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Calling him the „pope“ of rationalization in architecture is no exaggeration: with his „Bauentwurfslehre/Architects’ Data“, commonly referred to as „The Neufert“, Ernst Neufert (1900-86) wrote the omnipresent reference book for the spatial requirements in building design and site planning. First published in 1936 it has up to now seen 42(!) editions and has been translated into 18 languages. But despite the manual’s global success its author has remained somewhat opaque, just like the context in which it first appeared: published during the Third Reich Neufert, formerly banned by the Nazis, with the unexpectedly bestselling book gained the attention of Albert Speer who consecutively commissioned Neufert to design standardized and rationalized dwellings. A critical evaluation and discussion of his career and architecture had been a long time in the coming after Werner Durth in the mid-1980s uncovered Neufert’s entanglement in the higher echelons of the Nazi regime, a major gap in large parts closed by the present anthology: „Ernst Neufert - Normierte Baukultur im 20. Jahrhundert“, edited by Walter Prigge and published in 1999 by Campus Verlag, that offers profound and multifocal perspectives on the architect’s built work, his biography and his theoretical considerations. It draws a line from his Bauhaus years and his employment in Walter Gropius’ office to the Third Reich and postwar Germany, a particularly successful part of his career during which he realized a number of large-scale industrial projects. In the latter projects Neufert was able to run through standardization and rationalization from A to Z. But for good reasons the contributing authors also don’t omit the valid criticism of Neufert laying the ground for monotonous prefab architecture that specifically characterized the housing construction in the former GDR and numerous low-cost housing projects in Germany.
The present volume is a rich source for different takes and contemplations on the undoubtedly influential Work of Ernst Neufert that beyond theoretical and historical analyses also addresses the numerous buildings he designed during his long career, from his own houses to industrial facilities.
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Storicizzare lo Sprawl?
di Agostino Petrillo
“Le idee inadeguate e confuse si concatenano con la medesima necessità delle idee adeguate”…
Spinoza, Ethica, proposizione XXXVI
Introduzione
L’idea che anima questa sezione del convegno, quella di provare ad addentrarsi nel complesso dibattito su suburbanizzazione e città compatta è da salutarsi con estremo interesse, vista l’evoluzione delle dinamiche spaziali negli ultimi decenni. Non si tratta solo di valutare quanto progredisca o meno il processo di dispersione insediativa, e di determinare quali ne siano eventualmente le cause, quanto piuttosto di cercare di comprendere una dialettica, che appare oggi estremamente articolata, tra spazi urbani di tipo più tradizionale e realtà del “diffuso”. Tanto più ci sembra importante una riflessione di questo genere in un contesto come quello europeo in cui il fenomeno della suburbanizzazione è relativamente nuovo e, pur destando qualche preoccupazione, sembra assumere caratteristiche differenti da quelle eclatanti che da tempo sono tipiche degli Stati Uniti (Agenzia Europea dell’Ambiente 2006). L’ambito di discussione è ovviamente gigantesco, a tratti confuso e generatore di confusione, tanti sono gli aspetti che coinvolge, ed è ulteriormente complessificato dal fatto di assumere tratti distinti nei differenti contesti storici e spaziali locali. Il contributo che qui si propone è un tentativo di fornire una panoramica sintetica, e forzatamente parziale, della letteratura più recente, in cui si cerca di orientarsi con l’obiettivo di evidenziare alcuni nodi problematici essenziali.
Ripensare lo sprawl
Che cosa è veramente lo sprawl? E’ un fenomeno peculiarmente americano, o si tratta di un modello insediativo generalizzabile, legato strettamente agli aspetti assunti dall’economia, dalle tecnologie e dal lavoro, e destinato a caratterizzare buona parte dei paesi che hanno raggiunto un livello avanzato di sviluppo e si sono orientati verso forme di produzione post-industriale? Sono queste solo alcune delle domande che gli studiosi da anni si vanno ponendo alla luce della peculiare evoluzione dell’urbanesimo statunitense. In un suo recente volume Robert Beauregard ha sottolineato la necessità di contestualizzare riflessioni che altrimenti tendono inevitabilmente a trasformarsi in un dibattito sui massimi sistemi (risolvibile spesso nell’antitesi aprioristica città-si/ città-no). In maniera estremamente persuasiva egli sostiene che sia possibile (e ormai necessario) pensare lo sprawl in una prospettiva storica, al di là delle polemiche tra studiosi filo- urbani e anti-urbani per partito preso (Beauregard 2006). Per comprendere lo sprawl bisogna quindi mettere da parte antiche querelles che hanno a lungo dominato la scena, e qui inevitabilmente il riferimento è a due posizioni antitetiche come quella di Jean Gottmann, che è rimasto fedele ad una prospettiva di acceso filourbanesimo (Gottmann 1983), e quella di Lewis Mumford, orientata invece ad un superamento della forma-città (Mumford 1977, pp. 694 ss.). Questo perché solo analizzando determinate caratteristiche storico- culturali, riflettendo sulle trasformazioni geopolitiche, tecnologiche e del lavoro, che è possibile cominciare a
tentare di comprendere il fenomeno della diffusione urbana1. Tanto più che il fenomeno è stato a lungo visto
con perplessità, e che ha a più riprese suscitato inquietudine, non solo tra gli studiosi e i tecnici del territorio,
1 Prima di Beauregard su questa via si era già mossa la ricerca più impegnata (Ashton, 1984), in lavori cui viene in buona parte anticipata la periodizzazione da lui utilizzata; ma esistono anche interpretazioni alternative meno schematiche, ancora interessanti,
pur essendo impregnate dello struttural-marxismo d’epoca (Walker, 1981).
ma anche tra gli amministratori pubblici e gli uomini di governo: vale forse la pena di ricordare che fino dagli albori della sua storia al termine sprawl è stata attribuita una connotazione marcatamente negativa2.
Per questo forse torna in molti interpreti una valutazione fortemente critica: vedremo poi in dettaglio come lo stesso Beauregard ne parli addirittura in termini di “urbanesimo parassita”. Ma, al di là dell’importante contributo di Beauregard, è vivo negli studi degli ultimi due decenni il bisogno di ripercorrere la storia culturale, le grandi ideologie che hanno attraversato la vicenda della formazione degli Stati Uniti, ed emerge sempre più fortemente anche la necessità di ricostruire quelle che sono state le scelte politiche ed economiche, le modalità con cui sono state pensate e realizzate le infrastrutture, la viabilità, insomma tutto il complesso delle “politiche” che hanno condotto alla situazione attuale (Gutfreund 2004). Naturalmente l’affermarsi di un simile orientamento è legato anche al ripensamento di alcuni paradigmi: gli ultimi anni hanno portato ad una revisione di alcuni facili entusiasmi sul potenziale innovatore della “città diffusa” e al ridimensionamento dell’ideologia postmodernista sul fondersi “atopico” di centri e periferie in un continuum urbano pressoché equivalente. Non si tratta solo di una riflessione critica tesa a mettere in luce (a volte in maniera un po’ generica) i pericoli connessi all’espandersi della “periferia dappertutto”, come sintetizzava sul finire degli anni Novanta Walter Prigge (Prigge 1998, pp.6-12). Da più parti emergono segni di un ritorno alla centralità, soprattutto in Europa, ma anche a livello sovranazionale (basti pensare al consolidarsi del discorso teorico sulle “città globali”), il che spinge in direzione di una ulteriore riconsiderazione della peculiare “american way to the city”. Nel quadro di quella che Dieter Laepple ha chiamato la “rinascita della fenice dalle sue ceneri” (Laepple 2005, pp. 397-413), i centri urbani, di cui alcuni interpreti avevano già da tempo decretato l’obsolescenza se non addirittura la possibile scomparsa sono tornati a giocare un ruolo rilevante sotto il profilo della economia e della cultura. Anzi con la consueta ironia Peter Hall ha sottolineato che il necrologio della città è stato pronunciato prima che ne avvenisse il decesso…(Hall 2003, pp.141-152).
Alla luce di queste forme di riscoperta della centralità urbana, che ha assunto aspetti rilevanti anche sotto il profilo demografico-quantitativo, e di cui si è parlato come di una svolta importante, di un vero e proprio urban turnaround (Katz e Lang 2003), allora forse non vi è alcuna “destinalità” nella vicenda della suburbanizzazione nordamericana, e la diffusione del modello dell’urbanesimo diffuso al di fuori degli Usa potrebbe dipendere da altri fattori, forse passeggeri.
Naturalmente il “ritorno della densità”, che da più parti si segnala, il nuovo appeal di cui sembra godere il modello di città compatta, non è detto sia forzatamente la modalità di insediamento urbano che potrebbe prevalere in futuro, e la questione rimane nel complesso aperta, anche se, per dirla con i teorici tedeschi della frammentazione (Scholz 2004; Bronger 2004), e con le interessanti analisi di Jenö Bango sulla nuova organizzazione dei territori che si comincia a profilare “dopo la globalizzazione”, il destino del pianeta si giocherà sulla maggiore o minore validità di una serie di modelli territoriali e sociali in accesa competizione tra loro (Bango 1998; 2003).
Cenni storico-interpretativi
Quando è veramente cominciato lo sprawl? E’ realmente possibile sostenere che sia vecchio quanto l’America, come continua ad affermare tutta un tradizione interpretativa in chiave culturalista (Stilgoe 1988; Fishman 1987), che insiste in un processo di analisi retrospettiva? Letture affascinanti e documentate, come quella proposta da Dolores Hayden, guardano molto indietro, ricostruendo ab origine l’evoluzione di differenti patterns storici del suburban dream, e insistono sulla storica diffidenza della cultura americana nei confronti della grande città, finendo in sostanza per dirci che in fondo lo sprawl, inteso come avversione per la densità urbana, per le grandi concentrazioni di umanità, è profondamente radicato nella mentalità statunitense, ed è forse nato con l’America stessa, e forse ancora prima, nei sogni dei migranti che abbandonavano le congestionate città industriali europee (Hayden 2003, pp.16-17). Certo non è facile per un simile approccio “culturalista” spiegare come mai il modello di dispersione urbana statunitense si sia poi esteso anche altrove, a meno di non presupporre analogie sotto il profilo culturale che sembrano lasciare il tempo che trovano. Insomma , pur essendo indubbiamente radicato l’antiurbanesimo nella cultura americana, l’idea di una origine “remota” dello sprawl, riconducibile alle ambivalenze di una ”mentalità collettiva” fin
2 Come segnalano i dizionari il verbo “to sprawl” ha la valenza di allungarsi disordinatamente, sdraiarsi in modo scomposto, svaccarsi.
dal principio poco incline alla grande città, mal si concilia con la diffusione del modello anche fuori dagli Stati Uniti (sempre che questo sia un fatto realmente assodato).
Come si anticipava, una interpretazione originale è quella proposta da Robert Beauregard, che segue una cronologia ben diversa e molto più precisamente circostanziata: sulla base di una serie di dati difficilmente oppugnabili egli ricostruisce diverse epoche dello sviluppo urbano statunitense (Beauregard 2006 pp.56 ss.) e ne deriva la conclusione che il vero sprawl è cominciato subito dopo la seconda guerra mondiale e che la sua massima espansione ha coinciso con lo “short american century”, con il frammento di secolo tra il 1945 e il 1975 (Beauregard 2006 pp. 2-10). Si tratta non solo del periodo di maggior crescita della potenza e dell’influenza internazionale degli Stati Uniti, ma sono questi anche gli anni decisivi per il cambiamento della distribuzione della popolazione: avviene la white flight, la grande fuga dei bianchi dalle grandi concentrazioni urbane, un processo che subisce una ulteriore accelerazione dopo la rivolta di Watts nel 1965. Attesta questa tendenza il classico suburb descritto da Herbert Gans in un memorabile studio di comunità (Gans 1967), Levittown, che era una curiosa cittadina “monocolore”, popolata unicamente da
82.000 bianchi. Si tratta di uno studio largamente anticipatore, che illustra molto bene come la “linea del colore” si avvii a dividere i vecchi centri invasi dalla underclass black-latino dai suburbs in cui si spostano i ceti medi bianchi (Petrillo 2000). Ma la fuga è resa possibile e agevolata da altri fattori esterni: il ruolo giocato dall’automobile e dalla sua diffusione di massa, dalla creazione di infrastrutture, dall’azione di speculatori e amministrazioni locali che premono per la realizzazione di grandi opere e nuovi insediamenti. Esistono inoltre anche importanti componenti ideologiche che spingono verso la scelta della suburban way of life: si tratta di un modello che diventa importantissimo per l’immagine esterna e per l’autorappresentazione della prosperità americana postbellica, e che simboleggia, oltre al rafforzamento su scala mondiale del predominio americano, anche la realizzazione di una utopia abitativa. Il trionfo del suburb rappresenta l’epitome della ricchezza e della libertà dei consumatori americani. Infine esso sarebbe figlio anche delle tensioni e delle ansie del dopoguerra, dato che negli anni più difficili della guerra fredda il sobborgo dei ceti medi è un luogo in cui è possibile temere meno la minaccia della guerra atomica, in cui allontanare ed esorcizzare il fantasma del comunismo e la spiacevole realtà delle minoranze (Beauregard 2006, pp.144 ss.).
In questo quadro complessivo la svolta produttiva dei Settanta con la deindustrializzazione e il passaggio ad economie di terziario costituisce un ulteriore elemento di specificità. Si comincia a delineare una sorta di “eccezionalismo americano” (Beauregard 2006, p.10) nel senso che negli USA prendono forma per la prima volta processi altrove ancora sconosciuti, e che questa capacità di distaccarsi dai modelli storici di insediamento dei paesi avanzati finisce per condurre ad un utilizzo dello spazio impregnato di ideologie della separatezza e del dominio simbolico. Beauregard insiste in ogni caso sul fatto che sono esistite tutta una serie di concause operanti nel momento decisivo in cui il “vero sprawl” ha preso le mosse, e ne trae la conclusione che tutto è avvenuto a causa di una fase espansiva che ha deviato dai sentieri normali della urbanizzazione. Una discontinuità che sarebbe nata, come avviene per molti fenomeni complessi, in maniera assolutamente congiunturale (Beauregard 2006, p.60). Una congiuntura a ben vedere gravida di conseguenze, con una portata che non è unicamente nazionale, dato che l’evento si verifica nel pieno del “secolo breve americano”, e finisce perciò per coinvolgere il riassetto dei rapporti di potere e la riallocazione della produzione su scala mondiale. In questo senso viene introdotta dall’autore l’etichetta di “urbanesimo parassita”, intendendo con essa una forma generale degli insediamenti che solo gli Stati Uniti possono permettersi, in virtù della loro peculiare posizione a livello planetario. Dopo i Settanta il tramonto di megalopoli, l’affermarsi del postfordismo non fanno che condurre all’estremo quanto si era già chiaramente
delineato nel trentennio precedente, schiudendo la porta all’avvento delle edge cities3. Con l’imporsi
definitivo di un nuovo modello produttivo si delinea una vera e propria nuova configurazione degli insediamenti caratterizzata da una “perdita del centro” che non ha precedenti nei paesi sviluppati. Si assiste alla nascita di un tessuto nuovo, né urbano, né rurale, né periurbano, ma che possiede simultaneamente tutte queste caratteristiche e che sfugge alle definizioni consuete. L’analisi di Beauregard è tutta mirata a cogliere gli anni decisivi di questo passaggio, più che ad azzardare profezie sul futuro. D’altra parte , sia pure da una diversa prospettiva, decisamente più “culturalista” e meno critica nei confronti dello sprawl, anche Robert Fishman aveva a suo tempo segnalato che nella fase iniziale del fenomeno era mancata la capacità di distaccarsi da un’idea consolidata di città e di comprendere che la città industriale poteva rappresentare un
3 Il fortunato e discusso termine, che indica la nuova ondata di suburbanizzazione della seconda metà degli anni Ottanta, è stato introdotto da un testo celebre (Garreau 1991); le polemiche sul contenuto troppo “giornalistico” del libro di Garreau sono state molte (cfr. Lang 2003).
fenomeno transitorio (Fishman 1990 e 1995). Proprio Fishman ha descritto benissimo l’evoluzione della vicenda: col crescere e svilupparsi di nuovi networks di traffico e comunicazione e il mutare degli assetti della produzione la logica che aveva condotto alla formazione dei grandi complessi metropolitani viene spezzata alla radice, e smembrata in una serie di componenti che non dipendono più dalle centralità tradizionali. Alle nuove forze centrifughe non sembra più in grado di opporsi nessuna forza centripeta in funzione riequilibrante. Nonostante i tentativi messi in atto nelle diverse campagne anti-sprawl che pure hanno luogo negli Stati Uniti (Bruegmann 2005, pp.115 ss.) nei primi Novanta può addirittura parlare di “morte delle città”, segnalando come le reti autostradali vadano sostituendosi allo skyline (Fishman 1990, Glaeser 1998). L’ urbanesimo “parassita”, che continua a tutti gli effetti a costituire un’anomalia, pare così consolidarsi come il principale modello di insediamento urbano statunitense. Eppure già qualche anno dopo lo sprawl pare comparire anche fuori dagli Stati Uniti: se ne segnalano esempi non solo in paesi sotto diversi profili legati agli Stati Uniti, come Canada e Australia, ma anche in Europa, in Cina, in America Latina. In particolare lo si è letto quale effetto della comparsa di livelli inediti di benessere nelle mega-città terzomondiali, in cui si andrebbero innescando meccanismi di fuga dei ceti medi analoghi a quelli americani, tali da far parlare lo stesso Fishman di una tendenza alla formazione di global suburbs (Fishman 2003), e Anthony King di tendenze alla villafication (King 2004, pp.117-126).
Sprawl in Europa?
I fenomeni di diffusione urbana in Europa sono in particolare piuttosto rilevanti e sorprendono non solo per la forza di una tradizione urbana europea diversamente orientata, ma anche perché avvengono in una area del mondo in cui la disponibilità di spazio è piuttosto ridotta, dato che la densità abitativa è parecchie volte superiore a quella americana. Eppure abbiamo in Germania segnalati i fenomeni di Zwischenstadt di cui ha efficacemente parlato Thomas Sieverts (Sieverts 1997), con la dissoluzione della città europea compatta e la nascita di un tessuto ambiguo che non è né campagna urbanizzata e neppure città ruralizzata. In Gran Bretagna le conseguenze ultime di politiche mirate alla realizzazione di una great car owning democracy, come quelle tathceriane, hanno portato in al raddoppio del sistema autostradale inglese, favorendo la dispersione urbana (Association of Metropolitan Authorities 1990). Si sono moltiplicate infatti le urbanizzazioni al di là delle tradizionali green belts, con un caotico consumo di territorio per leapfrogging, termine che indica un procedere per salti come quello della rana. Anche la vicenda francese, proprio come conseguenza del fallimento del tentativo dei grands ensembles, già a partire dalla legge del 1977 sulla facilitazione dei mutui, guarda al periurbano e allo sviluppo della piccola proprietà incentivata dallo stato. Nel ventennio successivo si è in effetti assistito alla diffusione di stili di vita basati sulla mobilità e sull’abitazione individuale (Fouchier 1997). E’ anche vero che in Francia, dopo una stagione di facili entusiasmi nei confronti del periurbano, ultimamente si guarda con qualche perplessità alla ville émergente (Dubois-Taine e Chalas 1997).
In Italia i riferimenti d’obbligo sono alle analisi orami vecchie di quasi due decenni sulla città diffusa veneta (Indovina 1990; Indovina e Savino 1999) e quelle più recenti sulla megalopoli padana, (Turri 2000) che prendono atto di un mutamento complessivo intervenuto nella distribuzione degli insediamenti, che ha preso le mosse a partire dalla metà degli anni Settanta ed è divenuto evidente nel corso degli anni Ottanta e Novanta (Ercole 1999). Si tratta di un processo con tratti al contempo di “irradiazione” e di “diffusione insediativa”, legato alla deindustrializzazione e alla fuoriuscita verso l’esterno dei ceti medi dalle aree metropolitane a maggiore densità.
Per contro altri paesi in Europa, e in particolare l’Olanda hanno promosso politiche di contenimento dello sprawl. Per quanto il fenomeno in Europa sia più contenuto di quanto avvenuto negli Stati Uniti, lo sprawl pare diffondersi perciò negli ultimi decenni anche in una terra che ne era un tempo immune, e costituisce un sottile veleno per il futuro della città europea, in quanto ne mette in discussione il “tipo ideale” che era il tipo della città densa, pianificata, con una centralità ben individuata, la presenza di emergenze storico- monumentali, e sotto il profilo politico-amministrativo caratterizzata da uno sviluppato sistema di welfare e di sostegno ai ceti più deboli (Le Galès 2006). E’ anche vero che ogni ipotesi comparativistica tra Europa e Stati Uniti sotto il profilo dello sviluppo urbano rimane problematica, sia per quanto concerne le enormi differenze che sussistono sotto il profilo della disponibilità di spazi e delle forme dello sprawl, sia per quanto riguarda storie urbane radicalmente divergenti. Il processo di suburbanizzazione in Europa, come hanno sottolineato energicamente Friedrich Lenger e Klaus Tenfelde, è rimasto molto più fortemente orientato alle vecchie centralità. In contrasto con i suburbs, le edge cities e i technoburbs non si è mai data in
Europa una fine definitiva della centralità urbana (Lenger e Tenfelde 2006). Anche il declino dello spazio pubblico non si è per ora connotato con quelle caratteristiche di commercializzazione, privatizzazione e militarizzazione che hanno caratterizzato gli USA. Per esempio gli shopping malls non sono blindati e sono aperti a tutti in vicinanza dei centri urbani. Anche la polarizzazione e la segregazione sociale si sono espresse per ora nelle città europee in altre forme, meno evidentemente spazializzate di quelle statunitensi, e in esse, proprio per la diversa densità è più difficile rintracciare la tendenza al flight from blight, alla fuga dal degrado urbano che comporta una redistribuzione della popolazione per zone omogenee che hanno la tendenza a tenersi a distanza le une dalle altre (Pouyanne 2007; Mantovani 2005).
Critici ed apologeti
In realtà in tutta la vicenda della controversia sullo sprawl e sulla sua interpretazione pesano vincoli di tipo ideologico, non sempre dichiarati. Un combattivo approccio iper-liberista, che si rifà a Friedrich von Hayek e alla scuola di Vienna, e che negli Stati Uniti ha avuto discreta fortuna, vede nello sprawl un destino comune a tutte le società avanzate, una sorta di portato inevitabile delle trasformazioni economico- tecnologiche. Secondo autori quali Peter Gordon e Harry Richardson Il futuro apparterrebbe a piccole comunità altamente interconnesse, caratterizzate da una forte autonomia politico-amministrativa. Il declino delle grandi organizzazioni statuali o semplicemente regionali sarebbe già iscritto nel codice delle nuove relazioni produttive e delle nuove tecnologie della comunicazione, che sono per definizione legate a sistemi a rete e fondamentalmente policentriche (Gordon e Richardson 1997). Nella dispersed metropolis declina l’importanza decisionale e organizzativa dei centri e vi è una ridistribuzione relativamente equilibrata delle funzioni urbane da questi tradizionalmente svolte su di un territorio molto più ampio (Gordon e Richardson 1996). Se a questo si somma una tendenza spiccata degli americani a preferire suburbs a bassa densità abitativa come luoghi in cui vivere, e se non si vuole violare la libertà di scegliere gli stili di vita e di consumo, il processo si tinge di ineluttabile, e a poco valgono politiche e spinte dall’alto in direzione di una ricentralizzazione, di fronte al dilagare dei technoburbs (Gordon e Richardson, 2000). Questi insediamenti ad alta componente tecnologica rappresenterebbero qualcosa di diverso rispetto alla forme di sprawl precedentemente conosciute, costituirebbero un passo verso una dimensione ormai post-suburbana (Fishman, 1987), di fronte a cui la terminologia tradizionale appare ampiamente inadeguata (Pahlen, 1995). E’ una prospettiva per cui in fondo anche le grandi città starebbero progressivamente perdendo la loro ragione di esistere, e lo sprawl si tinge di “naturalità”, dato che anche interventi di pianificazione territoriale volti a riequilibrare la situazione non sarebbero altro che “forzature autoritarie”, frutto di atteggiamenti “statalisti” o perlomeno “paternalistici”. Sui tempi lunghi saranno sufficienti i meccanismi di mercato ad eliminare le componenti ancora disfunzionali quali il problema dei trasporti e il persistere di vecchie strutture urbane .
Un approccio neo-riformista sottolinea invece il ruolo dei governi locali nel contenimento del fenomeno, e mette in luce i rischi e le problematiche che alla estensione incontrollata dei fenomeni di sprawl sono legati. Prima di tutto si evidenziano le difficoltà derivanti da un consumo del suolo e da un uso del territorio così intensivi, dato che il consumo di suolo eccede di molto l'aumento di popolazione, poi vengono presi in
considerazione i costi sociali complessivi che un simile modello insediativo comporta4. Basti solo pensare al
tempo da utilizzare per gli spostamenti lavorativi, dato che i posti di lavoro raramente sono vicini all’insediamento in cui si vive (Glaeser e Shapiro 2003), e riflettere sul fatto che le nuove tecnologie ed il
telelavoro non sono in grado di sostituire completamente le vecchie attività. In ufficio si va ancora! E lo spreco del tempo trascorso guidando appare difficilmente giustificabile5.
Vi è poi una terza posizione, che ha uno spettro ampio di sostenitori, e che per comodità espositiva chiameremo “riduzionista”, che non esclude la possibilità della suburbanizzazione, ma la riconsidera in un più ampio ambito di sostenibilità ambientale e de ecologica. Il discorso sullo sprawl in questo senso assume i contorni di una riflessione sul consumo di risorse, sulla dimensione di vita, sulla percezione del paesaggio (Ingersoll 2004). In particolare viene messo in rilievo in maniera estremamente concreta il problema dell’uso intensivo dell’automobile che questo modello insediativo finisce per contemplare, con un carico ulteriore di traffico sulle infrastrutture viarie attualmente esistenti e conseguente aumento dell’inquinamento dell’aria
4 Non sono mancate critiche radicali ( Rusk 1995), presenti anche in Italia (Gibelli e Salzano 2006); per la questione dei costi vi sono trattazioni classiche ( Burchell 1998); su questo tema esistono lavori di rilievo anche nel nostro paese ( Zamagni Gibelli e Rigamonti 2002). Altri ridimensionano il problema dei “costi” ( Cox e Utt 2004).
5 Una posizione interessante è quella di chi pensa comunque al governo di “regioni vaste” (Fregolent 2005).
(Wolf 1999, pp.119 ss.). Tanto più gravido di ulteriore sviluppi appare questo approccio “pragmatico” viste le difficoltà cui pare inevitabilmente andare incontro un modello di vita basato sull’automobile nell’epoca dell’esplosione dei prezzi del petrolio…
Va comunque rilevato che da tutte queste letture dello sprawl rimane fuori l’aspetto socio-politico in senso stretto, nel senso che non viene pienamente valutata la scomparsa delle dimensioni della varietà e dell’incontro e l’importanza della nascita delle gated communities e del loro contraltare nella progressiva “carcerizzazione” dei vecchi centri urbani (Le Goix 2005). Dietro le barriere delle gated cities sono nate società così profondamente divise che Kenneth Jackson ha potuto definirle “castali” (Jackson 1985). Una delle conseguenze del trasferimento dei ceti medio-alti nei suburbs è proprio che in questo modo sono stati resi particolarmente acuti i problemi dei vecchi centri, originando una drammatica contrapposizione tra i livelli di vita nelle esclusive aree privilegiate e quelli nei centri urbani degradati (Marcuse 1997). Si tratta di questioni ampiamente esplorate, che vanno dall’incremento della criminalità alla fiscalità insufficiente, alla presenza di scuole di basso livello e servizi pubblici scadenti e a tensioni sociali di vario genere. La differente capacità di mobilità spaziale tra le classi sociali intensifica ulteriormente i conflitti sociali ed etnici, creando situazioni di confinamento in zone in cui sono accessibili solo lavori scadenti e mal pagati (Wilson 1987, 1993, 1996). Lo sprawl diviene così l’altra faccia del ghetto urbano, è un fatto sociologico che assume configurazione spaziale avrebbe detto Georg Simmel, contribuisce a alimentare una realtà dell’esclusione estrema che appare in continua crescita (Wacquant 2006; Petrillo 2006).
Ma anche l’interpretazione delle trasformazioni territoriali in chiave di valorizzazione della rendita fondiaria su cui si è soffermata a lungo una filone di geografi di ascendenza marxista potrebbero a ben vedere fornire un’ulteriore lettura interpretativa, tanto più interessante alla luce della crisi immobiliare legata ai mutui subprime. La rendita, nei suoi aspetti più innovatori, che si sono sempre più andati intrecciando alla finanziarizzazione dell’economia sarebbe stata uno dei propellenti della grande spinta alla suburbanizzazione degli anni Ottanta (Scott 1980; Kraetke 1995).
Il ritorno della centralità?
A ben vedere i discorsi sul declino e sulla crisi della città che si sono succeduti negli ultimi anni hanno un fondamento che non è stato ancora studiato a sufficienza: le trasformazioni nella divisione internazionale del lavoro. Quanto è avvenuto nei paesi sviluppati è stato possibile anche perché buona parte della produzione di oggetti materiali è stata allocata altrove. La nascita di forme di produzione “leggera” e per i servizi , di modalità della produzione che sono tipiche del modello economico-produttivo legato allo sprawl sono state possibili anche perché la produzione “pesante” veniva realizzata in altre parti del mondo. E questo riguarda anche il mercato alimentare e dei generi di prima necessità. Intere città nuove sono state realizzate negli USA su terreni un tempo destinati ad attività agricole, divenute non più necessarie per l’importazione di derrate agricole a prezzi ridotti dai paesi confinanti (Davis 1999). In virtù di accordi commerciali e con la creazione di zone di libero scambio si sono liberati per la speculazione immobiliare spazi precedentemente adibiti alle coltivazioni. Anche le nuove tecnologie hanno dischiuso la possibilità di annullare la storica divisione tra le diverse funzioni urbane: lavoro, consumi e tempo libero.
Bisogna allora pensare di essere veramente giunti al capolinea della storia urbana conosciuta? Per i centri urbani , tramontata la loro centralità industriale-fordista si prospetta un futuro da shrinking cities? In realtà secondo molti studiosi per le città si prospettano tutta una serie di opportunità nuove. Tutto un filone di studi converge sul fatto che le nuove forme di economia basate sul sapere e sulle capacità creative hanno come retroterra indispensabile una fitta interazione sociale e attività che si svolgono a partire da reti territoriali ben individuate. Il lavoro intellettuale richiede determinate contiguità e scambi che non possono essere solo virtuali. L’astrattizzazione del lavoro conduce ad una rivalorizzazione della vita urbana e della centralità urbana. Di questi processi è forse cifra anche la gentrification, che è difficile ricondurre unicamente a questioni di tipo speculativo o identitario, come si è fatto spesso semplificando la questione. Se è vero, come ha scritto Neil Smith, che il “ritorno alla città” dei Novanta è stato fatto prima dalla speculazione poi dalla gente, è anche vero che col passare degli anni si va percependo sempre più chiaramente che le forme più importanti del “lavoro nuovo” si possono comprendere solo se inquadrate in un contesto urbano e di relazioni sociali fitte quali solo i vecchi centri rendono possibili (Smith 1996).
La caduta della separazione tra lavoro e vita non comporta la definitiva dissoluzione dei legami spaziali, ma anzi sottintende un’accresciuta dipendenza da contesti spaziali specifici, come hanno mostrato i lavori sulla
cultura delle città di una Sharon Zukin (Zukin 1995) o le celebratissime riflessioni di Richard Florida (Florida 2003)6. La città ridiviene attraente per la forza-lavoro altamente qualificata, e solo in città si può dare, e a certe condizioni, la realizzazione di quel mix relazionale che diviene elemento decisivo per la
formazione dei saperi che confluiscono nella “produzione nuova”.
In un siffatto contesto gli Stati Uniti potrebbero venire a trovarsi nella curiosa e per certi versi paradossale situazione di essere un paese relativamente “senza città” in un pianeta in cui la dimensione urbana sta ridiventando centrale (Katz e Altman 2005). In prospettiva, se fossero confermate queste analisi, si potrebbe perciò un giorno giungere al rovesciamento pressoché completo del quadro tracciato da Beauregard, con l’affermarsi di una dimensione in cui lo sprawl diviene segno di arretratezza piuttosto che di progresso.
Conclusione
Naturalmente è difficile allo stato attuale dei nostri saperi tracciare delle conclusioni su di una questione così controversa. La realtà urbana che ci circonda è presa nel vortice di una transizione di cui non intravvediamo ancora i punti di approdo ultimi. Proprio questo continuo mutare ci rende consapevoli dei limiti di un concetto usato in maniera pervasiva come quello di “postfordismo”. Difficile non concordare con Dieter Laepple quando ci suggerisce che il postfordismo non è modello definito e conchiuso, ma indica piuttosto una transizione che si gioca attraverso una serie di passaggi, molti dei quali devono ancora probabilmente avvenire e in cui in ogni caso saranno decisive le trasformazioni dei mondi del lavoro (Laepple 2006). Certo è che per molti versi nella fase attuale la “destinalità” dello sprawl sembra quanto meno dubbia, ed è possibile quantomeno cercare di operarne una lettura storico-critica. Va inoltre rilevato che il discorso di Beauregard sulla congiunturalità dello sviluppo americano pare dotato di una rilevante capacità esplicativa e indubbiamente schiude orizzonti nuovi alla ricerca, anche perché Il ritorno della centralità urbana da più parti segnalato a partire dalla metà dei Novanta sembra far segnare una inversione di tendenza, con il passaggio, almeno in Europa, ad una dimensione post-suburbana. Una dimensione cui contribuirebbero sia la riscoperta della centralità di relazioni “faccia a faccia” nella nuova dimensione creativo-produttiva (Hall 2004), sia la ripresa dei vecchi centri. In fin dei conti come ha segnalato uno studio sulla S. Fernando Valley (Hogen-Esch, 2001), la stessa regione urbana di Los Angeles, luogo simbolico della via americana alla dispersione, attraversata per decenni da tentazioni secessioniste e centrifughe, sembra mostrare segni di ridensificazione e di ricentralizzazione amministrativa (Fulton,
1997)7. Anche alcune grandi città americane mostrano un netto aumento della popolazione, soprattutto come
conseguenza dei flussi migratori (Katz e Altman, 2005, p.4).
Sembrerebbe perciò prender forma un’ipotesi molto vicina a quella avanzata da Leo van den Berg (sulla scorta di vecchie intuizioni di Peter Hall), sulla ciclica oscillazione tra modelli diversi di concentrazione urbana (van den Berg, Burns e Klaassen 1987). Il modello individuava quattro fasi dello sviluppo urbano che si sarebbero succedute a partire dalla prima età industriale, con un’alternanza di tendenze tra concentrazione e diffusione ed è stato recentemente rivisitato e attualizzato (Champion 2001).
Rispetto alle riflessioni di van den Berg, la novità della situazione attuale consiste nel fatto che i modelli coesistono nello stesso tempo, non si affermano e predominano in successioni temporali diverse, come veniva tratteggiato nell’ipotesi originaria. Per questo insieme di motivi forse oggi più che del trionfo di un modello univoco di dispersione urbana nei paesi avanzati o di un ritorno della centralità tout-court, si può parlare di una articolata coesistenza di forze che spingono in direzione alla decentralizzazione spaziale e di forze che invece ricentralizzano, disegnando una molteplicità di tensioni e di tendenze nello spazio attuale.
6 Per una lettura problematizzante dell’intera questione delle città creative il rimando è ad un articolo di grande interesse (Scott 2006).
7 Cfr.in particolare le notazioni raccolte nella postfazione di Fulton alla seconda edizione del suo testo (Fulton 2001, pp.349 ss.).
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