Martina [she/them] Scrittura saggistica, narrativa, poesia. Transfemminismo & diritti umani.
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Soupe à l'oignon
Alec iniziava a sentire i primi incomodi dei suoi quarantasei anni. La sua stazza un po' rozza e appesantita faceva sì che si trascinasse a tentoni lungo le viuzze di La Roque-Gageac, sfinito dalle nove ore di viaggio che lo avevano portato lì dalla ben più grande città di Edimburgo. Si trovava adesso nel paese natale della sua amata Claudine, deceduta tre anni prima a causa di un inaspettato, spietato incidente domestico.
Alec ricordava perfettamente quell'improvvisa chiamata del suo vicino; lo avvisò di aver notato delle fiamme dalla finestra e di aver prontamente chiamato i vigili del fuoco. Era sufficiente il pensiero di quell'evento per percepire ancora la stessa adrenalina che l'aveva portato a tornare subito verso casa, tremante al sol pensiero di cosa potesse essere accaduto a sua moglie. Difatti, una volta arrivato lì i vigili del fuoco avevano già mitigato l'incendio, ma per Claudine era ormai tardi. Probabilmente svenuta a causa della mancanza di ossigeno, ella non fece in tempo a salvarsi. Un fornello rimasto acceso, una fuga di gas: era tutto ciò ch'era bastato a spegnere il suo vigore e il suo respiro.
Eppure, alla vista di quel piccolo e caratteristico paese, Alec sentiva quasi di star tenendo per mano la donna che aveva amato. Poteva udirla mentre questa raccontava episodi della sua infanzia, le brevi gite in gabarra sul fiume della Dordogna, le mattine passate al giardino esotico del borgo tra agavi e bambù. Tramite i racconti di Claudine, egli riusciva quasi ad avvertire una particolare familiarità con quel posto a cui, in realtà, non era mai davvero appartenuto.
Aveva da poco superato una rimessa per le canoe situata appena dopo il parcheggio, capolinea del suo pullman. Ora camminava fiancheggiando le acque del corso – limpide e placide così come Claudine gliele aveva sempre descritte – che scorrevano ai piedi dell'alta scogliera ove l'intera cittadina di La Roque-Gageac si ergeva. La vista della boscaglia fluviale, situata sulla riva opposta, si contrapponeva armoniosamente alle abitazioni poste in altura, decorate con siepi e aiuole fiorite. Un parapetto in pietra divideva Alec dal fiume, attraversato da tutti coloro che, noleggiata la propria imbarcazione, avessero voluto approfittare di quella giornata fredda ma soleggiata.
Dopo aver oltrepassato qualche piccolo bar e negozio, ricordò che la madre di Claudine gli aveva indicato di fermarsi giusto prima di imboccare la strada per la chiesa cattolica di Notre-Dame. Raggiunto il penultimo edificio sul finire della via, arrivò finalmente a destinazione.
La villetta, costruita con mattoni di pietra e un tetto marrone, non aveva alcun balcone. Vi erano, però, due ampie finestre sulla facciata frontale. Sulla fiancata laterale, inoltre, comprendeva un giardinetto un po' dismesso: di certo Margot era ormai troppo anziana per potersene occupare assiduamente, o almeno così pensò Alec. Immaginò di poterle dare una mano, in quei giorni di permanenza nel paese.
Dopo aver premuto il pulsante del citofono sentì i passi della donna scendere giù per le scale, gradino dopo gradino. Qualche attimo dopo aprì il portone, volgendo un caloroso sorriso all'altro. «Sei fatta più giovane» fece Alec in tono scherzosamente adulatorio. «Tu no. Stai ansimando come un vecchio» rise di gusto Margot, dando un breve ma forte abbraccio al suo genero, per poi staccarsi: «Su, entra. Non vorrai mica svenire qua fuori». Alec, che si era appena accorto del fiatone e del fatto che stesse quasi annaspando per riprendere aria, si rese conto che forse il viaggio era stato leggermente più estenuante del previsto.
Si accomodarono nella sala da pranzo, seduti ad un tavolo in legno di forma ovale. Nella stanza, spaziosa e parecchio luminosa, regnava uno stile classico. Le sedie, anch'esse in legno, erano coperte da cuscini color panna che richiamavano il beige del pavimento di ceramica, da cui risalivano le mura bianche coperte da numerosi quadri di paesaggi naturali. Accostato ad un angolo vi era un mobile con cassettiera, all'interno del quale si trovavano un televisore analogico ed un telefono a disco. Frontalmente rispetto ad esso, invece, un comodo divano marrone in microfibra.
I due rimasero a chiacchierare per un po', aggiornandosi vicendevolmente sulle loro vite, fino a quando non cadde un momento di silenzio. Alec ne approfittò per interrompere il discorso e spostò la mano sul suo borsone, appeso al margine della sedia. «Ah, dimenticavo: ho portato una cosa» annunciò, tirando fuori dalla tasca più esterna una cornicetta, sotto gli occhi attenti di Margot. Si trattava di un portafoto in resina fatto proprio da Claudine, che nel tempo libero spesso soleva cimentarsi in opere di artigianato. L'immagine ritraeva lei e sua madre a Edimburgo, durante il giorno della sua laurea in storia medievale. Quella foto gli riportava alla mente il tempo passato a fingere di seguire le lezioni, scambiandosi piuttosto – di tanto in tanto – qualche fugace occhiata. Ebbe un lieve tremito quando pensò ai suoi sguardi vivaci e alle sue iridi color nocciola, rimaste sempre le stesse anche col passare degli anni.
Le passò la cornice, volgendo alla donna più anziana un'espressione carica d'affetto: «Credo che dovresti tenerla tu». Margot esaminò la figura a lungo, assorta, e senza distogliere lo sguardo curvò lievemente le labba all'insù in un sorriso sincero, seppur triste: «Era proprio in gamba, eh?». Si alzò dalla sedia con delle movenze lente e dolci, prendendo con sé il portafoto per posizionarlo accanto al telefono. «Peccato che fosse anche così tanto con la testa fra le nuvole» provò a ridacchiare, invano. Pronunciare quella frase non era stata per nulla una buona idea, perché al pensiero di quel fornello acceso ora Margot si ritrovava a dover trattenere a stento i singhiozzi. Alec fece per provare a consolarla, ma con un gesto appena accennato l'altra lo fermò prima ancora che potesse aprire bocca. «Si sta facendo un po' tardi; dovremmo mangiare qualcosa» mormorò lei, riprendendo a parlare con un sospiro: «Potresti apparecchiare mentre cucino? Sai dove sono le cose». «Certo, non serve nemmeno chiedere» scattò fulmineo in tutta risposta, andando a prendere la tovaglia nella cassettiera, mentre la donna spariva dietro una porta che dava sulla cucina.
Alec riconobbe distintamente l'odore di manzo, cipolle e spezie che aleggiava nell'aria: Margot stava preparando la stessa zuppa che sua moglie cucinava di frequente. Non l'aveva più mangiata, dopo il suo decesso. Adesso era lì davanti quel piatto fumante, ad annusare il profumo forte e intenso della zuppa di cipolle, che aleggiava attorno alla stanza avvolgendola nel suo calore. Ne mandò giù una cucchiaiata; il sapore deciso del brodo di carne non tradiva per niente l'olfatto. Una cosa, tuttavia, lo aveva scosso in particolare: il sapore estremamente pepato rimandava alla soupe à l'oignon della sua compagna – così ella amava appellarsi a quella pietanza. «È uguale a quella di Claudine» osservò, la bocca che per poco non si muoveva da sola. Ogni tentativo pregresso di ricacciare indietro le lacrime era stato reso vano, perché Alec non poté più guardarsi dal cedere ad un pianto copioso. Eppure, questa volta non si trattava affatto di una sensazione malinconica, quanto più di un particolare senso di commozione. Il calore della zuppa gli aveva riscaldato il corpo, facendogli provare quasi il tepore di un abbraccio. Un abbraccio che, in quell'effimero istante, pareva essere proprio quello di Claudine. L'affetto che Alec sentiva in sé lo liberò gradualmente da ogni fatica della giornata, lasciando spazio solamente alla sua amata.
Adesso, attorno a quel tavolo da pranzo a La Roque-Gageac, Claudine per loro era viva.
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Lettura critica dell'articolo: "Isolated sleep paralysis elicited by sleep interruption".
Takeuchi, T., Miyasita, A., Sasaki, Y., Inugami, M., & Fukuda, K. (1992). Isolated sleep paralysis elicited by sleep interruption. Sleep, 15(3), 217–225.
Problematica della ricerca
La ricerca nasce con l'intento di esaminare l'insorgenza delle già conclamate paralisi del sonno isolate (ISP, isolated sleep paralysis) (1) in soggetti normali e pertanto in assenza di ulteriori sintomi riconducibili alla narcolessia, quali possono essere gli attacchi di sonno o i fenomeni cataplettici (2–9).
Da dati precedentemente analizzati da Hishikawa et al., è emerso che i pazienti affetti dalla summenzionata patologia risentono della paralisi del sonno esclusivamente durante i periodi di sonno REM all'addormentamento (SOREMP, sleep onset rapid eye movement period) (10,11). Questo studio, in aggiunta alle registrazioni poligrafiche già messe in atto da Hishikawa et al., si avvale anche di una primissima documentazione in laboratorio dei casi di ISP.
Obiettivi e ipotesi
Oggetto della ricerca è l'elicitazione del SOREMP, con conseguente analisi delle registrazioni poligrafiche ottenute durante le ISP. Desta inoltre particolare interesse, ai fini dell'indagine, determinare quali siano gli effetti psicologici e neuropsicologici delle ISP. Le già rinvenute scoperte relative ai pazienti narcolettici (10,11) suggeriscono a Takeuchi et al. l'idea di un probabile esordio delle ISP al perdurare dei SOREMP, dunque ritrovando ivi una possibile origine fisiologica delle ISP.
Costrutti teorici indagati
Antecedentemente, nel 1970 Weitzman et al. (12) avevano illustrato come l'interruzione del ritmo sonno-veglia circadiano possa portare al SOREMP, seguiti nel 1975 da Carskadon e Dement (13). Egualmente importanti risultano ulteriori studi (14–17) sottolineanti l'influenza che, a tal proposito, ricopre l'interruzione del ciclo REM-NREM nell'induzione del SOREMP. Takeuchi et al., servitisi dei dati ottenuti da tali ricerche, soppesano il già dichiarato ruolo esercitato dal SOREMP nell'insorgenza delle paralisi narcolettiche. Indagano quindi, a posteriori, il fenomeno dell'ISP e la correlazione che quest'ultimo possa avere con il succitato SOREMP.
Caratteristiche dei partecipanti
I soggetti sono stati selezionati a partire da un questionario, distribuito a 1314 studenti di college, di cui 564 (43%) avevano asserito di aver subito una o più volte degli episodi di ISP – definiti nel modulo come stati di rilassamento, coscienti o onirici, caratterizzati da inabilità al movimento e alla vocalizzazione. Inoltre, il test faceva uso del termine «kanashibari» in quanto termine familiare al 98.4% degli studenti giapponesi (18). Tra i 564 soggetti, infine, è stata condotta una cernita che ha permesso di vagliare 16 studenti – 8 uomini e 8 donne – tra i 18 e i 21 anni, adottando degli specifici criteri in modo tale da estromettere i pazienti affetti da narcolessia. Da una parte, infatti, i partecipanti dovevano aver sperimentato il fenomeno di ISP almeno due volte; dall'altra doveva essere escluso dalla ricerca chiunque avesse manifestato sintomi quali cataplessia o attacchi di sonno.
Misure impiegate per rilevare ciascun costrutto teorico
Per sette notti, i 16 studenti sono stati assegnati ad una stanza con attenuazione acustica e non illuminata. Le prime due notti, onde evitare possibili indisposizioni legate all'ambiente di laboratorio – quindi non abituale – erano di adattamento. A queste si sono susseguite rispettivamente una terza notte, adoperata come base di comparazione per le altre, e quattro notti di indagine effettiva – durante le quali il sonno è stato interrotto per circa 60 minuti. Difatti, ogni partecipante, risvegliato all'udire del proprio nome tramite auricolari, era chiamato a svolgere un compito di vigilanza auditiva al banco della propria stanza. L'interruzione è avvenuta a 40 minuti dall'inizio del sonno NREM, conseguente alla fase REM del primo stadio del sonno nel corso di due notti e, analogamente, alla fase REM del terzo stadio nelle altre due notti. Dopo aver svolto il compito ed essere tornati a riposare, i soggetti sono stati nuovamente interpellati a 5 minuti dalla fase REM, al fine di essere interrogati inerentemente allo stato di coscienza precedente il risveglio. Ad ogni esaminato dichiarante un episodio onirico o di ISP veniva indi richiesta la compilazione di un questionario, compreso di una checklist – attinente ai dettagli del sogno o dell'ISP – e di scale di valutazione con riguardo all'esperienza vissuta. In seguito a dei resoconti verbali – registrati su nastro per posticipata trascrizione – era previsto il completamento di un'ulteriore batteria di test, composta di prove quali una scala sulla sonnolenza e una checklist sugli aggettivi umorali (MACL, mood adjective checklist). Infine, i ricercatori hanno congedato i soggetti per far sì che disponessero esattamente di 7.5 ore di sonno. La totalità di questo periodo è stata osservata poligraficamente mediante elettroencefalogramma (EEG), elettrooculogramma (EOG) ed elettromiografia (EMG), con ciascuna registrazione segnata convenzionalmente ogni 30 minuti (19). Sono state misurate, inoltre, ulteriori condizioni fisiologiche come battito cardiaco, respirazione, pletismografia, temperatura rettale e potenziale d'attività cutanea.
Risultati ottenuti in riferimento a ciascuna ipotesi inizialmente formulata
In riferimento alla stimolazione del SOREMP dopo il primo stadio del sonno, considerando entrambe le notti e tutti i partecipanti (con un totale di 32 eventi), sono emersi 18 SOREMP (58.1%) e 13 non-SOREMP (41.9%). È stato escluso un unico caso (TI-2) che essendosi svegliato autonomamente – per riportare un'ISP – prima che venisse chiamato dagli esperti, non è stato considerato nel punteggio. Per quanto concerne il SOREMP successivo al secondo stadio del sonno, invece, sono stati rilevati 28 SOREMP (87.5%) e 4 non-SOREMP (12.5%), che ribadiscono l'efficacia del metodo di interruzione del sonno già messo in atto da Hishikawa et al. in particolare dopo il terzo stadio. Tra le 64 singole notti in cui i ricercatori hanno applicato tale metodo, si sono verificate 6 ISP (9.4%) di cui due vissute dal medesimo individuo. Ogni ISP rilevata, ad eccezione del già citato caso TI-2 , è avvenuta solo in seguito alla comparsa del SOREMP – indicando dunque una forte connessione tra la stessa e l'ISP. I soggetti hanno dichiarato inabilità a muoversi e consapevolezza della realtà. Ad eccezione di uno di loro, tutti hanno percepito almeno una modalità di allucinazione (tattile, acustica o visiva) e, ancora una volta in 5 casi su 6, sono stati riportati sentimenti negativi di ansia o paura – similmente ai pazienti affetti da narcolessia già studiati da Hishikawa et al. In 5 casi, in aggiunta all'ISP, si sono distinti dei sogni: tra questi, TI-1, NA e AK hanno manifestato le paralisi subito dopo l'attività onirica, mentre per KK appena prima che questa si presentasse. Le ISP, studiate per mezzo di diagrammi del sonno e registrazioni poligrafiche, hanno presentato una latenza REM molto corta – e i due casi in cui questa è stata più lunga della norma, gli attacchi sono risultati più deboli. È emersa, in aggiunta, un'attività alpha elevata accompagnata da atonia. Se questi risultati appaiono simili a quelli ottenuti da Hishikawa et al. (10) sugli individui narcolettici, differiscono però da quelli riguardanti la portata e la gravità della paralisi del sonno. I pazienti narcolettici, contrariamente ai soggetti studiati da Takeuchi et al., avevano infatti presentato grandi difficoltà nella ripresa, talvolta non riuscendo a rianimarsi neppure dopo essere stati fisicamente scossi dai ricercatori.
Limiti dello studio
È importante notare che, a causa della mancanza di efficaci controlli procedurali che vanificassero eventuali distorsioni nella ricerca, non è possibile confermare con assoluta certezza le implicazioni dei risultati ottenuti. Un esempio evidente ricollegabile a ciò è, in effetti, l'esclusione di TI-2 dalle valutazioni. Si può evidenziare, a tal proposito, la percentuale di ISP ottenute in relazione alla totalità dei partecipanti: sono stati osservati 6 casi di ISP (9.4%) di cui uno – ricordiamo – è stato successivamente escluso. Sebbene ciò possa derivare da fattori casuali e puramente statistici, è fondamentale notare che tali fattori possono comunque essere estremamente rilevanti per quanto riguarda l'insorgenza – o non insorgenza – di ISP. Se da una parte ogni ISP si è verificata nelle notti caratterizzate da SOREMP, dall'altra le ISP verificatesi sono comunque state in quantità esimia rispetto alle 64 possibilità. È dunque difficile dire se, in altre condizioni, avrebbero comunque potuto presentarsi. Gli autori, nell'articolo, si riferiscono a TI-2 affermando che «nonostante non abbia raggiunto il pieno stadio REM, il basso voltaggio dell'EEG desincronizzato e l'atonia prima del suo risveglio volontario suggerivano uno stadio REM». Sottolineando il comparire dell'ISP dopo che esso fosse tornato a dormire, in comparazione con gli altri eventi di ISP avvenuti durante lo studio, concludono: «di conseguenza, appare che se fosse trascorso più tempo senza il suo risveglio volontario, anche in questo caso sarebbe avvenuto il REM». Assumono così una posizione distaccata dall'avvenimento, non considerando che l'effettivo intento della ricerca non era quello di valutare l'elicitazione del SOREMP, bensì di correlare quest'ultima con l'ISP. Pertanto, il fatto che nel caso TI-2 il soggetto si sia svegliato prima del SOREMP, avrebbe potuto essere un dato rilevante e da non escludere; è difatti interessante osservare che l'ISP si sia verificata senza SOREMP, piuttosto che discutere sulla possibilità che quest'ultimo potesse avvenire da lì a breve. Lo svegliarsi per riportare quanto accaduto – che secondo le testuali parole degli autori sarebbe stata un'azione condotta «volontariamente» – è inoltre stato provocato dall'ISP stessa, e quindi in assenza di un'evidente e inconfutabile volontà del partecipante. Gli stessi esperti aggiungono, in tal senso, che non avendo valutato i risvegli in condizioni di NREM, non hanno potuto stimare la probabilità di potenziali insorgenze di ISP nel sonno NREM. Infine, un ulteriore confine è rappresentato dalla necessità di uno studio longitudinale, dovuto all'eventualità – per quanto ciò non sia sopravvenuto per tutta la durata della ricerca – che in un futuro prossimo al momento dell'indagine gli esaminati potessero manifestare sintomi di narcolessia.
BIBLIOGRAFIA
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Rechtschaffen A, Kales A, eds. A manual of standard terminology, techniques and scoring system for sleep stages of human subjects. Washington DC: Public Health Service, U.S. Government Printing Office, 1968.
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La società come catena di montaggio
La società odierna, che affonda le sue radici nel razionalismo e nel profitto tanto sul piano lavorativo quanto su quello personale, comporta dei processi alla cui base si pone un alto grado di scrupolosità verso canoni socialmente determinati.
Tali canoni andrebbero necessariamente raggiunti con una certa rapidità, allo scopo di avvantaggiarsi rispetto ad una concorrenza avente simili obiettivi. In questo clima perfezionistico, in cui i risultati massimi devono essere conseguiti in tempi minimi e l'attenzione è del tutto posta sulla produttività, risulta facile perdere il senso di appartenenza a se stessi e alla propria individualità.
Sono molteplici, nel corso della storia, gli esempi analizzabili. Ogni limite può essere estinto e valicato, finanche a toccare i più angosciosi orrori del genocidio ebraico, condotto da funzionari e criminali di guerra che – con la scusa di obbedire alle autorità – si ponevano come strumenti di un sistema macchinoso e privo di etica, inibitore di una coscienza di sé che permettesse un'azione contraria. «I “Papi” del Reich avevano impartito degli ordini e io dovevo obbedire» dichiarava Adolf Eichmann nel 1961, durante il processo che segnò la sua condanna. Tutto, dai trasporti ai campi di concentramento, era studiato in modo da costituire un sistema ingegnoso e funzionale per spingersi al traguardo prestabilito, seguendo ciecamente le istruzioni impartite a discapito della propria scelta e consapevolezza individuale. Tristemente, la suddetta realtà non appartiene esclusivamente ai decenni scorsi – per quanto possa essere stata iperbolizzata negli anni della guerra. Si tratta effettivamente di un caso culmine, apice di una dimenticanza di sé che spiega come un soggetto medio possa giungere ad agire da mero strumento più che da individuo. Ad oggi ciò è osservabile, seppur in misure meno evidenti, nella quotidianità.
Ad una prima occhiata, l'avvento del fordismo – basato sulla produttività e sulle catene di montaggio – sottolinea degli innegabili fattori positivi. È anzitutto rilevante il ruolo dell'efficienza, conseguita mediante l'ottimizzazione dei tempi e di schemi funzionali ripetuti ciclicamente, imprescindibili per ottenere risultati proficui. L'impegno comune nel raggiungimento di un obiettivo, inoltre, determina una competizione con conseguente stimolo a conquistare il proprio bersaglio con anticipo sugli altri, tanto nelle aziende quanto nella vita privata. Si rende dunque necessario evitare che l'idea venga messa in atto da terzi, accrescendo la prosperità del proprio ente di appartenenza o del proprio status individuale. Una simile struttura era già identificabile con antecedenza rispetto alle intuizioni fordiane, a partire dalle rivoluzioni industriali. Insieme ad altri vari elementi fondamentali, la macchina a vapore aveva portato ad una serie di rapidi progressi industriali e tecnologici che, passando inizialmente per il positivismo, erano sfociati nella seconda rivoluzione industriale e, per vie traverse, nella società capitalistica ad oggi conosciuta. Nondimeno, più che in un miglioramento l'eccesso rischia di risultare in danni seri e marcati. Trasciniamo con noi il segno di una realtà in cui gli operai – costretti ad orari disumanizzanti e inflessibili – erano destinati ad una qualità di vita inferiore; ancor più di prima, il lavoro e il profitto appaiono come il fulcro e il movente della nostra epoca attuale, persino al di fuori della carriera. Tuttavia, a confutare la presunta vantaggiosità di una siffatta struttura affluiscono oramai svariati studi. Degni di menzione sono quelli dell'Università di Stanford, secondo cui le tempistiche estreme e il perfezionismo, a conti fatti, oltre una data soglia diminuiscono la produttività. Altrettanto significativa è una ricerca condotta dall'Università di Melbourne, che dimostra come l'eccedenza di lavoro comprometta il singolo, alterandone le abilità cognitive. Oltretutto, anche la competizione non è esente da incertezze: sfide tanto esasperate aprono infatti le porte al pericolo della disuguaglianza sociale, fortificando il divario tra gruppi distinti e alimentando le dinamiche relative ad in-group, ovvero la cerchia di cui si fa parte, e out-group, un complesso sociale esterno additato spesso come inferiore o non desiderabile.
Appare quindi dominante un tipo di azione razionale rispetto allo scopo o, per meglio dire, l'adoperarsi razionalmente per giungere ad un traguardo. A tal proposito, il sociologo americano George Ritzer conia il termine “McDonaldizzazione”, una forma radicale di azione razionale che penetra in ogni aspetto della nostra vita e, come possiamo ben vedere, nella nostra individualità. Come riportato dallo stesso Ritzer, le modalità del fast food influenzano «non solo l’alimentazione, ma anche l’istruzione, la sanità». Principi fondamentali della McDonaldizzazione sarebbero, oltre all'efficienza e alla razionalità, anche la prevedibilità e la quantificazione. Ai suddetti assiomi segue un distacco dalla propria personalità, repressa in favore di script familiari da seguire costantemente, concentrandosi unicamente sui numeri e su risultati prefissati e standardizzati a discapito della creatività. Si è obbligati, pertanto, a far confluire una porzione limitata di tempo con il perfezionismo. Tale convergenza può facilmente causare considerevoli livelli di stress e, conseguenzialmente, problemi di natura psicologica quali ansia, cronofobia, demotivazione e scarsa autoefficacia, fino ad arrivare a nientemeno che disturbi ossessivo-compulsivi o depressione. Il rischio è, quindi, quello di allontanarci dal nostro “io reale” in favore di un “io collettivo” e puramente sociale.
La stessa pressione era già stata percepita da letterati e artisti del passato: classica rappresentazione di un tale scenario è “Sera sul viale Karl Johan”, opera pittorica del celebre Edvard Munch raffigurante una folla indistinta, senz'anima, che si dirige in massa verso un obiettivo vano ed effimero, esattamente in linea con la struttura sociale corrente. Difatti, la spinta della McDonaldizzazione ci muove su un percorso fatto di scopi minori che si susseguono l'un l'altro, numerose tappe che, in realtà, non hanno un fine ultimo e non vogliono portarci da nessuna parte se non ad una razionalizzazione svincolata e senza riserve.
Tali svolgimenti sono ormai tanto globalizzati da risultare, con ogni probabilità, inarrestabili: ci viene imposto, quindi, di adattarci ad un sistema che potrebbe altrimenti schiacciarci. Il filosofo e sociologo polacco Zygmunt Bauman, nella sua opera “Modus Vivendi” affermava che «“progresso” sta ad indicare la minaccia di un cambiamento inesorabile e ineludibile che invece di promettere pace e sollievo non preannuncia altro che crisi e affanni continui, senza un attimo di tregua». Lasciando emergere le insicurezze e le paure della modernità, proseguiva ribadendo che «invece di grandi aspettative di sogni d'oro, il “progresso” evoca un'insonnia piena di incubi di “essere lasciati indietro”». Considerata l'incessantezza di questo fenomeno, proporre un'opposizione totale sarebbe illusorio e irrealistico in quanto rimarremmo vittime di fattori esterni di portata globale. Ciononostante, tenendo conto degli aspetti descritti, è possibile realizzare un piano di reazione, cura e mantenimento personale assiduo che salvaguardi la propria e l'altrui stabilità mentale. È di vitale importanza, quindi, imparare a distinguere il nostro io individuale da quello pubblico, ponendo attenzione nel coltivare entrambi in modo armonizzante per poter funzionare al meglio nella sfera privata e nel mondo esterno. Trovando – e in particolar modo mantenendo – il giusto bilanciamento tra il sé e la collettività, la pressione di una smisurata razionalizzazione sarà fronteggiabile, fornendoci notevoli benefici sia nell'ambito sociale che nell'ambito personale. Finalmente, con impegno costante, lo schiavismo mentale prodotto dalle “catene di montaggio” potrà lasciare spazio ad un più sano “adattamento” consapevole ed equilibrato.
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Fonti:
The productivity of working hours, Stanford University
Use it too much and lose it? The effect of working hours on cognitive ability - Melbourne University
Relazione - George Ritzer
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'A Nura
Vergogna? Vergogna a mia mu rici? Ma tu ti taliasti 'nta facci, cu du mussu strittu strittu a schifiari sta vita nzivata ri sangu e ri suduri?
Ma tu scurdasti chi ci fù? Tu scurdasti u mali ca ni ficiru? E macari m'avissi a virgugnari io, pi na minna i fora e picchì ci criu ancora. Stativi accura, picchì cu sputa 'ncelu 'nfacci ci torna.
Ma poi mu vuliti diri picchì si sugnu a nura avissi a stari rintra quattru mura? V'avissivu arricurdari ca' nuatri accussì nascimmu e unnè ca' siddu riciti vuatri nuatri ni putemo iri ammucciari.
Vergogna a cu? A mia? Pi fauri, và... si facissi un giru 'a putìa.
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Facoltà d'amare
E che ne so io che bene ho fatto a quale tale? E che ne so io di a chi io ho tolto un male?
Non ho in mente ciò che ho fatto ma ciò che potevo, e non ho fatto.
Allo scorger tanti guai ferma potrei star mai?
Allor ditemi un motivo, anche uno misero e solo, che non sia richiamo al vivo; ché a me un vomitevole bolo sovvien semplicemente a pensarmi indifferente.
Così ricordo quella e l'altra volta che improvvisi turbamenti non mi ebber disinvolta.
La mia bocca non si aprì, la voce non uscì.
Il mio corpo non toccò, la mia mano non sfiorò.
Di quello, sì! Di quello ho memoria: di un mancato cenno, di un'essenza escretoria.
Perché ho portato amore, quando ho fatto bene... E che ne so io, che ne so io del perché?
A tal punto è rilevante?
Posso! Posso e dunque faccio: è unico pretesto e assoluto manifesto.
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Morfosi
Tumulto.
Respirava Eurus sulla memoria dei miei spogli autunni; su ogni ramo nudo nel tempo inciso e levigato da acido piovasco.
Tumulto cangiante —
succedette Borea posando il suo bianco e candido manto, le sue gelide ali. E lì sotto che ora, il verde già perso, diverso ritorna:
inverno, inverno.
Inverno mio.
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Vento
Giaccio su di un suolo polveroso, debole e inerme, tendendo il braccio a un velo di fumo.
Allungo il mio corpo stremato per muovermi, salvo insuccesso, di appena un centimetro.
Rilascio, resa alla mia vanità, vulnerabile al tempo che inesorabile e beffardo guarda con un ghigno i miei sforzi disperati.
Stare in piedi è forse — o forse no — come far pressione sull’aria.
Reagisco e persisto: se il vento sta in rivolta, senza neppure alzarmi, io dominerò le sue correnti.
Adesso, soltanto per adesso, il fumo è dissolto.
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Grugnire
Incombe quel sentío di me affamato. Si forma quel pensiero non rivelato. Riemerge quel pezzo di nucleo che un po’ ho celato.
E se al mondo il facile esiste, certo non è quel groviglio di piste che ti porta a parlare e ti fa dialogare.
Perché facile forse è solo la voce che parla, parla e muri innalza impenetrabili e fermi, resistenti e possenti.
Giudica: la sentenza è irreversibile. Punisce: l’innocente è insoccorribile. Distrugge; e se vuole costruisce da quel grosso rivoltante porcile.
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