#truculenters
Explore tagged Tumblr posts
Text
youtube
Maïté déguste un ortolan...
Hommage à Maïté (Marie-Thérèse Ordonez) ,icône de la gastronomie française à Ia tél��vision 🌹❤️🎈 R.I.P 🕊
La cuisine des Mousquetaires
👋 Bel après-midi
#hommage#rip#maïté#cuisine#ina culte#ortolan#gastronomie#la cuisine des mousquetaires#humour#funny video#gif animé#truculente#cuisinière#tv#bel après-midi#fidjie fidjie#Youtube
32 notes
·
View notes
Text
(Rivolgendomi direttamente a Pavese:)
《 Sto completando la lettura di Paesi tuoi in un solo giorno, perché è molto coinvolgente.
C'è una povera ragazza uccisa da un fratell(astr)o che già prima l'aveva sverginata: una storia forte, che si mischia agli odori della campagna. C'è il protagonista, ultimo arrivato, che viene dalla civile Torino e si scontra con un ambiente rurale atavico, in apparenza accogliente - ma refrattario nel suo nucleo, composto da persone ignoranti.
La terra e il sangue sono i due elementi simbolici fondanti del mito, che si ritrovano, evidentissimi, in questo racconto.
[...] In una tua lettera dici che, se non avesse agito su di te quel poco di educazione ricevuta, saresti stato un banale "tipo da coltello". 😁
~ ~ ~
Devo ancora terminarlo, me ne restano alcune pagine, e non ho fretta. Ho letto evidenziando le rese narrative più magistrali, perché voglio capire come facevi a raccontare le cose: voglio "smontare la macchina", insomma, non solo leggere la storia per vedere come va a finire. Capisco perché sei ritenuto un autore importante: sei senza dubbio originale e "mimetico", adotti il linguaggio e persino il ritmo dei pensieri del protagonista.
Sai raccontare tanto bene le donne e l'effetto che fanno su un uomo. Infatti la povera ragazza, prima di essere uccisa, stava avendo una delicata e sensuale storia d'amore col protagonista. Ma vincono l'insensatezza e la brutalità del fratell(astr)o "tonto"...
Una lotta tra bestialità e civiltà, tra anarchia morale ed etica ragionata, tra cervello da rettile e cuore umano.
Il cittadino viene messo in mezzo e buggerato dal campagnolo, che non dispone di furbizia, ma del mero istinto dell'animale che si muove nel proprio habitat.
Si vede che avevi un rapporto ambivalente con le donne: un po' ti facevano tenerezza e le volevi coccolare, poi però pensavi a ciò che ti avevano fatto, alle tue difficoltà con loro, e allora ti saliva la rabbia e avresti voluto distruggerle insieme al dolore che ti davano.
È interessante che ti accada di provare "pena" per una ragazza: anche in questo romanzo, come già nel Diavolo sulle colline, il tuo protagonista prova questo sentimento per la ragazza che gli piace, mentre ella, avvicinando la faccia a lui perché la baci, si blocca per qualche istante, e sembra che stia cercando di guardare la propria faccia con lo sguardo di lui, temendo di non essere voluta, e rivelando la propria insicurezza.
~ ~ ~
Ho terminato di leggere nel giro di poche ore il tuo romanzo breve. Dicono che tu sia uno scrittore amato dai giovani, ma io credo che questa storia così forte, pur se il protagonista è un venticinquenne, vada letta da persone adulte ed esperienti. È una storia archetipica, mitica, sulle pulsioni maschili più turpi: violare, possedere gelosamente, uccidere la donna. Il tutto, esasperato dall'ambiente chiuso, ignorante e fatalista della campagna. Sembra una tragedia greca, una tragedia annunciata, un passaggio obbligato del destino (un po' come il tuo suicidio e altri fatti di sangue che tuttogiorno accadono).
Credo che in paradiso non si possano più scrivere opere così truculente. Chissà come ti trovi in ambiente spirituale, senza questa materia ardente da plasmare. Sono preoccupata. 😅
È una bellissima risposta, grazie. 💗 La ricorderò, perché il tuo stato è una delle mie frequenti preoccupazioni.
Ho ammirato molto la precisione e varietà lessicale nel tuo romanzo: io ti abbraccerei infinitamente anche solo per la quantità di parole che conosci e per il gusto con il quale le adoperi. Altro che ufficiale! Non ho mai considerato affascinante la divisa, non m'interessano i gradi e le cariche militari e civili, m'incanta solo la tua umanità, così com'è: gli sforzi che fai per vivere, ciò che ti si agita dentro, la tua cultura, intelligenza, buon gusto; amerei anche la tua depressione, ma amo molto di più non vederti soffrire.
Adesso continuerò a leggere le tue Lettere. Quando incontrerò lettere indirizzate a donne, cercherò di non essere gelosa, pensando che una come me non l'hai incontrata mai, e praticamente con me la tua esperienza di donne riparte da zero. 》
14 notes
·
View notes
Text
House of the Dragon 2, Episodio 6 (Smallfolks): Women Power!
È un passo a due quello del sesto episodio della seconda stagione di House of the Dragon (2x06): Rhaenyra e Mysaria, Daemon e Alys, Aegon e Aemond. Una danza parallela a quella dei draghi, ma che non si evolve come vi aspettereste.
House of the Dragon* continua sulla scia delle puntate che solo apparentemente sono statiche, di strategia e non di azione, ma è solo un'impressione. Lo spin-off del Trono di Spade, con il sesto episodio della seconda stagione si avvicina verso il gran finale. Tuttavia, dopo il quarto sconvolgente episodio, qualcuno si è lamentato dell'eccessivo andamento altalenante della narrazione.
Emma D'Arcy e la sua Rhaenyra rimangono uno dei fiori all'occhiello della serie
Dispiace leggerlo in giro perché sembra che gli spettatori non abbiano più pazienza. Pazienza di gustarsi l'episodio settimanale con calma; pazienza di attendere gli sviluppi dei personaggi e delle storyline, che non sono sempre immediati, come la scrittura originaria di George R.R. Martin, del resto, insegna. Poi, la pazienza di non pretendere svariate morti truculente in ogni episodio, altrimenti anche il realismo drammatico in salsa fantasy del mondo delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco rischia di sgretolarsi.
La rivincita dei "bastardi"
Nel finale del quinto episodio Rhaenyra (Emma D'Arcy) insieme al primogenito Jace (Harry Collett) aveva avuto la folle idea (degna del nome della Casa che porta) di riunire gli eredi di altre famiglie di Westeros che avevano del sangue Targaryen nelle vene da antiche discendenze per provare a forgiare nuovi cavalieri di draghi. Perché, nella Danza dei Draghi oramai entrata nel vivo, bisogna averne di più, averli più grandi e saperli cavalcare. Purtroppo la Regina legittima erede al Trono di Spade ne ha persi due in poco tempo: prima quello di Daemon (Matt Smith), oramai arroccato ad Harrenhal preparando sostanzialmente si un'offensiva contro i verdi ma anche contro la moglie; e poi Rhaenys il cui drago è stato ucciso in battaglia, creando stupore e scalpore in tutto il regno.
In quest'ottica l'idea potrebbe essere geniale… oppure rivelarsi un pericoloso fiasco totale: se andrà male, chi altro senza sangue puro e primario potrà mai avere il coraggio di avvicinarsi nuovamente ad una di quelle mitiche creature sputafuoco? Questi "pretendenti" non sono gli unici "bastardi" (non in senso letterale) estraniati su cui si concentra la puntata: torna il fratello di Daemon e Viserys, che torna in un cameo inaspettato attraverso le visioni del Principe Consorte e che farà felice i fan, torna il fratello di Alicent che la aggiorna sull'altro suo figlio, Daeron, riflettendo su come sarebbero state le loro vite se il padre Otto avesse puntato tutto sul primogenito e non su di lei.
Una donna tra gli uomini
Proprio Alicent (Olivia Cooke) è di nuovo al centro dell'episodio in modo speculare rispetto a Rhaenyra e in questo House of the Dragon continua il discorso sul women power della scorsa: come dicevamo, due fazioni, stessa famiglia allargata, due concili ristretti eppure stesse problematiche da affrontare per le due Regine e stesso ragionamento patriarcale figlio del tempo fantastico, ma a tratti socialmente fin troppo reale, che racconta. Eppure proprio in questo spin-off venuto temporalmente ben prima degli eventi, Ryan Condal riesce ad essere ancora più moderno e legato ai tempi che corrono.
Il verde del vestito di Alicent è di nuovo protagonista e simbolico
Con un plot twist perfettamente coerente col racconto imbastito finora che riguarda Rhaenyra e che la conferma un'abile stratega grazie anche alla sua (oramai) consigliera Mysaria (Sonoya Mizuno), riesce a fare, metaforicamente parlando, breccia tra le mura di King’s Landing. Alicent invece partendo da suo padre Otto continua ad essere usata da tutti gli uomini della sua vita - compreso Ser Criston, se ci fermiamo a riflettere un attimo - e, quando ha mal interpretato le parole del marito in punto di morte, pensava di poter controllare Aegon ed ora si è ritrovata per le mani il regno del terrore di Aemond (Ewan Mitchell), che è pronto a distruggere tutto quello che c'è stato prima in nome del piano machiavellico che ha in mente.
Fratelli coltelli
Il sadismo di Aemond la fa da padrone nella puntata
Il sesto episodio è davvero un eterno passo a due tra le coppie di personaggi citate, in precedenza, e tra queste non si può escludere proprio il Re Usurpatore e suo fratello con la benda sull'occhio. Ci sono almeno due sequenze profondamente inquietanti e disturbanti tra i due Targaryen che lasciano col fiato sospeso. Così come qualche altra scena particolarmente avvincente che passa solo in parte all'azione ma che contribuisce a giocare con lo spettatore che dalla narrativa di Martin si aspetta sempre il peggio dietro l'angolo.
Non sono gli unici due parenti di sangue che si confronteranno in questo episodio, mentre Alys Rivers (Gayle Rankin) - altro personaggio sempre più chiave proprio come Mysaria - continua con le proprie affermazioni sibilline e il proprio carisma magico e mistico, consigliera di un uomo sempre più in balia dei propri demoni, di nome e di fatto. Parallelamente il serial affronta la questione sociale del popolo affamato, e ancora una volta le due parti della stessa Casa avranno un atteggiamento molto diverso sul problema. La risposta, neanche a farlo apposta, è nei draghi.
Conclusioni
In conclusione Il sesto episodio della seconda stagione di House of the Dragon (2x06) è sicuramente un episodio di passaggio – il precedente era più un “post mortem” - ma allo stesso tempo è ricco di sequenze angoscianti e piene di significato che ci dicono molto sui personaggi e sulla loro involuzione più che evoluzione. È come se stessero tutti sprofondando in un abisso sempre più nero dal quale sarà difficile tirare fuori qualcosa di buono. A rimetterci però è sempre il popolo dei Sette Regni, che inizia ad insorgere pesantemente e pericolosamente.
👍🏻
Strutturare la puntata a coppie di personaggi, consanguinei e non, con qualche colpo di scena in canna.
Il sadismo di Aemond.
L’idea dei consanguinei “latenti” in una serie sulla successione di sangue.
È un episodio sicuramente di passaggio (anche se in realtà ricco di vari spunti narrativi).
La perdita della bussola di Daemon potrebbe urtare i fan del personaggio, n ma resta in linea per come ci era stato presentato fin dall’inizio della serie.
👎🏻
In molti sicuramente troveranno qualcosa che non va, del resto è l'hobby del fandom di Hotd di questionare su qualsiasi dettaglio, ma per questa puntata mi astengo perchè non ho trovato nulla di rilevante che non mi sia piaciuto.
#house of the dragon#house of the dragon season 2#rhaenyra targaryen#alicent hightower#house targaryen#hbomax#hbo#hotd 2#hotd#house of dragons#hotd season 2#viserys targaryen#haelena targaryen#hotd spoilers#hbo house of the dragon#aemond targaryen#daemon targeryan#aegoniitargaryen#helaena targaryen#corlys velaryon#mysaria#gwayne hightower#criston cole#rhaena targaryen#joffrey velaryon#addam of hull#alyn of hull#hotd2#hotd s2#recensione
9 notes
·
View notes
Text
Entorse : Star Wars Prequel fanfiction
Une courte fic, la septième de ma série "Dans la ronde immobile", sur les mésaventures d'Obi-Wan et d'Anakin avec le Conseil Jedi.
https://archiveofourown.org/works/55270888/chapters/158507101
Skywalker n’était pas un grand conteur. Peu de padawans avaient cette qualité à treize ans. Si quelques uns faisaient preuve de précocité dans ce domaine, comme le propre maître d’Anakin, le jeune Jedi Obi-Wan Kenobi, qui donnait l’impression d’avoir négocié jusqu’au lait du sein de sa mère (un comportement pourtant biologiquement impossible pour un nourrisson humain, quoiqu’il fût courant chez les wookies), ou Jocasta Nu, qui discourait à la manière d’un hololivre, et des plus passionnants, bien avant de devenir la bibliothécaire de l’Ordre, la plupart des beaux parleurs acquéraient leur talent progressivement, au fur et à mesure que leurs missions se complexifiaient, et leurs rapports au Conseil d’autant.
Ainsi Dooku, par exemple, n’avait manifesté en public sa langue aiguisée, avec laquelle Yoda avait déjà fait ample connaissance durant son apprentissage, qu’au sortir de l’adolescence, pour rendre compte de ses premiers mandats en solo. Cependant, deux ou trois décennies plus tard, il retraçait ses mésaventures de gardien la paix galactique d’une façon si tordante que tous les membres du Conseil s’efforçaient d’être présents en personne à chacun de ses retours au Temple. Même le vénérable Alxa Kress, qui n’avait rien d’un rigolo, était plié de rire par les descriptions truculentes que Dooku dressait des énergumènes qui fréquentaient les ports spatiaux et les tripots interlopes où l’avenir des planètes se jouait si souvent pour une poignée de crédits.
Ce savoir-faire s’était transmis à Qui-Gon, qui y avait ajouté sa fantaisie propre, avant d’être désormais investi par Obi-Wan.
De toute évidence, Skywalker n’en avait pas hérité.
« Et donc les explosions dans la raffinerie étaient causées par le mauvais entretien des tuyaux, et pas par les bombes des terroristes crolutes, même s’ils sont bien actifs dans la région. Nous avons apporté les preuves de ça aux Gilliands. Elles n’étaient pas contentes du tout, mais notre mission était finie, alors nous sommes partis.
– Mmm, commenta Yoda. Succinct, ton résumé se montre, jeune Skywalker. Un atout, la brièveté est, quand toutefois rien on n’oublie. »
À côté de son padawan, Kenobi se mordit la lèvre dans une mimique qui pouvait indiquer la contrition… ou l’envie de rire. L’agitation de la Force trahissait la seconde option, mais le vieux maître de l’Ordre l’ignora pour le moment et continua à fixer son apprenti. Anakin soutint son regard sans ciller, avec toute l’insolence propre aux ados, à laquelle s’ajoutait une bonne dose de made in Skywalker.
« Dis, tu ne nous as pas, comment blessé, tu t’es, mmm ? »
D’un coup d’oreille, Yoda désigna la jambe gauche de Skywalker.
« Ah, euh… »
L’apprenti leva un visage paniqué en direction de son maître, qui se contenta de hausser un sourcil. Beaucoup trop satisfait de laisser son padawan se dépatouiller, Obi-Wan semblait, songea Yoda. Et Anakin dut se dire la même chose, parce qu’il carra tout à coup les épaules et se retourna vers Mace et Yoda avec une détermination nouvelle.
« C’est juste une entorse, maîtres.
– Pourtant, le bilan de la guérisseuse qui t’as soigné au Temple n’indique pas de foulure mais des brûlures au deuxième degré », intervint Saesee, qui venait manifestement de consulter le registre de l’infirmerie.
D’ordinaire, Mace, qui était très à cheval sur le bannissement des distractions, réprimandait toutes celles et tous ceux qui se connectaient à l’holonet pendant les séances du Conseil. Mais, cette fois-ci, il n’y prit pas garde, trop intrigué lui aussi par l’explication qu’allait fournir Skywalker à son mensonge.
« Non, je veux dire que c’était juste à cause d’une entorse au règlement. En tout cas, c’est comme ça qu’Obi-Wan a appelé sa décision de percer le pipe-line qui desservait la capitale, pour causer un incendie dans une zone sans risque et forcer les Gilliands à faire les réparations qu’il fallait avant que d’autres ouvrières de leur usine soient blessées. Nous n’avons pas maîtrisé le feu tout à fait comme prévu et je me suis brûlé quand nous sommes partis en courant. »
Cinq paires d’yeux et sept hologrammes se tournèrent simultanément vers Kenobi, qui se mordait encore la lèvre. Même après sept cents ans à les fréquenter, Yoda avait parfois du mal à identifier les expressions des humains, mais la Force, elle, ne permettait pas de douter : Obi-Wan ne pensait plus à rire.
Il avait tort, d’après Yoda. Mais bon, il en allait souvent ainsi : si sérieux, ces jeunes Jedis étaient… quand ils ne faisaient pas n’importe quoi.
#fanfic#fanfiction#ao3 fanfic#star wars#star wars prequels#jedi council#jedi culture#jedi order#anakin skywalker#obi wan kenobi#yoda
4 notes
·
View notes
Text
Come funzionano i normies, nel caso venga ucciso un bambino:
A) Se sono stati i pedosatanterroristi: Ci vorrebbe la pena di morteeee (seguono istruzioni truculente a piacere) / invadiamo l'Iraq o altro Paese a piacere uccidendo 2/300.000 bambini.
B) Se è stato un uomo: Colpa del patriarkatoooo, facciamo una marciaaaa / diamo soldi alle nostre associazioni fascidemocomuniste contro il Patriarkatooo.
C) Se è stata un donna: poverina era depressa.
3 notes
·
View notes
Photo
OUVRAGE | Petite Histoire de France (Jacques Bainville): l'édition reliée disponible ➽ http://bit.ly/Petite-Histoire-France-Bainville Comportant 60 dessins et lithographies couleur, cet ouvrage est un véritable album vivant s'adressant aux jeunes et aux moins jeunes, qui y trouveront matière à apprendre ou à se remémorer certains points-clés de notre passé. 20 siècles d’une Histoire de France riche et truculente !
5 notes
·
View notes
Text
Cambiamo canale, cambiamo il linguaggio
E' proprio quando viene la tempesta che riconosci i Marinai esperti.
E' proprio quando viene la bufera, è quando i venti gridano più forte, è quando sembrano demoni le fiumane urlanti della storia, che l'essere umano può sperimentare la potenza del proprio spirito.
E questo mi pare uno di quei tempi in cui ciascuno potrà misurare l'ampiezza e la profondità del proprio cuore.
Già vediamo le cimici e le pulci della storia acquartierarsi tra le carni insanguinate e le immondizie più truculente.
Già le vediamo le iene e gli sciacalli, le bisce viscide di laguna e gli scarafaggi affaccendarsi tra cadaveri e letami.
Sempre la tempesta rivela tutti i sottofondi delle navi, che mentre affondano rilasciano ratti e parassiti.
E' allora che il Capitano, fedele all'Albero Maestro, sostiene tutta la nave, restando fermo, pieno di fiducia, incrollabile, pronto a morire, raccoglie i pochi coraggiosi, e varca indenne il muro delle onde colossali.
Restiamo, amici, fermi nell'Occhio del Ciclone.
Fermi e fedeli.
Saldi e felici, nonostante tutto.
A volte con la cera nelle orecchie, per non sentire il canto ingannevole delle Sirene, che vogliono solo portarci a fondo.
Custodiamo il nostro cuore come una madre protegge il figlio che cresce nel suo seno.
Noi tutti stiamo partorendo.
Anche se sembra incredibile.
Eppure se poni l'orecchio sul ventre rigonfio della terra, potrai sentire chiaramente il bimbo che scalcia già, felice.
Marco Guzzi
5 notes
·
View notes
Text
Les Indes fourbes d'Alain Ayroles et Juanjo Guarnido
Avec Les Indes fourbes, Alain Ayroles termine les aventures truculentes de Don Pablos de Ségovie, héro d’un roman du XVII siècle dans l’Amérique Espagnole. Le dessin de Juanjo Guarnido, à la fois précis et jouant avec les exagérations, se marie parfaitement avec le scénario déjanté. Les couleurs de Jean Bastide et Hermeline Janicot-Tixier viennent couronner le tout. Découvrir
3 notes
·
View notes
Text
[L’INVITÉ] L’hommage de Gollnisch à Le Pen : « L’instinct de partir au combat »
Sur les traces du président-fondateur du Front national et au fil d’une aventure politique sans égale, Bruno Gollnisch dévoile l’origine de cet extraordinaire amour du pays, tord le cou à quelques idées reçues, évoque les sacrifices et les satisfactions d’une vie politique toute entière dédiée aux Français et donne quelques conseils aux plus jeunes. Une invitation truculente à se battre, encore,…
youtube
View On WordPress
0 notes
Text
Memorie di un Utero
Angela avanza lungo il corridoio principale con le spalle rigide. Trascina un carrello cigolante, pieno di barattoli di vernice, manichini scomposti, proiettori, tele di lino grezzo. Le ruote sferragliano sulle piastrelle spaccate, amplificando i suoi passi in un’eco di ferraglia e polvere. È un ex-ospedale psichiatrico e lei ne ha ottenuto l’uso temporaneo: installerà proprio lì una performance intitolata “Memorie di un Utero”. Ora è sola all’interno, anche se non riesce a scrollarsi di dosso l’impressione di essere osservata. Non c’è luce naturale: le finestre, laddove non oscurate da assi di legno o rotte, sono coperte da uno strato di polvere e muffa che filtra ogni bagliore in un’ombra pallida e sporca. L’odore di umidità, flaconi farmaceutici lasciati a scadere e calcinacci marci la colpisce come uno schiaffo. Sapeva che il posto fosse abbandonato da anni, ma non immaginava un degrado così angosciante e crudo. Sopra la sua testa, i neon lampeggiano senza costanza, alternando spirali di buio a momenti di brutale candore. Si ferma davanti a una porta con una targhetta scrostata: “Reparto Femminile – Terapie Avanzate”. La targhetta è incrinata da un taglio verticale, come se qualcuno l’avesse colpita più volte con uno scalpello. Si stringe nelle spalle: le hanno permesso di usare il piano terra e il seminterrato per l’allestimento. L’idea è far passare i visitatori in un percorso sensoriale sul mestruo, sul dolore femminile mai riconosciuto, sulle cicatrici inflitte dalla medicina eteronormativa di stampo patriarcale. Vuole che il visitatore ne esca sconvolto, senza scappatoie retoriche: un corpo che sanguina e soffre non va nascosto, va guardato nella sua verità. Le parole che ha usato per presentare il progetto raccontavano di una “immersione totale nel liquido mestruale, metaforico e tangibile”. Forse si è spinta troppo oltre, ma a lei importa soltanto che il messaggio arrivi con la brutalità di un ceffone.
Spinge la porta con un braccio. La maniglia si blocca, lei forza un po’ e la vernice scrostata cade a terra in scaglie. Varca la soglia e si accorge subito che il neon in quel corridoio è rotto: un sottile coltello di luce del tardo pomeriggio filtra da una sequenza di finestre a bocca di lupo. Quell’illuminazione pigra rivela cumuli di ragnatele che imbiancano gli angoli e macchie scure regalate da un’inondazione di un decennio prima e che ora sembrano solo volti ghignanti. Angela fa scorrere il carrello tra i detriti, si ferma in mezzo al corridoio e inizia a fare la rassegna dei materiali. Deve verificare le dimensioni delle varie stanze, disporre gli oggetti di scena, lavorare all’impianto elettrico, controllare i proiettori, ripulire come può gli ambienti: c’è tanto, tantissimo da fare. Fa qualche passo verso la prima stanza e un’incrinatura sotto le sue scarpe si frantuma in un nugolo di piastrelle. Un lembo di terra polverosa rivela i sottostrati: c’è una patina color ruggine, impregnata di liquidi ormai secchi. Medicinali, disinfettanti? O forse altro. Apre la porta a sinistra, sbircia dentro. Un vasto stanzone, con al centro un vecchio lettino operatorio, macchiato su tutta la superficie, e un odore di gomma rancida. I muri sono ingrigiti, l’intonaco sembra pronto per cadere del tutto. Il soffitto presenta un’ampia chiazza nera, forse dovuta a un incendio o infiltrazioni di cui nessuno si è occupato. Sarà l’ideale per la “Sala d’Attesa” che ha in mente: un manichino femminile, aperto in due, da cui fuoriusciranno cavi rossi simili a viscere, collegati a schermi che proietteranno a ripetizione le scene più truculente dei migliori pulp. E in sottofondo, registrazioni di gocce che cadono ritmicamente, come un flusso di sangue. Ha anche preparato una playlist di scrosci e gorgoglii per rendere l’idea di un utero che esonda.
Avverte un formicolio alle mani. Non è la prima volta, da quando è entrata. Si domanda se sia solo tensione o se la causa sia un’altra: è come se il suo corpo stesse reagendo all’edificio e l’edificio stesse reagendo alla sua presenza. Che pensiero sciocco, scuote la testa, cerca di ignorare quella sensazione. È stanca, ha dormito male, spinge via i pensieri. Prepara il cavalletto. Appoggia un proiettore su un tavolino corroso, poi inizia a prendere misure con un metro. Mentre conta i centimetri, gli angoli dei suoi occhi si riempiono di ombre. Si volta di scatto, ma non c’è nessuno. Eppure, sembrava una sagoma umana. Cerca di ricordarsi se quelli della cooperativa le hanno parlato di un custode o di un guardiano del luogo. Sbircia nel corridoio: il silenzio è compresso, come se l’aria fosse in attesa di qualcosa. Prova una sorta di nausea e un retrogusto ferroso risale su per la gola. L’ansia avvelena l’entusiasmo, ma sa che deve continuare, non si lascerà spaventare da un posto malandato. Ha lavorato in condizioni ben peggiori, tipo quella volta che è dovuta restare da sola per una notte intera in un casolare abbandonato in alta montagna. Monta un paio di luci portatili e le accende, creano un bagliore giallastro che vibra su una lunga parete divisoria scorticata. Lì metterà l’installazione ��È tutto nella tua testa”: grezze e spesse passate di vernice rossa, fiotti di resina porpora che sgorgheranno a intermittenza dall’alto grazie a un sistema di carrucole. Ha portato con sé bottiglie di vernice speciale, più densa del normale, da spalmare con guanti e spatole. Userà colla vinilica mista a curcuma e curry per ricreare l’odore selvatico e primordiale del muco mestruale. Il progetto è simile a un pollock di liquido ematico, ma con la consapevolezza di un flusso ciclico doloroso e sintomo di un malessere ignorato. Avrebbe preferito usare sangue vero, ma dai referenti le è arrivato un no categorico. Questioni di igiene, vai a capire.
Più tardi, si trasferisce in un’altra stanza che odora di rancido. Nella semioscurità, scorge decine di vasche da bagno portatili, vecchi apparecchi per idroterapia, forse. C’è un cartello storto con la scritta “Trattamento dell’Isteria”. Se non fosse tragico, le verrebbe quasi da ridere: è perfetto. Potrebbe sistemare una serie di bambole gonfiabili proprio qui, immerse in litri e litri di sciroppi e medicinali. Chiamerebbe l’opera “C’è una Cura per Tutto”. Fa qualche foto col cellulare per studiare le inquadrature. Nel riflesso di una vasca sporca, le pare di scorgere un viso femminile, appena sopra la sua spalla. Le sue viscere si riempiono di acqua gelida, si volta, ma non c’è nessuno. Sente un fremito dietro la nuca, come se labbra fredde gliela stessero sfiorando. Si toglie l’elastico dai capelli e si scioglie la coda, lasciando cadere le lunghe ciocche nere sul collo. Sente il bisogno di proteggersi – sì, ma da cosa? È quasi mezzanotte quando Angela finisce di prendere appunti e di collocare nelle varie stanze il grosso di ciò che le servirà; la stanchezza si mescola a un leggero mal di testa. Decisa a tornare a casa, s’incammina verso l’uscita, ma una porta socchiusa cattura il suo sguardo: c’è una targhetta scrostata che dice “Patologia Uterina”. Dentro, un buio profondo, vellutato, denso. Accende la torcia del cellulare e illumina un groviglio di lenzuola annodate su un carrello. Contro la parete c’è un armadio zeppo di strumenti arrugginiti: forbici, pinze, trapani a ingranaggio. Una puzza chimica – formalina, forse? – le invade le narici. Sulla parete, svetta una scritta in colore brunastro: “CI STANNO AMMAZZANDO”. Arretra senza pensarci due volte, chiude la porta e la maniglia le rimane quasi in mano; il rumore secco della porta che si chiude copre a malapena un suono graffiante. Un grido? No, non è possibile. Un brivido sudato le scende per la schiena. Promette a se stessa che domani si sveglierà presto e tornerà lì con la luce: mai più in un posto del genere dopo il tramonto.
I giorni passano e i corridoi si popolano di cavi, teli di plastica, bambole e manichini dai quali lei ha segato via alcuni arti. Su alcuni ha anche inciso i capezzoli, gli ombelichi e i genitali: dai fori farà colare vernice o pasta acrilica rossa. Con la luce quel posto non fa più paura; è solo il triste testimone di un’epoca più brutale. Ma con tutto quel che c’è da fare, il tempo torna a sfuggirle di nuovo. Una sera si accorge di aver lavorato fino alle undici. Undici e mezza, per la precisione. I vecchi neon, ormai, non funzionano quasi più. La luce residua è data da lampade che ha portato lei, e dalle torce. Ma non vuole andarsene: l’inaugurazione è imminente. Quando si siede sul pavimento per un attimo di pausa, sente come un rumore di catene, un cigolio simile a un letto di ferro trascinato. Chiama: «C’è qualcuno?» Nessuna risposta. Se la sta quasi facendo sotto, ma si alza comunque per dare un’occhiata al corridoio: niente e nessuno. Torna sui suoi passi e nota che nella stanza principale i manichini sono stati spostati, disposti in cerchio. Lei li aveva lasciati allineati al muro. Ma ora è come se si guardassero l’un l’altra. Al centro, un catino non suo. Dentro, un ammasso molliccio, mucoso e scuro. Un lamento piagnucolante si irradia dalle pieghe molli di quella cosa. Che cazzo è, un feto? Si avvicina, l’odore di marcio che fuoriesce dai bordi la fa barcollare, quasi rigetta sul pavimento il poke che ha mangiato per cena. Quando si convince a guardare di nuovo il catino, questo è vuoto, il liquido è sparito del tutto. Scuote la testa. Deve dormire. Deve assolutamente dormire.
La notte prima dell’evento si dà da fare per chiudere tutti i lavori e riveste i corridoi con garze e panni impregnati di tintura rossa. Qua e là ha appeso fotografie vere di vagine sanguinanti, squarciate da parti difficili, aperte da speculum metallici, devastate da infibulazioni di ogni tipo. Ci saranno stereo che diffonderanno il suono ovattato di un battito cardiaco. Tutto questo, ovvio, oltre alle principali attrazioni che ha allestito nelle stanze del reparto femminile. Sarà una figata pazzesca. Mentre si aggira per un ultimo controllo, il posto sembra più immobile del solito. Il silenzio è così spesso che Angela crede di sentirselo addosso, sulle spalle, come un mantello. Sul pavimento del corridoio principale, scorge una lunga scia rossastra, sembra la bava di un’enorme lumaca – forse una delle latte di vernice era bucata? –, che parte dalla “Sala d’Attesa” e si interrompe sulla soglia di una porta lucida e verde. Cerca di aprirla, ma nulla da fare. Non è chiusa a chiave, ma dall’altra parte qualcosa di pesante impedisce un’apertura completa. Angela riprova, ci mette più forza, ancora e ancora, e dall’altra parte arriva il gemito strozzato di una donna. «Lasciaci stare… non vogliamo… non sono pazza!»
«Chi sei? Hai bisogno di aiuto? Chiamo la polizia?» Angela spara domande a raffica per tenere a bada il terrore. Silenzio. «Chi sei?» ripete. «Ci stanno ammazzando!» Di nuovo il gemito. Deve fare qualcosa. Arretra di qualche passo, poi si schianta sulla porta con una spallata. La porta si spalanca senza problemi e Angela si ritrova con il culo nella polvere, in una stanza vuota. «Ok. Sto impazzendo» ridacchia nervosamente. Uno scalpiccio a pochi metri davanti a lei la costringe a estrarre il cellulare e puntare la torcia verso il muro. Mani. No, impronte di mani. Rosse, decine, centinaia, pressate contro la parete, fino al soffitto. Il rosso delle impronte nella fascia bassa del muro è così intenso da sembrare fresco. Per la prima volta da quando ha messo piede in quell’ex-ospedale, Angela urla. E quando urla, non è solo lei a farlo. La sua angoscia è amplificata da un coro di altre grida disperate. Gattona fuori da quella stanza e scappa via senza voltarsi indietro. Quando si ritrova nel letto del suo loft, fatica a ricordarsi come ha fatto ad arrivare lì. Poi si rende conto che la sua schiena sta toccando il materasso dopo quasi ventiquattro ore passate senza riposarsi nemmeno per un minuto. Forse è colpa della stanchezza. È sempre colpa della stanchezza. È il giorno dell’inaugurazione. Arrivano alcuni giornalisti locali, un paio di influencer che si occupano di arte estrema, un gruppetto di attiviste con tanti follower, alcuni amici di Angela e parecchi sconosciuti vogliosi di scandalizzarsi. Angela li accoglie all’ingresso, spiega il concept: «Un viaggio attraverso la medicalizzazione del corpo femminile, la demonizzazione delle mestruazioni e la psichiatrizzazione dell’isteria. Un percorso scabroso, ma necessario.» Studia i loro sguardi: qualcuno sorride divertito, altri appaiono lievemente a disagio, altri annuiscono serissimi. Bene. Il gruppo si inoltra nelle prime sale. L’effetto visivo li colpisce: pareti rosse incrostate di vernice colante, manichini con parti anatomiche aperte, audio di gocciolii e battiti ovunque. Alcuni scattano foto, uno studente prende appunti su un taccuino, una blogger fa schioccare la lingua con aria di superiorità. Angela resta indietro, osserva le reazioni. È abituata alle critiche, anche a quelle più spietate. Ma poi, uno sbalzo di pressione la allarma: l’aria sembra farsi gelida e carica di un tanfo di muffa e carne cruda che non può arrivare dai semplici materiali pittorici. Cavi e tubi sembrano quasi muoversi in modo indipendente, come serpenti sottili. Avverte un’inquietudine simile a un dolore sordo tra i reni. Il pubblico sembra non notare nulla e si spinge nell’area chiamata “Reparto Donne”. Lì la gente trova celle rivestite di disegni anatomici femminili su carta semitrasparente, strappati, esagerati, deformati, appesi alle pareti con chiodi arrugginiti, e illuminati dalla luce soffusa di proiettori. Sul pavimento, tracce di un liquido lucido, che dovrebbe essere resina ormai asciutta. Ma all’improvviso, un docente universitario che stava commentando l’opera con distacco annoiato scivola e cade all’indietro, imbrattandosi i pantaloni di una sostanza vischiosa, abbondante, fresca. Qualche goccia schizza sul volto di Angela: quella roba è calda. Bollente, quasi. Non dovrebbe esserlo. L’uomo sbatte le palpebre, disgustato. Un altro tizio si avvicina, tocca la macchia con un dito e lo ritrae di scatto, scuotendo la testa: «Che cazzo è…?»
La tensione sale. La blogger fa una battuta e scatta un selfie, con grande nonchalance. Ma intanto le luci iniziano a tremolare. Ogni suono registrato, dallo sgocciolio ai battiti, si distorce in un lamento più cupo, profondo, come se qualcuno stesse modulandolo da dietro un mixer. Angela corre verso uno dei suoi laptop e apre il software di controllo. Non ci sono notifiche d’allarme o di errore, eppure il suono è mutato. Sembra un coro di lamenti di decine di donne. Il pubblico arretra. Alcuni provano a ridere, a darsi un tono. Una ragazza esplode in uno strillo isterico, dicendo di aver sentito un sussurro dietro di sé. No, dentro di sé. Una parola strozzata. «Mi è sembrato mi dicesse “Sporche”…» Uno dei giornalisti annuisce fino a farsi scrocchiare il collo e dice di aver percepito un “Ci avete rinchiuse…” Prima che altri possano dire la loro, i neon crollano in un’esplosione di vetri e tutto diventa oscurità. In pochi secondi, si crea una calca. Gente che urla, che prova a cercare l’uscita, annaspando nel liquido rosso denso che scivola sotto i piedi. La sostanza si spande in rivoli che paiono muoversi, come tentacoli. Angela inorridisce: non è opera sua. O meglio, non era nelle sue intenzioni un’installazione “interattiva” di questo genere. Qualcosa qui si sta animando da sé. Un fragore. Una porta si chiude di botto, sbattendo con forza inaudita. Qualcuno impreca. Tutti corrono verso il corridoio, ma le piastrelle sembrano deformarsi, gonfiarsi in un tessuto vivo. Un critico con la giacca elegante scivola, cade in ginocchio con un gemito e inizia a contorcersi, scalciando e scuotendo le mani, nel disperato tentativo di allontanare qualcosa da sé. «Vai via, via!» Angela scatta verso l’uomo e si china su di lui. Scorge un volto femminile riflesso in una delle pozze viscose: un viso senza occhi, labbra cucite, che ondeggia dall’altra parte della superficie. Lui urla e si tira indietro, ma il riflesso emette solo un singhiozzo soffocato.
Un suono di catene scorre tra i muri. Alcuni manichini cadono al suolo come corpi agitati, rompendosi in mille pezzi. Dalle crepe nel cartongesso emergono mani scure, fatte di polvere e garze, che graffiano l’aria e ghermiscono chiunque capiti a tiro. Una torcia cade e rotola, illumina per un istante la visione di una stanza affollata da ombre striscianti: sagome di donne in camicie di forza, capelli rasati, orbite vuote. Angela, che ormai conosce quel luogo, cerca di condurre tutti quanti al piano superiore, verso l’uscita, ma il dedalo di corridoi si è contorto in un labirinto. Gente urla, bussa contro porte sbarrate, scivola in stanze che si chiudono con la voracità di fauci mai saziate. Le grida si fanno frammentarie, poi nulla, come risucchiate dal posto. Alcuni corrono verso il piano superiore, ma le scale sono ostruite da detriti e da un alone scuro che si muove a ondate. Angela si afferra la testa, il cuore scalpita. Vuole fuggire, ma un sibilo la blocca, un suono vicinissimo all’orecchio: «Tu ci hai aperte.» Si volta, un lampo di luce rivela un viso che si sovrappone al suo. Labbra pallide, il cranio inciso da cicatrici. Una donna, o un fantasma, la cui bocca si spalanca e sussurra frasi incomprensibili. Angela arretra, finisce in una sala deserta. O così sembra. Dai muri grondano rivoli purpurei, pulsano come vene in una carne titanica. Il pavimento vibra, si spacca in certi punti. Un fiotto di polvere mista a ruggine sale, spandendo un fetore di vomito e farmaci scaduti. Fra i riflessi di un neon intermittente, intravede un corpo riverso: forse uno dei visitatori. Si avvicina, o vorrebbe, ma i suoi piedi affondano in una melma densa. Stringe i pugni, spinge con le gambe; ne esce, barcolla contro un carrello di materiale medico che si rovescia con clangore. Un paio di flebili gemiti si spengono dietro di lei. Non ci sono più grida. Nessuno scalpita, o forse i suoni sono soffocati. Con orrore, Angela scorge che quell’inondazione di liquido ha riempito molte stanze. Ora le sale ricordano grembi rigonfi, saturi di un flusso che ribolle. Uno degli ultimi neon ancora in vita sfiamma un’ultima volta, poi si spegne. Il buio è quasi assoluto, rotto solo da qualche faretto rimasto acceso e da bagliori rossastri che paiono provenire dal liquido stesso, dotato di una fosforescenza ipnotica.
Angela scappa a tentoni. Striscia sul muro, scivolando sugli schizzi. Sente il sapore del ferro sulle labbra, una mano invisibile che le afferra la caviglia, forse un cadavere, forse un fantasma. Urla, scalcia, si libera. Un corridoio, finalmente, si apre davanti a lei: vede, in lontananza, la porta da cui era entrata. Spalanca quella porta. L’aria notturna, fredda, la investe. Fuori, la strada, i lampioni. Non c’è anima viva. L’ospedale dietro di lei rimane in un silenzio spettrale. Nessun segno di qualcuno che la insegua. Nessun rumore, nessun incubo. Rimane qualche istante immobile, la mente confusa. Poi si allontana a passi lenti. Nei giorni seguenti, si incastonano in lei le memorie più crude. Evita di leggere notizie. Nessun articolo cita la performance. Nessuno le chiede nulla. È come se l’evento non fosse mai accaduto. O l’edificio l’avesse inghiottito, nello stesso modo in cui anni prima aveva ingurgitato e nascosto tutte le brutture avvenute al suo interno. Angela vive in una nebbia costante di colpa, terrore ed euforia inspiegabile. Le notti colano sogni di gocciolii e corpi trascinati, sogni in cui le vecchie pazienti di quell’ospedale la ringraziano per averle “lasciate libere di vivere la loro rabbia.” Si sveglia ridendo, con il viso rigato di lacrime e un filo di sangue che esce dal naso. Dopo un paio di settimane, decide di tornare: vuole recuperare i suoi materiali. Deve almeno svuotare quei corridoi, prendere le tele, i manichini, i proiettori. Magari troverà prove di ciò che è successo, o forse li troverà intatti, come se nulla di strano fosse avvenuto. Come se la performance dovesse ancora avere luogo. Si presenta una mattina di fronte all’ex-ospedale psichiatrico, con il cuore stretto. La porta è chiusa col lucchetto. Strano, non ricorda fosse così. Forza il lucchetto: l’interno è buio, inerte. Si fa strada con la torcia del cellulare.
Trova i suoi manichini impilati in un angolo e ha la netta sensazione che qualcuno abbia voluto metterli a dormire, per premiarli dopo una giornata di duro lavoro. Ogni tela, immagine o fotografia è del tutto intatta. Non c’è segno di vernice, resina, colla o pasta acrilica. Sembra semplicemente un posto abbandonato, com’era all’inizio. Nessun cadavere, nessuna traccia di liquidi estranei. Si aggira fra le stanze in silenzio, mentre polvere e ragnatele le si appiccicano ai capelli. Sembra tutto banale, come se la follia della sera dell’inaugurazione fosse stata un’allucinazione collettiva. E i visitatori? Non ci sono. Non ci sono resti, né oggetti a testimoniare il loro passaggio. Recupera un paio di proiettori funzionanti. Raccoglie le latte di vernice – quasi tutte vuote, ripulite. Nota però che alcune delle sue scatole Ikea di plastica sono piene di residui di una fanghiglia rossastra, mezza secca e mezza molle. Non osa annusarla, la sciacqua in uno dei lavabi. Quando esce per l’ultima volta, spinge la porta con un peso enorme sul petto, sente che l’aria morta di quell’edificio si è impressa nei suoi polmoni. Fuori, la luce del giorno la acceca. Sbatte le palpebre, e in quell’istante le sembra di scorgere, dietro la finestra sporca del secondo piano, un volto di donna rasata, con un brutto taglio sulle tempie. La sta osservando. Non vorrebbe, ma solleva la mano in un accenno di saluto. La donna non risponde; sparisce dopo un battito di ciglia. Angela torna a casa e scivola in una routine di silenzi. Non racconta niente a nessuno, non pubblica foto online, i suoi profili social languono di aggiornamenti. Un mattino, trova nella cassetta della posta una busta di carta grezza, senza mittente. Contiene due vecchie foto: una riporta la data 1968 e ritrae l’interno del Reparto Femminile dell’ospedale psichiatrico nel pieno della sua attività. Dottori ben pettinati e sorridenti posano accanto a donne pallide e magre in pigiama. L’altra è del 1971 e Angela deve fare appello a tutto il suo autocontrollo per non mettersi a urlare. Riconosce la stanza delle mille mani rosse. Una calca di donne sporche e seminude cerca rifugio negli angoli della stanza. Tutte hanno la testa china e gli occhi rivolti altrove. Chiunque stesse scattando quella fotografia, non era loro amico. Angela le ripone in un diario. A distanza di mesi, un velo di normalità apparente sembra calarle addosso. Viene persino contattata per lavorare in un altro spazio espositivo, alla cura di un piccolo progetto sulla commistione tra pittura e digitale, ma manca la scintilla, manca la rabbia. Spesso si blocca davanti ai fogli di lavoro, la mente saturata di immagini di reparti bianchi diventati oceani rossi. E sa, perché questo accade: la sua creatività è stata strangolata da un trauma incomprensibile, inascoltabile e inaccettabile. Non quello dato dalla performance, no. Il trauma di quelle donne.
Un pigro pomeriggio d’inizio estate, Angela trova un’altra busta nella cassetta. È più piccola e leggera dell’altra, ma la carta è la stessa. E, ancora, non c’è alcun mittente. La apre con mani tremanti sopra la penisola della cucina. All’interno, c’è una polaroid ben diversa dalle altre due fotografie: è nuova, sembrerebbe essere stata scattata di recente. Riconosce subito la stanza delle vasche, quelle per il trattamento dell’isteria. Una delle vasche è stracolma di un liquido denso e nero; sotto la superficie si intravede la sagoma biancastra e gonfia di una donna nuda, abbandonata lì dentro. I dettagli sono così evidenti e chiari da far ribaltare lo stomaco di Angela: non è una fotografia vecchia. La gira, il retro è attraversato dalla scritta “Ci hai dimenticate? Se non tu, un’altra”. Anche quella polaroid finisce nel diario. E la vita va avanti. Una sera, mentre naviga su siti d’arte, trova un trafiletto: “Voci di un presunto evento in un ex-ospedale psichiatrico, performance controversa, mistero su eventuali scomparse”. Una foto sfocata mostra un corridoio e una chiazza scura. Legge la didascalia: “Opera di un’anonima artista”. Chiude in fretta il browser. Il cuore le scatta in gola. Nessun nome, nessun dettaglio. Resta con il dubbio che qualcuno abbia registrato un pezzo di quella notte. Un giorno, mentre cerca un locale per un nuovo progetto – questa volta un reading di poesie femministe –, un suo contatto ne nomina uno proprio vicino all’ex-ospedale. Un presentimento la spinge a passare in zona, in pieno pomeriggio. Parcheggia. Vede da lontano i soliti muri grigi in abbandono, le finestre sprangate. Il cancello è chiuso con lucchetti. Sulla recinzione, un cartello del Comune: “Area pericolante. Vietato l’accesso”. Davanti a esso, un gruppetto di uomini con caschetti e giacchette catarifrangenti da lavoro. Un operaio la nota, si avvicina e le dice che presto butteranno giù tutto, ci faranno un parcheggio. Lei annuisce, con un peso nel petto che rischia di tirarla giù. O forse dovrebbe sentirsi meglio? Forse demolire servirà a seppellire quell’incubo?
«Non so che dirle» l’operaio si infila una sigaretta tra le labbra. «Mia zia c’è stata là dentro per un periodo. L’hanno trattata come merda secca, come si faceva ai tempi. Vai a sapere se le è servito o no. Da un lato sono contento venga raso al suolo. Ma quando passo di qui e vedo questo posto mi torna in mente quello che succedeva. E che forse succede ancora, boh.» Angela si stringe nelle spalle e si allontana. Un lieve fruscio la fa voltare. Dietro la rete arrugginita, nell’angolo, scorge un volto di ragazza, forse sui vent’anni, con uno zaino. Tiene in mano una fotocamera, scatta foto all’edificio. Angela sente un’ondata di vertigine. Riconosce quello sguardo carico di curiosità e fascino per il proibito: è proprio come quello che aveva anche lei. La ragazza la nota, fa un breve sorriso, poi torna a immortalare l’ingresso. Di certo vuole intrufolarsi lì dentro, magari per un reportage urbano, una raccolta di foto da postare su un blog. Angela aprirebbe la bocca per dirle «Non entrare», ma resta muta, incastrata in un’angoscia impotente. Dopo un momento, la ragazza si infila nel pertugio della recinzione e scompare. Angela sale in auto, stringe il volante a tal punto da farsi sbiancare le nocche. Appoggia la fronte sul clacson spento. Per un lunghissimo istante, il tempo sembra non esistere più. E non affatto certa di esistere più nemmeno lei. Poi, avvia il motore e si allontana senza guardare nello specchietto.
#scrittura#scrivere#writer#writers on tumblr#writing#libro#dark#horror#weird#female rage#feminine rage#female hysteria
0 notes
Text
papersera dixit: Topolino 3605 - recensione
http://www.afnews.info segnala: Dalla cronaca al cinema, passando per la letteratura e i fumetti. Le gesta truculente di affiatate quanto efferate coppie criminali hanno consumato ettolitri di inchiostro e chilometri di pellicola. I più celebri amanti fuorilegge sono probabilmente Bonnie Parker e Clyde Barrow, attivi nella zona centromeridionale degli Stati Uniti all’inizio degli anni Trenta, la…
0 notes
Text
Ordinairitude
Oh je sais bien, c'est aussi vrai pour tout le monde dans toutes les catégories de passe-temps, de loisirs, de sports et même le travail pour certains. Mais regarder des hommes, les vouloir, en être entouré le plus souvent possible, les toucher... les aimer... on dirait qu'il n'y en aura jamais assez. J'en veux encore et encore.
Je sais que ce désir inassouvi habite aussi ceux qui veulent voir des filles. Ils n'en ont jamais assez non plus... Dans le temps, il y avait même des catalogues de filles nues... le gars qui m'avait montré sa collection... j'avais pas ri... fallait quand même que je respecte ses goûts tout comme il respectait les miens... mais n'empêche, je trouvais ca comique pareil.
Je sais pas quand j'ai commencé à avoir ce «hobby» de regarder des photos... me semble que j'ai pas été comme ca depuis toujours. Pas plus de trente ans par en arrière, je crois. Peut-être à la suite d'un accident qui m'a immobilisé pour un bon moment... Ou peut-être pas. :) Probablement depuis internet qui, au tout début, nous envoyait des tas de photos pour adultes sans qu'il y ait aucun filtre nulle part pour les arrêter.
Les outils actuels coupent tout ce qu'on ne veut pas voir, on a qu'à «programmer» les «applis», comme ils appellent ca de nos jours. J'arrive pas à m'y faire... des applis !!! Des fois je reste tout étonné : mais de quoi parlent-ils donc tous ? :)) Je me rappelle : j'allumais l'ordi... en 54 k ou même avant, juste l'allumer, c'était lonnnng... jaser avec des gens... c'était long aussi... et tout à coup à propos de rien, avalanche de photos truculentes... toutes pires les unes que les autres...
Je pense que mon désir de «voir» est parti de là. J'y ai pris goût.
***
Joyeuses Fêtes à ceux qui fêtent. Et bonne soirée à ceux qui veillent. Bonne chance à ceux qui jouent.
0 notes
Text
L'éditeur Titam nous offre pour Noël Chroniques Européanes pour HawkMoon
L’éditeur Titam nous offre pour Noël Chroniques Européanes, un supplément en pdf pour HawkMoon ! Dans une Europe darkfantasy et post-apocalyptique revenue au moyen-âge, vos héros vivront de terribles et truculentes aventures. Ils rencontreront d’affreuses créatures. Mais leur pire ennemi seront les terrifiants et souvent dérangés Granbretons ayant développé une magie-science technico-occulte qui…
View On WordPress
0 notes
Text
#RTBF : Un portrait de #Catherine #Deneuve à son image
Longtemps enfermée par l’image glacée de la « femme française », blonde et hautaine, qu’on plaque sur elle depuis des décennies, Catherine Deneuve n’a de cesse de surprendre le spectateur par ses choix de réalisateurs audacieux, explorant mille registres, de la comédie truculente aux films d’auteur plus confidentiels. Au fil des années et des films, elle parvient à s’extraire de ce carcan, trouve…
0 notes
Photo
TRADITION | Gâteau des Rois et fête des Rois : tradition séculaire et truculente ➽ http://bit.ly/Gateau-Fete-Rois Mentionné dès le début du XIVe siècle, le gâteau des Rois, partagé lors de l'Épiphanie célébrant la visite des rois mages à l'enfant Jésus, donna lieu à de bruyantes réjouissances et de curieuses croyances, la fève qu'il contient valant au convive la trouvant dans sa part d'être surnommé « roi » ou « reine »
18 notes
·
View notes
Text
(...) quand j'ai reçu le livre, j'ai pu prendre le temps de m'y plonger vraiment, comprendre que ce n'était pas un livre de montage "pur et dur", ainsi que peut l'être The complete illustrated directory of Salmon flies, un livre au demeurant (assez) mal illustré et qui n'est qu'un catalogue des mouches (très) nombreuses. J'ai compris que ce livre est le résultat de longues années d'une recherche historique, artistique - parfois humoristique et truculente - des grandes mouches à truite de mer, et de leurs inventeurs. Et alors je me suis laissé bercer par la plume agréable et érudite de Jean Léger.
L'auteur a fait vraiment un énorme travail d'historien, afin de nous présenter en moins de 200 pages les origines très anciennes de cette pêche dite à la mouche, ainsi que celles des nombreux modèles de mouches sélectionnées. Chaque modèle présenté l'est avec son histoire et celle de son inventeur, avec parfois des anecdotes truculentes à leur sujet. Eventuellement, les séries de mouches en découlant directement sont également présentées. Mais ce n'est pas long, ce n'est ni fastidieux ni répétitif. Juste le résultat d'un énorme travail de recherche et de lecture, ainsi que le reflète les 120 références bibliographiques fournies en fin de l'ouvrage.
Et je trouve qu'il serait dommage de le lire d'une seule traite. En regard du nombre de modèles présentés (88), cela pourrait même être un peu fastidieux. Non, c'est un livre à laisser sur sa table de chevet, et à prendre le soir, quand l'envie nous vient avant de s'endormir, et d'en lire quelques pages, prises au hasard. Se laisser aller à contempler le modèle illustré, imaginer comment le réaliser soi-même, imaginer la beauté des spécimens que ces modèles ont pu amener à la surface des eaux, parfois noires des loughs Irlandais et lochs Ecossais, ou juste teintées par une pluie printanière de la Durdent. Ce livre nous invite à rêver.
L'auteur, au travers de ce livre, nous parle. Il nous parle de sa passion pour la pêche à la mouche des truites de mer, ainsi que des outils de cette passion, à savoir les mouches pour les truites de mer. Et le propos est illustré par ses superbes aquarelles. Qu'aurions-nous pu attendre et espérer d'autre, sur un tel livre, que des illustrations - au demeurant superbes - de l'auteur lui même ? Rien d'autre. De simples photos des modèles présentés auraient fortement diminuées l'intérêt et la magie de ce livre. Car ce livre est bien magique.
Xavier Rey-Grobellet sur son site Eclosions.
0 notes