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idee storie concetti immagini per lavoro per gioia per noia di Francesco Cusanno
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francescocusanno · 7 years ago
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[Detroit Stories 1]
MARLINE
Non vedevo l'ora di rivederla Marline. Il dopobarba l'avevo preso da mio nonno, la camicia di mio papà e la macchina era quella dello zio Alfie. Tutti in famiglia sapevano di quel viaggio per andare a trovare Marline. Eppure nessuno l'aveva mai vista tranne me. Ma quando raccontavo di lei tutti si fermavano ad ascoltare. Papà dava di gomito a mamma che schernendosi sorrideva. Nonno che dopo cena si appisolava riusciva a tenere aperto uno dei suoi occhietti scuri. Il piccolo Larry incrociava le mani sul tavolo e vi si appoggiava col mento; suo papà, lo zio Alfie, sbatteva forte il pugno della mano destra e rideva di gusto in quelle parti di racconto che lo entusiasmavano, sperando sempre in qualche dettaglio piccante e restandone sempre divertito e deluso dal suo nipote piscialletto. Io sudavo ogni volta che parlavo di lei. Era capitato anni prima. Ero partito per Detroit per vendere dei cotoni molto usati all'epoca per un particolare cappello confezionato da Henry the Hatter in Detroit. Dal sud partivo con qualche mezzo recuperato dai miei familiari, il baule pieno di stoffe e andavo su nel Michigan a concludere l'affare. Lì nel secondo viaggio che feci conobbi Marline. Serviva al Baltimore un vecchio bar dove si spendeva poco e chi era in viaggio come me abbandonava la solitudine dietro qualche whisky. Una sera al banco iniziammo a parlare, a ridere, a guardarci. L'accompagnai a piedi verso casa e ci salutammo, sì ci salutammo e basta. Gli sguardi si posero a metà strada, nessuno dei due infranse quel velo di imbarazzo che ci divideva. Ogni giorno che rimanevo in quella città dove c'erano più auto che persone ci vedevamo. Quando io finivo i miei affari e prima del suo turno serale andavamo al cinema, a sentire la musica nei club nel suo giorno libero o in barca sul lago. Cose strane da raccontare a chi vive in un paese di duecento persone e che non è mai uscito da lì, per questo i miei si divertivano tanto a sentore i racconti dalla città. Forse la mia timidezza, forse la sua allegria ma un bacio non ce lo siamo mai dati. La pelle si sfiorava, i profumi si mischiavano, ma in quei cinque giorni ci divertimmo così tanto che a quelle cose là, quelle che mi raccontava lo zio Alfie sottovoce durante i barbecue, no ci arrivammo. Così io partii, bello, contento, sicuro che presto ci saremmo rivisti e anche loro mi lasciarono sicuri di rivedere Marline. Ci siamo scritti ogni settimana da allora ed ora dopo un anno eccomi, sono riuscito a tornare di nuovo a Detroit e questa volta Marline ti voglio, beh ti vorrei ecco, come dice lo zio Alfie. L'appuntamento era al Rondinella, un piacevole bar all'italiana, non di quelli tutto urla e "mi chiamo Mario ciao!". I proprietari dicevano "perchè noi siamo piemontesi" e le facce erano diverse dalle solite degli italo-americani effettivamente. C'eravamo stati in un pomeriggio di pioggia abbuffandoci di piccoli dolci. La camicia di mio papà era a righe blu, il dopobarba del nonno era francese e lo zio mi aveva dato quella sua auto verde salvia " come le mutande di certe donne di classe" diceva lui, non so dove le avesse mai conosciute, da noi non ne passano molte. Ordinai un caffè e uno di quei dolci piccoli, pasticcini li chiamano, che ci piacevano tanto a me e Marline. L'appuntamento era per le sei, io ero lì dalle cinque e mezza. Non trattenevo il sorriso, anche la signora mi chiese se aspettavo qualcuno. Non si ricordava di Marline, "ma ultimamente passa così tanta gente". Alle sette uscii e mi accesi un'altra sigaretta. Eccola! E' lei...buttai la sigaretta, passai i palmi delle mani sui capelli per lisciarmeli. No, non è lei, eppure, mi sembrava proprio lei, non so come avevo fatto a confonderla con quella signora di mezza età. Alle nove presi la macchina e andai al Baltimore, entrai con tanto impeto che i pochi avventori si girarono e mi squadrarono. Andai al bancone e chiesi di lei, nessuno conosceva una certa Marline, "eppure lavorava qua". "Qui hanno lavorato Annie, Tracy, Betty, ma ragazze di nome Marline mai" mi disse Chris il capo di cui io mi ricordavo per quel porro sul sopracciclio. Ero incredulo, vuoto, preoccupato, la aspettai per tutti cinque i giorni che passai lì, la cercai ma non c'era traccia seppur ci fossimo scritti poco prima che io partissi. Presi le chiavi della macchina le misi in una busta e la spedii allo zio Alfie con un messaggio " la tua auto è parcheggiata a Detroit davanti al Baltimore, io non torno per un po', vado in viaggio in Canada con Marline, so che mi capirete, vedrete quante storie vi racconterò al ritorno, scusatemi, vi voglio bene. Ci vedremo presto." Presi una bottiglia di bourbon e nella notte mi intrufolai su un vagone merci, non so dove andava, ma neanche io sapevo dove voler andare. (scritto accompagnato da Justin Townes Earle con l'album Midnight At The Movies sentito per la prima volta stasera al Honest John's Honest Johns Bar & Grill)
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francescocusanno · 7 years ago
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[Detroit Stories 2]
STEN
E' mezzogiorno e quel coglione di Sten entra al Jazz, un negozio di liquori, in mutande e con una pistola in mano. - Non è una rapina tranquilli, i soldi ce li ho, è che qui non ti puoi fidare più di nessuno!- grida. Prende due bottiglie di whisky e una birra ghiacciata, si fa dare un pacchetto di Marlboro rosse morbide e esce senza pagare. Arriva davanti al ristorante Angelina, apre il baule della sua decapottabile bianca e scarica un tappeto, l'uomo che c'è dentro rotola fino all'ingresso. Con la sigaretta in bocca tranquillizza i passanti - Non è morto, è molto stanco -. Riprende la sua macchina bianca, butta giù un goccetto e una pillola di benzedrina, si gratta le palle sudate, si guarda nello specchietto - Arrivo mia Dorothy, aspettami - Quel coglione di Sten centra un semaforo, la sua testa sul clacson perde sangue, dal sedile posteriore è caduta una borsa di una famosa sartoria di Detroit, sul tappetino un biglietto: - Per Dorothy, non è un regalo è un vestito per te, amore - Quel coglione di Sten era uscito in mutande e strafatto, ma quella non era una giornata come le altre era la sua ultima giornata. [Io la leggerei con questa sotto: Sly & The Family Stone performing Thank You (Falettinme Be Mice Elf Agin)]
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francescocusanno · 7 years ago
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[Detroit Stoires 3]
PACO
Riusciva ad impennare su tutta Woodward, la tecnica era particolare per Paco, basso, scuro, nervi che disegnavano il corpo e schizzavano ad ogni suo eccesso: filo di gas per 20m poi colpo di reni e di polsi e giro di gas fino in fondo, il manubrio si alzava e lui tirava giù i piedi che sfioravano l'asfalto con quelle sneakers che solo uno spagnolo poteva mettere, gli americani e soprattutto a Detroit, ti guardano male con quelle scarpe di tela a suola bianca. Ma Paco arrivava da Ibiza e aveva deciso di portare là dove il suono era duro e meccanico, senza ironia, un po' di sole dalla Isla. Spippolava da tempo con transistor di ogni tipo e il suo pezzo forte era quando arrivava in consolle con il suo Daelim. Aveva attaccato un amplificatore e un trasformatore e poteva così creare dei campionamenti col rumore del motore o delle parti meccaniche o ciclistiche. Cioè, là dove si faceva un vanto l'industria dell'auto "pesante" a maggioranza Suv, Paco celebrava la folla con un esile ciclomotore e quell'elettronica sottile minimale che sapeva al momento giusto tirare fuori i muscoli e l'oblio. Era pazzo, matto e la fine che poteva fare era o per strada o all'obitorio. Resistette per parecchio tempo perché era un extraterrestre in quella città, dove anche il borderline fa parte di una categoria e quindi degno di una vita, quella sui marciapiedi, ma Paco nessuno capiva dove andava, era una scheggia di empatia e follia. Inizió con i sound system lungo la strada improvvisati da un pick up con sopra la sua icona, il Daelim, e si guadagnò il rispetto dei neri, faceva muovere il culo agli ispanici e si risparmió la sciabolata di calibro 9, infine arrivó tra i bianchi progressisti ancora benestanti per poco sotto le ali dei loro vecchi, che lo osannarono facendoli sentire bene e non in colpa per il colore slavato della loro pelle. Masticava ecstasy come gomme americane, parlava veloce come un tiro di Cabrera e scopava solo in gruppo, del resto era uno che non riusciva a fare solo una cosa alla volta. La notte del 4 maggio 2012 dopo aver riempito il Fillmore salutó tutti dal palco uscendo col suo motorino, aveva messo una sigaretta in bocca al teschio che stava sopra il faro e la accese, imboccó la Woodward e prese a impennare scomparendo all'orizzonte, la gente uscita in strada dal locale non lo vide più. Il motorino fu ritrovato appoggiato al muro di quello che fu presto chiamato il Paco Building. Il palazzo così oggi è abitato abusivamente da artisti contagiati ancora da quell'onda di allegra follia del piccolo ibizenco. È scomparso, non pervenuto, nè in cielo così in terra, nè su un marciapiede. Paco, lieve, effimero, leggero in una città che anche capovolta terrebbe i piedi dei suoi abitanti incollati al cemento. [con Matthew Herbert]
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francescocusanno · 7 years ago
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[Detroit Stories 4]
ANNE
Mi sento male. Fumo, fumo una sigaretta, ho un unghia anche sporca. Forse ho bevuto troppo, sono stanca. Incazzata. Respiro solo nicotina, l'aria fuori è calda. Non c'è aria. Galleggio. Apnea. Lui mi aspetta dentro. - Entro? -. E' un attimo che qui cambi il tempo, una boccata di sigaretta quasi non respiri, quella dopo si alza il vento dal lago e Detroit si impolvera, cigola, sibila. Prima è silenzio e ora i matti ululano e, io, anche io lo vorrei tanto fare. Perché abbiamo bisogno di parlare noi umani? non possiamo stare zitti? E' evidente che abbiamo problemi di comunicazione. Gli animali senza parole si capiscono così bene. Noi no è tutta un'interpretazione, una strategia, una bugia. Pensa al mio Dirk, mio... Molto probabilmente non mi ama più, ma non riesce a dirmelo semplicemente, tanto che è li dentro con una pinta da 8° davanti, tutto crucciato. Tante sono le sue paure: non vuole farmi male? non è sicuro? cerca di dirmelo in un modo più leggero? Sta di fatto che fa casino, io non capisco, risulta goffo, impacciato. Se non fossi direttamente interessata forse riderei. - Tu ridi? - Tanto si capisce no? Pensa ad altro, non riesce a fare programmi più in là di una settimana, non mi guarda, non mi chiede di fare l'amore, acconsente solo perché non ha ancora le parole per dirmi no. Fa il triste quando dentro non è mai stato così felice. Che poi sono cose che si dicono: come dici - ti amo - i primi tempi, ti scappa anche un - non so se ti amo ancora - qualche anno dopo. Va bene, ma cosa fai il triste, scopa un'altra, stai zitto e torna a casa che poi vediamo. Dai Anne ripigliati, neanche parlare a te stessa riesci ormai. Poi parlo in prima persona, in terza... è sclerotico il pensiero parlato, devo riflettere in silenzio. Se non avessimo la parola e ci dedicassimo solo ad ascoltarci, ad ascoltare i sentimenti e le sensazioni, non sarebbe un modo di risolvere molte questioni in modo più naturale e sincero? - Shhh silenzio, shhhh state zitti. Tutti.- Oh il vento! Oh il vento ah ah ahaaa, mi porta via, che bello! ahahahaha, volo, volo mio Dio, sto volando. Mio Dio quanto è bello. State zitti che io volo, volo! [con "Frosinone" di Calcutta pagina di che poi forse è come Detroit, quella hipster]
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francescocusanno · 7 years ago
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[Detroit Stories 5]
JEFF e JAY
E' luglio, quel luglio in cui hai lasciato indietro l'università e provi a organizzarti una vita, una vita a caso, perché seppur da tempo hai tracciato una rotta i venti spingeranno forti in ogni direzione e spesso non la tua. Eppure durante un primo pomeriggio in giro, spinto dolcemente in macchina con uno dei tuoi migliori amici, passano momenti indimenticabili, privi di senso, se non per la luce che li attraversa, ferma su quell'istante, vivo, addosso a te e addosso a lui.
Jay, schienale indietro, un piede sul sedile, il cruscotto che brucia. -Ho bisogno di te, Cait vuole andare a vedere i Last Shadow Puppets, suonano mercoledì prossimo al Filmore. - Jeff, ginocchio che guida il volante, tira sù una sigaretta. - Bene e io che cazzo c'entro? - - Jeff tu me l'hai fatta conoscere ma non mi avevi detto che aveva dei gusti musicali di merda - Jeff sorride, mentre respira il primo tiro. - Aspetta Jay, non mi dirai che ti fanno cagare i LSP? - Jay, giù il ginocchio, osserva distratto fuori dal finestrino. - Senti è merda da hipster, dai! Perché a te piacciono...?- Jeff: - Lana del Rey è merda da hipster, Devendra Banhart degli ultimi album è merda da hipster, i tuoi cocktail all'orto biologico sono merda hipster!- Jay, si gira verso Jeff: - Su Lana ho dei dubbi, ma sei tu che mi hai detto "andiamo all'orto che è una cosa giusta, bisogna partire da noi per bla bla bla" e poi mi sono ritrovato ad una boiler room, ballando tra cavoli e carote sul tetto del Magic Motors Building e in mano ho sempre e solo avuto bicchieri e bicchieri di gin tonic con cetriolo biologico e non zappe e vanghe come mi sarei aspettato.- Jeff, ride, spavaldo, guarda Jay: - Jay, dove hai conosciuto Cait? Lì, allora non rompere i coglioni!- - Jeff mi presti la macchina mercoledì sera?- - Perché?- - Perché è una macchina di merda da hipster - - Cazzo ma la vuoi smettere con sta storia, ma chi cazzo sono 'sti hipster che mi devo sempre sentire uno di loro, chi cazzo sono?- - Diciamo che sono perlopiù bianchi, borghesi, finti squattrinati, sensibili secondo loro, hanno il jeans così, i capelli come i tuoi, la maglietta come la tua, la macchina come la tua...- - Va bene Jay, a questo punto vedo solo due possibilità: ti presto la macchina, te ne vai con la tua Cait al Filmore, ti fai la tua seratina e il giorno dopo mi riporti la macchina, e non voglio sapere un cazzo della tua serata; oppure vado io al concerto con la mia macchina, la tua Cait, facendomi la seratina con lei e il giorno dopo ci vediamo tutti e tre a bere una birra artigianale probabilmente come hipster che giocano a Jules et Jim. - Jay prende il tabacco appoggiato sul cruscotto e inizia a rollarsi una sigeretta, intanto l'auto continua ad essere accarezzata dalle ombre dei palazzi e dei cavalcavia. Jay: - Facciamo un salto all'orto?-
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francescocusanno · 7 years ago
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FRANCESCO VA IN MONTAGNA
Ho preso e sono andato sù. Da Milano in un’ora sei sù. È l’unico posto di montagna che conosco un po’ di più delle altre montagne. È l’unico col quale posso avere la confidenza di andarci e avventurarmi da solo fra neve e boschi. Mal che vada mi rifugio in una trattoria che conosco lì vicino. Ho accompagnato mio figlio a scuola già con lo zaino pronto, addosso ho gli stessi vestiti e scarpe con cui giro in città, non mi interessa assomigliare a chi va a camminare in montagna più spesso. Sulle scarpe forse un po’di attenzione ci vorrebbe, ma il mio è un primo approccio proprio per vedere i limiti tecnici ed anche umani. Sto aiutando ad organizzare un festival di montagna, Il richiamo della foresta, si chiama. L’anno scorso me ne innamorai. Così in questo ultimo periodo mi sono imbattuto in diversi libri che parlano di quei posti là. Ho imparato nuove parole come “i selvatici�� per indicare gli animali che abitano i boschi e ho ritrovato pratiche di solidarietà delle piccole comunità, di paesini, ma soprattutto vive fra amici fraterni. L’inesperienza credo, mi ha portato a camminare molto e fermarmi poco. Ho preso un sentiero di neve battuta senza ben sapere dove sarei arrivato, l’idea era quella di fare una passeggiata su un monte. La prima parte era sotto gli alberi e all’ombra. Nei libri che ho letto tutti conoscono sempre gli alberi sotto cui passano, è affascinante. Io no, nello zaino avevo i tre libri più rappresentativi di questo periodo: Walden di Toreau, Il ragazzo Selvatico di Cognetti e Il bosco degli Urogalli di Rigoni Stern, inoltre un libro di mare Giorni Selvaggi di Finnegan. I libri mi sono serviti per compagnia. Sapere di averli con me mi dava un certo confort. E poi gli ho usati come peso, sì perché volendo testare fisicamente un possibile trekking, non avevo attrezzatura tecnica da portarmi dietro e ho usato i libri proprio come oggetto fisico visto che le parole già me le ero bevute. Nello zaino ho messo anche una bottiglia di birra perché leggendo Stern ho scoperto che in quegli anni in Friuli oltre alla grappa bevevano parecchia birra. In una fiaschetta di metallo ho messo del gin, la grappa a casa l’ho finita con le feste, poi pensavo anche che era un po’ da pirata in onore forse del libro di mare che mi portavo sulle spalle. Sopra i libri avevo un quaderno per gli appunti. Essendomi fermato poche volte e non avendo trovato un posto comodo dove stare non ho scritto nulla durante questa gita. Ho usato un altro strumento di appunti che è la fotocamera del telefono. Ero molto indeciso se portarmelo dietro, ma uno dei test era capire anche come raccontare in immagini questa mia esperienza con la montagna. Ho iniziato ad avere caldo molto presto dopo circa venticinque minuti di cammino. Ho messo la giacca nello zaino e ho proseguito tra sole e ombra col maglione. Quando mi fermavo per queste operazioni sentivo un silenzio molto forte, pacifico quasi come una mano grande di un padre sulla testa del figlio. Non so bene quando si beve dalla fiaschetta ma durante queste pause tiravo giù qualche sorso di gin e controllavo poi se aveva degli effetti sulla mia camminata. Ma mi distraevo quasi subito per cercare di riconoscere una pianta o vedere oltre i miei passi se qualche animale faceva capolino. Anche se come avevo letto gli animali di giorno è difficile vederli. La prossima esperienza dovrà essere tra la notte e l’alba. Sono arrivato fino a dove potevo poi le tracce del sentiero si sono perse. Ho camminato quasi due ore in modo continuo, mi sono fermato venti minuti alla cima che non era una cima vera e propria ma la spalla o forse l’avvallamento, si dice, fra due monti. Lì grazie ad una tabella ho visto che gli alberi sotto cui passavo erano ontani e faggi, gli animali che si nascondevano erano caprioli, forcelli e galli cedroni che poi sono gli urogalli di cui ho letto. Mi sono sentito nel posto giusto e nel momento giusto. Il vento era forte in quel posto, c’era una corrente gelida che aveva ghiacciato la neve. Avevo paura di scivolare, riconoscevo il rischio che correvo fossi caduto. Difficilmente mi sarei fermato prima di qualche roccia o strapiombo. Ho cercato dove la neve fosse più fresca e ho iniziato la discesa contento di aver provato paura, di aver sfidato il freddo del vento, di averne sentito l’ululare, felice di essere così vicino ai personaggi che erano nel caldo dello zaino. La discesa, forse grazie al gin e alla cioccolata che ho usato per rifocillarmi è stata rapida e giocosa. Avevo preso possesso del piccolo territorio attraversato così mi sono immerso nel bosco seguendo i binari lasciati da uno sciatore qualche giorno prima, a giudicare dalla neve posata sopra. Camminavo agile affondando fino a metà garretto, la neve entrava nelle me scarpe che piano piano evidenziavano i loro limiti. Sono sceso giù saltando nella neve scivolando fra un albero e l’altro. Qua, pensavo qualche traccia la trovo e infatti qualche orma forse “del lepre” la incrociavo. Ogni tanto dovevo fermarmi per togliere la neve da dentro le scarpe e approfittavo per farmi circondare dal silenzio. Poi scattavo qualche foto rovinando tremendamente l’atmosfera con quel suono finto che fa la fotocamera fingendo di essere una reflex. La prossima volta non la porto. In quaranta minuti sono sceso e arrivato alla macchina. Avevo caldo, il sangue circolava come da tempo forse non lo facevo girare, il freddo dell’aria arrivava sotto la giacca, sotto la maglia a gelarmi la schiena sudata. Mi sono guardato in un finestrino della macchina scoprendo di avere stampato sul viso un gran sorriso. Arrivederci montagna.
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francescocusanno · 7 years ago
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WISCONSIN 2017
Le case che vedi dai finestrini dell'auto di notte sono illuminate dentro non fuori, puoi vederci tutto dentro. Sono messe in mostra, gli arredamenti e l'illuminazione curati, le luci soffuse. Sono vicine eppure isolate nel loro ordine, nella loro pulizia. Accerchiate da alberi di alto fusto o sparse nei campi di gran turco, governate dal granaio, maestoso come le jeep parcheggiate perfettamente nei loro selciati. Stasera piove qui a Fontana, Wisconsin. Batte sul tetto l'acqua, piange sui vetri, brilla nell'oscurità di questo posto così buio di notte. America come sei giovane, come sei grande, come mi fai sognare. Evochi: Una goccia sull'asfalto sulle righe gialle che dai diccelo alla fine si incontrano! Le zucche e le signore vestite sexy da gattone, la nera borghese con la pettinatura curata come una parrucca a sua volta fintamente grigia, il cameriere che a ogni servizio spara una battuta tra i denti, imperturbabile nella mimica come un attore di cabaret di vecchia data, le damigelle vestite di rosa che in ciabatte girano nell'hotel e quelle di un altro matrimonio tutte in nero, la sposa che ha le infradito, il barista esperto di cocktail che sfida con lo sguardo gli uomini e seduce le donne, il gruppo che suona stanco cover dei Beatles e poi ti fa vibrare con Folsom Prison Blues.
Dai America, di storie ne son passate, eppure in certi posti sembra di no, sono cambiati i colori, qualche vestito, ma in profondità sembri rimanere ferma al principio dell'invasione bianca qua in provincia. E' vero c'hai messo la statuina di un nativo nell'aiuola, ma sembra un souvenir che non capisci da dove viene, un personaggio di una storia inventata, la mascotte di un luna park.
Miles e Herbie Hancock senza Coltrane che aveva iniziato le sue di strade arrivano a Milano nel '64, attaccano a suonare mentre tra il pubblico c'era ancora chi fumava nel foyer o si beveva l'ultimo amaro, via di corsa al posto in platea, borbottando in dialetto.
Devo guardare un concerto di quattro americani che di strada ne hanno messa sotto la pelle per poter vedere cosa hai attraversato aMMerica.
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francescocusanno · 7 years ago
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A New York c'è un posticino che mi piace tanto, che ho trovato per caso e per caso lo cerco sempre in altre città in cui vado, ma visto che lo cerco non si fa mai trovare. Smalls Jazz Club si chiama e lo trovai così: camminavo da solo per le vie di Manhattan, stavo rientrando in albergo dopo una passeggiata serale. Avevo gli occhi di un bambino, era la prima volta negli Stati Uniti. Ho camminato per tutta la parte sud di Manhattan, i sensi erano iper ricettivi, così tanto che spesso non riuscivo più ad immagazzinare sensazioni e vagavo strafatto di sogni. Passando in una via laterale sento fortemente l'aroma di marijuana provenire da un auto scura, dentro, due uomini scuri. I miei ricettori erano ormai colmi e fantasticai che questi erano due musicisti jazz e da lì in pochi passi pensai alla New York degli anni '55-'60. Per riprendermi girai l'angolo e bevvi un whisky doppio in un bar sincero e brutto come piacciono a me, sul palchetto cantava una specie di Tina Turner in rosa, i capelli ossigenati male e i chili distribuiti peggio. Le bariste, due afroamericane, non si presero molto cura di me al banco, si vede che ne passavano parecchi di stranieri da quelle parti. Sono uscito dopo aver fatto un cenno positivo alla cantante, in pausa col suo biberon di chissà quale zucchero. Invece di riprendere la strada laterale e buia, proseguo sul marciapiede ormai convinto di tornare a casa. Una porticina e degli scalini da cantina attirano però la mia attenzione, lessi "Smalls Jazz Club 10$ aperto fino a tardi". Avrebbero suonato due gruppi. Così ho chiesto uno sconto visto che potevo stare poco, il giorno dopo avevo una sveglia presto, ma volevo pur vederlo quel posto. Mi chiamava. No! Senza spiritualismi, è che proprio mi incuriosiva. Scesi le scale sentendo calore e umidità leggera il giusto per creare una certa intimità. Tappeti ovunque, luci basse, perlinato sulle pareti, un bancone dove servire da bere povero, stretto e di legno, un bel viso a servire i drinks e tutte sedie in giro in uno spazio poco più grande di un garage. Presi una birra tirando fuori quei soldi di carta che già sono un film. Iniziarono a suonare. Batterista e contrabbassista giovani e bianchi, non ho guardato se avevano le scarpe consumate come tutti i jazzisti, ma immagino di sì. Poi il trombettista si mise a cantare in scat. Osservai il pubblico, molto eterogeneo, avrei potruto passare ore a inventarmi storie sul perchè fossero lì, azzeccandoci il più delle volte. Finita la loro session, arrivano sul palco loro, i due uomini neri che fumavano marijuana in auto nella via a fianco. C'avevo preso. Chiesi al bancone un whisky doppio, dovevo pur accompagnare la birra e la sorpresa dello Smalls, dovevo pur dilatare il poco tempo a disposizione.
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francescocusanno · 7 years ago
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Ho tre borse nel bagagliaio. Una è piena di soldi, in una ho messo 12 chili di purissima e nell'altra quel maiale di Berny. Devo arrivare a Tangeri in 48 ore con una delle borse piene. In auto ascolto Chat Faker, Angus and Julia Stone, James Blake e Christian Löffler che gentilmente mi ha anche prestato la macchina. Mi sento fortunato così. Nel preciso istante.
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francescocusanno · 7 years ago
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INIZIO ESTATE '00
Le scale che le scendevi saltando, sempre di corsa, non le hai mai fatte come tutti i cristiani. L'aria che sa di quelle estati là quando andavi per le colline con la Fiesta e il finestrino giù le curve un gioco una danza la maglietta a righe e i pantaloni sfilacciati in fondo ti coprivano le prime tre file di stringhe i capelli bagnati dalla doccia appena fatta lassù nella tua casetta rovente l'asta della benzina sempre giù sui cinque euro il giusto per fare tre volte i tuoi quindici chilometri di gioia perché poi quando spegnevi l' autoradio eri come la piuma del cuscino che dopo la battaglia non trova più con chi giocare e lentamente si lascia cadere, posare sulla giornata che deve iniziare. I tuoi nonni, il caldo, l'erba del giardino e tutta la stagione davanti.
[partirei a leggerla da quando inizia il sax, prima chiudete un attimo gli occhi]
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francescocusanno · 7 years ago
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UNA GIORNATA COLATA VIA COME UN GELATO IN UNA SERA DI MAGGIO.
Mi sono seduto lì sul sedile di paglia a vederli girare. Il flat track, la polvere e quella luce dorata mi hanno riportato a quando facevo giornalismo gonzo negli States. Non ero fatto di LSD come in quei lontani giorni, ero in Italia e i miei tre compagni di viaggio sono le persone più buone che potevo incontrare sulla terra, nel bene e nel male chiaramente. Una noia pazzesca quindi, del resto da quando sono pulito è così. Mi sono acceso una paglia e annusavo l'odore del benzene che mi sollecitava la memoria, era come guardare un film di quarant'anni fa, mentre i tre amici cercavano di capire se era facile o no stare su quella pista. Le corse ormai erano al termine, sulla strada c'eravamo fermati a mangiare il miglior gelato della zona così siamo arrivati in ritardo, in quel limbo di tempo in cui iniziavano a mettere a posto le piste per il giorno dopo e la serata non era ancora iniziata. Quando giri con questi tre è così puoi andare al party peggiore che ti hanno consigliato ma se per strada attraversa una vecchina loro si fermano, la aiutano e probabilmente cenano anche con lei. E poi il party è troppo tardi. Per fortuna una volta entrati al #wildays ho avuto tempo per stare da solo, perché i miei giovani amichetti provavano nuove scrambler tutte di plastica. È bastata mezz'ora per trovare un reduce come me, arrossarsi gli occhi e scolare quattro birre. La luce più bella se ne era andata e quando ancora il cielo non s'era spento del tutto era ora di ripartire per non arrivare troppo tardi a casa. Mi butto sul sedile dietro con Cecco, ha la schiena di un vecchio endurista senza averlo mai fatto. Poi a sorpresa ci fermiamo in un bar di paese dove Nicolò passó la sua età di provincia. È da qui che scrivo oggi, loro sono ripartiti dopo qualche cocacola e poco alcool. Io ho chiuso il bar con i gestori e mi sono ritrovato a casa di Nella che non aveva un'avventura così forse da sempre. Me la rido sotto i baffetti spelacchiati, ma almeno il mio avvocato da lassù si è divertito un po' e i miei tre amichetti sono tornati a casa all'ora giusta. H.S. Thompson, Review
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francescocusanno · 7 years ago
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JOSÈ
Ho le Clarks impolverate, le calze nuove. I pantaloni sono neri e appiccicati sopra il ginocchio. Ho la camicia oggi, ma la tengo fuori dai pantaloni, per te. Le gambe ora le ho incrociate, rimango in piedi appoggiato all'auto, anche le braccia sono incrociate. Il cofano è sporco ma tanto l'amore lo facciamo dentro. Non ho capito perché dobbiamo vederci in questo posto che sa di amanti clandestini, regolamenti di conti, vite andate a male. Non mi mandi neanche un messaggio con "sto arrivando", lo so il gusto dell'attesa è una cosa seria, come la sigaretta arrotolata lentamente e fumata da solo. Nella rotonda davanti a me scorrono le immagini di stasera, di stanotte e poi la mattina e poi tu che riparti, tu con gli occhiali da sole, io con il cappello di paglia girato giusto questa volta perché non mi va di distinguermi, ma di confondermi. Mi guardo di colpo la punta delle scarpe per riportarmi a terra. Cambio visuale, mi porto dall'altro lato della macchina. La schiena ossuta appoggiata alla portiera, il cielo, un muro, la terra arida. Sento lo spurgo dei freni del bus, l'apertura delle porte. Mi giro, lento, appoggio il mento sulle mani, le mani sul tetto rovente. Il bruciore si spegne e ti guardo arrivare. - Come stai? È un po' che non ci vediamo dai.-
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francescocusanno · 7 years ago
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IO E MIO FRATELLO Correvamo forte, la sabbia pungeva sulla schiena ad ogni falcata. Lui più basso più tozzo, io spilungona, magra, in balia di vento ed emozioni sempre. Io per qualche anno ancora più veloce. Mi rideva da vicino, mi spingeva, tirava, mi faceva male. Io un po' mi divertivo, mi piaceva e arrivavamo sempre in bilico fra il piangere o il ridere. Poi cresci no? E quando ci ritrovavamo in spiaggia non eravamo più noi, io e lui, ma eravamo Giada, Fischio, Roy, Bestia, Lena e Matti e Giulia. Un giorno, tornavamo in scooter dalla spiaggia, le mie gambe a fianco alle sue, le mie ancora esili, le sue pelose: -Matti...?- -Cosa?- L'aria si fece più calda, il vento meno forte, il petto in gola. -Niente.- -Ah.- Sfiató distratto, senza sapere quale emozione mi sconvolgeva. Era mio fratello piccolo che sarebbe stato sempre più piccolo di me anche se più veloce. Peloso, robusto, mi portava a casa in scooter e io gli volevo così bene ne ero consapevole in quel momento e quella cosa per cui lui mi avrebbe preso in giro per non so quanti giorni avrei voluto urlargliela: - bello sei e belli siamo insieme, ti voglio bene Matti! - Passano le estati e ci incontriamo anno dopo anno, sempre nascosti nel gruppo o dietro il moroso, la morosa di turno. Qualche giorno fa in spiaggia guardavo suo figlio giocare con i miei, ero assorta, sento: -Giulia...?- Guardo gli schizzi, sento odori di creme solari. - Cosa?- Rispondo distratta dal mio governare quotidiano i figli. -Niente- -Ah.-
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francescocusanno · 7 years ago
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Mi alzo danzo per te scende una goccia non è chanel tu sei uscita guardo fuori sei già sparita.
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francescocusanno · 7 years ago
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ROCCO, che a Genova non c’era. A Genova c’era suo padre, ma lui, Rocco, non era andato. Cantava ad una festa di paese, rifacendo in versioneBluebeaters un pezzo di Gino Paoli. L’interpretazione era tremenda, ma il desiderio di suonare con una band quasi vera gli aveva annebbiato la vista e forse anche ovattato le orecchie. Il 20 luglio mentre preparava un caffè aveva accesoRadio Popolare. E fino a qualche anno prima avrebbe preso in giro sua madre perché la ascoltava sempre e si faceva venire il sangue amaro, secondo lui, con “microfono aperto”. Le diceva - Ma ascoltaDeejay fatti due risate ogni tanto, siete sempre così pesanti. -. Cattiverie gratuite adolescenziali, ma non solo, era anche il frutto di un’aria respirata dagli anni’ 80 passando per il ’94 e fino agli anni zero. Tutto quello che c’era stato prima era pesante e puzzava di grigio ora bisognava sorridere ed essere felici come quell’omino in TV, in tutte le TV e in qualche modo quel tarlo un buchino lo aveva fatto anche su Rocco quando lui invece pensava di essere indipendente, anarchico. Comunista già era un’etichetta che non riteneva più autentica. Suo nonno - A vent’anni bisogna essere anarchici e basta, non fare mai una tessera di un partito! -. Glielo disse quando a diciassette anni avrebbe voluto prendere la tessera di Rifondazione Comunista e fu un insegnamento per cui ancora oggi che ne ha il doppio lo fa sentire un ventenne. L’età dei giusti. Degli errori da cui si impara. Dell’esuberanza vera, genuina. Sempre avere vent’anni. La radio raccontava e le sue budella si contorcevano dalle emozioni, sentire le manifestazioni per radio gli metteva sempre i brividi. Sentì della morte di un ragazzo. Nel giro di venti minuti successe un casino in casa. Caro Carlo... Sul finire dei ’90 Rocco era politicamente attento, ma attivo poco. Sì, frequentava le grosse manifestazioni, non per vezzo, ci credeva veramente. Prendeva anche da solo un trenino per andare nella grossa città a sfilare, chiamando quell’amico che non sentiva da tempo in modo da non sentirsi troppo solo. Perché solo non ci riusciva a stare. Non aveva neanche modo di raccontarlo ai suoi amici fraterni perché sapeva che la cosa era troppo distante, non ce l’avevano dentro certe cose, pensava con presunzione. Rocco e i suoi amici erano ancora paese-centrici. Eppure quelli erano gli amici e da loro non se ne staccava mai. Insomma conosceva bene cosa stava succedendo e come erano preparati a Genova, seguiva il più che poteva l’azione dei centri sociali, i dibattiti interni, la società civile, si sentiva molto vicino a tutto quel brulicare. Vicino, ma non dentro. Perché in realtà si divertiva con gli amici, il cazzeggio facevano. Confinati là si divertivano a fare le parodie degli occupanti di un Parini o qualche liceo visto al telegiornale, mascherati con passamontagna, fumavamo attraverso la sciarpa proclamando i motivi della finta occupazione. Accento romano, confusione tanta. Quel modo di prendere per il culo era un modo per immedesimarsi, non per criticare, avrebbero voluto essere loro in quel vivere, in quel fermento. L’unica cosa che raccontava Rocco delle sue spedizioni solitarie nella grande città era che vedeva ragazze bellissime, come piacevano a loro, semplici e cazzute potrebbe essere un valido riassunto, motivo per cui poi sarebbe stato contento di andarci a vivere un giorno. Invece tutti loro abitavano quel limbo in cui ridi tanto, ti anestetizzi un po’ e domani c’è la Giulia che ti fa venire i brividini. Giulia era passata da casa sua dopo pranzo. Non sapevano se sarebbero andati in piscina o a fare qualche giro per le colline. Gli montava già un senso di colpa perché non era sulle strade di Genova. Suo padre al telefono aveva detto - Menomale che non sei venuto, qua è un casino, ci vediamo stasera non so a che ora -. Rocco di quella telefonata non ricorda tanto, ma “menomale che non sei venuto” gli suonava come “dovevo essere lì e non ci sono”. Inizia da allora un senso paragonabile per quel che ne sa un ateo non battezzato al peccato originale cristiano. Era il suo peccato originale. Rocco e Giulia, il caffè appena venuto su. Giulia gli disse - Ecco �� successo, il morto, è quello che cercavate, adesso potete lamentarvi e avere ragione -. Lei per lui era di destra, faceva parte di tanti coetanei che vivevano il senso di ribellione in quel modo perché il brodo primordiale in cui fino ad allora erano vissuti gli raccontava che il grande paese con tanti paesini era di sinistra, lo Stato era di sinistra, la loro percezione era quella e essere cinici e menefreghisti e liberi da ideologie era l’atto di ribellione che li rappresentava. Rocco la spinse, ancora vede le sue mani che le prendono il viso con forza. Vicini così erano stati solo per baciarsi, per dirsi le cose belle e invece - Che cazzo dici!? - le urla addosso. Lei andò a sbattere contro il tavolo in cucina. Si era fatta male, si era spaventata. Si girò lo guardò - Mi hai picchiato, mi hai fatto male, sei impazzito! -. Rocco si riprende cerca di calmarsi, è tardi, lei va via pagando tutta la frustrazione che lui ha gettato verso le parole di lei, verso le azioni di lui. Tutto quello che viene dopo quei giorni l’ha sentito e toccato, gli è entrato sottopelle. Ha vissuto con molto dolore ogni video che vedeva, ogni articolo che leggeva. Il senso di empatia verso quella moltitudine di persone con cui condivideva tanto e si sentiva di appartenere nelle idee era potente. Ha mangiato tutto quello che poteva dargli un’ informazione di cosa era successo. Ha sentito la grande amarezza, quasi una paura e lo stupore del padre, ancora eroe in una visione fanciullesca, di certo più abituato di lui avendo frequentato attivamente gli anni ’60 e ’70. Alcuni ragazzi che conosceva erano partiti da quel suo stesso limbo e si erano ritrovati nell’inferno di violenza che è stato Bolzaneto. Rocco così ha continuato e continua a vedersi su quel palco di provincia vestito da Giuliano Palma mentre nell’altra parte del suo schermo cerebrale vede Genova.
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francescocusanno · 7 years ago
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RICETTA PIAZZALE LUGANO Ho preso uno sguardo Ho tracciato in miei incubi Sono fuggito lontano Da te luogo infame Paura ne ho Coraggio quanto basta
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francescocusanno · 7 years ago
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BLUP*, QUARTO OGGIARO blup sussurra sole ombra sole blup sento freddo il sudore che prende aria blup mi passo il braccio che sa di fieno e estate sulla fronte blup sento dolce il sangue sul ginocchio blup torno a casa con le cuffie blup scivolo in metro blup sfila la periferia bella e polverosa, secca e pungente blup siedo sui gradini, guardo il sole scendere dietro Quarto Oggiaro. [grazie @amycanbe, bellissimo il concerto a Estoul e adesso non posso finire di ascoltarvi e giocare un po' con le sollecitazioni che mi date] *blup, come un flash, come quando da un pensiero passi ad un altro senza apparente filo logico, blup, è un battito di ciglia, è il cut di un montaggio soffice.
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