#ufficiosinsitri
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ufficiosinistri · 2 years ago
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Trade Unions
Sul lato opposto della strada fuori dalla finestra del mio ufficio, ci sono, in sequenza da sinistra a destra, lo studio di un fotografo, una parrucchiera e un bar. Fanno tutti e tre parte del piano terra di un antico palazzo grigio e perennemente in ristrutturazione. Il primo ad iniziare la giornata lavorativa è il bar, ovviamente, che trovo già aperto quando arrivo alla mattina. Poco dopo, magari mentre bevo il primo caffè brodoso della giornata, vedo il fotografo mettere la sua moto nel parcheggio all’angolo della strada, accanto al bar. Chiude il manubrio con un pesante lock nero, si toglie il casco ed entra a far colazione al bar, prima di alzare la serranda del suo laboratorio. Esce senza salutare, come se fosse un’azione autonoma scissa dalla sua personalità.  La parrucchiera è l’ultima ad incominciare.  Non appena le giornate incominciano a riscaldarsi, a metà mattina, il titolare del bar mette una piccola panchina di legno fuori dalla vetrina del locale, tra lui e la parrucchiera, e arriva sempre un po’ di gente a fare capannello. Il lunedì, l’argomento principale è lo sport, mentre già da giovedì iniziano le lamentele per il tempo che farà nel weekend e le incombenze con mogli e nipoti. Tra una cliente e l’altra, la proprietaria del salone esce e partecipa, seppur per poco tempo, a queste conversazioni, che attirano alle volte anche sei o sette nuovi astanti. Il fotografo invece non esce mai, se non per far capolino dall’uscio del suo studio e ridere delle cose vengono dette. Sempre verso metà mattina, il barista esce ogni giorno con un vassoio e porta caffè e cappuccino sia a lui che alla parrucchiera, che di quando in quando ordina anche qualcosa per le sue clienti, soprattutto acqua o tè freddo, se fa caldo. Quando entra qualche cliente nel salone, sento dalla mia scrivania il rumore del campanello della porta.
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Rimanendo aperto anche durante l’ora di pranzo, facendo da piccola tavola fredda, il bar riceve consegne da parte dei corrieri anche per gli altri due negozi.  Di solito arrivano un paio di furgoni intorno all’una, a consegnare prodotti di bellezza e risme di plastica, quando la via è vuota e invasa dal sole, che sembra una strada di un villaggio del far west prima dell’inizio di un duello. Lasciano il rumoroso motore acceso, il barista esce, si fa lasciare il pacco sulla panca mentre firma la bolla d’accompagnamento e lo porta ai vicini non appena riaprono, intorno alle tre e mezza del pomeriggio. Lo fa sorridendo, ogni volta come se fosse la prima, allungandosi sugli usci e chiamando i due colleghi di attività col suo vocione dialettale da persona del Nord.
È un meccanismo perfetto, tenuto insieme dalla routine e, se vogliamo, dalla necessità di mantenere vivo il proprio lavoro. Siamo quotidianamente strattonati, contesi e sbatacchiati da necessità di guadagnare, malattie, impegni, visite mediche urgenti, divani, lavori in casa: da soli non ce la potremmo mai fare. Ogni giorno, tutto il giorno. Anche nel calcio è così, soprattutto nel tanto vituperato calcio moderno. In squadra, ormai, come se fosse una guida, ci vuole un tratto d’unione, una persona e un ruolo in grado di tessere le fila e dare costante sicurezza in caso di bisogno. Nel calcio di oggi, privo, ormai, di terzini puri, da 4-4-2 per intenderci, Robin Gosens è diventato questo tipo di calciatore. In difesa, sì, ma sempre presente anche quando bisogna dare una mano, servire chi sta davanti e chi, soprattutto, non ha la stessa continuità alle redini della squadra.  
Il calcio, come il lavoro, deve essere un diritto fruibile a tutti. Deve essere universale, non deve rifarsi ad utopie o fatalismi. Le concezioni olandesi prima e sacchiane poi del gioco del pallone si riflettono totalmente nelle teorie di squadra adottate da Gasperini dal 2017, anno in cui Robin Gosens arrivò all’Atalanta: non siamo una squadra milionaria ma possiamo farcela, almeno sotto l’aspetto del gioco. Basta lavorare. Gosens ha quindi dovuto, in quel cantiere sportivo ai piedi delle Alpi Retiche, sudarsi una maglia da titolare. Gli esterni a Bergamo non sono mai mancati, ma cercando quella maglia si è creato uno spazio su misura, efficace e duraturo.
È un ruolo, il suo, che nell’Atalanta è andato oltre il fare la classica “spola”. Gosens non è un “motorino” degli anni Novanta (vi ricordate Marco Sgrò e la noiosa dialettica sulla sua quasi servile instancabilità?) e non è nemmeno un “pendolino” degli anni duemila. Queste similitudini futuriste non si addicono ad un giocatore sensibile alla scienza tattica come lui. Empiricamente, il tedesco ha cercato sempre di partire da tentativi ed esperienze, per affinare il suo ruolo in campo. È un tedesco, uno abituato a pensare come porebbe pensare un illuminista europeo.
Questo si chiama lavorare.
Mi domando se le tre persone dalle quali siamo partiti, quando io non sono a lavoro, magari per i weekend, non cambino atteggiamenti nei confronti l’una dell’altra. Se per esempio il sabato mattina, con gli uffici della zona chiusi, i ragazzi delle scuole a casa ed i loro genitori indaffarati a fare spesa o a valutare le offerte negli autosaloni, non stentino a salutarsi. O se non programmino una consegna in un orario in cui il negozio è aperto, per non disturbare il vicino.
Nelle azioni di tutti giorni, che compiamo o che vediamo compiere, risiede il nostro far parte di un’umanità che non potrebbe mai resistere senza imparare da queste stesse azioni.
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ufficiosinistri · 1 year ago
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Cristiano Carriero - "Football Rail"
Ventidue città di tutto il mondo descritte in ordine alfabetico. Ventidue storie legate al calcio. Storie importanti, di tifo, di imprese, di amore, di lavoro, di amicizia. Ventidue autori: giornalisti, scrittori, content creator, opinionisti, coordinati da Cristiano Carriero, che da anni ha fatto dello storytelling il suo lavoro. Questo è” Football Rail”. Un libro che inseguivo da tempo e che, finalmente, ho trovato. Dall’avveniristica e totalmente ecosostenibile Copenaghen del 2050, in lizza per vincere una fantomatica Super-Champions League, ci spostiamo nella grigia Ruhr del Borussia Dortmund dei giorni nostri, per seguire un’appassionante storia ambientata tra esodi lavorativi ed un amore nato in Südkurve.
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Viene raccontata, con occhio omnisciente, l’esperienza di Tony Adams come allenatore del Qabala, ai confini dell’Impero Romano, in Azerbaijan, per dimostrare che il pallone, nella concezione moderna del termine, possa sembrare davvero alla portata di tutti ma che, tirando le somme, in pochi possono fruirne le vicende giocate. Sotto l’aspetto politico, poi, è fondamentale l’apporto dell’esperienza di Feyzi, un tifoso del Galatasaray imprigionato dopo la protesta di Gezi park a Istanbul, durante la quale le compagini ultras più importanti della capitale si trovarono unite, per la prima volta, contro la dittatura di Erdoğan. Trovare uno stile di scrittura univoco è, ovviamente, impossibile: gli autori, che descrivono a modo loro diverse città del mondo, partendo dal gioco del calcio, utilizzano chi uno stile giornalistico e chi una via narrativa più letteraria e autobiografica. Abbiamo poi diversi racconti impostati come se fossero dei veri e propri articoli che si affiancano a storytelling frenetici ed accorati, come quello sulla famosissima, ultima partita del campionato scozzese del 1986 nella quale gli Hearts of Midlothian di Edimburgo vennero sconfitti per due a zero dai padroni di casa del Dundee United, regalando così di fatto la vittoria della competizione al Celtic Glasgow. Dura e sconsolata, invece, la cronaca, tra Helsingborg e Milano, dell’eliminazione, da parte degli svedesi, dell’Inter di Lippi. Il rigore sbagliato da Recoba a San Siro urla ancora vendetta. Liberatorio e culturalmente ricco di rimandi e prospettive, infine, è il racconto del Saint-Étienne di Dominique Rocheteau, il centravanti dagli occhi verdi che leggeva Sartre e che portò all’apice del successo quella piccola città di minatori, sperduta nel Massiccio Centrale, negli anni ’70. La lettura, nel complesso, scorre ovviamente leggera e veloce, ma vi propongo un gioco: provate a non spoilerarvi, una volta finito un racconto, il nome della città successiva. Resterete sorpresi. “U” di Ushuaia.
“E il Dukla? Un tempo amata e la più vincente squadra del Paese, oggi raccoglie una quantità limitata di tifosi. Tutta colpa della sua storia e di quel passato con l’etichetta di “squadra di regime” che si trascina ancora oggi, consegnandole il titolo di squadra meno tifata nella capitale ceca nonostante le pagine di storia sportive scritte e i tanti campioni che hanno indossato la maglia giallorossa. Le pressioni dei coetanei e il carattere molto spesso accondiscendente non sono mai bastati: Pavel si è sempre dimostrato molto intransigente nel difender quei colori e quella squadra. Il nonno, la famiglia e non solo: quel maledetto problema congenito alla colonna vertebrali non gli permesso di coltivare il suo – così come tanti suoi amici e pari età – sogno di diventare un calciatore e il tifo per il Dukla è il collante con un mondo, quello del calcio, al quale è da sempre molto legato.”
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ufficiosinistri · 1 year ago
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Giovanni Tarantino - "Calciopop"
Si parte da un punto ben definito, e cioè da un altro libro: "La tribù del calcio", di Desmond Morris. Da qui nasce tutto, dalla sua pubblicazione in poi, finalmente, vengono delimitati gli ambiti culturali del calcio moderno. "CalcioPop" deve moltissimo a quest'opera del 1981, scritta da uno dei più famosi etologi di sempre, capace, pioneristicamente, di identificare questo sport come fenomeno di massa, fuori e dentro il campo di gioco. Per ogni lettera dell'alfabeto, l’autore, il giornalista palermitano Giovanni Tarantino trova diversi collegamenti. In ambito sportivo, ovviamente, ma anche in quello culturale, sociale e politico. La ricetta è semplice, ma soprattutto efficace. Dagli eventi più importanti, che hanno caratterizzato il calcio sin dalla sua nascita, grazie a "CalcioPop", ci facciamo trascinare vorticosamente da curiosità ed aneddoti meno conosciuti. Lo scopo è evidente: Tarantino ci comunica che, inesorabilmente, il pallone sia un'esperienza quotidiana, intrisa di tutto ciò che è "pop", ossia "popolare" nel senso più vero del termine.
Se Camus tifava Racing Parigi, allora Sartre, maggiormente legato alla capitale, parteggiava per il Paris Saint Germain. E chi sapeva di quella volta di Paolo Conte al Moccagatta di Alessandria, per assistere a uno dei derby del famoso "Quadrilatero del Pallone”, tra i grigi padroni di casa e quelli della Pro Vercelli?
Il calcio è radicato nel nostro immaginario da sempre. Dai fumetti di Andy Capp al profilo di Corto Maltese in bella vista su numerosi striscioni della penisola, dalle citazioni cinematografiche alle sezioni ultras il cui nome si ispira ai gruppi giovanili raccontati nelle pellicole di Kubrick e Walter Hill, Tarantino riesce ad eludere l'aura di scontato romanticismo che potrebbe intridere il modo di raccontare questi fatti, riportandoci ad un ragionamento che parte dagli albori del gioco e del tifo calcistici.
L'urlo di Morales al gol di Maradona ripreso dal Gotan Project, l'evoluzione dei protagonisti del cartone animato "Holly e Benji", la vicenda del cosiddetto "mockumentary" riguardante il Mondiale che si sarebbe disputato in Patagonia nel 1942, in pieno conflitto bellico, al quale, per la prima volta, nessuna delle due nazioni ospitanti (Cile e Argentina) avrebbe preso parte, e che avrebbe visto vincitrice una rappresentativa Mapuche ai danni di una molto più attrezzata Germania.
Il calcio è cultura, ma soprattutto è ovunque. Nelle metafore guerresche che assimilano la difesa milanista di Sacchi alla Linea Maginot, ma anche in Silvio Orlando, operaio meridionale tifoso del Torino e trasferito per lavoro in Piemonte in "Preferisco il rumore del Mare" di Mimmo Calopresti.
L’ultima parte del volume, infine, è dedicata al movimento ultras, su cui effettua una precisa e puntuale indagine storica, che forse sembra non avere molto a che fare con il titolo e la prima parte del volume, ma che a ben vedere, riesce a spiegare mode, vicissitudini e simbologie di questo fenomeno come raramente ho visto fare in altri libri o dibattiti.
Grazie a “Calciopop”, quindi, riusciamo a capire come le rappresentazioni grottesche di Neri Parenti in “Fratelli d’Italia” e la ribellione di Fantozzi al cineforum aziendale, non siano tanto differenti dalle conclusioni sociologiche di Raoul Vaneigem o dagli articoli romanzati di Gianni Brera, quando si tratta di raccontare la cultura che, da sempre, dà linfa vitale a questo perpetuo fenomeno storico.
Adorno di illustrazioni, fotografie e disegni esplicativi, "Calciopop" è una solida base di partenza per tutti coloro che, partendo da un'iniziale infarinatura, desiderano sviluppare tematiche più precise nell'universo calcistico. Irrazionalità ed estro sono destinate per natura a sfociare in sport, e quale attività se non il pallone può essere causa, ma anche effetto, dei nostri più normali comportamenti quotidiani?
"Proprio al medioevo risalirebbero le radici della passione popolare per lo sport anche secondo lo storico e antropologo olandese Johan Huizinga, autore di "Homo Ludens": lo sport come reazione spontanea a un modello di modernità che cercava di emarginare.
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il fattore ludico ed estetico della vita sociale. << Né il liberalismo, né il socialismo offrirono allo sport terreno favorevole. La sopravvalutazione del fattore economico nella società e nello spirito umano era in un certo senso il frutto naturale del razionalismo e dell'utilitarismo, i quali avevano ucciso il mistero.
Gli ideali di lavoro, di educazione e di democrazia lasciavano a malapena posto all'eterno principio del gioco.>> E allora il calcio riappare come la riemersione di tutta l'energia vitale rimossa dalla società produttivistica ed ecco motivati i riferimenti ai modelli antichi e medievali."
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ufficiosinistri · 1 year ago
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Vincenzo Paliotto - "Splendori del calcio socialista"
What will you be reading this weekend?
Puntata numero 15
Vincenzo Paliotto – “Splendori del calcio socialista”
Il calcio nei paesi aderenti al Patto di Varsavia è stato un calcio violento e sperimentale. E non avrebbe potuto essere altrimenti. La politica, le guerre, i conflitti, impregnavano la dimensione calcistica in modo intrinseco più di qualsiasi altra epoca storica, assurgendo a ruolo apicale, più che di pretesto. Credo che il libro di Vincenzo Paliotto “Splendori del calcio socialista” abbia come scopo quello di spiegare letteralmente questo periodo storico, narrandone l’aspetto a noi più caro, quello del calcio, per farci comprendere più a fondo gli eventi.
Conoscenza. Si chiama così.
L’autore prende in esame nazione per nazione il gioco del pallone, descrivendo e raccontandone gli aneddoti meno noti, ma non per questo di minore rilevanza, di squadre locali e nazionali. Si parte dalla Bulgaria per poi arrivare alla Romania del presidente Nicolae Ceaușescu, che pone il veto sulla cessione di Hagi alla Juventus nonostante la promessa, da parte di Agnelli, di aprire uno stabilimento Fiat in Romania. Sempre rimanendo in zona, poi, Paliotto dedica un capitolo all’Universitatea Craiova, autentica outsider nei campionati nazionali nella quale militava il fortissimo Oblemenco, e a Barbulescu, artefice della storica conquista, da parte dello Steaua Bucarest, della Coppa Dei Campioni del 1986.
La Jugoslavia titina, ovviamente, viene messa al centro dell’indagine giornalistica di Paliotto, citando la finale, sempre di Coppa dei Campioni, contro i franchisti del Real Madrid del 1966, disputata dal Partizan Belgrado che aveva come capitano, al centro della difesa, quel Velibor Vasović, figlio di partigiani rossi, destinato a far parte del primo grande Ajax di quel calcio totale, definito a buon diritto la realizzazione più socialista di sempre avvenuta una disciplina sportiva. Forse ancor più della Russia calcistica, eterna incompiuta, che mentre alle Olimpiadi eccelleva in quasi tutte le discipline atletiche, all’Europeo del 1988 incocciava contro l’Olanda (che coincidenza!) di Van Basten.
Abbiamo le azioni, abbiamo le descrizioni dei gol, abbiamo gli aneddoti. Minuziosamente e, soprattutto, mai attraverso una vena nostalgica, ci viene descritto tutto, in questo volume edito da Urbone Publishing. Dalle scappatelle amorose di Müller in Albania alla gloriosa storia del Carl Zeiss Jena finalista in Coppa delle Coppe, per arrivare alla storica “riabilitazione”, dopo una squalifica, di Garrincha, in occasione della finale mondiale del 1962 in Cile contro la Cecoslovacchia, che senza di lui come avversario avrebbe potuto, forse, riscrivere la storia moderna di questo sport.
La bravura di Paliotto sta nell’affiancare puntualmente, in questo volume, gli aspetti sportivi con quelli storici, senza che gli uni risultino mai preponderanti sugli altri, raggiungendo il lettore in modo semplice e dinamico. Il rischio di scadere nella sommarietà delle informazioni fornite è grande, ma “Splendori del calcio socialista” non riflette nient’altro che materialismo e verità.
Dimostrandoci che Dragan Džajić, alla fine, segnando a Zoff negli Europei del 1968, abbia solamente compiuto il suo dovere di socialista. Perché il calcio che giocava era violento in quanto vitale, e sperimentale in quanto vincente.
“Intorno al quindicesimo minuto il rude difensore Rafael Angel, come nella peggiore scuola del calcio spagnolo, con un intervento frantumò la gamba di Kipiani, tenendolo lontano dai capi da gioco per molto tempo. L’arbitro belga Schoeters, uno chiaramente compiacente alla causa madridista, fece finta di nulla, ma Angel al 45’ fu costretto a lasciare il posto a Garcia Hernandez per evitare un’autentica caccia all’uomo da parte dei sovietici. La Dinamo, senza Kipiani e innervosita da quell’episodio, naufragò per 4-2.
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Era stato un vero e proprio agguato alla carriera di Kipiani, che i madridisti finirono per scontare gravemente. Il PCUS, infatti, si indispettì e bloccò un eventuale trasferimento di Blokhin al Real Madrid, sebbene l’allenatore madridista Boskov avesse messo al principio della sua lista dei desideri il nome di Gutsaiev, il finalizzatore delle giocate di Kipiani.”
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ufficiosinistri · 3 years ago
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Ain’t no flowers
Eravamo seduti ad un tavolo, a Oviedo. Il locale era una rosticceria, di quelle frequentate in pausa pranzo, da parte di impiegati e operai. Quando ci accomodammo al tavolo di legno lucido, adorno di tovagliette e posate di plastica, notai una patatina per terra. Era lì da un po’ di tempo, perché era sporca e impolverata. Alcune formiche le giravano intorno con aria circospetta. Era estate, c’erano gli insetti, le mosche, in giro, dappertutto. La gente entrava e usciva, mangiava e beveva. Era un giorno feriale, per la maggior parte delle persone presenti nel locale: mangiavano in fretta, si aggiustavano le cravatte, sorridevano l’una con l’altra. Per noi, invece, era vacanza. Un giro della Penisola Iberica a bordo di una Jetta. Non vi era musica, nell’aria: i rumori dall’esterno entravano prepotentemente nel bacalino e, in modo graduale, cominciavano a far parte delle conversazioni dei presenti. Che sembravano intontiti dalla loro routine, anestetizzati nelle loro pause pranzo asturiane. La patatina fritta, che fritta non lo era più da epoche, giaceva inerme, ed era diventata quasi marrone. La disprezzavo. Avevamo passato la mattina a visitare la città e avevo fame, ma quella presenza mi inquietava. Chi l’aveva lasciata cadere, prestando poca attenzione al desco al quale si trovava ed alle sue misure, alla sua larghezza? E perché, soprattutto, non l’aveva raccolta, lasciando in tal modo l’incombenza a un futuro avventore o, come più naturale che fosse, a un addetto alle pulizie della rosticceria? Se la stava portando alla bocca per poterla masticare oppure era sfuggita essa stessa dal suo cartoccio, rotolando prima sui pantaloni del distratto cliente e poi finendo a terra? Era ben salata? “Quello che importa, è quello che c’�� sul tavolo”, mi spronò mia madre, accigliata. Voleva che iniziassi a sbranare come un grizzly di Glacier Park il mio pesce, costato poche pesetas. Ma non ci riuscivo, non riuscivo a mangiare sapendo che ci fosse quella patatina sul pavimento, tra le nostre scarpe da ginnastica che avevano già camminato molto, per i Paesi Baschi, per le Asturie e per Madrid, città natale di Rafael Benitez, l’allenatore che diede fiducia ad un terzino sinistro norvegese di nome John Arne Riise sin da quando arrivò, nel 2004, come allenatore al Liverpool. Non che i rapporti tra i due furono sempre cordiali, anzi. Coniugare un ferreo castigliano con uno scandinavo rosso. Nel Merseyside, poi. Impresa quanto mai rischiosa. Eppure, i due, concentrandosi sull’importanza di quel ruolo per affrontare le squadre europee più forti, tralasciando possibili dissapori e incongruenze, ci riuscirono. Quello che importava, era quello che c’era sul tavolo, non per terra. Non riuscii a toccare cibo per una buona decina di minuti, da quando praticamente mi arrivò sul tavolo. 
Era del pesce proveniente dall’Oceano Atlantico, contornato da verdure e salse. I miei pensieri erano rivolti alla sporcizia, alla neglettitudine di quel posto, più infame di una baracca nonostante fosse dislocato nel centro storico di una città bellissima che mi ricordava l’Europa dell’est. Acquisti del venerdì mattina, a caso. Persone che affollano i centri delle città e dei paesi, vagando alla ricerca di qualcosa da comprare. Viso aperto, fronte alta. I giorni di sosta, per loro, sono già incominciati. Nei paesi, il fenomeno è ancora più tangibile. Le commesse di un negozio di vestiti si lamentano perché, tutto d’un tratto, la radio, che diffonde musica nei locali del negozio, tenuta a volume altissimo per contrastare i rumori dei clienti, si spegne, senza più riaccendersi. Vengono così costrette ad ascoltare cose succede all’interno del loro posto di lavoro. Mormorii, gente che si chiama, bambini che si lamentano, stampelle di metallo lasciate cadere rovinosamente sul linoleum, borse che vengono appoggiate con vigore alle sedie dei camerini, luci che traballano, in quella corsa agli acquisti del venerdì. Il rendersi conto di questa mancanza le rende nervose, come se avessero preso coscienza del fatto di dover lavorare mentre altra gente, quasi svogliatamente, sfruttava il proprio tempo libero comprando oggetti, beni. Dover lavorare per altri esseri umani. Nella finale di Istanbul, il madrileno sposta Thunderbolt in avanti, sulla linea dei suoi centrocampisti più fidati, quelli voluti da lui, in persona, per poter riportare grande Liverpool partendo dalla costruzione del gioco. Si chiamano Luis García e Xabi Alonso e sono, rispettivamente, catalano e basco: non propriamente i classici gonzi castigliani che potevano far gola a Rafa, quindi. Tra lui e i due iberici c’è, ovviamente, Gerrard, capace di riunificare sotto un’unica egida terzini, esterni e mediani vecchia scuola. Il Liverpool di quell’annata è tutto qui. Dietro di lui, poi, gioca un altro terzino, che ora fa l’allenatore dei rossi e amanti della musica grunge Sounders. Djimi Traorè. Questo esperimento, all’inizio, però, non funziona. Kewell e Baros sono troppo leggeri e lo stesso Riise sembra aver paura. Sta facendo l’ala, non il terzino. Cafu non è un ospite da trattare a cuor leggero e passa sempre da lì, da lui, da quella parte. Ha paura anche se la sua squadra si trova sotto di tre gol e crossa da lontano, da un recupero, il lancio non è nemmeno molto teso. 
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Il terzino destro brasiliano stavolta è fermo. Dida guarda il pallone, non sembra nemmeno sforzarsi più di tanto, per raccogliere quel colpo di testa a spiovere del capitano. Da quel cross, nato da un pallone raccattato per caso, prese vita una delle più famose rimonte della storia dello sport. Perché l’importante è crossare, come il considerare solo ciò che rimane sul tavolo, da mangiare, senza curarsi di ciò che sia avvenuto prima.
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