La storia è famosa. A scuola la prof di matematica mi disse che nel compito avevo fatto degli errori talmente gravi da darmi ZERO. "Se lo avessi lasciato in bianco, Girardi, ti avrei dato 3, ma certi errori meritano 0! Al posto".
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Dio è una sostanza calmante. Colma i vuoti delle vite prese a bastonate, di chi ci prova in tutti i modi a trovare la sua personale forma di amore: il conflitto israelo-palestinese è un ottimo esempio.
Siamo per natura portati ad assuefarci alle cose, senza elettricità non è più plausibile la vita civile. Abbiamo distillato l'LSD dai funghi e ci è piaciuto tantissimo, e adesso ce lo fabbrichiamo (in nome di Dio). Qualcuno ci guadagna da 2000 e rotti anni? Ma li vale tutti, come il black trinitron negli primi '90 o Aranzulla in tempi più recenti.
I Beatles che mandano in cloud un nuovo singolo dagli inferi, bro, e con l'AI abbiamo appena cominciato - vorrei un parere di Polesel, quello che pesca al moletto, che ieri mattina smadonnava per il costo del pieno al motorino.
Potere lisergico dei contanti ritirati in posta il 2 del mese vs Cardinale Bertone - la sfida.
Per una razza di animali che come massimo exploit è arrivata a bivaccare in una specie di tenda canadese sulla luna per qualche giorno non è neanche così male (capsule design by Giugiaro). Poi ci lamentiamo del vicino che non svuota il bidone della merda. È sacrosanto, ma la vita si nutre di altra vita (a parte i vegani, ovvio) e il risultato è: cadaveri.
Se poi qualcuno raccogliendoli ci ha fatto il grano, tanto meglio. Termovalorizzatore is the new chiesa delle anime, e il gioco è fatto.
#chiesadelleanime#chiesacattolica#cadaveri#anime#soldi#cardinalbertone#polesel#termovalorizzatore#benzina#pescasportiva#vegan#vita
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0110110101000111000101 BLOG ha compiuto 10 anni oggi!
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Psicofarmaci.
Piove ancora. Un allarme suona non lontano, smette per alcuni secondi, poi ricomincia. La zoccola al piano di sopra farfuglia delle cose, sbatte degli oggetti nel terrazzo, poi ritorna in cucina abbassando le persiane con un frastuono notevole. Gino si lecca le palle sul tappeto, Jim Hall suona Concierto De Aranjuez. La notte, la mia casa disordinata, ma non un disordine figo di quelli fatti apposta, qui é tutto un bordello senza stile e senza senso. Ho comperato un prezioso divano inglese in pelle, così per l'emozione, perchè mi fa sentire un pochino quello che vorrei essere, ma poi essere richiede troppa fatica. Applicarsi richiede troppa fatica, ammiro la costanza di chi riesce a concludere delle cose nella vita, io non ci riesco. Faccio per lo più danni, non seleziono, dico di sì a tutti, mi incasino. Mi piace fottutamente uscire, non invito mai nessuno a casa, non ho un orgoglio nel mostrare le cose, gli oggetti. Passa un treno, li riconosco, il merci dal diretto, il locale dall'espresso, tanto hanno cambiato nome, oggi ci sono Frecciarossa, Frecciadialtricolori, per me sono sempre l'interregionale e l'espresso, e chi se ne fotte. Sono a dieta, mi verserei qualche mezzo bicchiere di qualcosa per vedere se migliorano le prospettive da cui guardo il mondo questa sera ma ho il sospetto che non funzionerebbe. Un tempo mi innamoravo, che tempi fluviali, oggi non ci riesco più, forse potrei amare qualche ormai vecchia carampana del mio passato, così per tradizione, ma cosa vorrà più dire amare? Desiderare, non mollare l'osso, battersi a duello con le proprie timidezze ed uscirne sconfitti. Com'era dura, e adesso non ha più alcun significato. Ti vedo passare, giovane, stellare, potrei giocare le mie carte di vecchia merda arrapata per averti, girare la frittata col giusto tempismo, come ho imparato a fare nei secoli. Ma non lo farò, perchè non avrei nulla da te come non ho nulla da nessuno, perchè io non so amare in nessun modo: mi sono dimenticato come si fa. Certo, rimpiango i tempi in cui scopare era così difficile, quasi impossibile, i tempi del desiderio. In quei tempi il desiderio era così carnale da sublimare in uno stato più nobile, rarefatto, diventava un gas che inalato ti faceva scavalcare le montagne, percorrere le autostrade, prendere treni per amore. L'amore è una sostanza che evapora dal desiderio e che si disperde nella banalità del sesso, della fisicità. Adoro l'uso a sproposito che si fa del verbo amare, innamorarsi, amarsi. È una perdita di tempo, una battuta sempre divertente che ascolto volentieri. Noi ci amiamo. Poi vi odierete, poi perderete l'interesse, tu, lui o entrambi, e infine vi dimenticherete. E rose e fiori, cravatte, confetti e promesse finiranno a far parte dell'oblio fuori moda simile a quello di cui vi parla la vedova sfatta al bancone del bar. Fuori piove, le foglie cadono, marciscono, il mio cane eleva una scorreggia fetente, la troia al piano di sopra forse dorme o forse ha preso i suoi psicofarmaci, il marito in canottiera affonda nella tv, il loro gatto dal nervoso ha sviluppato una forma di raro herpes per cui perde pezzi di pelo, odia anche lui la sua vita, i negri e il resto del mondo, morirà male. Ascolto ancora una volta un pezzo di John Tavener, si intitola Funeral Canticle ed ha una storia troppo lunga da raccontare adesso. Ho deciso che berrò solo acqua, cosicchè il mio corpo e i miei pensieri possano marcire negli abissi oscuri di questa notte fresca di luglio, coi suoi rumori, così piena di vita da valere la pena di essere vissuta solo per la mia coscienza, per il puro spirito di curiosità, la nobile curiosità umana, l'esperienza, l'unica cosa reale dell'esistenza.
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Il viaggiatore.
Ci sono degli uomini che si affidano ai sentimenti. A quelle cose vere avventurose e oscure, come i boschi di notte o i desertici altipiani assolati. Non sono strane immagini, è che nella mente e nelle intenzioni di certe persone convivono l'amore per il proprio tempo e l'idea che tutto quello che si sta vivendo ci porterà ad amare i nostri simili, in qualche modo.
Sono vite permeate dal mistero, dalla volontà e da una incrollabile fiducia nel tempo, nelle giornate che si affacciano a noi come da balconi con panorami sempre diversi.
In un hotel ai margini della città, appena fuori dalla strada che attraversa la campagna arriva un uomo a bordo di una moto. Cavalca una ferrosa due ruote nera, il buio avvolge i lampi del fanale giallo che tremola ai bassi giri del motore.
"Locanda, tavola calda", che termini demodè, pensa il viandante. Pioviggina, tutto è lucido fuori e intorno, l'uomo in pelle, senza un volto, avvolto dal suo fare routinario smonta dal motore, assicura le briglie al ricovero e, sacca in spalla, varca la soglia in vetro e legno scricchiolante del locale. Non c'è più nessuno a lanciare freccette o ad annebbiarsi le idee con la grappa. L'uomo si toglie le cose di dosso e le appoggia sulla sedia, accomodandosi al tavolino rotondo. La signora sbuca da una porta sul retro, fa il giro del bancone, lo raggiunge, bisbiglia due cose indicando le scale, poi se ne sparisce via di nuovo. Ritorna con il vino e il pane, sembra troppo tardi per un pasto ma senza alcuna prudenza il viandante si affida ad ella che dopo poco ritorna con un piatto, una cena, un legame con il luogo, il viandante sorride con gli occhi chiari cerchiati di fuliggine, lei appggia una mano sulla sua spalla, il piatto sul tavolo, andandosene.
La fiducia nel prossimo qualunque, la mancanza di certezze, di sicurezze, il peggiore incubo che viene esorcizzato nel viaggio umano su questo globo. Perchè è così che la notte avvolge le sue vittime, i suoi abitanti pacati, i passeggeri assorti delle sue strade, delle sue auto, delle sue luci mai affidabili. Il soffitto scricchiola di passi, le tendine sporche nascondono la vista all'esterno umido e stellato. L'uomo le scosta con due dita, lancia uno sguardo al bolide dormiente, ai grilli, timidi nella notte senza luna.
Ma perchè viaggiare?
Di chi saranno i volti nascosti dietro i fari di mille altri viaggiatori nella notte, lungo le autostrade, fermi alle stazioni di servizio, immobili dietro un toast e una coca cola nel bel mezzo del nulla, ad orari improbabili, al telefono con gente lontana, a discutere, a riempire di benzina il serbatoio e ripartire? Sconosciuti gli uni agli altri e allo stesso tempo parte di una stirpe, di una comunità, ognuno per i fatti suoi.
Bizzarre congetture nella mente dell'uomo della notte, mentre sale le scale alla ricerca di un giaciglio.
Il gufo su un ramo osserva le luci del ristoro.
I suoi occhi gialli, spalancati puntati come riflettori al secondo piano del piccolo hotel ai margini della pineta. L'uomo esce sul terrazzo, si accende un sigaro e si appoggia alla balaustra, gli alberi si muovono lenti al vento, le nuvole si scostano dal cielo ed esce uno spicchio di luna. Il gufo sbatte le palpebre, ledue creature della notte si osservano in un luogo ai margini del gran movimento della città. L'uomo lascia cadere un cerino sul bagnato, la fiamma si spegne lasciando un rivolo di fumo. Il gufo spalanca le ali in uno fruscìo e getta il suo strillo nel bosco, andandosene via. La pioggia ha smesso, l'uomo si lascia cadere sul materasso sfondato, chiude le braccia dietro la testa senza spogliarsi, chiude gli occhi sul soffitto senza spegnere la luce.
Domani tutto sarà diverso, le scelte, le direzioni possibili, ma ora la notte offre il suo spettacolo senza spettatori, siamo protagonisti silenziosi, discreti. Cosa decideremo? Nessuno lo sa.
Le direzioni, le mille destinazioni del giorno confluiscono tutte negli occhi chiusi del viandante e in quelli spalancati del gufo, guardiano sui nostri sonni, sulle nostre stanchezze, sui nostri bivi, sulle nostre incertezze. Ora, in questa notte umida, che importanza avrebbe mai rispondere ai dubbi sul nostro destino? Il viandante dorme, gli stivali sul pavimento sparsi, le finestre socchiuse sul buio che sbattono a tratti mosse da un vento lieve. Di sotto la signora quasi al buio riordina il bar, prepara le tazze del caffè perchè domani, in quel luogo alle pendici delle montagne qualcuno scenderà le scale per rifocillarsi, chiederà indicazioni per chissà dove e poi ripartirà. E lo vedremo sparire tra i pini e i larici, nel gesto perfetto di lasciare dietro di sè degli spettatori, dei viaggiatori immobili nello spazio, viaggiatori nel tempo, spettatori del mondo che si muove, della vita che scorre, che arriva, ci sfiora e riparte per la sua strada.
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Tigli.
"Che magnifico caldo, che magnifica città del cazzo".
Girardi vive in un luogo a caso nel nord est italia, un luogo per lo più abitato da giovani vecchi amanti dello sviluppo, del cemento e del successo.
Imprenditori, qualcuno onesto, formichina, che mette via, che fa della costanza, della qualità la sua bandiera, qualcun altro rampante, più o meno rimasto abbagliato nei primi anni 2000 della new economy, da quell'asfalto cosi promettente che avrebbe ricoperto, secondo alcuni, tutto il vecchiume che caratterizzava il mondo occidentale, e che invece è finito nel nulla, rendendoci più idioti che mai.
Così il mio capo scout è diventato sindaco. Non lo si vedeva in giro da millenni e come per magia, un mese prima delle elezioni si è fatto vivo al negozietto dei miei. Si ricorda di me? Col sorrisone del "siamo amici vecchio mio". No, non... - aveva risposto mio padre. Siii, ero il capo scout di Girardi, suo figlio!
Ahhhh... siii, quanto tempo, disse mio padre, scambiandolo sicuramente con qualcun altro.
E così mio padre era tornato a casa raccontando di aver rivisto quel ragazzo in gamba che era pure candidato sindaco, uno conosciuto, ma promettente e di cui fidarsi.
Perchè no, pensai, perchè non dargli fiducia? In fondo era quasi un punto di riferimento per me. Io ricordo bene, a quei tempi, a 11, 12, 14 anni non sai mica dove sbattere la testa, e un moraccione atletico che parla bene, la sa lunga su tutto, occhialetto intellettuale ma non da nerd sfigato, anzi attivo, propositivo, rischia di diventare il tuo modello. Poi fortunatamente cresci, scopri che esiste la figa, ti fai nuovi amici ti schianti in macchina, scopri che la figa fa male, ti trovi un lavoro, una casa, vai per approssimazioni, insomma soppesi le cose della vita e ti ci fai un'idea. E ti chiedi, ma il sindaco, ai tempi degli scout, chiavava? Perchè a noi dicevano che era proibito ma io ricordo che aveva una ragazzina. Scoutessa. Capa. Boh...
Al più presto realizzai che quella commistione tra cattolicesimo e tende da campeggio non era quello che volevo, non volevo diventare un capo scout nella vita. Ci si avvicinava, certo, nello scoutismo c'erano delle cose positive ma sempre, un po' come a scuola all'ora di scienze arrivava la rottura di cazzo, la parte dolente, la formula noiosa, il calcolo: c'erano preghiere, obblighi assurdi di compilare quaderni con propositi per il nostro futuro, eseguire ordini senza senso, fare o dire cose imbarazzanti davanti a tutti, spesso era un po' come fermarsi poco prima dell'orgasmo perchè entra tua madre in camera. Decisi così che avrei fatto lo scout in proprio, avrei vissuto delle bellezze della natura, ma senza le rotture di cazzo imposte da qualcuno.
Era la fine degli anni 80 e mi chiedevo chi poteva credere veramente all'utilità di certe fregnacce, in dio, nell'essere "buoni" a comando, nelle preghiere. Però c'era il bosco, il mare, il campeggio estivo, le montagne meravigliose, l'aria fresca al mattino, bere l'acqua dalle foglie dopo una pioggia, camminare di notte tra gli alberi, tra mille rumori di animali che non si fanno vedere. Il sole accecante, piccoli laghetti alpini senza un nome nei quali immergere i nostri piedi stanchi e fetenti, intagliare i legni di nocciolo e usarli come bastoni da viandante.
Oggi percorro a piedi questa strada assolata, sono le 10 del mattino, ci sono 34 gradi centigradi. Gli anni 80 sono finiti da un pezzo, gli scout pure, rimpiazzati da chissà cosa per giovani più alla moda, abbiamo antenne in ogni dove, siamo connessi a tutto, ci sono condizionatori d'aria dappertutto e bestemmio l'onnipotente signore iddio perchè mi ha fatto decidere di raggiungere il centro a piedi per bere il caffè. Girardi, non sai quali siano i miei progetti su di te, quindi non scassarmi il cazzo e cammina, te li ricordi gli scout? Lì camminavi, e se non camminavi erano calci nel culo. Quindi go!
Certo, dio, ma c'erano le fronde ombrose del creato, i bellissimi paesaggi montani, i pini che emanavano quel profumo di resina proteggendoci dalla calura.
Dio, perchè tu ok, lo so che le tue vie, i tuoi mezzi sono infiniti e non prevedibili però così mi stai prendendo per il culo. Questa città lavica, questo cesso di cemento privo di vita sul quale cammino lo stai facendo plasmare in questo modo demente... indovina un po' da chi? Proprio da quello che al tempo mi accompagnava tra immensi prati, boschi, sentieri, rocce e nevai.
C'erano degli alberi qui un tempo, facevi due passi, dio, non nego di averti bestemmiato comunque, magari a causa di qualche merda di cane che calpestavo ma quegli alberi del viale proiettavano la loro ombra, mi salvavano dalla disidratazione, da una morte orribile come quella che stai tentando di infliggermi oggi. E invece ora è tutto bello bianco, fashion, spianato, pulito, vetro, cemento, freschezza all'interno, inferno all'esterno, e questo grazie anche al tuo emissario, no.. non quello... quello, tuo figlio si è occupato d'altro e poraccio, è pure finito male. No questo, e questo col cazzo che si veste da hippy, il nostro c'ha uno stile mica cazzi: camicetta bianca stirata, cravatta da cameriere di sala, capelli in posa plastica tipo omino dei Lego e favella da capottarsi! Da capottarsi dio! Come parla questo? Apposto, potresti assumerlo in vaticano! E devi vedere come parte di denuncia se qualcuno lo offende.
Solo che, dio, il mio capo scout così me la mette nel culo perchè io pensavo: questo ci riempie di natura, questo ci fa una città da sballo, blocca cantieri, mette a ferro e fuoco quegli stronzi ingordi dei costruttori edili, interessati solo a costruire non-luoghi per imbecilli col SUV e distribuire mutui per la gioia delle banche. Insomma, tutte cose che da piccolo non consideravo, e forse nemmeno l'allora vent'enne sindaco, ma che oggi ho la certezza essere il male pressochè assoluto, il simbolo di un progresso fatto solo di consumi, insostenibile, finto, brutto, distruttivo.
Ecco come il potere plasma le cose, le persone, ecco come l'unica cosa importante al mondo, cioè il mondo stesso, naturale, sia d'intralcio agli scopi di questi personaggi, tutti insieme, tutti d'accordo sul da farsi e tutti uniti nel raggiungere i loro ambiziosi obiettivi. E se li nomini è immediatamente complotto, perchè tu non sai cosa è bene, lo sanno loro.
Cioè dio, mandami un leghista, mandami uno delle bestie di satana a fare ste cose, allora chi si lamenta? Un petroliere, un cazzo di ebete cresciuto in una città di plastica, un mestrino! Non così.. così è davvero avvilente.
Entro nel bar di mille anni fa, ora è tutto ristrutturato, al tempo venivamo a prenderci il ghiacciolo in bicicletta, io e Fede tra i tigli e le siepi delle case, oggi prendo la broncopolmonite dal freddo che c'è dentro, sudato fradicio che sono. La vecchia barista è morta da seicento anni, sono cambiate ventotto gestioni, i ragazzini bevono spritz e birrozze alle dieci di mattina seduti ai tavolini, coi risvoltini, la nuova barista è giovane, figa e non mi saluta, bevo questo Illy acido dando le spalle al bancone, pago con 50 euro apposta per romperle il cazzo. Un euro e venti, così le frego tutta la moneta. Ciao bella.
Sì, infatti tutto bello, tutto bene in questa meravigliosa domenica nella città di cemento armato.
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I miei primi ricordi risalgono, più o meno verosimilmente a quando avevo un anno. C'era il terremoto, la mamma mi infilò in una coperta a quadri gialli e azzurri e insieme andammo a rifugiarci in fondo al giardino. A un anno non sai di esistere, quindi molto bene.
A due anni è uguale, a cinque incominciano i problemi. Andavo all'asilo dalle suore. Ricordo la balaustra sulle scale di ghiaino, smussate da milioni di piccoli passi verso il dormitorio. Tantissimo chiasso, un bambino rosso di capelli che mi picchiava, lo scheletro di plastica coperto da un panno che andavamo a spiare, l'odore di verdure bollite del refettorio, gli scivoli. Avevo paura quasi di tutto, era un mondo fottutamente minaccioso, lontano dalla quiete della mia casa, i giochi, il giardino.
A sei è uguale, lo stesso spaesamento ma la scuola elementare mi era più affine. Una sola maestra, una ventina di compagni e compagne di cui sapevi il nome. Mi innamoravo già delle bambine.
A otto stai benissimo, alti e bassi ma scopri il mondo, sperimenti, io sono stato fortunato, mi lasciavano fare praticamente qualsiasi tipo di malanno. Poi mi rimproveravano ma era bello poter conoscere le cose attraverso le esperienze. Forse questa cosa la porto ancora con me, oggi.
Ero timido, molto timido, a dieci anni era ancora tutto bene, poi arrivarono le scuole medie. Fu un trauma, un cambiamento, un asilo per bambini grandi animato da dei vecchi astiosi, infastiditi. Io non ci capivo niente, inoltre incominciavo a crescere e ribellarmi, questo mix potentissimo fece sì che mi bocciassero in seconda media.
Solo i minorati mentali si fanno bocciare alle medie, credo sia stato un modo per denigrarmi, per mettermi un timbro a fuoco. Oggi ci rido, allora mi sentivo solo una merdina.
È notevole come da una certa età in poi si incominci a scandire il tempo in base a scuole e lavoro che frequentiamo, sostanzialmente in base al nostro ruolo nella società e non come individui.
Alle superiori finii in un istituto professionale di stato per l'industria e l'artigianato, il famoso IPSIA. Non mi fregava niente di industria e artigianato, a me piacevano le materie umanistiche, ma ricordo bene durante un colloquio i professori delle medie ridermi in faccia quando avanzai la mia intenzione di andare all'istituto magistrale. Un diploma senza futuro, carta straccia.
Però a me sarebbe piaciuto.
A 13 anni sei inserito nel contesto treno - scuola - treno-pomeriggi-figa che non vedrai mai - discoteca la domenica pomeriggio - goto start.
A quell'età nel mio male stavo bene, incominciava a delinearsi una forma di profondo spleen che mi accompagnerà fin bene oltre i trenta.
Incominciai a suonare la chitarra, mi ribellai a corsi di solfeggio e maestri, mi misi a fare di testa mia, come sempre, e i risultati erano penosi. Stavo bene, trovai un gruppo, suonavamo malissimo. Le prime feste, le prime birre. A 16 anni scrivevo, volevo fare il poeta. Leggevo i classici maledetti, Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, era un modo per sentirsi a casa, anche loro apprezzavano il dolore, e in mezzo all'adolescenza cos'hai se non rabbia e dolore?
Le figa latitava sempre, non mi appassionavano cose come i vestiti, le moto, cazzeggiare fuori dall'oratorio, fumare, cose che attiravano le ragazze. Non ho mai fatto quello che non mi piaceva, nel bene e nel male, tanto meno per piacere a qualcuno.
A 18 non cambia molto, e nemmeno a venti.
Incominciai a capire qualcosa, a collocarmi da qualche parte nella società attorno ai 22 anni.
Mi aiutò molto la fine della scuola, vissi ancora un po' di tempo in modo svagato, da finto bohemien, credendo ancora di poter battere il determinismo, il copione che mi era stato consegnato, e diventare uno scrittore. Mi iscrissi a storia, cazzeggiai un anno in giro per Venezia e fù un'esperienza meravigliosa, anche se non frequentai nemmeno un corso. Mi ricordo le magnifiche librerie piene di raccolte di poeti, leggevo Montale sui ponti di Venezia, col mio pile a fiori anticoncezionale.
A 22 dunque arrivò la cartolina e andai obiettore.
Quasi contemporaneamente cominciai a stare male. Male - malessere - malissimo, un male inspiegabile. Quindi a 21, 22 capii che a stare male non si sta bene. I dottori non capivano, io ancora meno, e scendevo sempre più giù in fondo. L'anno dell'obiettore fù creativo, doloroso e inutile, non così inutile come lo sarebbe stato se fossi andato a fare il pagliaccio con la baionetta, le bombe a mano e il fez.
A 23 cominciavo a stare meglio ma ti risparmio il (lungo) racconto di come ci arrivai. Uscire dal vero male fa crescere, non è veloce, non è una passeggiata, è un momento di crescita vera. Superare il male, cioè crescere, significa riconoscere ciò che di positivo ci circonda. A 24 anni entrai nella Grande Azienda. A 24, 25 anni sei una premessa di ometto, incominci a guardare avanti sapendo di stare da qualche parte nella società degli uomini. Del tipo: sono nato qui, vivo qui, lavoro qui. Per uno cronicamente spaesato come me non era poco.
Vedevo un futuro tranquillo, il lavoro nella Grande Azienda come una calda coperta, il sabato libero, dei soldi, un'automobile nuova, molto altro.
Era tutto in salita ma una salita da fare assieme ad altri, tutti verso un destino comune: la crescita.
Crescere, noi e le nostre aspettative, accelerare, cioè crescere a un ritmo maggiore ogni anno. Darci dentro fino a incominciare a dubitare sul senso di alcune parole. Crescere: perchè?
E poi: noi siamo i migliori, devi dare di più. Devi chiedere cosa puoi fare tu per l'Azienda, non cosa l'Azienda può fare per te, tutti sono utili e nessuno è necessario, insomma stronzate di cui sono convinti solo capi e manager. Pillole di statiunitismo motivazionale mal coniugato. E poi, e poi... una lobotomia collettiva.
A 27, 28 stavo bene, a 29, a 30 un'ipotesi di uomo prende il brevetto di ometto. Festeggi il compleanno con i fedelissimi di una vita, puoi incominciare a parlare di vecchiaia, insomma sei nel pieno di una rappresentazione, di una farsa in cui dentro di te ti parli come a 20, anzi a 16, ma fuori metti i pantaloni di fustagno e l'orologio in acciaio inox.
A 33, 34 hai la ragazza, vivi, convivi, ti annoi, fai le vacanze, vendi la moto, compri il cane, cambi casa. A 35, 37 pensi che ne hai quasi 40 e a 40 incominci a preoccuparti per la durata delle tue erezioni.
A 40 inoltre incominci ad apprezzare alcune cose prima scontate, allegate al pacchetto vita che il buon Dio ti ha donato, che potrebbero non essere più disponibili a breve: il profumo della primavera, dormire una notte intera senza svegliarti, il tuo cane che ti ama, le persone che ti sono amiche, il fatto di non dover uccidere per sopravvivere, poter viaggiare, non avere un cancro in fase terminale o il parkinson.
Dopo i 40, i 43 il tipo di consapevolezza, di disillusione che mi ha sempre accompagnato, cambia. Non credo nell'uomo, nel progetto di mondo occidentale che ci stanno proponendo. Non credo in dio, in questa forma di economia, di sviluppo insostenibile ma apprezzo sempre di più quello che viene dal tempo. Le cose senza tempo, gli alberi, il mare, dev'essere la fase prima di andare a guardare gli scavi con la bicicletta. Eppure pensi alla storia, all'incredibile percorso che ci ha fatto arrivare fino a qui. Penso al corpo umano, atri, ventricoli, all'idea pazzesca che da minerali e polveri si sia formato tutto questo. Senza una regia, tutto per approssimazioni.
Hai mai pensato al mimetismo, al camaleonte, che cambia colore per nascondersi, per convenienza ma senza essersi mai guardato allo specchio...
Le piccole cose sono tutte grandi cose.
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Scarafaggi.
Non ho mai avuto paura della notte. Mi ci sono trovato faccia a faccia tante volte ma ho avuto paura di altre cose, più che altro persone o cose del genere. Mi piace la notte, non mi fa paura, non c'è traffico sulle strade, c'è uno strano rispetto nel muoversi dentro la notte, tra di noi gatti, topastri randagi. Anche il mio vicinato demente, leghista, xenofobo dorme, è innocuo dopo le due di notte. Nessun allarme li sveglia, via libera a ladri albanesi, rumeni con l'acetilene per far saltare per aria tutte le sicurezze. Noi, svampiti e ladri ci aggiriamo per il parchetto, chi per una pisciata sanificatrice, chi per vuotare lo zainetto dalla maria. Noi lavoratori in incognito, noi rospi, grilli scarafaggi in calore.
Buonanotte gente, fate sonni tranquilli, ci siamo noi a vegliare le ore piccole per voi.
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Andare ad un concerto dove il 99% del pubblico ha l'età che avrebbe tuo figlio, se tu ne avessi uno. È vero, non dovrei sentirmi vecchio, in fondo faccio solo una cosa che mi piace. Prendi questo cantante Calcutta. Ha un nome infelice, scrive dei bei testi, ha talento, è bruttino esteticamente ma mi piace. È un fenomeno commerciale con sostanza, una delle pochissime novità degne di nota degli ultimi tempi. Inoltre piace, agli altri intendo. Il pubblico è composto da tantissima figa, ragazzine giovani o giovanissime, questi culi sodissimi, queste proto-tette, questa innocenza appena perduta, quel misto di illusione e disincanto che hanno i diciassette anni. Gridano come delle forsennate, foraggiate dai bimbominchia loro coetanei, sfigati, deformi, impacciati, come eravamo noi. E in mezzo a tutto questo il pedofilo, il vecchio bavoso che è li con in mente quello che erano i concerti un tempo, trasgressione, spaccarsi, eccedere a tutti i costi. "I giovani", che categoria... C'è qualcosa che mi disturba in tutto questo, e non so che cos'è (semi cit.), mi urtano, mi infastidiscono, mi sfiorano impunemente coi loro fianchi di burro freschissimo, e io non sono uno di loro.
Mi aggiro con la mia birra in mano, la rovescio tutta per terra battezzando una ragazzina mulatta che era seduta proprio davanti a me. Lei ride, io le faccio il segno della croce. Il cantante Calcutta canta, mi commuove vedere due bimbetti baciarsi tutto il tempo, è una scenetta che mi fa sperare nel futuro. Poco prima ha suonato un fenomeno, un certo Ghemon, sono quelli che aprono la serata (mi hanno detto che è stato a Sanremo -r.i.p.): testi inutili, musica inesistente, vuoto cosmico, c'erano forse cento persone ad ascoltarlo. Ora qui siamo un miliardo e questo deve voler dire qualcosa. Questi due si baciano in un modo potentissimo ma non durerà, vi lascerete, cancellerete tutti i selfy, chiaverete con altri cinquecento, ma ora vi amate alla follia.
Il cantante Calcutta ha una malinconia di fondo meravigliosa, forse un giorno si perderà nel nulla anche lui, a tratti mi ricorda il Vasco Rossi dei primi anni. Questi giovinastri sanno scegliere. Non è sempre tutta fuffa, non è vero quello che diciamo noi vecchi di merda riguardo ai loro: bamboccioni, svogliati, cellulari, canne. Si è vero, sono tutto questo e molto altro, come eravamo noi, ma di più e meglio.
Mi sento abbastanza male. La vecchiaia è soprattutto lasciare per sempre alcune cose, finire definitivamente di far parte di una certa categoria, e accanirsi è abominevole. Non so se tornerò mai a vedere un concerto che non sia di qualche vecchia gloria anni 90, scongelata, senza capelli e idee, tutto questo è giusto che succeda per conto suo, io c'entro molto poco. Sul prato non c'è una lattina, un bicchiere vuoto, una cartaccia. In ogni angolo bidoni differenziati per i rifiuti con dei tizi che ti dicono dove e cosa mettere qui o li. Non è meraviglioso? Non è andare avanti, essere migliori questo?
Cerco una sigaretta, mi manca l'accendino e non ho il coraggio di chiederlo a qualcuno, esattamente come vent'anni fa. Riparto sul guzzi, ciao cantante Calcutta, tieni duro.
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3.10
finche ci sara tempo
distilleremo ipotesi
sorseggeremo possibilta
evolveremo la nostra notte
azzarderemo gesti a tarda notte
sfideremo la polizia
in gare di velocità e destrezza;
poi finira il tempo
e dimenticheremo tutto.
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Cosa può fare l'amore
Questo sentimento sempre troppo nascosto
Cosi buio anche in queste giornate
Di sole solare che ci saluta bye bye
Salvarti la vita, sfamarti nel deserto
E non farsi toccare
Dissetarti nel mare
Darti una chance, e poi
Arriva il tempo e la distanza
A complicare il mio ragionamento
È così poco ciò che porto con me
Sono solo segni, segreti, oggetti dispersi.
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Perderemo.
Ci perderemo.
Ascolto un vecchio disco e penso che potresti averlo ascoltato anche tu.
Di certo.
Ascolto le note e ti sento vicina, ma sei così lontana da non poterlo nemmeno immaginare.
Penso alle cose che ci uniscono, le canzoni che ascoltavi, gli oggetti che toccavi, le cose che ti piacevano, che ti stupivano.
Semplici.
E quando incontro tutto questo, io lo vivo per te, per sentirti un po' viva, un po' giovane e spensierata come sei stata un tempo.Un po' piu vicina, anche se sei lontana, tanto da non poterlo nemmeno immaginare.
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I piatti.
È come farsi in vena. Il vino. I piatti. Una quantità di piatti. Li odiavo quando mamma me li davi, stracolmi di cibo. Il figlio scapolone, tutto il bene per lui. Che sia felice. Felice e tutto quel che posso fare è dargli del cibo delizioso da portarsi a casa, nella mia piccola cucina coi mestoli consumati da milioni di giri di pentole di piselli, spezzatini, verdure, polente. Come mi mancano i tuoi odiosi fagotti di cibo da portarmi a casa, mamma. Così mi restano i piatti vuoti, piatti economici, avuti coi punti raccolti, avere per dare anzichè tenere per sè. E la felicità, questo groppo che non vuole uscire, questo amore che non so più dare, e tu non mi puoi aiutare. Da laggiù avrai paura del temporale? E quando è brutto vorrai chiamarmi per sapere se sto bene? E tutto il resto. E capisco che essere felici é un dovere, fare quello che tu non hai potuto, nel tepore umido della tua piccola cucina, a guardare le ore e sperare che venissi a prendere il caffé. Con te. Quanti caffè mamma, io e te, a parlar male del mondo intero, a dire ma sì ...vedremo come andrà. Come cazzo vuoi che andrà, mamma. Va così, che si combatte, e poi ci aspettano tre metri di terra e a mai più rivederci. Ed essere felici é un dovere, ci proverò in qualche modo, te lo prometto. Che ci proverò.
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Che bella Non ce ne sono di così belle Adularla - Non sembra funzionare È evidente che non funzionerà e Da un insignificante attimo nell'immensità Pensarla è così importante Così inutile Da farti cambiare discorso.
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Sabato sera Di tante domande Simultaneamente Parcheggiatamente Attendissimevolmente Senza sapere Niente
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Sa di bruciato. Stop Bianco ossuto, negro con skate comprano dolciumi e succhi nel supermercato. Deserto. Accecante. Fuori una donna, cappotto marrone, ma è quasi primavera. Inguaribile. La provincia sa di asfalto, neon. Vetture, merli cazzeggiano sui rami in amore e laggiù il blu Sempre più nero Della notte. Lenti. Ci si muove verso il nido File ordinate di luci rosse che poi ripartono. Jogging Qualcuno deriva dalle sue intenzioni: Nr. 3 birrozze Nr. 4 uova Nr. 1 salmone Nr. 2 sacchi insalata Sono con te. Sono parte di te Luogo di provincia Connessioni disconnesse Il Tg, distrattamente Meccanismi artificiosi. Animali domestici Selvaggi in cattività Senza sapere perchè.
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Il cielo è ancora lattiginoso, sono i primi di marzo in questo nuovo anno. Non so nulla di cosa succederà, i rumori della barca che oscilla dolcemente al vento sono al tempo stesso fastidiosi e ipnotici. Ne elimino qualcuno tesando meglio le drizze e ora tutto è perfetto, solo una leggera brezza che attraversa la cabina e se ne esce sul fiume. Il rumore è di legni, di fibre che torcono, sbattere leggero di chincaglierie di plastica. Nella tensione del giorno, nel dolore delle notti insonni, delle riflessioni, delle prove che la vita umana mi pone innanzi, questo luogo galleggiante, silezioso, lontano e vicino mi dà tregua e mi conforta. Le nuvole cambiano lentamente forma e gli uccelli acquatici lavorano con grande impegno, tutto segue moti antichi e certi. È questo a darmi sicurezza. La vita umana ci mette davanti a scelte che la natura selvaggia non pone: la vita e la morte, il destino, le scelte, tutto è regolato da leggi superiori. La vita e la morte, il destino, le scelte, tutto nell'uomo è arbitrario e questa responsabilità ha un peso sull'animo. Qui, in questo luogo dul fiume si sta invece sospesi, si dimentica, si vive in un momento presente costante, senza interrogarci sul come e il perchè il destino accadrà. Me ne dimentico, nella mia casa, ma lo ritrovo qui, il mistero della pace col mondo, la linea che congiunge il mio pensiero di uomo al mio destino naturale, che è il pensiero, la legge della Natura.
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