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uominiemotori · 11 years
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Miura. La genesi del toro.
«La leggenda vuole che la Lamborghini nacque per colpa di una frizione. Ferruccio Lamborghini, che faceva trattori, si era preso lo sfizio di comprarsi non una, ma addirittura tre Ferrari. Però capitava che sulla sua Ferrari la frizione ‘saltasse’ spesso. Lamborghini chiese un appuntamento al Drake di Maranello. Venne ricevuto dopo due ore di anticamera. Espose il problema delle noie alla frizione e Ferrari disse:”La macchina va benissimo, sei tu, piuttosto, che sei capace di guidare solo trattori, non certo una Ferrari”.»
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La nascita.
A metà degli anni '60 la Lamborghini è una giovane azienda che costruisce macchine ineccepibili dal punto di vista meccanico, tuttavia manca ancora la definitiva consacrazione e soprattutto un'identità stilistica. Sono molti i carrozzieri che si cimentano nel vestire i telai usciti dallo stabilimento di Sant'Agata Bolognese, ma i risultati sono spesso troppo legati allo stile tradizionale di scuola modenese. Il paragone con le berlinette Ferrari è sempre in agguato e rappresenta una minaccia sull'immagine di un marchio alla ricerca di una propria identià. Ferruccio Lamborghini, da parte sua, ha avuto l'abilità di portare alla sua corte un gruppo di cervelli eccezionali, in cui si distinguono per capacità tecniche gli ingegneri Gian Paolo Dallara (ex Ferrari e Maserati) e Paolo Stanzani, contando inoltre con un esperto test driver come Bob Wallace. Utilizzarono il loro ritagli di tempo alla Lamborghini per creare un mezzo rivoluzionario, differente a qualsiasi auto vista fino al momento. Ferruccio dal canto suo, non era molto convinto del progetto e lo vedeva semplicemente come un modo per richiamare l'attenzione dei giornalisti su di sè. Ne uscì quindi un complesso telaio motore dalle caratteristiche fortemente innovative, che venne presentato al Salone di Torino nel 1965, sotto l'anonima sigla "P 400".
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L'interesse è subito notevole, anche perché non si comprende come si riuscirà a tirare fuori una vettura da strada con una base di partenza che pare pensata per le competizioni. In effetti, sembra che Dallara e Stanzani pensino proprio alle corse elaborando le linee guida del loro progetto: telaio monoscocca in acciaio scatolato ed alleggerito all'estremo da numerosi fori, sospensioni indipendenti a bracci triangolari sulle quattro ruote, cui si aggiunge un generoso V12 di 60° e 4000 Cm3 di cilindrata realizzato da Giotto Bizzarrini ed ereditato dalla 400GT, montato trasversalmente ed in posizione centrale, un'architettura mai vista su una semplice vettura da strada, ma che consentiva di realizzare una vettura più compatta, riprendendo l'idea del motore transversale dalla Mini. L'alimentazione è garantita da quattro carburatori triplo corpo verticali della Weber. Il cambio è in blocco con il motore ed i cinque rapporti sono innestati da un ricercato attuatore idraulico, che consente di addolcire notevolmente il passaggio da una marcia all'altra, mentre il comando conserva il tradizionale schema a leva centrale. Infine, il radiatore e collocato anteriormente in posizione orizzontale, nel tentativo di ridurre al minimo la resistenza all'avanzamento.
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Sulla carta sono programmati due distinti modelli: una versione normale con 350 cavalli a 7000 giri al minuto ed una seconda, denominata "Sprint", con una potenza di 430 cavalli ad 8000 giri al minuto, studiata specificatamente per le competizioni e mai realizzata. Ciò che manca è una carrozzeria all'altezza di un simile sistema meccanico: alla fine del 1965 Ferruccio Lamborghini stringe un accordo con Nuccio Bertone, che ha appena assunto Marcello Gandini in sostituzione di Giorgetto Giugiaro, uscito dall'azienda per mettersi in proprio. A Torino si mettono a lavorare duro, anche perché non è impresa facile vestire un simile telaio rispettandone gli estremismi e riflettendo nelle lamiere il carisma che esso sprigiona. I compromessi sono inevitabili: l'attuatore idraulico del cambio viene accantonato perché troppo sofisticato ed oneroso, mentre il radiatore torna in posizione verticale per migliorare il raffreddamento. Esistono poi grossi problemi d'isolamento acustico e termico dell'abitacolo rispetto al vano motore, risolti con l'inserimento di un cristallo spesso 8 mm, che lascia ai passeggeri una piacevole vista sul 12 cilindri.
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Nel marzo del 1966, dopo soli tre mesi di lavoro, la nuova creatura viene presentata al Salone di Ginevra, riscuotendo un successo entusiasmante, sia da parte del pubblico di appassionati, sia da parte della stampa. Improvvisamente, tutte le gran turismo che fino al giorno prima erano considerate la massima espressione della modernità, diventano vecchie di fronte a quell'audace insieme di linee battezzato "Miura", il nome di una feroce razza di tori da corrida tra i più famosi e temuti, sicchè Lamborghini scelse quel nome per la sua auto.
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Chiaramente negli anni '60 non esistendo internet, le informazoni viaggiavano più lentamente, cosicchè il signor Miura seppe della cosa ad auto presentata, andando su tutte le furie nel sapere che un tizio, in Italia, aveva usato il suo nome. L'allevatore partì deciso a far valere il suo buon diritto sul nome, ma la leggenda vuole che Ferruccio Lamborghini in persona viaggiò fino in Spagna con una Miura per incontrare Don Eduardo Miura. Quando si incontrarono, questi prese l'italiano a male parole, lamentandosi per l'uso del suo nome, fino a che quando calmatosi gli venne mostrata l'auto, che ancora non aveva avuto modo di vedere. Don Miura rimase senza parole e colpito dalla bellezza e dalla ferocia del mezzo esclamò: "Miura... certo Miura... un'auto così ovviamente non può che chiamarsi Miura!"
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La vettura è caratterizzata da una linea di cintura molto bassa e morbida, che sottolinea sinuosamente i parafanghi, mentre il cofano picchiante termina in una larga e stretta bocca di squalo, che nasconde la griglia di raffreddamento del radiatore e le luci di posizione. Altre due griglie nere e rettangolari proteggono gli sfoghi d'aria calda (una permette l'accesso al bocchettone della benzina) con un tema longitudinale che richiama la velocità ed interrompe la purezza della lamiera. Lo stesso motivo viene ripetuto intorno ai fari, perfettamente rotondi e dotati di un sistema di orientamento in grado di portarli in posizione verticale nella fase di utilizzo.
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La coda raccoglie la fusione della linea di cintura con quella del padiglione, mascherando un profilo a Kamm integrato nel portello del bagagliaio, alle spalle del vano motore. Quest'ultimo è protetto da un pannello di plexiglas che lascia il motore in vista, mentre sotto i gruppi ottici si trova un largo sfogo per l'aria calda, ingentilito da una griglia a nido d'ape che ospita ed occulta i terminali di scarico. Il padiglione è caratterizzato da un parabrezza molto inclinato e dai montanti posteriori, che accolgono prese d'aria aggiuntive per il vano motore, protette da una trama di lamelle orizzontali e da un andamento che ricalca il taglio particolare dei finestrini. Fondamentale passare in rassegna i colori disponibili per la carrozzeria: verde Miura, arancio Miura, bianco Miura, bleu Miura, verde smeraldo e rosso corsa. Si tratta in gran parte di calde tinte pastello che accentuano la linea della vettura, rendendola, se possibile, ancora più sfacciata ed eccitante.
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Molto innovativo anche l'abitacolo, con un'impostazione di tipo aeronautico, caratterizzato da sedili poco imbottiti e molto avvolgenti nella zona lombare. Il quadro dietro al volante raccoglie tachimetro e girometro, separati dal piantone dello sterzo e stilisticamente indipendenti. Gli strumenti secondari sono raccolti sulla consolle centrale, mentre la pulsantiera principale è ricavata nel cielo dell'abitacolo. Il tunnel accoglie il cambio con selettore in metallo, i pulsanti degli alzafari elettrici, oltre al freno a mano.
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Dall'insieme di questi elementi si comprende come la Miura rappresenti il punto di rottura con il classico stile delle Gran Turismo costruite all'epoca. È talmente sensazionale e moderna che Lamborghini e Bertone pensano di costruirne soltanto una decina di esemplari e, in effetti, non sembra esista nemmeno un vero e proprio piano industriale dietro a quel progetto, ma il pubblico, ed in particolare i potenziali clienti, forzano la mano ai due personaggi: già a Ginevra vengono accumulati diversi ordini con tanto di anticipo. Per l'inizio della produzione occorre attendere il giugno del 1967, dopo essere passati attraverso il Salone di Parigi, dove viene presentata la versione definitiva, caratterizzata da alcune modifiche di dettaglio: il lunotto posteriore di plexiglas viene sostituito con una veneziana nera, mentre i terminali di scarico sono spostati al di sotto della carrozzeria, ottenendo un bagagliaio più ampio.
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Il prezzo di 7.700.000 lire è follia pura, ma si può andare ben oltre con l'aggiunta degli optional previsti: interno in pelle (155.000 lire), condizionatore (300.000), specchietti retrovisori esterni (16.000), verniciatura extra (80.000), verniciatura metallizzata extra (125.000). Senza contare che nulla è impossibile in una simile fascia di prezzo e qualsiasi desiderio può essere esaudito. Tuttavia, nemmeno la concorrenza scherza e dando una rapida occhiata ai listini dell'epoca si scopre che la Ferrari 360 GTC costava 6.500.000 lire, la 365 GTB 7.900.000 lire, la Bizzarrini 5300 GT Strada 5.950.000 lire, l'Iso Grifo GL 7 litri 7.900.000 lire, la Maserati Mexico 6.900.000, mentre per la De Tomaso Mangusta Coupé occorreva sborsare 6.495.000. 
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Nonostante le timide previsioni di vendita, trenta esemplari al massimo, e il fatto che Ferruccio la vedesse inizialmente solo come una show-car, la grande richiesta la fece passare da un modello esclusivo dagli scarsi benefici a essere il modello più importante della casa, costruito in 765 esemplari fino all'Ottobre del '73, salvò la Lamborghini da una quasi certa bancarotta.
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Vittima del suo stesso successo, per poter consegnare le prime vetture in tempo, Lamborghini precipitò lo sviluppo facendo macinare al prototipo solamente 15000km, tra cui una manciata realizzati utilizzando la Miura come Safety Car nel Gran Premio di Montecarlo di quello stesso anno. Quel weekend Ferruccio decise parcheggiare la sua creazione difronte al Casinò in modo da ottenere una grande visibilità tra i suoi nuovi potenziali clienti, quando un buon numero di persone si radunò attorno alla macchina l'accese, lasciando tutti di stucco.
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Il parto prematuro, evidenziò diversi problemi di gioventù, tra cui il più grave di natura aerodinamica, la linea disegnata da Gandini creava alle alte velocità un flusso d'aria che alleggeriva notevolemente l'asse anteriore a partire dai 240kmh, tendendo ad alzarsi e dando l'idea di "galleggiare", diventando pericolosissima. Era opinione comune al tempo che la velocità massima della Miura non fosse di 300kmh, ma fosse direttamente proporzionale alla grandezza delle palle del guidatore, osando spingere sull'acceleratore anche quando l'auto quasi non rispondeva allo sterzo. Nonostante ciò la Miura stabilì il nuovo record di velocità per auto stradali con 272kmh, record imbattuto sino al 1969, con l'arrivo della Ferrari 365 GT. Questo problema divenne meno critico grazie a un differente settaggio delle sospensioni e l'utilizzo di splitter anteriori, il problema tuttavia non scomparse mai del tutto.
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Un altro problema di rilievo che colpiva le prime Miura era dettato dall'utilizzo di carburatori Webber 40 IDL 3C1 da competizione, questi nell'utilizzo su strada fermandosi ad esempio a un semaforo, riempivano le farfalle di benzina che ripartendo formavano nei migliori casi una fragorosa fiammata dagli scarichi, nei peggiori un incendio. Il problema venne risolto dopo poco tempo e la soluzione venne applicata anche ad alcune Ferrari.
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Le versioni successive, tra cui la S e la SV furono le incaricate di ovviare ai problemi di gioventù della Miura
                    Evoluzioni.
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Al Salone di Torino del 1968 viene presentata la Miura S (Spinto), realizzata in un totale di 140 unità, si caratterizza per un incremento del rapporto di compressione da 9,5:1 a 10,4:1. Ne beneficia la potenza, che sale a 370 CV a 7.700 giri minuto, mentre la coppia passa dai 37,6 Kgm a 5100 giri/min. ai 39,5 per 5.500 giri/min. L'impianto elettrico è ora supportato da un nuovo alternatore da 450 W. Evoluzioni di dettaglio anche nell'abitacolo e nella carrozzeria: un nuovo volante guida le emozioni degli utenti, mentre viene rinnovata la consolle del soffitto e la maniglia lato passeggero. L'estetica viene ritoccata con l'aggiunta di cornici cromate al parabrezza, ai finestrini laterali ed ai gruppi ottici anteriori.
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Al Salone di Ginevra del 1971 l'ultima evoluzione: la Miura SV (Sprint Veloce), che raccoglie le esperienze della Jota, di cui parleremo nel prossimo post. Il motore raggiunge i 385 cavalli di potenza a 7.850 giri/min., mentre la coppia sale a 40,7 Kgm a 5.750 giri/min., con un rapporto di compressione pari a 10,7:1. Viene separato il carter del motore da quello del cambio, migliorando la lubrificazione, mentre le sospensioni posteriori sono modificate con l'adozione di un quadrilatero inferiore. Le crescenti prestazioni impongono l'utilizzo di freni a disco autoventilati, già montati sugli ultimi esemplari di S. Esteticamente la vettura subisce pesanti modifiche: l'anteriore viene ridisegnato, inserendo nella presa d'aria inferiore nuovi fendinebbia e indicatori di posizione integrati. Spariscono, inoltre, le griglie dai gruppi ottici, che avevano caratterizzato i modelli precedenti. I parafanghi sono più larghi per accogliere i Pirelli FR205/70VR15, che migliorano le doti dinamiche della vettura. Il posteriore è caratterizzato da nuovi gruppi ottici con luci retromarcia integrate, mentre il fascione nero perde il motivo a nido d'ape e accoglie il portatarga.
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Come andava.
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Procedere cum grano salis: sembra questa la raccomandazione di "Auto Italiana" e "Quattroruote" nei loro rispettivi servizi sulla Lamborghini Miura. La prima prova la vettura nel novembre del 1968, facendo registrare una velocità di punta di 269 Km/h con il rapporto al ponte 11/47 (utilizzando 11/45 la casa dichiarava una velocità di 290 Km/h). Ciò che l'autorevole rivista mette in luce è il doppio carattere della vettura in funzione della velocità: ad un'andatura moderata la vettura offre ampi margini di sicurezza, garantendo un comportamento sostanzialmente neutro in curva ed una buona guidabilità. Portata in pista e messa alla frusta, la Miura rivela immediatamente la sua natura di auto da corsa, assimilabile ai prototipi da competizione che dominano le scene in quegli anni. Occorre quindi molta attenzione perché "se un appunto possiamo fare, è che la vettura non preavverte quando sfugge di mano." Si tessono grandi elogi allo sterzo, "moderatamente demoltiplicato, ma mai eccessivamente faticoso", mentre il motore "ha risposto subito regolarmente ed esso incomincia a girare vigorosamente intorno ai 3.000 giri".
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L'abitacolo viene giudicato confortevole in relazione all'impostazione ed alla classe della vettura, adatto a persone di media statura e soprattutto ben insonorizzato e termoisolato dal motore. Qualche critica viene mossa al cambio, "ben situato, impeccabilmente sincronizzato, ma ha il comando duro che richiede movimenti di grande ampiezza e non è possibile usarlo così rapidamente come si vorrebbe in una vettura di questa categoria". Nemmeno la frizione sembra brillare per funzionalità e si rileva che a caldo non stacca perfettamente.
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Del tutto simili le osservazioni di "Quattroruote", che prova la Miura nello stesso periodo di "Auto Italiana" e con il medesimo rapporto al ponte (11/47): la velocità registrata questa volta è di 276 Km/h, ma il dato che impressiona maggiormente gli autori della prova è l'accelerazione. Scrivono, infatti, che "il chilometro con partenza da fermo è stato percorso in 24,150 secondi: è questo il miglior tempo da noi registrato al volante di vetture di normale produzione. Si tratta veramente di un'accelerazione fulminante." Sorprendente il dato sui consumi: "Tenendo la media di 120-130 Km/h su percorso pianeggiante senza curve si possono fare 7-8 chilometri con un litro: quando invece si vogliono accentuare le doti di brillantezza della vettura, i consumi scendono a valori prossimi ai 3-4 Km/l." A titolo di paragone, in quel periodo gli americani associano un simile consumo ad una vettura come la "Chevy II", considerata di medio livello. Infine, riportiamo la significativa conclusione di "Quattroruote", secondo cui "a parte i miglioramenti che si possono ancora fare, la Miura è veramente un'automobile entusiasmante e tutta da guidare: riteniamo l'unica in grado di dare al suo fortunato possessore la gioia della guida pura."
  Epilogo.
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Il suo mito è alimentato dai nomi celebri dell'epoca che ne hanno voluta una: lo Scià di Persia, Ranieri di Monaco, Frank Sinatra, Dean Martin, Miles Davies, Little Tony e Aristotele Onassis. Dei meriti attribuiti alla Miura si è già diffusamente parlato, ma a questi ne va aggiunto uno che può essere definito indiretto: ha spinto la Ferrari a rinnovare lo stile ed i contenuti delle proprie Gran Turismo.
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Non a caso, la risposta di Maranello è stata la 365 GTB/4 Daytona, non meno affascinante ed innovativa, anche se ancora legata all'impostazione classica con motore anteriore e trazione posteriore, mentre la Miura ha ormai consacrato la posizione centrale del propulsore su vetture ad elevate prestazioni. All'uscita di produzione della Miura si accompagna il progressivo disinteresse di Ferruccio Lamborghini per il mondo dell'automobile, che culmina con la cessione in due successive tranche del pacchetto di controllo sull'azienda. Sono gli anni della crisi energetica ed il mercato non favorisce simili vetture, senza contare che il mondo dell'automobile sta intraprendendo una strada di continua sofisticazione, e ciò implica la disponibilità di elevate risorse per rimanere al passo con i migliori.
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La Ferrari dal 1969 ha alle spalle un grande gruppo industriale come la Fiat, mentre dietro la Lamborghini c'è soltanto un cocciuto imprenditore, capace di partire dal nulla e rendere noto in tutto il mondo il marchio del toro in campo blu. Non è cosa da poco, se si considera quanti altri hanno tentato questa strada impervia, prima e dopo di lui, uscendone con le ossa rotte.
  Citazioni.
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M.Davies:«A Ferrari if you want to be somebody, a Miura when you are somebody.»
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V.Balboni:«Agli inizi i tempi e modi per il ritiro delle auto erano originali. Il cliente a volte passava la serata nello stabilimento, intrattenuto da Ferruccio che dava il meglio di sè, mentre noi finivamo la macchina prima della consegna. Quando il cliente saliva sull’auto e usciva dal cancello, ci mettevamo sulla strada, il lunghissimo rettilineo davanti alla fabbrica, ad ascoltare il rumore del motore. Ferruccio contava le marce, fumando la sua onnipresente sigaretta. Quando sentiva la quinta si voltava con un gran sorriso:"Oi ragazzi, ha inserito la quinta marcia, non si rompe più. Possiamo andare a casa"»
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Bob Wallace:«Lamborghini era un’uomo molto coinvolto in tutte le sue cose, aveva un enorme interesse per tutto,Per lui le auto erano un business, voleva davvero farle per conto suo, per passione e anche per soddisfazione. Balle che lui voleva, diciamo, la sua rivalità verso Ferrari.Ho fatto i collaudi della prima 350, enormemente avanti rispetto a Ferrari, meno pesante più veloce, più silenziosa e più aerodinamica. Non dico quella della presentazione, quella non andava. Era senza motore e sotto il cofano, anche al salone di Torino, c’era una cassa di piastrelle di ceramica. Lamborghini alla presentazione fece la sceneggiata: bestemmiò come un turco contro un meccanico dicendo "Questo cretino qua ha perso le chiavi, mi dovete scusare ma non posso aprire il cofano!". E quel poveretto in tuta bianca stette tutto il giorno a beccarsi le sgridate di Lamborghini, che in quelle cose era davvero bravo. Come il casino che ha fatto quando abbiamo portato la prima Miura a Montecarlo. Era tutta regolata corsaiola, ogni 200 km ci fermavamo e cambiavo la frizione.»
«La portavate al principe Ranieri?»
«No, no, Lamborghini allungò al portiere dell’Hotel de Paris 500 franchi e l’abbiamo parcheggiata lì davanti. Pubblicità, amico, pubblicità. Quel colpo di genio valeva milioni. La gente passava, la vedeva e diceva “Bellissima”. Quell’auto lì ha catapultato il nome di Lamborghini in tutto il mondo.»
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F.Lamborghini:«La storia della Lamborghini è presto detta: gli altri erano inferiori»
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Se non volete perdervi nemmeno un dettaglio di questa favolosa auto, a questo link potete gustarvi una ricchissima galleria fotografica.
Il libro più completo su questo argomento è probabilmente "The Lamborghini Miura Bible" scritto da Joe Sackey in Inglese.
Oggi la fabbrica della Lamborghini è linda e splendente come una sala chirurgica, nella quale avanzatissimi robot assemblano le vetture, ma non sempre è stato così. Questo tour del 1968 girato con una Super 8 ci mostra come i sogni, tramite la passione, diventavano realtà.
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uominiemotori · 11 years
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Venti anni di Jaguar XJ220.
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Quest’anno, la Jaguar XJ220 compie ben 20 anni, le origini di questa iconica supercar si rifanno alle seconda metà degli anni 80, quando nel 1984, l’ingeniere del marchio inglese, Jim Randle, assieme a suo figlio incominciarono a lavorare a una Jaguar supersportiva spinta da un poderoso V12. Jaguar sosteneva che una supercar non avrebbe avuto spazio in un mercato già saturo da concorrenti come la Ferrari F40, Porsche 959, Lamborghini Diablo, Bugatti EB110 o le ancora più esotiche Cizeta e Vector. Così nonostante lo sviluppo di questa macchina non risultasse nei piani di produzione, Randle assieme ad altri 12 ingenieri formò un gruppetto conosciuto come “Il club del Sabato” che lavorava al progetto durante i ritagli di tempo e i weekend.
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Lo sviluppo del prototipo venne assegnato a Tom Walkinshow, il propulsore scelto come base di partenza fu il vigoroso V12 7.0 delle Jaguar XJR-12 campioni a Le Mans nel 1988, ma addomesticato riducendo la cilindrata a 6.2 litri e il numero di giri massimo garantendo così una discreta affidabilità anche nell’uso quotidiano. Ma non era finita, il prototipo della XJ vantava un sistema di trazione integrale permanente prodotto dalla FF Developments, delle sospensioni adattative, quattro ruote sterzanti e un evoluto estrattore che assieme alle portiere con apertura a forbice e a un altezza totale di 112 centimetri, la facevano sembrare appena uscita da un film di fantascienza, come se non bastasse era in grado di raggiungere 220mph, che danno il nome alla vettura.
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La linea curata da Keith Helfet, si rifaceva ai modelli del passato del glorioso marchio inglese, lo stile armonico dettato da linee pulite e armoniose andava in forte controtendenza rispetto le linee tese e squadrate di Ferrari e Lamborghini che dettavano lo stile del momento. Le citazioni ai modelli classici sono diverse, ispirandosi in parte al design della mitica E-Type o della XK120, anche se la somiglianza più evidente la si trova con la XJ13.
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L’auto era molto larga, il posteriore sovradimensionato era necessario per far in modo che il 12 cilindri e il sistema di trazione integrale trovassero spazio per la collocazione. Questa incredibile Jaguar era in grado di mescolare in un esplosivo cocktail, l’artiginalità e il classico lusso britannico, con le più avanzate tecnologie e le prestazioni di un auto da corsa.
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Molti al tempo pensarono che Jaguar puntasse troppo in alto e che non avrebbe dovuto addentrarsi nella già satura categoria supercar, ma a quanto pare, si sbagliavano. Dopo soli 60 minuti dalla sua presentazione al British Motor Show del 1988, le 220 unità inizialmente previste erano diventate 350, tutte sold out! Il prezzo di 290.000 sterline e la caparra di ben 50.000, non fermarono i compratori e speculatori. A fine giornata erano 1500 gli ordini, versando nelle casse della Jaguar £17m di caparra.
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 Fin da subito però lo sviluppo prese una brutta piega, Tom Walkinshow scartò l’utilizzo del V12 e del sistema integrale della trazione, spiegando come i minimi vantaggi apportati da queste soluzioni portassero invece alle stelle il costo e la complessità del progetto, inoltre far passare il test delle emissioni al motore da corsa della XJR-12 era praticamente impossibile, sir Walkinshow optò così per il 3.5 V6 derivato dalla MG Metro 6R4 di Gruppo B, che già equipaggiava le XJR-10 e 11, che una volta elaborato con l’aggiunta di due turbocompressori Garrett T3 sviluppava 542 cavalli e 645Nm di coppia.
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Il motore definitivo, più piccolo e leggero del V12 consentiva una considerevole riduzione delle masse aumentando di conseguenza prestazioni e piacere di guida. I cambiamenti rispetto al prototipo iniziale purtroppo non finirono qui: le portiere a forbice, le quattro ruote sterzanti e le sospensioni adattative furono anchesse scartate. Cosa rimaneva quindi dell’idea originale? Solamente il guscio esterno che per fortuna manteneva l’alettone mobile, il fondo carenato e l’estrattore in carbonio per incollare l’auto a terra alle alte velocità, si trattava della prima macchina di serie in grado di sfruttare i benefici dell’effetto suolo. L’auto risultava tuttavia molto impegnativa da guidare non avendo alcun aiuto elettronico, ben poche persone sarebbero state in grado di pilotarla.
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La produzione cominciò nel 1992 in una fabbrica costruita appositamente per questo modello, ma molti compratori che avevano inizialmente versato la caparra si sentirono presi in giro, la versione definitiva non rispecchiava il concept e inoltre il prezzo era aumentato di 100.000£ raggiungendo il mezzo milione di Sterline, annullando così l’ordine denunciando Jaguar per avere indietro i soldi della caparra versata. Come se non bastasse TWR si tirò da sola la zappa sui piedi creando nello stesso periodo la XJR-15, una supercar basata sulla XJR-9 da corsa, più esclusiva e con prestazioni migliori rispetto la XJ220.
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Dopo 281 esemplari stradali, nel 1997 cessò la produzione. Jaguar aveva provato in tutti i modi di abbassarne il prezzo arrivando a reciclare parti di altre auto, gli specchietti retrovisori ad esempio erano quelli della Citroen CX, mentre la fanaleria posteriore era quella della Rover 200. Fortuna la Xj200 non era composta solamente da pezzi reciclati, ma anzi vantava alcune peculiarità stilistiche come alcuni strumenti di misura incastonati nella portiera del guidatore a indicare il voltaggio della batteria, la pressione del turbo, la temperatura dell'olio e l'orario.
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Tra i primi clienti risultano Elton John ed il sultano del Brunei, che ne ordinò una per suo fratello Jeffri carrozzata da Pininfarina.
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La XJ220 rimane tuttora la più larga e la più veloce Jaguar stradale. Nel 1992, presso l’anello dell’alta velocità di Nardò, Martin Brundle guidò una XJ220 a 349,4 km/h battendo così il record di velocità che apparteneva alla F40, anche se il suo esemplare aveva un motore più potente di circa 60 CV rispetto a quello originale. Merito dell’assenza dei catalizzatori e del limitatore spostato dai 7.200 giri al minuto fino ai 7.900.
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Come quasi tutte le supercar dell’epoca, la XJ220 ebbe anche una breve carriera agonistica: corse nella categoria GT alla 24 Ore di Le Mans del 1993. Il suo equipaggio vantava piloti del calibro di David Coulthard, David Brabham e John Nielsen. Il trio riuscì a conquistare la vittoria di categoria, ma un mese dopo la vettura venne squalificata a causa di irregolarità riguardanti gli scarichi. In seguito la XJ220C venne affidata al Team Chamberlain che continuò a farla competere nella categoria GT.
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Contemporaneamente al debutto in pista, all’Autosport Show nel 1993 la TWR presentò una derivata stradale conosciuta come XJ220 S, realizzata in 9 esemplari con le componenti in carbonio delle vetture destinate a gareggiare a Le Mans, tra cui la porzione frontale e sezioni della coda in plastica. L’auto aveva inoltre molle ed ammortizzatori revisionati ed un propulsore elaborato in modo da rendere circa 700 cv di potenza massima. L’interno della lussuosa stradale venne abbandonato: al suo posto arrivarono sedili in kevlar e finiture in carbonio, per un peso complessivo di 1050 kg, che permettavano a questa incredibile auto prestazioni folli. 0-100 in 3,3 secondi per una velocità massima di 366 kmh.
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Bonus:
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Bonus2:
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No, non sto svarionando, questa Ford Transit che vedete sopra fu utilizzato dalla TWR per svolgere test sul motore della Jaguar XJ220. Raggiunge i 288 kmh e la cosa curiosa è che pesando meno di una XJ220, compie lo 0 a 100 in un tempo minore. Molti di voi l'avranno vista su TopGear guidata da Richard Hammond nella stagione 16, episodio 2.
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uominiemotori · 12 years
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Fattore WOW.
La cura maniacale al dettaglio e ai particolari che alcuni costruttori automobilistici hanno, sono certamente un valore aggiunto ad ogni modello, in questo post andremo alla ricerca delle soluzioni più belle, innovative e interessanti in grado di lasciare a bocca aperta ogni volta che vengono viste.
L'aereodinamica variabile della Pagani Huayra.
L'ultima creazione di Horacio è in grado di mutare attivamente il proprio angolo d’attacco variando l’altezza del frontale rispetto al suolo ed azionare in maniera indipendente i quattro flap disposti alle sue estremità. Il risultato è che la macchina grazie a una centralina modifica di continuo la propria sagoma, per garantire di volta in volta il minimo coefficiente d’attrito ed il massimo coefficiente di deportanza. Ad esempio in un curvone veloce a destra la Huayra, alzerà i flap a sinistra aumentando il carico aereodinamico e il grip dei pneumatici esterni potendo così percorrere la curva a una velocità superiore.
Koenigsegg Dihedral Synchro-Helix Doors.
Dietro questo complicatissimo nome, si cela un complicatissimo meccanismo per l'apertura delle portiere. Il sistema utilizzato solamente dalle Competion Coupè della svedese Koenigsegg fanno si, che prima fuoriescano poi si ruotino alzandosi verso il cielo garantendo così un ottima accessibilità in ogni circostanza, ma sopratutto le bocche aperte di chi chiunque vi vedrà scendere.
Le portiere a scomparsa della BMW Z1.
La Z1 è una delle poche automobili prodotte in serie nelle quali la carrozzeria non ha alcuno scopo nell'irrigidimento della struttura dell'auto, ci pensano infatti il telaio in acciaio zincato ed il pianale in materiale sintetico a garantire la necessaria rigidità, questo ha permesso ai tecnici BMW di sviluppare questo inedito sistema. Le portiere per aprirsi scorrono verso il basso nascondendosi nella carrozzeria, la macchina è omologata anche per circolare con le portiere abbassate.
I collettori di scarico della Ferrari 312.
Difficilmente i collettori di una macchina si possono definire belli o interessanti, ma davanti a quelli di questa macchina da Formula 1 è tutto un altro discorso, ci troviamo infatti difronte a un elegente intreccio di tubi bianchi ceramicati che hanno lo scopo di mantenere elevata la temperatura dei gas di scarico, così da permetterne una migliore fuoriuscita. A me ricordano il groviglio di serpenti sulla testa di Medusa, il mostro della mitologia greca.
Lo Spirit of Ecstasy retrattile delle Rolls Royce Phantom.
Si sa, gli stemmi presenti sul cofano delle vetture prestigiose sono da sempre ambiti e ricercati dai maranza di tutto il globo, per questo motivo lo Spirit of Ecstasy se forzato si nasconde automaticamente nel suo regale scompartimento lasciando i ladruncoli a mani vuote. Il meccanismo è in grado di azionarsi automaticamente anche nel caso di urto con un pedone.
Il telaio in carbonio della Carrera GT.
La Carrera GT è stata una delle prime auto ad avere il telaio realizzato completamente in carbonio, i vantaggi di questa soluzione rispetto l'acciaio o l'alluminio, sono una maggior rigidità torsionale e una notevole leggerezza. Aprendo il cofano motore o togliendo i pannelli della carrozzeria anchessi in CFRP, si puo apprezzare il lavoro dei tecnici che hanno reso armoniose persino le inusuali forme del telaio, il quale avvolge tutto il propulsore unendosi alle sospensioni push-road, questa Porsche è una delle poche auto che può vantare di essere bella anche da smontata.
Il tetto retrattile della Savage Rivale Roadyacht GTS
Se pensate che l'apertura del tettuccio di una F430 Spider sia spettacolare, è molto probabile che non abbiate mai visto l'originalissimo Retractable Telescopic Multi Panel che equipaggia la sportiva olandese. Il tettuccio si scompone in 4 parti che scorrendo su una ghiera centrale retrattile si vanno a nascondere nel vano motore.
I pedali della McLaren F1.
Personalizzati secondo le esigenze di ogni singolo cliente, non esistono due F1 con le pedaliere esattamente uguali. Alcuni sono molto vicini tra loro, altri hanno un bordino per non far scivolare la scarpa, altri ancora sono incernierati in alto piuttosto che in fondo come quelli in foto. I pedali assieme al vano motore rivestito in oro, la configurazione 1+2 dei sedili, le portiere con apertura a farfalla e la velocità massima superiore a 390km/h la rendono un auto straordinaria ancora oggi a quasi 20 anni dalla sua presentazione.
Il cambio con griglia ad H
Il suono tipico di un bel cambio manuale è qualcosa di impareggiabile, così come il tatto e il feeling che è in grado di dare. Sempre più spesso purtroppo il cambio manuale è relegato in un piano marginale, le moderne sportive pur essendo sempre più veloci e piene zeppe di tecnlogia, stanno perdendo di vista la vera essenza della guida e del divertimento.
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uominiemotori · 13 years
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L'Americano.
Nato nel gennaio del 1939, Tom Meade, un americano trapiantato in Italia, ha trascorso la sua gioventù in Australia e alle Hawaii; inizialmente è stato per 4 anni in Marina come ingegnere elettronico ma in lui era sempre crescente la passione per le macchine esotiche, rafforzata dopo aver visto una Ferrari Testa Rossa in Costa Mesa, una piccola città nel sud della California. Meade ricorda, "Andavo a vederla per ore. Ho pensato che fosse la cosa più bella che avessi mai visto. Era un 500TRC. Il proprietario mi disse che l’aveva comprata in un vecchio magazzino di Roma pieno di queste cose di cui non sapevano cosa fare".
A 21 anni, Meade raccolse i suoi risparmi ed il suo coraggio e intraprese il viaggio da Los Angeles a Maranello. Viaggiò su una nave da carico da New Orleans fino in Norvegia, poi un po’ di autostop, acquistò una moto usata in Inghilterra con cui raggiunse la Spagna e poi in barca a vela sino a Genova. Ben presto il giovane Americano si trovò a Roma, mentre ricercava il famoso magazzino, giunse alle sue orecchie che sul set di un film di Dino Laurentis vi era una Ferrari, ma quandò arrivò non c'era più. Tuttavia, gli venne offerta la parte di un ufficiale dell'esercito inglese nel film, recitando al fianco di David Niven. Accumulò un po' di soldi ed ebbe il tempo di rendersi conto, con disappunto, che la disponibilità di auto esotiche a basso prezzo era una favola, così saltò sulla sua moto e viaggiò verso il centro dell'universo automobilistico, Modena. Era l'autunno del 1960. "Quello che volevo era una macchina da corsa, non avevo molto interesse per vetture stradali. A quei tempi le auto da corsa dedicate alle gare di durata venivano rottamate, nessuno aveva il minimo interesse perché non erano più competitive. Tutti pensavano che io fossi completamente pazzo perché ne volevo una". Appena Meade arrivò a Modena un passante a cui aveva chiesto indicazioni gli spiegò che era troppo tardi per visitare la Ferrari, situata a 15 chilometri di distanza. Tuttavia, l'uomo gli suggerì una visita alla vicina Maserati.
Il custode della Maserati, inizialmente rimase perplesso alla vista di quel motociclista selvaggio ma appena sentita la parola magica “Americano”, nonostante fossero passati 15 anni dalla fine delle ostilità, lo collegò all’idea del milionario venuto dalla terra di Hollywood. Accolto quindi come un VIP, Meade fu accompagnato in giro per la fabbrica da Aurelio Bertocchi (futuro presidente e figlio del capo collaudatore Maserati, Guerrino), che prontamente esaltò le virtù della nuova 3500GT, ma Tom si dichiarò interessato alle vetture da corsa, perciò fu accompagnato al reparto corse, che si trova in un edificio separato. "Mentre stavamo camminando, notai la forma di un auto sotto un telone grande. Così ho chiesto cosa fosse. Bertocchi disse: "Oh no, è solo una vecchia macchina da corsa e non è in vendita. Sollevai il telone e mi si rivelò quello che era essenzialmente una scatola vuota, ma mi innamorai delle sue forme".
Era una 350S, numero di serie 3503, proprio quella che aveva temporaneamente ospitato un V12 per la Mille Miglia del '57. Poi, con Jean Behra alla guida, a Monza aveva dovuto abbandonare per la rottura di un pistone. Queste auto da corsa avevano poco valore in quegli anni, per cui Meade dopo qualche trattativa riuscì ad acquistarla per 420 dollari. Rimasto con pochi spiccioli in tasca, Tom conobbe un amichevole contadino che gentilmente gli offrì il suo fienile come riparo per la notte, quella sera dormì sul pavimento accanto alla sua Maserati. Meade aveva finalmente trovato la sua macchina da sogno. La mattina seguente, si trovò di fronte a un'altra missione: l'arduo compito di completare il suo guscio Maserati e portarlo alla vita. Le sue finanze di certo non gli avrebbe permesso di acquistare un motore da competizione o anche un motore 3500GT. Per sua fortuna si trovava nella città del talento e dell'artigianato automobilistico, fu quindi indirizzato alla Carrozzeria Fantuzzi, dove venne aiutato a organizzare e sviluppare il suo progetto. Inoltre, dato che Modena era anche una città ospitale e questo giovane entusiasta straniero attirava simpatia, Medardo Fantuzzi gli offrì un posto per dormire in officina. Rimase così in Italia e si formò alla scuola di Fantuzzi e dei numerosi artigiani locali; nel frattempo si trasferì in un fienile. Alla Maserati, Bertocchi gli fece mettere a disposizione tutto il materiale da corsa non utilizzato, conobbe Lloyd "Lucky" Casner, con il quale in seguito sviluppò una forte amicizia, da lui comprò la maggior parte dei suoi impianti per altri 400 dollari (il prezzo della scocca Maserati), comprese le parti, gli strumenti e rimorchi. Casner gli cedette la baracca, ma soprattutto, un motore. Così con un piccolo aiuto dai suoi amici, la macchina fu quasi ultimata. Passò poi alla trasformazione dell’auto per la circolazione su strada, presso la Fantuzzi fu costruito un tetto rigido asportabile abbinato a un parabrezza più alto di quello originale. Furono montati silenziatori, un tachimetro e la tappezzeria nell’abitacolo. Dopo aver speso tutto quello che aveva per il progetto, non c'era altro per lui da fare se non tornare negli Stati Uniti dove vendette la Maserati a 2700$.
Dopo quasi un anno a San Francisco, Meade decise di tornare a Modena. Affittò un appartamento sopra la pista dell'Autodromo a 8$ al mese, sotto di esso trovavano posto quattro garage che pian piano incominciarono a riempirsi di auto da corsa vecchie e componentistica varia.
Cominciò a fare da intermediario per chiunque nel nuovo mondo volesse una Ferrari, Maserati, Lamborghini o Bizzarrini. Era l'unico broker americano in Italia al tempo, e diventò subito la persona da contattare per gli stranieri in cerca di sportive italiane.
Dopo aver convertito in stradali un paio di Maserati (una 200S e 350S), Tom si traferì in un capannone più grande dove poter iniziare a realizzare il suo sogno di diventare un carrozziere. Anche se le finanze erano ancora limitate, con l'aiuto un amico dipendente alla Fantuzzi e mettendo in pratica quello che aveva imparato durante la ricostruzione della sua Maserati, riuscì nell'impresa.
La prima carrozzeria di Meade era basata su una Ferrari 250GT, alle forme già molto aggressive realizzate da Pininfarina, Meade applicò le proprie idee: le bocchette conformate come branchie e il parabrezza molto inclinato all’indietro, rendevano il frontale molto prominente, mentre aveva un ridotto sbalzo sul retro. Aveva speso tutto in questa impresa ma ebbe la fortuna di vendere una Maserati Birdcage a motore posteriore a Leon Barbier, del Garage Francorchamps a Bruxelles, l'importatore Ferrari di proprietà di Jacques Swaters. Tom era particolarmente ispirato dagli stilemi degli anni '50 e '60 che si rifacevano alle linee curve e rifiutava perciò la scuola stilistica nascente che imponeva linee squadrate. Sulla base di queste convinzioni iniziò a pensare alla sua prossima creazione che chiamerà Thomassima. Thomassima significa semplicemente "La massima di Tom", quindi l'espressione assoluta di quello che una vettura dovrebbe essere per lui.
La Thomassima I fu molto emozionante per i tempi, era una vettura stradale con motore V8 Chevrolet, porte ad ali di gabbiano collegate ad un tetto asportabile; smontando il tetto si asportavano anche le portiere ed il tutto poteva essere riposto nel bagagliaio, l'auto (della quale non sono riusciuto a trovare foto) finì perduta nell'alluvione di Firenze del '66.
Arrivò poi la serie delle Nembo Spyder, basate sempre sul telaio Ferrari 250 GT, son da molti considerate le carrozzerie speciali Ferrari più belle mai realizzate. Nel 1967 fu il turno della Thomassima II basata su un telaio monoposto Cooper, quindi a motore centrale e con linea ispirata alla Ferrari P4, due anni più tardi costruì l’ultima Nembo Spyder che fu venduta in Libano tramite la concessionaria Ferrari di Parigi, che esportò l’auto a Beirut, dove sparì durante la guerra civile.
Tutta questa creatività non passò inosservata e Tom ricevette molte commesse di lavoro. Anche Carroll Shelby gli chiese di costruire la nuova Cobra nel '68, ma poco dopo, gli spedì un telegramma dicendo: "Tom: Mi dispiace che non possiamo andare avanti con il progetto perché ho appena venduto a Ford il mio nome e l’intero progetto Cobra." Poi arrivò la Thomassima III, la creazione più famosa di Meade che raccolse l'attenzione dei media, compresa la copertina del numero di dicembre del 1970 Road & Track, il talk show di Walter Cronkite, "60 Minutes" e diverse apparizioni sulla RAI, divenne persino un modellino della Hot Wheels.
Era probabilmente meglio di ogni Ferrari che fosse mai stata realizzata a quei tempi; era il frutto della combinazione di un telaio 250GT accorciato, un cambio a cinque marce e freni speciali con dischi ventilati. L'auto fu esposta al salone dell'auto di Modena e al salone dell'auto di Torino, il successo fu strabiliante.
Sarebbe stata l'ultima delle sue creazioni. "Avevo cominciato a fare il modello convertibile ma a metà degli anni '70 tutto si è bloccato e ho dovuto smettere di fare tutte queste cose."
Per cause varie la fine degli anni '70 e gli anni '80 furono molto difficili. Tom si trasferì da Modena a Milano; fece molti lavori con la televisione italiana come attore e grazie a questi contatti le sue auto apparsero nelle scene di diversi film, fornendogli un reddito supplementare.
Da questo momento in poi le informazioni su di lui sul web sono contraddittorie, alcune parlano di un suo negozio a Milano di restauro auto, altre di un suo trasferimento in California dove attualmente vive.
L'epoca che Meade visse da protagonista, fu fantastica, personalmente la ritengo più bella per quanto riguarda l'automobilismo, in quel periodo si viveva l'essenza pura dell'automobilismo. Un vantaggio di quel periodo era il prezzo basso delle auto da competizione obsolete, Meade infatti ebbe una GTO del '64, una 330P1 e una 275 LM come auto personale che usava per le strade di Modena.
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uominiemotori · 13 years
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La storia di un sogno.
“Tutto cominciò con un sogno. Un sogno di potere e velocità. Di rapidità ed eleganza. Di creare qualcosa che il mondo non avesse ancora mai visto. I nostri ingegneri e disegnatori hanno dovuto cercare la risposta a una vecchia domanda: come si può far andare un veicolo ad altissima velocità mantenendo la comodità e la sicurezza del guidatore? Partirono da un foglio in bianco. Finirono con qualcosa di rivoluzionario. Un motore V6 DOHC da 3000cc che sviluppa 274 cavalli, grazie all’esclusivo sistema VTEC di distribuzione variabile, un sistema elettronico del controllo di trazione che limita lo slittamento; un affascinante carrozzeria, unica al mondo costruita integralmente in alluminio. L’NSX è un sogno fatto realtà.”
Con queste parole Honda, l’allora campione del mondo in carica di Formula 1, presentò in Europa, proprio l’anno della morte del suo fondatore, Sochiro Honda, la NSX. Dopo aver vinto i campionati del 1986, 1987, 1989, 1990 e 1991 di F1, Honda si addentrava in un segmento da lei poco esplorato. Nel 1984 partendo da un foglio in bianco ma con alle spalle l’esperienza maturata in 26 anni nella categoria massima, il progetto si dimostrò da subito molto ambizioso e venne portato avanti sfruttando le più sofisticate tecnologie dell’epoca, per creare una supercar in grado di tenere testa alle blasonate sportive europee.
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Per la prima volta in un auto di produzione, le bielle del motore erano completamente in titanio, per consentire un funzionamento ottimale anche ad 8000 giri, un sistema di servosterzo elettrico, un ABS a quattro canali indipendenti, e nel 1995, il primo controllo elettronico della valvola a farfalla. Telaio, sospensioni e corpo vettura vennero interamente ricavati dall'alluminio con altre leghe esotiche, questa scelta permise di risparmiare più di 220 kg di peso rispetto al suo equivalente in acciaio. Il compito del collaudo venne affidato a Nakajima sulla pista di Suzuka, per i test di lunga durata sui componenti meccanici e la messa a punto del telaio. Ma la principale risorsa della Honda fu Ayrton Senna che convinse la Honda ad apportare diverse modifiche strutturali al telaio a sviluppo ultimato.
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La Honda NSX fu presentata come prototipo il 9 Febbraio del 1989 al Chicago Auto Show dalla Acura, il premium brand americano di Honda, riproponendola con il marchio giapponese al salone di Ginevra dello stesso anno, dove fu presentata dai piloti titolari del team McLaren Honda, Alain Prost e Ayrton Senna.
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La sua produzione non cominciò fino Giugno del 1990, in Giappone al Takanezawa R&D Plant situata a Tochigi, in questa nuova fabbrica creata appositamente per la sua costruzione, vi lavoravano 200 persone, tutte con più di 10 anni di esperienza, costruivano al massimo 25 NSX al giorno con minuziosa cura per il dettaglio, a partire dal suo processo di verniciatura unico in 23 fasi, fra cui un rivestimento cromato per proteggere chimicamente la carrozzeria in alluminio e uno stato di vernice ad acqua per ottenere un colore più vivo e una migliore finitura superficiale; in Europa non arrivarono sino il 4 Maggio del 91, un anno dopo essere stata lanciata negli USA e in Giappone. La prima serie della NSX era in grado di accelerare da 0-100 in 5s e di arrivare a quasi 280km/h, dichiarava “ufficialmente” 280cv, dico ufficialmente perchè in Giappone esisteva allora una normativa secondo la quale nessun auto fabbricata in quel paese poteva superare i 280cv. Nonostante tutto, conoscendo Honda per le potenze specifiche dei suoi motori è facilmente immaginabile che il motore sviluppasse intorno ai 320cv.
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Nel Novembre del 1992 venne presentata la NSX-R, una versione limitata a 300 esemplari venduti solamente in Giappone chiaramente RHD; questa evoluzione era più leggera di ben 140kg, abbassando la lancetta della bilancia da 1370 chili a 1230.
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Questo straordinario risultato si otteneva, tra le altre cose, rimuovendo i 18,9 kg dell’aria condizionata, gli 8,8 dell’impianto stereo, i 6,7 degli airbag e i 3,3 del controllo di trazione, così come i 17,7kg in meno ottenuti togliendo il materiale fonoisolante e i tappetini, sostituendo i sedili elettrici in pelle con altri da corsa realizzati in fibra di carbonio appositamente da Recaro, i cerchi in lega di serie furono sostituite con ruote in alluminio forgiato prodotte dalla Enkei. La relazione peso-potenza passò da 4,39 cv/kg a 4,82 cv/kg, ottenendo un tangibile aumento delle prestazioni, furono necessarie nuove molle, sospensioni più rigide e barre antirollio più spesse. Con tutte queste modifiche la NSX-R venne messa in vendita a un prezzo superiore del 18%.
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  Presentata al Salone di Detroit nel 1995, la NSX-T, versione targa della coupé, montava come opzione un cambio Tiptronic che sostituiva l’automatico 4 marce che veniva venduto prevalentemente negli USA. Il tettuccio, facilmente asportabile, si collocava sopra il motore dove si incastrava alla perfezione, degno di nota il fatto che la NSX-T da aperta poteva viaggiare a 140km/h senza alcuna turbolenza. In Nord America la NSX-T sostituì completamente la coupé standard, in quanto unica versione disponibile, a eccezione della NSX Zanardi Edition nel 1999. Il tetto rimovibile però ridusse la rigidità del telaio e aggiunse 45 kg di rinforzo strutturale. In aggiunta a questo importante cambiamento, le sospensioni vennero ammorbidite per migliorare il comfort di guida e ridurre l'usura degli pneumatici a spese del comportamento finale. Con questa versione si rese disponibile il servosterzo elettrico anche sulle NSX con trasmissione manuale, fino ad allora presente solamente nelle versioni con cambio automatico.
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Nel 97, sempre a Detroit si introdusse la Type-S, un nuovo motore incrementava la cilindrata a 3,2 litri, rendendo 280cv a 7800rpm. A ciò si aggiungeva un nuovo cambio a 6 rapporti, così come freni più potenti, una nuova centralina per governare l’acceleratore elettronico, l’antislittamento e un nuovo differenziale autobloccante.
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Nel 2001 il restyling cambio il suo aspetto, all’anteriore i caratteristici fanali a scomparsa vennero sostituiti con dei più tradizionali proiettori fissi mentre il posteriore guadagnava un nuovo spoiler. Grazie a una nuova lega di alluminio utilizzata per la carrozzeria il peso si riduceva del 4%.
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La NSX-R, fu di nuovo disponibile nel 2002, sempre esclusiva del mercato giapponese, un arma da pista in grado al Nurburgring di fermare il cronometro in un impressionante 7:56.733, tempo molto simile a quello registrato da 360 Challenge Stradale e Corvette Z06, auto con 100cv in più e 10 anni in meno. La produzione terminò nel 2005 con 19005 unità prodotte, nel nostro paese si rivelò un mezzo flop commerciale, Honda Italia ne distribuì solo 169, terminando l’importazione ufficiale già nell’ottobre 98, avendone consegnate solamente 11 negli ultimi 3 anni a listino.
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Per l'uso nel Super GT, la NSX venne sviluppata, oltre che dalla Honda, da altri due importanti aziende nipponiche del settore, Dome per il telaio e Mugen per il motore. La carrozzeria venne più volte modificata nel corso del tempo, per motivazioni legate alla deportanza aerodinamica. La modifica più evidente vide il posizionamento del motore V6 montato longitudinalmente anziché trasversalmente come sull'auto di serie. Il cambio si trovava ora nel tunnel centrale sotto la cabina di guida collegato al differenziale posteriore da un giunto cardanico, con una configurazione simile a quella utilizzata nelle moderne Lamborghini. I motori potevano essere sovralimentati o ad aspirazione naturale, a seconda della classe e delle regole da rispettare.
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L'unico libro che conosco riguardante la NSX è “Acura NSX: Honda's Supercar”, mentre degno di menzione è il video al seguito.
La scatola del cambio della NSX-R fu per diversi anni, fino che non venne presentata la Carrera GT, il punto di riferimento tra i cambi manuali: corsa cortissima, perfetta al tatto, sincronizzatori in titanio così come il pomello… semplicemente irripetibile.
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uominiemotori · 13 years
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Un monarca tra le dune.
La celebre Parigi-Dakar, creata da Thierry Sabine nel 1979, è stato probabilmente il safari rally piu celebre al mondo sopratutto per le difficoltà che dovevano affrontare veicoli ed equipaggi. L'edizione 1981, prevedeva un viaggio di circa 6.293km da percorrere in 20 giorni dalla capitale francese sino a quella senegalese, disputando 12 tappe.
Thierry de Montcorgé, pilota di spicco del tempo nei raid africani, come nel Bandama o nel Nice-Abidjan, una sera a cena con degli amici per scommessa affermò di essere in grado di partecipare quello stesso anno alla Paris-Dakar a bordo di una Rolls-Royce Corniche senza sfigurare. Nata un po' per scherzo e un po' per gioco ormai la scommessa era stata lanciata.
In pochi mesi, con l'aiuto da Michel Mokrycki, la macchina fu pronta. Si dice furono necessarie circa 2000 ore di lavoro per raggiungere questo intrigante risultato. La pesante carrozzeria in metallo venne sostituita completamente da pannelli in poliestere e materiali compositi, eccetto cofano e portiere che rimasero in alluminio, per un peso totale di soli 80kg. Per il telaio Thierry e Michel partirono da zero creando una struttura tubulare in acciaio, il cambio 4 rapporti con ridotte, l'albero di trasmissione e il sistema 4WD vennero prelevati dalla già collaudatissima Toyota Land Cruiser.
Chiaramente il pacato dodici cilindri inglese non era ideale per lo scopo, per questo motivo venne sostituito con un grezzo quanto affidabile 5.7 V8 "Small Block" di origine Chevrolet in grado di sviluppare 350cv. Al posto delle comode poltrone posteriori, trovò loco un enorme serbatoio da 330 litri, necessario per coprire le grandi distanze che separavano le tappe.
Una volta terminata la Rolls pesava solamente 1400kg e venne battezzata "Jules", il nome di un profumo di Christian Dior che aveva finanziato l'impresa come sponsor principale.
La Rolls-Royce Corniche Jules, prese il via solamente all'edizione del 1981 dimostrandosi parecchio competiva. A poche tappe dalle fine un uscita di strada, causò la rottuta del piantone dello sterzo che ne compromise le sorti quando era in una meritoria tredicesima posizione. L'auto venne riparata con un intervento straordinario non ammesso che determinò la squalifica immediata, nonostante ciò l'equipaggio riprese il viaggio e giunse a Dakar, dove arrivarono solamente 52 delle 170 automobili che avevano preso il via da Parigi.
Questa speciale Rolls-Royce non prese più il via a nessun evento e recentemente è stata messa in vendita a 200.000€ dallo stesso Montcorgé.
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uominiemotori · 13 years
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La leggenda di Nakai.
Disperso nella campagna giapponese, nella città di Kashiwa si trova il tempio del Maestro Nakai-san. La sua storia si inizia ai tempi d'oro delle corse illegali in Giappone, quando un gruppo di piloti conosciuti in tutta la regione per le capacità di guida e lo stile delle proprie vetture (principalmente Corolla AE86) dettavano tendenza. Erano conosciuti come Rough World (Mondo Grezzo).
L'agguerrito leader di questo gruppo di drifter era Akira Nakai che sfruttava la sua incredibile immaginazione e creatività per apportare modifiche alla sua macchina. Si dice sia stato il primo ad abbassare le sospensioni al limite della praticabilità, ad utilizzare distanziali e cerchi a canale maggiorato e a calzare gomme sovradimensionate con una spiccata campanatura negativa all'anteriore, queste modifiche si affermarono e si diffusero col nome di Rough Style.
Alcuni anni più tardi Nakai-san ebbe l'opportunità di lavorare su una Porsche, il colpo di fulmine fu immediato. L'estetica della Cavallina di Stoccarda, nonostante la sobrietà, sposava perfettamente le idee radicali e fuori dagli schemi del Maestro giapponese. Il numero di modifiche attuabili praticamente infinito e la grande affidabilità mostrata dal flat six, resero la 911 una base di partenza perfetta.
Appena le finanze glielo permisero, Nakai non ebbe dubbi nell'acquistare la sua prima Carrera, una 930 che trasformò nella sua musa e nel mezzo dove poter plasmare qualsiasi idea che gli balenasse per la mente. Così come i grandi artisti, decise di battezzare ogni sua opera con un nome, la 930 quindi, venne chiamata "Stella Artois".
Durante il suo percorso di trasformazione, questa 911 ha perso gran parte della sua docilità trasformandosi in una bestia da pista, pur rimanendo road legal. Alla carrozzeria, vistosamente allargata per alloggiare i cerchi SSR Professor SP1, vengono aggiunti numerosi spoiler e splitter, nonchè un enorme alettone posteriore.
Una volta dimostrato fin dove si poteva arrivare, il passo seguente fu aprire la sua officina personale, la RAUH-Welt Begriff, dove finalmente poter dare sfogo a tutta la propria creatività. Ma da grande genio eccentrico, è Nakai-san a sceglie i suoi clienti, non il contrario! Uno non può recarsi a Kashiwa e portarsi a casa una RWB, prima deve passare un accurato processo di selezione nel quale si studia la richiesta e si sviluppa il concetto da portare avanti.
Il cliente viene intervistato per conoscere i suoi interessi, in modo da adattar la macchina al carattere del fortunato proprietario. Scordati di poter scegliere il colore, questo viene scelto da Nakai stesso e và accettato senza repliche, daltronde a lavoro svolto nessuno è mai stato insoddisfatto.
Una volta stabilito il cammino da intraprendere, Nakai-san ti chiederà di abbandonare il negozio in modo da poter lavorare tranquillamente al "suo" progetto. Passerà ore chiuso in officina, lavorando a qualsiasi ora del giorno o della notte, dormendo affianco alla sua creatura, perchè si sà, l'ispirazione arriva quando meno la si aspetta. Un metodo di lavoro poco ortodosso e lontano dagli schemi ma che sicuramente porta a risultati spettacolari!
Entrando nell'officina di Nakai-san, ci si trova in mezzo a cerchioni, stencil, barattoli di vernice, birre e memorabilia proveniente da tutto il mondo. In questo tempio è dove avviene la trasformazione.
Si parte preferibilemente da una 911 aircooled, una 930 o 964, anche se qualche 993 e 996 son rinate in questo tempio, con lo scopo di ottenere un estetica simile alle Porsche da endurance degli anni '70, un epoca di grandissimo successo per Porsche che ai tempi dominava le piste con la 934. Il risultato finale è decisamente artigianale, che non và letto come una critica ma come un pregio, le piccole imperfezioni di ogni vettura infatti aggiungono carattere, esclusività e personalità.
Bourdeaux, Natty Dread, Penthouse, Royal Montegobay, Master Piece… son solo alcuni dei nomi con cui son state battezzate le creazioni del Maestro, ogni 911 con una personalità unica e una classe inconfondibile.
I tachimetri ruotati richiamano subito il passato da drifter di Akira Nakai, infatti avendo la zona rossa a ore 3, si ha una visuale ottimale durante la guida al limite.
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uominiemotori · 13 years
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Il disastro di Le Mans '55.
Vissuto oggi, il dramma di Le Mans 1955, quando ottantuno spettatori ed un pilota persero la vita nel modo più orrendo, sarebbe raccontato e amplificato con un’intensità ben maggiore. Allora vi furono titoli sui giornali, le liste delle vittime e dei dispersi con scritto soltanto “tipo inglese”, “tipo tedesco”, per l’impossibilità di procedere al riconoscimento, un senso generale di disgusto per come il vincitore, Mike Hawthorn, pesantemente implicato nell’incidente, avesse comunque avuto la faccia di brindare all’arrivo. Ma nulla più: e di questo incidente, oggi, si è quasi persa anche la memoria. Perché anche allora, come sicuramente accadrebbe oggi, l’importante era continuare lo spettacolo. Anche allora si disse di doverlo fare per limitare il panico. E la corsa maledetta continuò, per le restanti ventuno ore e mezza.
Per vari decenni la Ventiquattrore di Le Mans fu uno degli avvenimenti sportivi più esaltanti. Nacque nel 1923 per iniziativa di Charles Faroux, figura di grande importanza nell'automobilismo francese e mondiale. La sua idea era di organizzare un banco di prova per testare l'affidabilità e la qualità delle macchine regolarmente prodotte: macchine sportive, ma anche automobili di tutti i giorni. Non passò molto tempo e la gara si trasformò in una ribalta per macchine speciali: vetture da Grand Prix su cui era adattata una carrozzeria sport. Erano permessi prototipi, purché il costruttore si dichiarasse disposto a costruirne un dato numero. Ecco perché alla stessa gara partecipavano Mercedes, Ferrari e Jaguar, accanto a Panhard con motori da 745 cc. Se questo era motivo di grande rischio per i piloti, costituiva però anche forte attrattiva sul pubblico. Gli spettatori arrivavano con ogni mezzo, da tutto il mondo, e si sistemavano alla bell'e meglio per la notte, trasformando la cittadina in una rutilante Las Vegas, piena di luci, colori, suoni, chioschi, tende, ristoranti improvvisati. Una vera e propria città in miniatura ("Le Village") sorgeva al centro del circuito. Lì si poteva fare di tutto: trovare un birra, comprare un'automobile, farsi una doccia, mangiare. La stragrande maggioranza dei trecentomila convenuti per l'edizione del 1955 confluì nel Village. E alcuni di loro se ne andarono la domenica pomeriggio senza aver visto nulla della gara.
La corsa era iniziata regolarmente alle 16 di sabato 11 giugno, in piena estate francese. Le Ferrari, le Jaguar, le Mercedes si erano date battaglia fin dal primo minuto. Sia Hawthorn (Jaguar) sia Fangio (Mercedes) compivano il giro completo del circuito in poco più di quattro minuti, seguiti da Castellotti, Maglioli, Kling, Levegh, Walters, Rolt, Beauman e Musso. Sembrava più un Grand Prix che una corsa di durata. La stessa irruenza, la stessa battaglia forsennata per il comando fin dai primi istanti, la stessa adrenalina. Mercedes contro Jaguar: la gara era tutta lì: gli altri, le Austin Healey, le Nardi, le Frazer Nash, le Cunningham, le Cooper, le Osca, le Lotus, non contavano niente. Stonava, nel gruppo, una Mercedes, dello stesso modello delle altre, che già stava per essere doppiata. Era quella guidata da Pierre Levegh.
Pierre Levegh, pilota volenteroso ma mediocre, era balzato alle luci della ribalta, una sola volta nella vita, nell’edizione di Le Mans del 1952. Nipote del pioniere francese Veghle, ne aveva assunto il nome anagrammandolo. Determinante per la sua vita fu l'assistere, insieme ad altre centinaia di migliaia di persone, alla prima Le Mans, quella del 1923, vinta dai due francesi André Lagache e René Leonard. Per tutti fu una giornata esaltante, indimenticabile. Ma per il giovanissimo Pierre fu di più. Fu l'inizio della sua ossessione. Da quel momento vincere a Le Mans diventò l'unico scopo della sua esistenza, la meta, il fine ultimo di tutti i suoi pensieri e delle sue azioni. A Le Mans non smise mai di andare, come spettatore: e la frequentò talmente da conoscerne il circuito quasi più intimamente di chi ci correva per davvero. Dovette però aspettare il 1938 per avere una possibilità. Quell'anno Antoine Lago, il progettista della Talbot, cercava qualcuno da affiancare a Jean Trevoux. Si precipitò Levegh, ma l'illusione durò poco: la macchina dovette ritirarsi per guai meccanici, ancora prima che egli potesse assumerne la guida. Per dieci anni la guerra paralizzò Le Mans: la prima edizione successiva a quella del 1938 si corse nel 1949. Ma nessuno offrì una guida a Levegh, né quell'anno, né in quello successivo. Nel 1951 però la Talbot gli offrì nuovamente una possibilità. Eccola, l'occasione della sua vita.
A quarantasei anni, dopo ventotto d'attesa, finalmente arrivava. Con René Marchand, ottenne un soddisfacente quarto posto. Soddisfacente? Forse per altri, non per lui. Lui, Pierre Levegh, poteva fare molto di più. Ma ci voleva la macchina giusta, magari preparata dalle sue stesse mani. Sapeva cosa occorreva per affrontare Le Mans. Denaro, innanzi tutto: quello occorrente per comprarsi una macchina, e prepararla. Acquistò una Talbot, finendo per spendere (di denaro suo) più di quanto avrebbe guadagnato anche avesse vinto la corsa. E finalmente arrivò l'edizione del 1952.Il copione era perfetto: giornata soleggiata, cinquantasette vetture alla partenza, tra cui la Lago Talbot di Levegh, Charles Faroux che abbassa la bandiera del via. Vi erano Ferrari, Mercedes, Cunningham, Gordini, Jaguar. Dopo appena cinque ore di corsa, alle nove di sera, già diciassette vetture si erano ritirate. Primo, il francese Robert Manzon, su una Gordini. Secondo, sorprendentemente, Pierre Levegh. Due francesi alla guida: la folla era in estasi. Al momento del cambio con René Marchand, Levegh allontanò il compagno di squadra con un gesto. Non ancora. E' la mia gara. E' la mia macchina. Non ancora.
Alle quattro meno un quarto di notte, la Gordini ebbe un improvviso problema ai freni e dovette ritirarsi. Levegh prese il comando. Guidava ormai da dodici ore consecutive. Al box, la moglie di Levegh, i meccanici, Marchand, continuavano a vedersi passare davanti, sfrecciando, la Talbot. Tutti lo pensavano, qualcuno cominciò a dirlo: l'ostinazione assoluta di Levegh era stupida. Stava rischiando la vittoria. Doveva fermarsi, almeno per un'ora o due. Ma Levegh era irremovibile. Non ancora, non ancora. Allora la moglie pensò ad un trucco. La prossima fermata ai box gli avrebbe proposto di scendere un momento soltanto per prendersi una spremuta d'arancia. Marchand sarebbe stato pronto, lì dietro, già vestito; avrebbe approfittato dell'istante e sarebbe ripartito al suo posto. Levegh arrivò per il rifornimento di benzina. La moglie si avvicinò, premurosa, implorante, disperata. Ma Levegh disse quello che tutti avevano paura che dicesse: "Non scenderò. Non smetterò. Voglio guidare io, soltanto io. E' la mia corsa. E' la mia macchina". E ripartì.
Nonostante l'immane stanchezza che non poteva non provare, guidava come non aveva mai guidato. Se nessuno conosceva il suo nome alla partenza, ora era un unico scandire "Levegh...Levegh". Era diventato in poche ore un eroe nazionale, tale da impensierire lo squadrone Mercedes, costretto ad inseguirlo. A metà mattina tornò al box per il rifornimento, ridotto ad un robot. Prese un sorso d'acqua minerale, ma lo sputò per timore che fosse avvelenato. Marchand tentò di salire sulla vettura con la forza. E Levegh, attingendo energia Dio solo sa da dove, riuscì a respingerlo rabbiosamente, a ripartire, a mantenere il vantaggio sulle Mercedes.
A mezzogiorno, quattro ore soltanto alla fine della gara, solo diciannove vetture erano rimaste a lottare. Quando Levegh arrivò ai box per il consueto rifornimento, la moglie scoppiò in pianto. Non riusciva più a parlare, né a riconoscere alcuno. Solo una cosa gli era chiara: avrebbe continuato. E riprese la corsa. Ad una velocità, tra l'altro, persino superiore al necessario. Poteva prendersi il lusso di rallentare mantenendo il vantaggio. Glielo segnalarono dallo stand, ma inutilmente. Non lesse, forse non poté leggere. Ormai le sue azioni erano un seguito di riflessi automatici.
Negli ultimi soprassalti di coscienza, cambiò marcia dalla quarta alla terza, ma sbagliò, infilò la seconda...e ruppe il motore. Mancava un'ora e mezza alla fine della gara.
La Mercedes di Lang vinse la Ventiquattrore. Una vettura ufficiale raccolse Levegh, più morto che vivo, ai bordi della strada tra Arnage e la Maison Blanche. Fu condotto al suo box in un silenzio ostile: la folla, che fino ad un momento prima lo osannava proprio per la sua impresa senza speranza, ora lo disprezzava per aver buttato al vento una vittoria francese già in tasca, per pura ostinazione. L'unico a rimanere impressionato fu Alfred Neubauer. Si affacciò al box Talbot e gli disse: "La prossima volta che la Mercedes parteciperà a Le Mans, tu guiderai una delle nostre macchine".
La Mercedes si astenne da Le Mans sia nel 1953 sia nel 1954. Ma nel 1955 arrivarono le magnifiche 300SLR. La squadra piloti era altrettanto formidabile: Fangio e Moss come prime guide, André Simon, John Fitch, Karl Kling, ossia un argentino, un britannico, un francese, un americano, un tedesco. Ma Neubauer non era uomo da dimenticarsi una promessa, e così si decise di contattare anche Pierre Levegh, facendolo diventare il simbolo di un'operazione di pubbliche relazioni davvero ben studiata: al francese che aveva quasi vinto Le Mans era offerta una macchina proprio dalla marca che si era avvantaggiata del suo ritiro per vincere. Per Levegh, un'altra possibilità, e di quel tipo, a cinquant'anni, sulla macchina più competitiva del mondo...Ma proprio qui stava il punto: la macchina. Fin dalle prime prove, fu chiaro che Levegh ne era intimorito: era il più lento di tutta la squadra. E la situazione non migliorava con il passare dei giorni. Levegh era terrorizzato, e l'intero staff Mercedes ne era consapevole. Ma nessuno voleva rimangiarsi una promessa, e si contava sulla spontanea decisione del francese di lasciar perdere. La macchina era troppo al di sopra delle sue possibilità. Non si era tenuto però conto della sua immensa ostinazione, del suo orgoglio smisurato, o meglio, della sua ossessione...
E si arrivò al giorno della gara, senza da parte di Levegh il minimo segnale di volersi ritirare. Quando Levegh si rese conto che il suo compagno di squadra Fangio stava già per doppiarlo, gli fece un segno dalla macchina con la mano, che voleva dire: "Non qui, non davanti agli stand, dove mi vede il pubblico. Dammi requie, passami un po' più in là". E Fangio capì. La successione dei piloti vedeva Hawthorn al comando, ormai prossimo a doppiare Macklin su Austin Healey. Dietro l'inglese, Levegh, seguito da Fangio. A Hawthorn già da due giri avevano sbandierato il segnale del rifornimento; secondo le istruzioni dello stand, al terzo giro avrebbe dovuto fermarsi. Macklin accostò sulla destra, per lasciar spazio a Hawthorn. Ormai i piloti si trovavano nello stretto rettilineo davanti ai box, di fronte alle tribune. Hawthorn superò Macklin ma con grande sorpresa di quest’ultimo, strinse immediatamente sulla destra. Macklin ebbe la sensazione angosciante che Hawthorn non stesse calcolando esattamente la velocità della sua Austin. O forse voleva farsi da parte per lasciar passare Fangio, con cui si era alternato fino a quel momento al comando. Certo non voleva fermarsi al proprio box: perché superarlo, allora, a così breve distanza? Ma nello stesso istante Macklin vide accendersi le luci degli stop: stava frenando, a pochi metri davanti a lui! Non c'era alternativa: doveva aggrapparsi anch’egli ai suoi freni, per evitare di centrarlo in pieno. Ma il potere frenante della Jaguar era infinitamente più potente della Austin, e Macklin, sempre in quel brevissimo spazio di secondi, si rese conto che frenare non bastava: gli sarebbe arrivato dentro comunque. Sperò che Hawthorn si rendesse conto di come lo avesse stretto e rilasciasse i freni, ma la distanza tra la sua macchina e quella davanti stava diminuendo vertiginosamente. In un tentativo disperato, spostò la macchina sulla sinistra. Toccare il volante a quella velocità e in frenata causò uno slittamento che lo portò a perdere completamente il controllo. Si trovava davanti alle tribune in mezzo al circuito, con una vettura impazzita, con ancora abbastanza spazio sulla sinistra per essere superato. Ma nello stesso istante sentì un colpo indescrivibile da dietro, la sua macchina compì un folle testa-coda per poi sbattere contro gli stand, falciando un giornalista e un gendarme, ed essere rilanciata con violenza dall'altra parte, a fracassarsi definitivamente contro il muro delle tribune. Nel momento dell'urto, aveva ancora avuto la possibilità di vedere con la coda dell'occhio un'ombra argentea passargli sopra la testa, e un'altra ombra argentea che gli filava accanto, sulla destra.
Quando scese, scioccato, dalla sua vettura distrutta, non sapeva chiaro cosa fosse successo. Non aveva capito che Levegh, al volante di quella tremenda, per lui, 300 SLR, trovandosi di fronte la sua macchina l'aveva colpita in pieno, ad una tale velocità da decollare, superarla per aria, schiantarsi sul pilone del tunnel pedonale a lato delle tribune, e disintegrarsi con due esplosioni al di sopra di una folla di centinaia di persone. E questo mentre Fangio, con millimetrica precisione, riusciva a trovare un varco tra la macchina di Hawthorn, ferma al box della Cunningham (tre box più in la' del proprio), e quella di Macklin. Dove prima c'era un folla di persone in piedi, ora si vedevano soltanto persone abbattute a terra, o inginocchiate vicino a porgere un primo disperato soccorso. Parecchi testimoni furono concordi nel descrivere la scena come se fosse scoppiata una bomba. Decine e decine di corpi falciati, nello spazio di un attimo, fatti letteralmente a pezzi. Il prato aveva cambiato colore, ed era disseminato d'ogni sorta d'orrori. Quello che era stato un urlo unisono, si spense in un silenzio profondissimo che durò qualche secondo. Quindi iniziò la solita frenetica confusione di tutte le catastrofi: parenti e amici che premevano per arrivare alla zona, nella speranza folle di scorgere i propri cari sopravvissuti; ambulanze, dottori improvvisati, forze di polizia, giornalisti, infermieri, uomini dell'organizzazione. E in mezzo al disumano dolore, alcuni meccanici della Mercedes che, con assoluta rapidità, nel giro di dieci minuti dall'incidente avevano raccolto e portato via tutti i pezzi della macchina di Levegh.
Solo con una certa lentezza si acquisì la consapevolezza del disastro. Di sicuro la ebbero prima nel resto del mondo che negli altri punti del circuito. E intanto le autorità affrontavano il solito, terribile dilemma. Sospendere la corsa o continuarla? Ammettere l’enormità della tragedia o far finta di niente, nel timore che la gente, presa dal panico, si accalcasse alle uscite, ostacolasse ancora di più di quanto già non fosse l’azione dei soccorritori? Prevalse il solito, desolante “The show must go on”. Nel box della Mercedes la concitazione era al massimo. Da Stoccarda arrivarono telefonate molto chiare: ritirarsi! Neubauer e Uhlenhaut avevano delle riserve: Faroux li implorava di continuare, ed essi stessi esitavano a sprecare una vittoria certa. Le telefonate, tra l’altro difficilissime, visto che da tutte le parti della Francia si tentava di comunicare con Le Mans e viceversa, si fecero convulse. A sette ore dall’incidente si arrivò ad una decisione unanime: la macchina causa di morte per ottantuno persone era una Mercedes, non si poteva continuare a correre. Quando la Mercedes avvertì lo stand Jaguar della propria decisione, fu subito chiaro che non sarebbe stata seguita su questa strada. L’unica che importasse alla Jaguar era quella della vittoria. La percorse fino in fondo, tanto da finire addirittura con Hawthorn trionfante all’arrivo.
Di chi la colpa della strage? Di Levegh che, troppo vecchio, non abbastanza bravo, non avrebbe mai dovuto gareggiare con quella macchina, in quel gruppo di piloti?
Oppure di Macklin che, distratto dall’aver guardato nello specchio retrovisore, non si era accorto in tempo della frenata di Hawthorn? O di Hawthorn, che calcolò male la distanza che lo separava dal proprio stand, tanto da trovarsi a frenare troppo bruscamente subito dopo il superamento di Macklin, finire lungo, tre box più avanti, e farsi prendere da una crisi di isteria quando gli fu chiaro cosa era successo (salvo superarla subito e riprendere a guidare)? O della Mercedes, che aveva inserito nei telai due piccoli serbatoi di additivi illeciti, da cui il pilota attingeva nei momenti in cui aveva bisogno di maggiore potenza tramite un comando del cruscotto, e che furono la causa della doppia esplosione della vettura di Levegh? Partì un’inchiesta, per fare la massima chiarezza, nel più breve tempo possibile. Invece, siamo ancora qui a farci le stesse domande di quarantacinque anni fa.
La maggior parte delle informazioni contenute in questo articolo sono tratte dal libro di Mark Kahn “Death Race. Le Mans 1955”, Barrie & Jenkins, 1976, London.
Uno sguardo ai Box.
Mercedes schierava tre formidabili 300 SLR color argento, prime macchine a correre a Le Mans con iniezione di benzina. Avevano un punto debole: disponevano ancora di freni a tamburo anziché a disco. Per ovviare all’ handicap, si era studiato un freno aerodinamico, azionabile dal pilota tramite un flap di metallo da manovrare tramite una leva. Poiché durante le prove alcuni piloti avevano protestato di averne la visione ostruita durante le curve, la Mercedes inserì in questi "alettoni" dei tratti in plastica trasparente. I piloti erano quanto di meglio il mondo automobilistico poteva offrire: l'argentino Juan Manuel Fangio e il britannico Stirling Moss. Del terzo si sapeva solo il nome: Pierre Levegh. Nello stand, a dirigere la squadra, il monumentale Alfred Neubauer, poi Rudolf Uhlenhaut, pilota di prim'ordine e responsabile dello sviluppo e progettazione delle vetture, e Arthur Keser, a capo delle Pubbliche Relazioni.
Jaguar schierava tre D-Type. La guida n. 1 era Mike Hawthorn, alto, biondo, chiamato "The Butterfly" per l'elegante e sfiziosa abitudine di portare il cravattino anche sotto la tuta. A condividere la vettura era Ivor Bueb. La seconda coppia era costituita dai vincitori dell'anno precedente, Rolt e Hamilton; la terza da Don Beauman e Norman Dewis. A dirigere la squadra Frank Raymond Wilton England, carattere formidabile, che a quarantaquattro anni poteva dirsi uno dei direttori sportivi più preparati e determinati, con un unico obiettivo in mente: vincere Le Mans.
Austin Healey portava una 100 S, di serie. La Scuderia Ferrari, si presentava con la 121LM da 4500 cc guidata da Castellotti e Aston Martin la splendida DB3S da 3000 cc, guidata da Peter Collins e Paul Frère, e via via le altre vetture, in tutto sessanta, per arrivare alla più piccola e bizzarra, la Nardi da 735 cc, costituita da due siluri appaiati: in uno sedeva il pilota, nell'altro era sistemato il motore.
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uominiemotori · 13 years
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Gulf Colours of Passion.
Dalle origini ad oggi. Fondata nel 1901 al momento della scoperta del petrolio a Spindletop (Texas), Gulf si contraddistinse fin da subito applicando il suo disco arancione sui propri prodotti e le proprie pompe di benzina, diventando ben presto un icona del settore in grado di godere di forte riconoscimento in tutto il mondo.
Negli anni tra le due guerre l'azienda godette di una forte espansione, diventando in poco tempo una compagnia petrolifera leader, completa in tutte le operazioni: dall'esplorazione, alla produzione, passando per trasporto, raffinazione e commercializzazione. Tuttavia Gulf era presente in altri settori, tra cui derivati petrolchimici e produzione di componenti automobilistici. Gulf, entrando a far parte del “Consorzio per l’Iran” e quindi una delle Sette Sorelle, godette nel corso degli anni di una forte crescita, diventando nel 1979 la 9 società più grandi negli USA, sino quando nel 1984 fu acquistata dalla Chevron, che rilevò tutte le attività Gulf Oil negli Stati Uniti. Nel resto del mondo, Gulf fa parte del gruppo d'affari Hinduja, una famiglia indiana che ha acquisito i diritti del marchio della Chevron. Al giorno d’oggi Gulf è difficilmente paragonabile a quella del passato sia per importanza sia per dimensioni, oggi infatti si limita alla produzione di lubrificanti per motori.
  Il colore. I colori furono scelti dal vice presidente esecutivo Gulf di quei tempi, Grady Davis, quando divennero sponsor del team John Wyer Automotive, l’azzurro e l’arancione erano i colori della compagnia petrolifera Californiana, Wilshire Oil Company acquistata nel 1960. Si dice che Davis volesse utilizzare i colori societari della Gulf, ma trovasse l’azzurro molto più emozionante. Non aveva torto, infatti c’è una spiegazione scientifica del perchè, l’arancione e il blu sono complementari sulla ruota dei colori, mentre l’azzurro è piu chiaro rispetto l’arancione.
Che Gulf volesse o no, ottenne dei colori vibranti in grado di trasmettere velocità, questo fenomeno è conosciuto come “Equiluminant Colors”, i nostri occhi fanno fatica a ad assegnare le posizioni dei 2 colori, questo effetto ottico ci fa vedere i colori vibrare e galleggiare, per questo motivo è difficile distinguere i bordi dove i colori si incontrano.
Successivamente Gulf modifico la livrea aggiungendo un contorno blu alla parte arancione, questo portò a una lieve diminuzione dell’effetto prima descritto, dando però un maggior contrasto tra colori lasciando comunque dei colori pop-style. I colori del Gulf Racing Team sono conosciuti come: 3707 Zenith Blue e 3957 Tangerine, entrambi creati da Llewellyn Rylands come pigmenti per verniciare le carrozzerie in fibra di vetro delle auto.
Perchè questo enorme successo? A mio modo di vedere ci sono diversi fattori che hanno consacrato la livrea Gulf nel motorsport, prima di tutto la combinazione dei colori, qualcosa di mai visto sino allora, la forma sinuosa della livrea riesce a dare un senso di velocità anche già a macchina ferma, inoltre è rimasta fedele in tutte le vetture dagli anni 60 sino ad oggi, infatti lo schema cromatico non è mai cambiato. Non importa su che auto vedi questa livrea, può essere una barchetta da LMP1, una Gallardo o una 500, te semplicemente lo vedi e pensi “Gulf”. L’ultimo motivo? Bhe le imprese riuscite dai mezzi del Team Gulf... Il Mito. Nel marzo del 1963 l’americana Ford Motor Company decide, a scopo pubblicitario e commerciale, di intraprendere la strada delle corse con l’ambizioso obiettivo di correre e vincere la mitica 24 Ore di Le Mans. Lo sforzo economico necessario a costruire da zero una vettura competitiva in una gara così combattuta era notevole anche per un colosso come la Ford, viene quindi sondata la possibilità di acquisire la Ferrari, che in quel periodo regnava indiscussa a Le Mans avendo costruito una striscia di vittorie consecutive dal 1960. Voci insistenti vogliono inoltre vedevano un Enzo Ferrari deciso a vendere la casa automobilistica da lui fondata, l’epilogo pare scontato e dell’affare se ne occupa anche Lee Iacocca al tempo vice presidente della Ford Motor Company; i negoziati però si interrompono bruscamente per decisione di Ferrari, probabilmente infastidito dalle inevitabili lungaggini proprie di un colosso come Ford. A Iacocca e alla Ford non restò altro da fare che costruire da zero un team e una vettura capaci di vincere a Le Mans.
Per questo scopo viene creata una piccola sussidiaria in Gran Bretagna, la Ford Advanced Vehicles, con sede a Slough. Si comincia a trattare con la Cooper, la Lola e la Lotus per il progetto della nuova macchina, venne scelto come partner la Lola che aveva corso già nel 63 facendo bella figura con la sua Mk6 motorizzata Ford, Eric Broadley, proprietario nonché progettista della Lola, viene quindi assunto per il team di sviluppo della GT40, affiancato anche da John Wyer. Il primo aprile 1964 viene presentato alla stampa il primo prototipo della Ford GT40 dove GT stà per Gran Turismo e 40 la distanza in pollici dal suolo al parabrezza (poco più di un metro), i primi shakedown in pista e le prime gare che si ritrova ad affrontare si rivelano essere un bagno di sangue, le vetture peccano di carico aerodinamico e risultano inguidabili alle alte velocità finiendo contro le barriere. Nonostrante i pessimi test, Ford porta alla Le Mans del 1964 tre vetture: nessuna di esse riesce ad arrivare al traguardo, conquistano però il giro veloce in gara con Phil Hill dimostrado elevatissime doti velocistiche, la Ferrari, pur ottenendo le prime tre posizioni non può che guardare con preoccupazione alla GT40.
Nel febbraio 1965 iniziano ad essere premiati gli sforzi di progettisti e tecnici: la GT40, rivista in molti particolari dopo Le Mans, si aggiudica la 2000km di Daytona con i piloti Ken Miles e Lloyd Ruby. La cilindrata del motore è intanto cresciuta a 4736cc ed è ora capace di erogare 380CV, il cambio Colotti è stato sostituito con uno ZF a cinque rapporti, il peso finale però supera i 900kg. L’anno successivo alla 24 Ore di Le Mans, la Ford convinta del suo potenziale schiera ben 6 vetture, ma la vittoria anche questa volta va alla Ferrari che si aggiudica la corsa con una 250LM. Il 1966 è l’anno della definitiva consacrazione della GT40 nell’olimpo delle macchine da corsa; il motore 4,7 litri V8 viene sostituito con un 7litri V8 di derivazione NASCAR capace di ben 500CV a 6400giri/min, il modello Mark II è pronto! La stagione inizia con una tripletta alla prima gara, la 24 Ore di Daytona. Le aspettative per la 24 Ore di Le Mans sono quindi alle stelle e non vengono disattese: tripletta Ford e arrivo in parata di tre GT40, la vittoria va all’equipaggio neozelandese formato da Bruce McLaren e Chris Amon.
La soddisfazione per i risultati ottenuti e il cambio dei regolamenti delle classi Sport e Prototipi, le cui cilindrate massime sono fissate rispettivamente in 5 e 3 litri, inducono la Ford a ritirarsi dalla competizione. L’anno successivo però il Team Gulf di John Wyer schiera a Le Mans un’evoluzione della GT40 MK I, l’intera struttura è alleggerita e il motore è un 4,9 litri capace di 418CV di potenza a 6500rpm, Bianchi e Rodriguez si aggiudicano la competizione incontrando solo la debole resistenza delle Porsche 908 in chiaro debito di potenza rispetto alla Ford.
La 24 Ore di Le Mans del 1969 vede ancora le Ford GT40 del Team Gulf alla griglia di partenza, la Porsche affianca alle sue 908, le velocissime 917 di nuova concezione, il progetto ormai datato della GT40 sembra destinato a farsi da parte; fin dalle prime tornate infatti le Porsche impongono un ritmo forsennato alla gara, infliggendo distacchi importanti a tutte le altre concorrenti, Ford comprese.
Dopo quasi 22 ore però entrambe le Porsche che guidano la gara (una 917 e una 908) si ritirano dalla competizione nell’arco di pochi giri per la rottura del cambio, balza quindi inaspettatamente al comandola GT40 dell’equipaggio Ickx-Oliver, tallonata a breve distanza dalla 908 dell’equipaggio Hermann-Larousse, la gara si trasforma quindi in un’epica battaglia tra queste due vetture fatta di sorpassi e controsorpassi: l’arrivo della 24 Ore di Le Mans del 1969 è qualcosa di storico, dopo quasi 5000km di gara e ad una media di 208 kmh, la Ford GT40 riesce a precedere di soli 70 metri la Porsche 908, ottenendo la quarta vittoria consecutiva a Le Mans ed eguagliando quindi il record dell’Alfa 8C 2300, vincitrice dal 1931 al 1934. Alla fine della stagione agonistica del 69, la Ford centrato il suo obiettivo si ritira dalle corse di durata nel vecchio continente, il progetto la GT40 concepito sette anni prima ha ormai fatto il suo tempo e non è più competitivo.
Nel 1970 il Team Gulf diventa il team ‘‘Ufficiale” Porsche, i tedeschi non forniranno pieno supporto solamente a Wyer, ma anche al team “Porsche-Salzburg” e a quello “Martini”. Si creano così dei forti contrasti interni, tuttavia la strategia Porsche ripaga, le sue 917 vincono sia nel 70 che l’anno successivo. Il Team Gulf già conosciuto per le sue vittorie, diviene noto anche fuori dal motorsport grazie al divo Hollywoodiano, Steve McQueen. Nel ‘71 recita nel film Le 24 Ore di Le Mans, dove l'attore americano (pilota di una 917K) nonostante un terribile incidente che distrugge la sua vettura, riesce a portare alla vittoria il suo compagno di squadra alla guida di una vettura gemella. Antagonista principale della Porsche era la temibile Ferrari 512 S costruita dalla scuderia di Maranello per competere con la casa tedesca.
John Wyer aveva progettato il suo ritiro dalle competizioni alla fine del 1974, ma non poté resistere all'opportunità di vincere nuovamente a Le Mans, poiché per rispettare le nuove limitazioni sul consumo di carburante imposte dall'ACO (20 giri tra un rifornimento e l'altro), il motore Cosworth DFV di derivazione Formula 1 che utilizzava la Gulf GR8, poteva essere affidabile per tutta la gara, dovendo funzionare ad un regime più basso per conformarvisi. Decise così di non ritirarsi quell'anno e di concentrare tutti gli sforzi della scuderia Gulf nella stagione 1975 composta dalla sola sfida francese. Due nuove Gulf GR8 vennero progettate e costruite specificamente per la maratona. Derek Bell e Jacky Ickx vinsero a mani basse, l’altra GR8 salì sul gradino più basso del podio, a fine garà si venne a sapere che le 2 auto avevano avuto dei grossi problemi durante gran parte della maratona ma grazie alla bravura di Ickx e Wyer, appena vennero notati dagli avversari che incalzavano.
Negli anni ‘90 Gulf torna alla ribalta sponsorizzando un altra leggenda delle piste, la McLaren F1 motorizzata BMW Motorsport. Le F1 GTR e le successive F1 GTR Long Tail, ottengono ottimi piazzamenti nelle gare del BPR e del FIA GT, sfiorando persino la vittoria a Le Mans nel 1997. L’ultima F1 prodotta, la #28R del Team Gulf Davidoff è in vendita a 3.000.000€.
Nel 2008 Gulf ritorna nell’olimpo delle corse sponsorizando l’Aston Martin Racing a 40 anni dalla sua prima vittoria alla maratona francese. Le DBR1-2 si dimostrano delle ottime vetture, ma purtroppo a causa dei regolamenti attuali che favoriscono i motori diesel, sono state fortemente penalizzate, riuscendo ad ottenere solamente successi di minor rilievo.
Libri Correlati. Personalmente ritengo i libri il modo migliore per imparare, internet è piu veloce ed immediato, ma i libri sono i libri, i contenuti che leggi non si trovano da nessun altra parte, per questo motivo alla fine degli articoli vi segnalerò dei libri degni di nota che possano farvi approfondire l’argomento trattato. Riguardo l’argomento scienza dei colori, contrasti cromatici, luce, etc, vi consiglio il libro “Vision and Art: The Biology of Seeing”. Un altra publicazione molto interessante che possiedo è “Go Faster Graphic Design of Racing Cars”, analizza l’evoluzione e i colori delle livree da corsa nel corso degli anni, molto meglio di quanto possa fare io nelle poche righe a disposizione. Per finire se il post vi è piaciuto e voreste saperne di più, il completissimo libro “Blue & Orange - The History of Gulf in Motorsport”, pieno di foto storiche molto belle, pur avendo un costo abbastanza elevanto, può far a caso vostro.
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