta freddezza. Dalla tua posizione lo vedevi addossato al bracciolo opposto al tuo, lo sguardo rivolto verso il tuo. Il suo volto era appoggiato alla mano destra, simbolo di ribellione oppure semplicemente di noia. I boccoli biondi si distaccavano dal colore della sua pelle esangue incorniciandola sino alla base del collo. Palesava una bellezza naturale pari a quella di una statua greca, sebbene tu non ne conoscessi neppure il nome. L’abito che portava lo irraggiava: era cucito su misura per il suo corpo longilineo con due colori differenti. Le maniche in velluto rosso scendevano a sbuffo, con venature dorate, per poi stringersi avidamente sui polsi, racchiudendoli dalla stoffa marrone scura. La casacca era adornata di passamanerie, merletti e da un indefinito numero di rose rosse cucite su una stoffa damascata. Pur essendo finte emanavano la medesima bellezza del fiore reale, incredibilmente simili pur essendo di diversa manifattura. Un rosario adornava il bavero di pizzo e una cintura tempestata di gemme segnava i suoi fianchi inaccessibili e stretti, fasciati dai pantaloni in velluto morbido. Muoveva lentamente i piedi, sfiorando con la suola delle scarpe rosse il pavimento in ceramica smaltata. Pareva sentirsi osservato e pertanto emanò un sospiro di rassegnazione appoggiando una mano sul ginocchio sinistro, seguendo la circonferenza del rombo giallo delle sue calze. Quella mano dal movimento lento e meccanico permetteva all’anello rosso rubino di risaltare sulla pelle diafana. Non ne portava altri. L’unico scintillava fiero sull’anulare sinistro e il motivo per il quale avesse scelto tale dito ti era pressoché ignoto. Continuò a guardarti e tutto ciò che riuscivi a percepire era la sua espressione indifferente. «Ciò che intendo dire è che passo fin troppo tempo in feste tanto nauseabonde » Fu mentre enfatizzava che riportassi alla mente il seguito della citazione. Riccardo II, quinta scena. « Il tempo ha fatto di me l’orologio che ne misura lo stesso trascorrere; i miei pensieri sono i suoi minuti, e segna coi sospiri il loro scorrere sul quadrante dei miei occhi veglianti » Per chi ti guardava da fuori, uomo affascinante dai lunghi capelli chiari e fluenti, apparivi pacato, con gli occhi chiusi, intento a rimirare meravigliose vicende passate: mentre da parte tua stavi semplicemente sussurrando qualcosa al tuo nuovo interlocutore. Riaprendo gli occhi, con somma contentezza, notasti l’attenzione del ragazzino farsi viva come un’ardente pira fomentata da un piccolo fiammifero. Era interessato e i suoi occhi aguzzini ti rimiravano attenti per carpire quanto di più interessante ci fosse in te. «Conosce Shakespeare, monsieur ?» Una domanda mirata e concisa, pronunciata dalle sue labbra di bocciolo, lievemente aperte per permettere al suono di fuoriuscire dalla sua bocca. «Non solo, ritengo doveroso ammetterlo, la sua intelligenza eloquente è invidiabile. Con chi ho il piacere di parlare? » «Emilio » la voce dell’angelo biondo aveva sussurrato il suo nome con una cadenza non propriamente francese, come lo erano le sue frasi. Una pausa per poi pronunciare anche il suo cognome « Emilio De Medici…ed io? Con chi ho l’onore di conversare in questa monotona serata? » Incredibile era il modo che aveva di conquistare la tua attenzione e di ammaliare te e le persone che vi passavano di fianco. Tu non eri altro che un gioiello per quella rara bellezza esterna alla corte francese eppure così opportunamente inserita da apparire come un nobile della vostra società. Da dove provenisse non lo sapevi ancora. «François De Lacroix. Felice di fare la vostra conoscenza » Il salone brulicante di risa vi aveva concesso l’intimità nel centro del frastuono. Sebbene foste accerchiati da altre persone, conoscenti o sconosciuti, i vostri dialoghi non erano disturbati o interrotti da nulla, neppure dalla musica o dal continuo vociare. L’esterno era chiuso al di fuori della vostra cerchia. La tua serata incredibilmente anonima si era tramutata in qualcosa di nuovo. Era particolare quella figura tanto giovane che commentava riguardo Shakespeare, parlava di argomenti quali filosofia, letteratura, scrittura, arte e poesia. Dalla sua parte aveva la fortuna di una così bella e fiorente giovinezza. Commentava i commensali con arcigna acidità definendoli mediocri nel loro ozio. Nella sua ricchezza si mostrava poco interessato al denaro, estremamente innaturale per un ragazzino della sua età: pur dimostrando quindici anni appena dava l’impressione di essere stato educato con una mentalità prestabilita più matura. «Davvero suona qualche strumento, monsieur de Lacroix? E’ meraviglioso » «Certamente, mi sono dedicato allo studio di diversi strumenti musicali, eppure il clavicembalo è da sempre l’anfiteatro di note e semitoni che preferisco» Ed Emilio stesso era stato conquistato dalla tua gentile eloquenza e dalla tua diversa mentalità: fonte di conoscenza per la quale non smetteva di domandarti qualunque cosa. Decidesti di porgli qualche domanda anche tu: «E lei suona qualcosa, signorino Emilio? » «Ovviamente, la musica è un’arte tanto meravigliosa e proclama diritto di eloquenza…Eppure preferisco nettamente ascoltare una composizione, piuttosto che darle voce » « “La musica può donare delle ali ai vostri pensieri e illuminare la vostra anima di una luce eterna”. Suppongo condividiate tale pensiero » Cominciava a piacerti la compagnia di quell’anima tanto saggia. Era calmo, sapeva ascoltare senza dar fiato alle labbra, trattare di qualsiasi argomento, arricchire il suo e il tuo stesso sapere. Nel breve tempo che trascorreste insieme ti sembrò di avere incontrato una persona talmente sfuggevole quanto ricca. Egli ti spingeva ad arricchirti grazie alla sua bellezza e alla sua intelligenza. Emilio era l’esempio perfetto di compagnia che desideravi. «Non mi stupisce la sua intelligenza quanto il suo interesse per un filosofo quale Platone…» aveva sorriso in modo naturale, lievemente, senza dare confidenza eccessiva ma neppure limitandosi a piegare la bocca in una smorfia meccanica. Durante quella breve pausa la sua voce era divenuta più bassa: ammaliava facendo assopire la mente, ipnotizzandola con il tono avvolgente: «François, lei è una persona molto coinvolgente » Mentre lo ascoltasti parlare, attento alle sue parole, una figura si sedette fra voi due interrompendo il vostro contatto visivo, il vostro discorso e la vostra quiete. Doveva aver visitato le stanze cui gli era stato permesso accedere, parlato con i nobili che lo avevano attiravano, attraversato tutto il salone in cerca di una figura interessante e infine aveva posato gli occhi su di te trovandoti in una situazione degna di essere demolita. Con il suo atteggiamento spavaldo e molesto si sedette a fianco di entrambi, le braccia sull’orlatura dorata dello schienale del divano. Il suo sguardo captava la sensazione di disagio che pareva permeare l’aria a voi circostante: Jean-Louis e i rapporti umani non andavano granché in simbiosi. «François, che sorpresa! Non riuscivo a trovarti da nessuna parte e infine ti trovo in piacevole compagnia » dopodiché, ritenendo di averti parlato a sufficienza, si voltò verso Emilio nel mentre ne decantava il piacere della sua aura. In quel momento sapevi come avrebbe agito, quali parole avrebbe usato, quali lodi avrebbe fatto in modo che Emilio ascoltasse provenire da lui e il modo egocentrico con il quale si sarebbe presentato. «Il mio nome è Jean-Louis De Lacroix…E voi siete? » «Emilio De Medici, monsieur. Suppongo che siate parenti…Probabilmente solo per vena consanguinea, non altro » L’arrogante sorriso di Louis si spense come una debole fiammella cullata da un soffio di neonato, immaginarlo era ilare quanto una commedia a teatro. «Esattamente. A quanto vedo ha già avuto il piacere di conoscerlo…però François non le hai parlato di me » «Penso di poter azzardare a dirle che François è una persona con ampi argomenti di cui discutere » Emilio aveva peccato parlando di te come una persona nettamente più importante di lui. Sposavi la sua attenzione molto più di quanto poteva fare Louis da solo. Non ti biasimava per il tuo comportamento: ma il sentirsi spinto fuori dalle discussioni era qualcosa che lo bruciava più del fuoco stesso «Anche per me è un piacere fare la sua conoscenza, signorino Emilio » I loro sguardisi intrattenevano in una crociata, battagliavano egregiamente senza esclusione di colpi. «Credo che dovremo rimandare la nostra discussionein un momento più consono, monsieur De Lacroix» propose Emilio senza tenere minimamente in considerazione Jean-Louis. «Mi farebbe piacere poterla rincontrare, le andrebbe? » La tua risposta fu solerte. «Sarebbe un grande piacere per me» E nello stesso istante in cui tu rispondesti, Emilio si alzò, avvicinandosi lentamente ad un uomo dai capelli biondo cenere, arrivato pochi istanti prima del vostro congedo. Alto, con un completo violaceo, glabro vi guardava con occhi gelidi e la postura eretta. La sua mano si era librata nell’aria e aveva attirato a sé il ragazzino per un fianco, con fare misurato e geloso, davanti ad ogni sguardo. La volontà impertinente di Jean-Louis lo spingeva a sfidare con lo sguardo la persona sconosciuta che aveva dinanzi: deridendola e mettendone in discussione la presunta autorità che aveva sul giovane Emilio. «Dobbiamo andare, la carrozza ci attende all’esterno » la sua voce era in contrasto con il suo comportamento. Osservandolo per la prima volta ti era parso che il suo modo di fare fosse irrimediabilmente insicuro. La sua indole gli imponeva di attirare con insistenza Emilio a sé per evitare di venirne privato ingiustamente. Un tipo di amore scortato dalla fedele e assillante gelosia. I suoi occhi chiari si erano spenti nel momento in cui aveva udito il sospiro di rassegnazione del suo protetto «D’accordo » e poi «La aspetto François, le farò recapitare il mio invito » e infine le due figure che si allontanavano ancora più strette: indivisibili. Potevi vedere la bocca dell’uomo mascolino avvicinarsi all’orecchio dell’altro e sussurrare frasi che sarebbero state, a tutti, sconosciute. Dato l’aspetto fanciullesco stentavi a credere quanta influenza potesse spingere sulle persone un semplice ragazzino, eppure il tono di voce era sicuro. Era chiaro il rapporto che vigeva fra quelle due persone, le tue intenzioni e quelle future di Jean-Louis: quest’ultimo mostrava tanto desiderio di incontrare nuovamente il discendente della famiglia De Medici più di quanto avesse mai desiderato ricchezza, abiti e donne. Doveva sentirsi scosso ed eccitato, infastidito dalla mancata presenza e dalle parole aspre che si era sentito rivolgere. Si alzò, guardando con intensità i commensali presenti e, con passi lenti, si allontanò senza fiatare un secondo di più.
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