#violenze di genere
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UN CONTRIBUTO PER CAPIRE
CHE IL PROBLEMA È
SOPRATTUTTO CULTURALE.
"Drogate e stuprate: succederà ancora"
A cura di Ilaria Maria Dondi
Essere drogate e stuprate: è una storia vera, che si moltiplica per tutte le donne cui è successo o accadrà in futuro.
'21h - Les détails' è il corto, sceneggiato dalla scrittrice Nadia Busato e interpretato dall'attrice Sveva Alviti che fa parte di 'H24 - 24 heures dans la vie d’une femme', un progetto corale internazionale ispirato a 24 storie vere di donne, scritte, interpretate e dirette da donne.
“Avevo 19 anni, una patente fresca di rilascio e la voglia matta di godermi l’ultima estate prima dell’università. Con l’amica di sempre aspettavamo elettrizzate l’inizio del festival rock più grosso della provincia. Finalmente, abbiamo passato il cancello e ci siamo fermate a bere un bicchiere, poco oltre l’ingresso.
Abbiamo brindato, ci siamo avvicinate al palco, abbiamo iniziato a cantare il primo pezzo e …bum!
Nessuna di noi ricorda nulla della serata finché, ore più tardi, siamo ritornate in noi stesse. In più di vent’anni abbiamo provato più volte a rimettere insieme la memoria di quella sera, ma tutto è cancellato, scomparso.
Agli inizi del millennio non c’erano né i social né il Me-too.
Erano gli anni dell’uomo che non deve chiedere mai. Famiglia, scuola, televisione insegnavano a noi ragazze di ogni età, che quando ci succede qualcosa di inquietante, brutto, violento, la colpa è nostra: ce la siamo andata a cercare; che è diritto di ogni uomo usare i corpi delle donne come meglio crede; ed è parimenti suo diritto non avere seccature inutili, come il consenso esplicito.
Se lei dice no, intende sì: quante volte l’abbiamo letto, sentito, detto ridendo?
Ripenso spesso a quella notte. Io e la mia amica, insieme, non pesavamo quanto un uomo adulto. Io anoressica, lei longilinea per costituzione: saranno bastate poche gocce.
Sarei davvero curiosa di sapere cos’era.
Le più famose sono le Ghb, Gbl e Bd, si trovano anche in medicinali che, ciclicamente, vengono ritirati dal commercio e poi re-immessi in altre formulazioni, per altre patologie.
Si chiamano droghe da stupro perché succede quello che è successo a noi: dopo non ricordi nulla.
Ci sono voluti diversi anni perché avessi almeno un nome da dare a quello che ci è capitato.
Chissà se chi l’ha fatto si è limitato a noi, quella sera. Se avesse voluto farlo ad altre ragazze, niente l’ha fermato. Magari l’ha fatto per tutta l’estate e le estati seguenti, magari lo fa ancora oggi. Immagino lo trovi divertente e, all’occorrenza, utile.
Quando Valérie Urrea e Nathalie Masduraud mi hanno chiesto di sceneggiare questo episodio di H24 ci ho messo dentro quello che succede a me, che da più di vent’anni cerco di rimettere insieme i ricordi e cerco gli indizi.
Esattamente come la protagonista di questa storia (che è tratta da una storia vera), tutto ciò che ricordo davvero era la banalità della serata: nessun segnale di pericolo, una normale sera d’estate tra amiche.
Esattamente come la protagonista (interpretata dalla bravissima Sveva Alviti) anche io mi sono sentita dire che sono stata fortunata: nessuna gravidanza, nessuna MST, nessun segno evidente di abuso, nessuna memoria, l’opportunità di dimenticare e riderci su.
Paradossale che qualcuno provi a consolarti ricordandoti che ci sono certamente donne a cui va molto molto molto peggio di te.
Quindi: allegria, dai, basta pensarci, mettitela via.
A noi, che abbiamo assecondato questo sistema educativo per intere generazioni.
A noi, che abbiamo sempre incolpato le ragazze ovunque, in pubblico e in privato.
A noi, che abbiamo guardato Fedro Francioni nella casa del Grande Fratello raccontare di aver stuprato un’amica incapace di reagire senza andare a distruggere gli studi di Cinecittà.
A noi, che leggiamo gli articoli assolutori su Alberto Genovese dando un colpetto annoiato di spalle perché le modelle e le attrici, come ci hanno più volte spiegato in TV, molti alti esperti, medici, opinionisti, politici e giornalisti, sono prostitute a caccia di tornaconto.
A noi, che sentiamo dire frasi come:
“…però lo sa che funziona così; cosa si aspettava?; ha avuto anche lei i suoi vantaggi;… e se lo ricorda dopo tanti anni?; bisognerebbe sentire la versione di lui; a me non sembra uno stupratore; lei è una facile; chissà chi c’è dietro”
e preferiamo non iniziare nemmeno una discussione.
A noi, che in un paese dove il cattolicesimo sostituisce lo stato di diritto sui corpi delle donne, ci stupiamo genuinamente dei numeri della violenza e dei femminicidi.
A noi, che chiamiamo la polizia se sentiamo il rumore di un furto ma non ci intromettiamo nella casa del vicino che picchia da anni moglie e figli.
A noi, che il femminismo bianco è sempre moderato e sorridere è meglio che alzare la voce.
A noi, che ormai questi uomini non li cambi più ed è meglio sperare nel futuro.
A noi , che voi vi lamentate ma siete fortunate.
A noi, che… e io che ci posso fare?”
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È facile, dall'esterno, illudersi che ci allontaneremmo senza esitazione se una persona ci maltrattasse.
È facile dire che non potremmo continuare ad amare qualcuno che ci maltratta quando non siamo noi a sentire l'amore di quella persona.
Quando lo provi sulla tua pelle, non è così facile odiare chi ti maltratta se, il più delle volte, questa persona è un dono del cielo.
Colleen Hoover, It ends with us (Siamo noi a dire basta)
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LA COLOMBIA HA ABOLITO I MATRIMONI INFANTILI
Il 14 novembre 2024 la Colombia ha approvato una legge storica che abolisce i matrimoni infantili, segnando un passo significativo verso la tutela dei diritti dei minori e la promozione dell’uguaglianza di genere.
La pratica dei matrimoni infantili è ancora molto presente in alcune regioni del paese, dove le tradizioni culturali e la povertà spingono molte famiglie a far sposare le loro figlie in giovane età con uomini con il doppio o il triplo dei loro anni. La nuova legge vieta i matrimoni sotto ai 18 anni e protegge i minori da abusi e sfruttamento garantendo loro il diritto all’istruzione e a un’infanzia libera da responsabilità adulte. Le ragazze indigene sono le principali beneficiarie di questa riforma, poiché i matrimoni infantili spesso le privano delle opportunità educative e le espongono a violenze e rischi sanitari legati a gravidanze precoci. Il percorso per l’approvazione di questa legge durato 17 anni ha affrontato il fatto che molte comunità vedevano ancora i matrimoni infantili come una soluzione per alleviare il peso economico delle famiglie e per proteggere le ragazze da situazioni di vulnerabilità.
La Colombia è al 20° a livello globale in termini di adolescenti che si sposano prima dei 15 anni. L’abolizione dei matrimoni infantili in Colombia è stata accolta con favore da numerose organizzazioni internazionali che vedono in questa misura un modello da seguire per altri Paesi con situazioni sociali simili. La nuova legge prevede sanzioni severe per chi viola il divieto e stabilisce programmi di reinserimento ed educazione per le giovani vittime di matrimoni forzati o precoci.
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Fonte: Senado de la República de Colombia; Jennifer Pedraz; Unicef; immagine di Renthel Cueto
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Quando andai in galera nel modo giusto, a mani legate, 53 anni fa, ero un uomo fatto. A Torino, alle Nuove, che erano vecchie, vetuste, ed erano piene di giovani italiani meridionali buttati via. Quando ci tornai, allo stesso modo, in altre galere – le Nuove erano un Museo - un po’ più di trent’anni fa, erano piene di giovani stranieri meridionali, africani maghrebini soprattutto, anche già africani di quelli detti subsahariani, quasi tutti dentro per futili motivi. Li conobbi bene. Provai a dire che erano il fior fiore della generazione giovane dei loro giovani paesi, e che si sarebbe dovuto investire su loro, invece di sbatterli dentro ad abbrutirsi. Si sarebbe dovuto puntare sulla loro intelligenza, energia, e voglia enorme di essere accolti, di far parte – il solo modo che era concesso loro era il tifo per una squadra di calcio italiana, perciò sperticato. A casa scrivevano in genere senza mentire, ma omettendo i dettagli: scrivevano di trovarsi in Italia, a Bergamo, o a Firenze, o a Pisa – dove li avevo incontrati. Quando avevano la fortuna di una telefonata prendevano il tono più felice che potessero, si commuovevano, spiegavano di dover chiudere per i troppi impegni – telefonate rare e brevi, diceva il regolamento. Investendo su loro, e sui loro simili ancora non risucchiati dalla galera, si sarebbero trovati i migliori tramiti, i più sapienti ambasciatori, ai rapporti coi loro paesi d’origine, pensavo, e se ne sarebbe avvantaggiata la nostra vita economica e civile, e la nostra capacità di trattare la migrazione, che non avrebbe fatto che crescere. E che risparmio! Naturalmente, per quanto facessi tesoro della sciagurata situazione in cui mi ero venuto a trovare, e insistessi, per anni, parlavo al vento. Non che non lo sapessi. Via via sentivo gridare all’emergenza, e annunciare stentorei piani, altrettante versioni del “piano Marshall”, fino al piano Mattei di oggi, povero Mattei, povero Marshall. E ho smesso di occuparmi di quelli che: “E allora tu che cosa faresti?...” Niente, o quasi: raccoglierei quello che avete seminato. Ieri sono stato fiero di quello che ha detto Eugenio Giani, che è il presidente della Toscana in cui vivo. Non solo per il rifiuto della galera più miserabile dell’altra, “Non darò l’ok a nessun Cpr in Toscana”, ma per la spiegazione: “Si stanno prendendo in giro gli italiani, perché il problema dell'immigrazione è come farli entrare e accoglierli, non come buttarli fuori. Se arrivano questi immigrati con i tormenti, le violenze e le sofferenze che hanno subìto, la risposta che dai è 'faccio i Cpr', cioè luoghi per buttarli fuori? Prima rispondi a come integrarli e accoglierli, dar lor da mangiare e dormire. Poi parli anche di quei casi isolati nei quali poter prevedere la lunghissima procedura di rimpatrio". Prima dar loro da mangiare. Avevo ancora negli occhi i titoli gridati: “Migranti scavalcano il recinto ed evadono a Porto Empedocle”, e la successiva, sussurrata precisazione: “Sono rientrati tutti, erano andati a cercare dell’acqua da bere, e magari qualcosa da mangiare”. - Conversazioni con Adriano Sofri, Facebook
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Se viene commesso un abuso sessuale di gruppo ai danni di due ragazzine minorenni e quello che viene detto dai piani alti, in soldoni, è: dobbiamo bonificare il territorio per renderlo meno propenso alla criminalitá, c'è un problema. Mi ha fatto ricordare mia zia che, per evitare che mia cugina da bambina aprisse tutti i mobili della casa e ne riversasse il contenuto sul pavimento, tolse tutte le maniglie.
Eppure, nel secondo caso, viene spontaneo capire che il problema non sta nelle maniglie, ma nell'educazione. E allora, come mai è così difficile capire?
Gli stupri, le violenze, le molestie non avvengono per colpa di un 'territorio propenso alla criminalitá', di un vicolo buio, di una gonna corta, di parole che ti hanno fatto credere che. Succedono, e molto più di quanto faccia notizia, perchè manca l'educazione. Educazione al consenso, educazione di genere, educazione in ogni accezione possibile.
Sono giorni che sto in silenzio, giorni in cui voglio scrivere ma non mi pare mai di riuscire nel modo giusto, e probabilmente nemmeno questo lo è. Sentire di questi casi, prima Palermo poi Caivano, mi ha riportato alla mente un episodio accaduto a Parigi, di cui non ho fatto parola con nessuno.
Eravamo in metropolitana, il vagone era pieno zeppo, io avevo avuto la fortuna di trovare un posto seduta. C'era questo ragazzo in piedi davanti a me, non so come fosse fatto perchè non l'ho mai guardato davvero. Dicevo, il vagone era pieno, ma non c'era motivo per il quale lui dovesse stare così vicino a me. Non c'era motivo, per fare aderire il suo bacino al mio braccio, anche quando ho provato a spostarmi.
Non c'era motivo, per compiere quei movimenti oscillatori, sfregandosi come un animale. Non c'era motivo per nulla, eppure poi l'unica cosa che ho pensato è che mi fossi sognata tutto, che avessi sentito male, che avessi amplificato una semplice casualitá. Che non era possibile, perchè insomma chi potrebbe mai fare una cosa così? Chiedilo, a tutte le tue amiche, chi potrebbe mai fare una cosa così, senti quello che hanno da raccontare.
L'unica cosa da bonificare sono i pensieri, signora mia, lavorare su ciò che gli uomini si sentono in grado di poter fare.
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L'importanza della lotta per i diritti delle donne, in particolare per la loro emancipazione, ricordando le conquiste sociali, economiche, politiche e portando l'attenzione su questioni come l'uguaglianza di genere, i diritti riproduttivi, le discriminazioni e le violenze contro le donne.
Questa è la riflessione che ha portato all'istituzione di una Giornata Internazionale dei Diritti delle Donne.
Che si traduce in una parità sostanziale nelle opportunità in ogni ambito sociale, nella non discriminazione di genere, nel maggior supporto dello stato sociale in situazioni specifiche.
Significa anche la fine di stereotipi sulle capacità intellettuali e fisiche di ogni donna.
Non prendiamocela con la mimosa
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Adriano Sofri
E allora tu che faresti coi migranti?
Quando andai in galera nel modo giusto, a mani legate, 53 anni fa, ero un uomo fatto. A Torino, alle Nuove, che erano vecchie, vetuste, ed erano piene di giovani italiani meridionali buttati via. Quando ci tornai, allo stesso modo, in altre galere – le Nuove erano un Museo - un po’ più di trent’anni fa, erano piene di giovani stranieri meridionali, africani maghrebini soprattutto, anche già africani di quelli detti subsahariani, quasi tutti dentro per futili motivi. Li conobbi bene. Provai a dire che erano il fior fiore della generazione giovane dei loro giovani paesi, e che si sarebbe dovuto investire su loro, invece di sbatterli dentro ad abbrutirsi. Si sarebbe dovuto puntare sulla loro intelligenza, energia, e voglia enorme di essere accolti, di far parte – il solo modo che era concesso loro era il tifo per una squadra di calcio italiana, perciò sperticato. A casa scrivevano in genere senza mentire, ma omettendo i dettagli: scrivevano di trovarsi in Italia, a Bergamo, o a Firenze, o a Pisa – dove li avevo incontrati. Quando avevano la fortuna di una telefonata prendevano il tono più felice che potessero, si commuovevano, spiegavano di dover chiudere per i troppi impegni – telefonate rare e brevi, diceva il regolamento. Investendo su loro, e sui loro simili ancora non risucchiati dalla galera, si sarebbero trovati i migliori tramiti, i più sapienti ambasciatori, ai rapporti coi loro paesi d’origine, pensavo, e se ne sarebbe avvantaggiata la nostra vita economica e civile, e la nostra capacità di trattare la migrazione, che non avrebbe fatto che crescere. E che risparmio! Naturalmente, per quanto facessi tesoro della sciagurata situazione in cui mi ero venuto a trovare, e insistessi, per anni, parlavo al vento. Non che non lo sapessi. Via via sentivo gridare all’emergenza, e annunciare stentorei piani, altrettante versioni del “piano Marshall”, fino al piano Mattei di oggi, povero Mattei, povero Marshall. E ho smesso di occuparmi di quelli che: “E allora tu che cosa faresti?...” Niente, o quasi: raccoglierei quello che avete seminato.
Ieri sono stato fiero di quello che ha detto Eugenio Giani, che è il presidente della Toscana in cui vivo. Non solo per il rifiuto della galera più miserabile dell’altra, “Non darò l’ok a nessun Cpr in Toscana”, ma per la spiegazione: “Si stanno prendendo in giro gli italiani, perché il problema dell'immigrazione è come farli entrare e accoglierli, non come buttarli fuori. Se arrivano questi immigrati con i tormenti, le violenze e le sofferenze che hanno subìto, la risposta che dai è 'faccio i Cpr', cioè luoghi per buttarli fuori? Prima rispondi a come integrarli e accoglierli, dar lor da mangiare e dormire. Poi parli anche di quei casi isolati nei quali poter prevedere la lunghissima procedura di rimpatrio".
Prima dar loro da mangiare. Avevo ancora negli occhi i titoli gridati: “Migranti scavalcano il recinto ed evadono a Porto Empedocle”, e la successiva, sussurrata precisazione: “Sono rientrati tutti, erano andati a cercare dell’acqua da bere, e magari qualcosa da mangiare”.
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Il wokismo – scrive Renée Fregosi (*) – è un’ideologia totalitaria: si appropria di tutti i campi dell’attività umana e distorce la realtà in vari modi. (...) Il corpo occupa un posto centrale: è il primo punto di partenza della logica di vittimizzazione sistematica che è il motore del wokismo. Il colore della pelle è messo in rilievo per denunciare ciò che i wokisti definiscono la “razzializzazione” dei non-bianchi, ossia le discriminazioni, oppressioni e violenze esercitate ai loro danni “in maniera sistemica” da quelli che a loro detta beneficiano del “privilegio bianco”. La differenza di sesso (...) è messa in discussione a beneficio del “genere” che distingue il maschile dal femminile principalmente attraverso l’apparenza (...), vestimentaria in particolare. Il velamento del corpo delle donne, benché patriarcale, viene rivendicato contro una presunta “islamofobia” (...). L’ossessione wokista trasforma (anche) il corpo degli sportivi in uno dei suoi terreni di gioco privilegiati. (...) Il delirio woke raggiunge nello sport il suo punto più alto, mandando nel panico le federazioni sportive che reagiscono in maniera disordinata. Lo scorso marzo, la Federazione internazionale di atletica leggera (World Athletics) ha deciso di escludere dalle prove femminili le donne transgender che “hanno attraversato la pubertà maschile”, ritenendo “insufficienti le prove che le donne trans non abbiano vantaggi sulle donne biologiche”. Indignata, l’atleta francese nata uomo Halba Diouf ha immediatamente denunciato questa decisione sul quotidiano sportivo L’Équipe. Quanto ai (sedicenti, ndr) atleti intersessuali (ermafroditi o di sesso indeterminato alla nascita), come la sudafricana Caster Semenya, devono d’ora in avanti mantenere il loro tasso di testosterone sotto la soglia di 2,5 nmol/L per ventiquattro mesi per poter concorrere nella categoria femminile (...), fatto che essi giudicano come una misura “discriminatoria”. (...) La Federazione internazionale di nuoto ha annunciato nel giugno del 2022 che voleva creare una categoria per le nuotatrici transgender divenute donne post pubertà (come l’americana Lia Thomas), al fine di riservare le categorie femminili alle donne di nascita e eventualmente alle transgender divenute donne prima della pubertà. Nel calcio, i regolamenti cambiano a seconda dei paesi. Anche nel ciclismo le posizioni sono varie e cambiano in tutti i sensi. I britannici, per esempio, dichiarano che l’atleta transgender Emily Bridges non era “ancora” autorizzata a concorrere in un campionato nazionale. La questione agita tutto il mondo sportivo, e in particolare gli sport di combattimento. (Traduzione di Mauro Zanon) (*) Filosofa e politologa francese, Renée Fregosi, con un passato da militante del Mouvement de libération des femmes (Mlf) e Partito socialista, ha scritto “Les Nouveaux autoritaires. Justiciers, censeurs et autocrates” (Éditions du Moment).
via https://www.ilfoglio.it/il-foglio-internazionale/2023/09/11/news/l-ossessione-woke-trova-nello-sport-uno-dei-suoi-terreni-di-gioco-privilegiati-5664212/
IL DELIRIO. E noi siamo costretti a perderci del tempo.
Ah, sempre a proposito di sport, che dire poi quella francese (giornalaia o ministro? Boh) che ha definito la HAKA neozelandese in corso di Mondiali di rugby, "atteggiamento maschlista e violento". Manco più le popolazioni indigene sfuggono al melting pot omogeneizzante del siamo quello che desideriamo essere (non nel senso motivazionale, in quello "fisico" proprio).
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C'è Anna che ha un bambino e rimane per lui, quando la sera si chiude la porta e il suo uomo le si avvicina a pugni stretti ormai non cerca più nemmeno una via di fuga.
Serena sta cercando lavoro e si è sentita chiedere se mai vorrà figli, che è stato brutto, ma si è anche sentita chiedere quanto sarebbe disposta a dare all'azienda, che è stato anche peggio.
Poi c'è Terry che sta per strada, quando è arrivata pensava di trovare lavoro tramite un conoscente e infatti l'ha trovato: viene caricata su una macchina otto volte a notte e quando torna a casa i soldi che vorrebbe non aver guadagnato non sono nemmeno suoi.
Lucia porta gli occhiali da sole a novembre, gira sempre con lunghi foulard e le batte ancora il cuore quando Marco le porta un mazzo di rose a sorpresa per il suo compleanno.
Veronica non viene nemmeno sfiorata, secondo Tommaso lei non vale nulla, nemmeno il tempo di un sorriso, di una carezza, di una parola che invece non manca mai di essere espressa quando sbaglia e lei sbaglia sempre, inizia a crederci persino lei.
Federica vive da sola, ha solo ventisette anni, ma se ne sente molti di più: gli altri pensano che non sia bella abbastanza e non ne fanno segreto, nessuno glielo dice apertamente ma appellativi come cesso e cozza sono spesso sussurrati fra i colleghi e le risatine alle sue spalle non mancano.
Teresa ha la quinta di seno, come se fosse una sua scelta, come se su quelle tette ci fosse scritto Toccami, come se i vestiti non fossero mai abbastanza larghi, come se il suo corpo gridasse troia ad ogni passo anche se lei ormai cerca di affogarci dentro a quei maglioni sformati.
Evelina ha fatto giurisprudenza come i suoi colleghi, si è laureata con un voto di tutto rispetto, eppure è proprio il rispetto che le manca sul posto di lavoro dove deve correre due volte di più per dimostrarsi all'altezza di meriti che agli uomini vengono riconosciuti di diritto.
Sofia ha quattro anni e queste cose le vede sempre, quando cerca di salire in alto sulla rete del parco giochi insieme ai suoi coetanei ma viene fermata perché potrebbe farsi male, quando Ludovico le ha stretto il braccio e l'ha spinta per terra e le mamme hanno ridacchiato un 'fa così, perché gli piaci', quando ha deciso che voleva fare basket e si è trovata in un tutù, quando il papà la tratta come se fosse un oggetto delicato, che potrebbe rompersi da un momento all'altro, che ha bisogno di protezione, ma soprattutto di sorveglianza.
Sono tanti corpi e tante menti di donne, sono violenze: fisiche, psicologiche, di genere.
Sono e siamo noi.
dal web
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il più delle volte, il genere maschile è quello che i torti li fa e non li subisce; essendo uomo, sono attribuite a me una serie di tristi caratteristiche quali: molestie, violenze e quant'altro. il discorso femminista degli ultimi anni, che da una parte in me si è radicato in una veste presumo transfemminista (se non anche xeno, a volte), dall'altro è divenuto la nuova spiegazione logica, l'ennesima, al mio timore nel varcare la soglia della porta e affrontare quel che non definirei più ansia sociale ma qualcosa di radicato e forse intrinseco. parafrasando, mi mette a disagio l'immagine che proietto in quanto maschio. questa cosa mi frena dall'uscire da solo, o di contattare persone su internet, che ahimè rimane uno dei miei pochi mezzi di conoscenza, conoscenze che tralaltro non avvengono proprio per timore di manifestare all'interlocutore, o interlocutrice, intenzioni che in realtà non ho. vorrei potermi mostrare come una persona con cui non c'è rischio che ci provi, che abbia intenzioni diverse dalla conversazione, e l'idea di spaventare qualcuna, ironicamente, mi incute timore, imponendomi una sorta di codice definito in cose come: evitare ogni eye contact se fuori casa, evitare di contattare persone se da internet, se non anche scrivere di sana pianta "non voglio provarci", anche se in quest'ultimo caso sembra che venga un po' troppo tradita la mia indole autistica. ho una personalità evitante e, se da un lato sono contento di avere quel tipo di consapevolezza che può aiutarmi a non mettere in difficoltà la persona che ho davanti, dall'altro mi preclude quasi ogni possibilità di interazione
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"È sempre magnifico sentirsi vicini ad un piccolo popolo che soffre. In questo modo l'ingerenza «umanitaria» permette al forte di inserirsi nella politica dei deboli, con il migliore degli alibi morali possibili. Gli Stati Uniti hanno lanciato delle operazioni militari contro piccoli Stati dell'America Latina con il pretesto che davano appoggio a dei narcotrafficanti. Una di queste, contro Panama nel 1989, di rara brutalità, provocò almeno duemila morti e fu bellamente chiamata «Giusta Causa». Cosa di più bello, in effetti, che combattere per lo straziante problema della droga, se i nostri nemici possono essere rappresentati come chi, in qualche modo, ne è all'origine?¹ Nella guerra della NATO contro la Jugoslavia si trova lo stesso sfasamento tra gli scopi ufficiali e quelli inconfessati del conflitto. Ufficialmente la NATO interviene per preservare il carattere multietnico del Kosovo, per impedire che le minoranze siano maltrattate, per imporre la democrazia e farla finita col dittatore. Si tratta di difendere la causa sacra dei diritti dell'uomo. Alla fine della guerra, non solo ciascuno può constatare che nessuno di questi obiettivi è stato raggiunto, che la società multietnica è ancor più lontana e che le violenze contro le minoranze - Serbi e Rom, questa volta - sono quotidiane, ma anche che gli obiettivi economici e geopolitici della guerra, di cui non si è mai parlato, sono stati - quelli sì - raggiunti. Così, senza che sia stato mai ufficialmente rivendicato, la sfera d'influenza della NATO s'è notevolmente allargata nell'Europa del Sud-Est. L'organizzazione atlantica s'è installata in Albania, Macedonia e Kosovo, regioni che fino ad allora s'erano mostrate recalcitranti a tale spiegamento.
Dal punto di vista economico, inoltre, la Jugoslavia (ove funzionava ancora, per larga parte, un mercato pubblico), «riluttante» all'istituzione di un'economia di mercato pura e semplice², si vide «proporre» a Rambouillet che l'economia del Kosovo funzionasse «secondo i principi del libero mercato e fosse aperta alla libera circolazione dei [...] capitali, compresi quelli di origine internazionale». Innocentemente ci si potrebbe chiedere che rapporto ci può essere tra la difesa delle minoranze oppresse e la libera circolazione dei capitali, ma il primo tipo di discorso nasconde evidentemente fini economici meno confessabili. Così dodici grandi società americane³, tra cui Ford, General Motors e Honeywell, sponsorizzarono il summit del cinquantesimo anniversario della NATO, tenuto a Washington nella primavera del 1999. In modo totalmente disinteressato, pensano alcuni, mentre altri pensano che sia stato un do ut des e che i bombardamenti contro la Jugoslavia per distruggere l'economia socialista abbiano fatto piazza pulita per le multinazionali che, da molto, sognavano di aprire in quei luoghi un grande cantiere e di fare buoni affari. Lo stesso portavoce della NATO, Jamie Shea, peraltro, aveva annunciato che il costo dell'operazione militare contro la Jugoslavia sarebbe stato largamente compensato dai benefici che, a più lungo termine, i mercati avrebbero potuto apportare⁴.”
¹ Se, invece, i trafficanti d'eroina sono politicamente nostri alleati, come fu nel caso di gruppi dell'UCK albanese, si perdona loro facilmente queste mancanze veniali (leggere l'articolo di Erich Inciyan «Le réseaux albanaise de l'héroine, la propagande de Belgrade contre l'UCK et la réalité», Le Monde, 4 e 5 aprile 1999). ² La sua economia era largamente mista ed aperta ai privati da moltissimo tempo. ³ Washington Post, 13 aprile 1999, citato da Michel Collon, Monopoly. L'Otan à la conquéte du monde, EPO, 1999, p. 92 . ⁴ Dichiarazione al tempo dell'emissione «Argent public», France 2, domenica 2 maggio 1999, citato da Serge Halimi, L'Opinion ça se travaille. Les médias, l'OTAN et la guerre du Kosovo, Agone Editeur, Marseille, 2000, p. 68.
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Anne Morelli, Principi elementari della propaganda di guerra - Utilizzabili in caso di guerra fredda, calda o tiepida..., prefazione di Giulietto Chiesa, traduzione di Silvio Calzavarini, Casa editrice Ediesse (collana Saggi), 2005¹; pp. 59-60. [Note dell’Autrice]
[Edizione originale: Principes élémentaires de propagande de guerre (utilisables en cas de guerre froide, chaude ou tiède ... ), Éditions Labor, Bruxelles, primavera 2001]
#Anne Morelli#letture#leggere#citazioni#saggistica#libri#Principi elementari della propaganda di guerra#Panama#saggi#Stati Uniti d'America#Kosovo#Jugoslavia#UCK#Yugoslavia#Giulietto Chiesa#democrazia#guerra giusta#antimilitarismo#imperialismo americano#diritti dell'uomo#Serbia#Honeywell#Silvio Calzavarini#General Motors#Albania#NATO#Ford#Operazione Just Cause#Storia d'Europa#geopolitica
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Oggi è la Giornata Internazionale della Donna, un momento per riflettere sulle battaglie vinte e quelle ancora in corso per le donne in tutto il mondo.
Non possiamo ignorare le sfide che ancora affrontano.
Le mimose e gli auguri, ma ci serve anche molto di più. Dobbiamo lavorare per garantire pari opportunità sul lavoro, rispettare le scelte personali e combattere contro la violenza di genere.
Nonostante i progressi fatti nel 2024, ci sono ancora ostacoli da superare, come stereotipi e pregiudizi che condizionano ancora la vita delle donne. È importante tenere viva la discussione sui diritti delle donne e lottare per assicurare una piena parità. Auguro a tutte le donne di realizzare i propri sogni e di vivere libere da ingiustizie e violenze, senza essere più schiave di vecchi schemi culturali.
LupoSolitario00🐺
#napoli#il ragazzo di napoli#napoletano#luposolitario00🐺#femminismo#giornata internazionale della donna
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Auguri a tutte le donne, a chi non lo è biologicamente ma si sente tale, a quelle che hanno subito o subiscono tutto’ora violenze di ogni genere, a quelle insicure e a quelle che lottano per i propri diritti, alle mamme, alle sorelle maggiori che fanno da mamma e a quelle minori che sono figlie. Auguri alle donne che ce l’hanno fatta a quelle che devono ancora farcela e a chi pensa di non farcela. Auguri a tutte noi che ancora combattiamo battaglie che dovrebbero essere già vinte. Auguri ad una festa che non ci onora abbastanza ma ci permette, per un giorno di far parlare di noi e di ricordare al mondo che siamo umane e non carne da macello. Un giorno dedicato a noi ed un mazzo di mimose non è abbastanza se durante il resto dell’anno non ci si ricorda che in primis, siamo tutti figli di una donna e tutti meritiamo lo stesso rispetto a prescindere dal sesso.
Auguri alle donne oggi e tutti gli altri 365 giorni (ma oggi un po’ di più) ❤️
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Le foibe sono un crimine di guerra, su questo non ci possono essere dubbi. Uccidere nemici inermi, dopo la cattura, al di fuori del combattimento e senza un giusto processo (come è spesso avvenuto in quelle circostanze) è sempre un crimine. Specie se ciò avviene alla fine di una guerra, quando si suppone che ci sia il tempo per giudicare i responsabili di reati commessi in precedenza, come avvenuto infatti a Norimberga, ma non (vale la pena ricordarlo) per i criminali di guerra italiani. Tuttavia, come sanno tutti gli storici, le vittime delle foibe non state uccise «solo perché italiane», a differenza di ciò che viene ossessivamente ripetuto nella vulgata politico-mediatica. Decine di migliaia di italiani combattevano nelle file dell’esercito partigiano jugoslavo, ovvero dalla parte di chi ha commesso quei crimini, e non hanno subito, ovviamente, alcuna violenza. Inoltre fra le vittime della resa dei conti condotta dalle forze jugoslave a fine guerra, gli italiani rappresentano tra il 3 e il 5%; gli altri sono jugoslavi (serbi, croati, sloveni, ecc.): tutti uccisi perché ritenuti fascisti, nazisti, spie, collaborazionisti o contrari alla conquista del potere da parte delle forze partigiane. I liberatori jugoslavi dunque se la prendono contro specifici nemici identificati in base all’appartenenza politica e militare, non nazionale.
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Da circa vent’anni sono state istituite due giornate commemorative, quella della Memoria dei crimini nazisti e quella del Ricordo delle foibe. Tali celebrazioni sono simili nella denominazione, vicine nel tempo (27 gennaio e 10 febbraio) e hanno lo stesso identico peso formale. Ripeto per essere più chiaro: i crimini contro l’umanità commessi dai nazisti nelle logiche che sono state ricordate, e che hanno ucciso 10 milioni di persone, sono commemorati alla stessa stregua delle violenze condotte dai partigiani jugoslavi contro 5.000 persone, molti dei quali condividevano il campo nazista.
Nei discorsi istituzionali e nella propaganda mediatica sulle foibe si parla di «pulizia etnica», si afferma che le vittime sarebbero state uccise «solo perché italiane» e si ribadisce il paragone con la Shoah, ignorando al tempo stesso i crimini fascisti e nazisti commessi in precedenza in quello stesso territorio. Come credo sia ormai chiaro, tutto ciò è assurdo, offensivo, umiliante, di fatto «negazionista» o almeno enormemente «riduzionista» nei confronti della Shoah e dei crimini nazisti e fascisti. Per di più negli ultimi anni il giorno del Ricordo ha acquisito un’importanza politica addirittura maggiore rispetto a quello della Memoria. La Rai ha prodotto due film sul tema, se ne interessano programmi televisivi di ogni genere, se ne parla addirittura a Sanremo durante il festival dei fiori; politici di tutti gli schieramenti ne strumentalizzano la vicenda, enti pubblici di ogni livello intitolano strade, piazze, parchi, monumenti a Norma Cossetto o ai «martiri delle foibe»; il Ministero dell’Istruzione dirama circolari-fiume sul tema («Linee guida» di ben 90 pagine), i prefetti di tutta Italia chiedono alle scuole di insegnare la falsa «pulizia etnica» ai loro studenti e il Parlamento ha da poco approvato lo stanziamento di milioni di euro per incentivare la propaganda antistorica delle associazioni nostalgiche, finanziando «viaggi del ricordo» scolastici al confine orientale.
Non ci possono essere dubbi: nella nostra memoria pubblica le violenze dei partigiani a fine guerra hanno acquisito un peso molto maggiore dei crimini nazisti, e sono probabilmente oggi più conosciute e ritenute più rilevanti dall’opinione pubblica. Può sembrare assurdo e paradossale, ma è così. Eppure manca ancora un tassello, la beffa oltre al danno.
Che fine hanno fatto i crimini fascisti? Su questo semplicemente non esiste una memoria pubblica. Chi davvero uccideva intere popolazioni solo per la propria appartenenza, chi ha davvero ucciso «etiopi solo perché etiopi» e «jugoslavi solo perché jugoslavi», non viene nemmeno menzionato sui libri di scuola, non merita film, vie, parchi, lapidi né uno straccio di dichiarazione pubblica di condanna.
E dunque, in definitiva: si mente sulle reali motivazioni del crimine delle foibe per cercare di farlo passare come un crimine fascista; e intanto si ignorano i veri e propri crimini del fascismo, finendo per far passare i fascisti come innocenti e anzi vittime dei partigiani. Si dedicano energie politiche e risorse economiche straordinarie per diffondere tali falsità e si cerca in questo modo di fare percepire all’opinione pubblica le foibe come addirittura più gravi dei crimini nazisti e della Shoah.
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Eh, povero Piero...
Dovete sapere che Piero è un ragazzotto romano sul belloccio andante. Ha avuto un pargolo da una ex peripatetica che si lamenta sempre perché lui non la tocca da una vita. In più è a capo di una banda di balordi specializzata in piccole rapine, violenze, stupri e via dicendo. Attorno a lui gravitano un frate poco ortodosso che vorrebbe riportarli sulla retta via e un commissario che invece non vede l’ora di cacciarli in gattabuia. Penso sia intuibile che per lui e per i suoi amici non vada a finire proprio benissimo. Il tempo degli assassini (1975) è un film piuttosto crudo e violento sulla delinquenza giovanile. La storia è portata avanti in maniera poco plausibile - sebbene prima dei titoli di coda appaia una scritta secondo cui i fatti narrati sono realmente accaduti - e piuttosto frammentaria. Però ci sono diverse sequenze automobilistiche davvero apprezzabili (almeno per i cultori del genere). Tre gli attori protagonisti: Joe Dallesandro (Piero), Rossano Brazzi (il frate) e Martin Balsam (il commissario). L’unico che ci crede davvero direi che è Brazzi. Gli altri due sono convinti fino a un certo punto. E si vede.
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LE FOIBE: UNO DEI TANTI ORRORI COMUNISTI
Pur condannando l’orrore – e non potrebbe essere altrimenti – di quanto di inumano e inconcepibile avvenne dal 1943 al ’45 nelle martoriate città agli estremi confini della nostra penisola, vorrei porre l’attenzione ancora una volta su alcune delle figure femminili, vittime tra le vittime. E non per preferenza sommaria verso un genere, ma per portare a conoscenza alcune delle innumerevoli storie in cui, per la sola colpa di essere donne, si muore più volte; e per dare loro un volto, uno fra le migliaia, restituendo una piccola parte di quella dignità rubata, saccheggiata, depredata, così come lo furono i loro corpi: carne da macello, scettro di un delirio di onnipotenza maschile, in guerra come in pace.
Norma Cossetto,nella foto, studentessa universitaria istriana, fu torturata, violentata e gettata in una foiba ancora viva. È stata uccisa dai partigiani di Josip Broz, meglio conosciuto come Maresciallo Tito, nella notte tra il 4 e il 5 ottobre 1943.
Altra triste fine fu quella delle tre sorelle Radecchi: Fosca, Caterina e Albina, tutte gettate nelle foibe dopo aver subito le stesse violenze di Norma e di chissà quante altre donne rimaste senza nome. Un triplice omicidio raccapricciante di tre giovanissime innocenti di 16, 19, 21 anni. Lavoravano in una fabbrica di Pola e furono soggette a trattamenti disumani per giorni. Albina era anche prossima a partorire ma non le fu risparmiata nessuna sevizia. Vennero infoibate ancora vive e forse raggiunte dai vari proiettili che venivano scaricati nelle fosse per assicurarsi della morte delle vittime.
A Rosa Petrovic fu riservato un trattamento speciale aggiuntivo, strappandole gli occhi dalle orbite.
C'e' ancora chi separa il nazismo dal comunismo. Invece sono due facce della stessa medaglia. Ha giovato al nazismo la contrizione del nome, cominciamo a chiamarlo nazionalSOCIALISMO, forse qualcuno si sveglia..che siano stati antagonisti nemmeno vuol dir nulla...anche cattolicesimo e protestantesimo lo sono stati...
Rosso e nero sono due colori forti.. due colori duri..rosso e' il colore del sangue e nero del sangue pesto...l'ideologia e' la stessa: odio contro l'umanita'. Nessuno stupore che ambedue difendano l' islam e lo appoggino visto che li lega l' odio contro le donne e quindi l'odio contro la vita. Pretendiamo che vengano considerati apologia di reato!
In memoria delle vittime.
Glielo dobbiamo.
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