#svenimenti a distanza
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Vincenzo Gambardella legge e ci racconta la poesia di Mario Fresa. Versi esatti e visionari, che scavano salvezza.
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Carissimi lettori, È stata una fiera tanto "calda", ma emozionante. Tra svenimenti per il caldo, Giorgio Vanni, lettori e nerd impazziti, ci siamo divertiti tantissimo! Tanti nuovi lettori, tante emozioni. Ora io e @gianlucalogren siamo sull'autostrada direzione Roma, distrutti ma felici. Come sempre, con noi portiamo un bagaglio di emozioni fantastiche. Grazie a tutti i ns compagni di viaggio, ma soprattutto ai lettori che ci hanno fatto visita! Grazie anche ai nostri compagni a distanza. Per la fiducia e il supporto. Vi aspettiamo al prossimo appuntamento! #ciaoparma #parmanerdfest #fantasyitaliano #scrivereunlibro #scriverefantasy https://www.instagram.com/p/CettIcOs4Bj/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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Poeti in Campania: intervista a Mario Fresa
Il poeta campano che andiamo ad intervistare è Mario Fresa (Salerno, 1973). Ha compiuto gli studi classici e musicali e si è laureato in Letteratura italiana. Sue poesie sono state pubblicate su riviste italiane, francesi e internazionali: «Paragone», «Caffè Michelangiolo», «Nuovi Argomenti», «Almanacco dello Specchio», «Recours au Poème», «L’area di Broca», «Gradiva» «Quadernario», «Palazzo Sanvitale», «La clessidra», «Semicerchio», «Portique». È presente in varie antologie, pubblicate sia in Italia sia all'estero, da Nuovissima poesia italiana (Mondadori, 2004) alla recente Veintidós poetas para un nuevo milenio, numero monografico della rivista spagnola «Zibaldone. Estudios italianos» (Università di Valencia, 2017). È del 2002 il prosimetro Liaison, con la prefazione di Maurizio Cucchi (edizioni Plectica; Premio Giuseppe Giusti Opera Prima, Terna Premio Internazionale Gatto); seguono, tra le altre pubblicazioni di poesia, il trittico Costellazione urbana (Mondadori, «Almanacco dello Specchio», n. 4, 2008); Luci provvisorie (una triade di poemetti apparsa nel n. 45 di «Nuovi Argomenti», Mondadori, 2009); Uno stupore quieto (Stampa2009, a cura di Maurizio Cucchi, 2012; menzione speciale al Premio Internazionale di Letteratura Città di Como); La tortura per mezzo delle rose (nel sedicesimo volume di «Smerilliana», 2014, con un’analisi critica di Valeria Di Felice); Teoria della seduzione (Accademia di Belle Arti di Urbino, con disegni di Mattia Caruso, 2015); Svenimenti a distanza (prefazione di Eugenio Lucrezi; Il Melangolo, 2018).Tra i suoi libri di saggistica, Il grido del vetraio (Nuova Frontiera, 2005); Le tentazioni di Marsia (Nuova Frontiera, 2006) e La poesia e la carne (La Vita Felice, 2008): tre volumi scritti in collaborazione con il filosofo Tiziano Salari; Come da un’altra riva. Un’interpretazione del Don Juan aux enfers di Baudelaire (Marco Saya, 2014); Le parole viventi. Modelli di ricerca nella poesia italiana contemporanea (La Recherche, 2017); Alfabeto Baudelaire (saggio e scelta di traduzioni, EDB, 2017). Mario Fresa ha dedicato una specifica attenzione all’attività traslatoria, in particolare nell’ambito poetico, traducendo dal greco moderno (Sarandaris), dal latino classico e medievale (Catullo, Marziale, Seneca, Bernardo di Chiaravalle) e dal francese (Baudelaire, Rimbaud, Musset, Desnos, Apollinaire, Frénaud, Char, Cendrars, Queneau, Duprey). Ha ricevuto, tra gli altri, il Premio Franco Fortini per la saggistica (2011) e, ad honorem, nel 2017, il Premio Internazionale Prata per la critica letteraria. Come ti sei avvicinato alla poesia? Nel periodo dei miei studi musicali, a vent’anni, traducevo i testi dei maggiori liederisti e di alcuni libretti del teatro d’opera (m’interessavano, soprattutto, i principali Singspiele del Sette-Ottocento: quelli scritti da Schikaneder/Giesecke, Kind, Treitschke…); di questi ultimi approntavo anche ingegnose traduzioni isometriche. Continuai a coltivare l’arte della traduzione e passai alla poesia francese dell’Otto-Novecento. Poi, a poco a poco, grazie a questo magnifico, quasi quotidiano contatto a corpo a corpo con la musica e con la poesia, iniziai a scrivere versi in modo autonomo. Nel gennaio del 1999 pubblicai la mia prima poesia, intitolata La sabbia e gli angeli. Era un omaggio a mio padre. Maurizio Cucchi la fece uscire sul settimanale «Specchio della Stampa». C’è stato qualcuno che devi ringraziare per averti dato, che so, dei consigli di come muoverti nel tuo percorso artistico? I consigli più importanti li ho ricevuti dalla lettura e dallo studio diretto dei poeti, in ispecie del secondo Novecento. Che cosa cerchi attraverso la poesia? Qual è il tuo intento? L’ambizione è quella di dare vita, per il tramite di un piccolo inferno linguistico, a uno spazio difficile, impercorribile (diresti: a un buco nero) che conduca a una sorta di interdizione dell’utilitilarismo economicistico della parola. L’intento è quello di creare la proiezione di un abbandono provvisorio che permetta, infine, l’emersione, più oggettiva che soggettiva (e perturbante, più che ricompositiva) di quella dimensione psichica sepolta che il pensiero junghiano definisce ombra. Ma lo scopo è anche un altro; ed è di natura anarchica, perché fondata su di una salutare disobbedienza luciferina che sempre io desidero attribuire alla parola. In tale prospettiva disturbante e ribelle, lo stesso linguaggio impara finalmente a combattere e a corrodere i propri interni e subdoli scopi mercificanti. Così, le nuove immagini proposte, sempre alterate/alteranti, minano la sicurezza reazionaria della comunicazione tradizionale e opportunistica, in modo da offrire un messaggio di trasvalutazione dei valori espressivi “comuni” e di costante opposizione nei riguardi della rassicurante comunicabilità dell’uomo “filisteo” (asservito ai poteri e alle ipocrisie del linguaggio sociale). La tua scrittura segue delle linee o delle correnti culturali specifiche? Lo studio del saggio Totem Art di Wolfgang Robert Paalen mi ha molto influenzato e ispirato. Quali programmi hai in cantiere? Ho finito da pochi mesi (dopo sette anni di lavoro!) di curare un Dizionario della poesia italiana del secondo Novecento (dal 1945 a oggi), la cui pubblicazione è imminente. Sto lavorando anche ad altri quattro o cinque libri che forse, se Arimane vuole, saranno presto pubblicati. Come vivi la cultura, la poesia, nella tua città, nella tua vita? Trovi difficoltà e quali? Ho organizzato, nei tempi passati, molti incontri letterari nella mia città. Adesso sono stufo. Intanto, mancano gli spazi. Qualche anno fa, a Salerno, c’erano decine di librerie. Ora si contano sulle dita di una sola mano. Si moltiplicano i ristoranti, però. Lo sappiamo bene: riempire la pancia è meno faticoso di pensare. Hai mai partecipato a premi letterari? Che opinione hai di essi? Ho molti bei ricordi dei Premi che mi sono stati assegnati. Cito il più caro: nel 2004 ricevetti il Premio Capoverso organizzato da Carlo Cipparrone e dal giovane editore Antonio Alimena. In quell’occasione felice, conobbi il filosofo e poeta Tiziano Salari. Diventammo, a distanza, due “amici stellari”, come dice Nietzsche. Scrivemmo tre libri insieme e fondammo anche una collana editoriale di ispirazione hölderliniana, “Il vulcano e la rosa”. Oggi, con la crisi dell’editoria, pubblicare un volume non è semplice: le grandi case editrici non ti filano se non sei legato politicamente o a risorse economiche, e le piccole ti chiedono contributi economici, spesso esosi. Per non parlare poi della poesia che, seppur prolificante, è rinchiusa in “cripte” elitarie. Hai riscontrato difficoltà editoriali durante il tuo percorso, e se sì, per quali motivi? Non ho mai avuto alcuna difficoltà nel pubblicare. Il prossimo libro di poesie, in uscita quest’anno, è nato in occasione di un invito che mi è stato rivolto da un editor di rara competenza. Certo, la poesia e gli stessi poeti sono rinchiusi in “cripte”, come tu dici. Il termine, tristemente funebre, è opportuno. Se chiedi a una persona di media cultura di citare il nome di un poeta italiano contemporaneo, sta’ sicuro che la risposta sarà il silenzio assoluto. Se dovessi paragonare la tua poesia ad un poeta famoso, a chi la paragoneresti? Quale affinità elettive ci trovi con la tua poesia? Ma no, non è possibile. Mi ripeto continuamente, insieme con Gozzano: «Ed io non voglio più essere io». Però non voglio essere nemmeno un altro al quale paragonarmi. Avere un io è già una piccola sciagura. L’attività dell’avere la lascio ai commercianti. Meglio essere che avere. Meglio ancora non essere che essere. La soddisfazione maggiore – se c’è stata – che hai raccolto nel mondo letterario? Soddisfazioni? Quelle le ho soltanto quando dormo un sonno senza sogni. Cosa pensi dei libri digitali? Possono competere con l’editoria tradizionale, cioè con quella cartacea e perché? I libri digitali? Sono utili. Ma non necessari. Qual è il tuo rapporto con la politica? Prego Arimane o Farfarello o Malacoda che mi facciano stare lontano le mille miglia dal fetore etico ed estetico dei nostri governanti. La realtà politica dei tempi correnti è davvero orrenda. Ma la data di origine del disastro è lontana: mi riferisco al 1861, anno di nascita di quella che si soprannominò, in modo più che giusto, Terza Italia o Italietta. Questa Italia fintamente unita fu consegnata con la massima violenza agli orribili Savoia e, da allora, non si è mai più ripresa; ché la sua catabasi – lo si vede con molta chiarezza – è inarrestabile. Siamo passati, in questi anni, dalla volgarità furfantesca del berlusconismo al suicidio annunciato della sinistra, scesa sempre più in basso. Ora è la volta (ahinoi) dei leghisti, dei fascisti e dei risorgenti supercattolici difensori dei “valori” (?) della famiglia (ah, se avessero letto o riletto con attenzione i Tragici greci, o Sigmund Freud, essi avrebbero capito che la famiglia è il luogo di origine di ogni tragedia!). La cultura e la scuola sono state affossate. I nostri governanti sono anti-estetici, illetterati e del tutto incapaci di distinguere un Goya da un Velázquez, o una sonata di Haydn da una sonata di Scarlatti, o un verso di Foscolo da un verso di Leopardi. Ricordo ancora, con orrore, i disastri grammaticali di quella signora con i capelli rosso semaforo che fu nominata, alcuni anni fa, Ministro della Pubblica Istruzione. Ora questo Ministero è stato affidato a un ex allenatore di una squadra di basket. E io che mi lamentavo di Francesco De Sanctis o di Giovanni Gentile. Come vivi la quotidianità? Lavoro; scrivo; amo; veglio. Per fortuna, dimentico tutto con molta facilità: nomi, volti, situazioni. Ma ciò che è essenziale non lo cancello dalla memoria: posso ricordare decine e decine di versi di Baudelaire o l’intera partitura di un concerto mozartiano, dalla prima all’ultima nota. Lo spirituale è nell’arte, non nella vita. Oltre alla poesia, di cosa ti occupi? Musica, disegno, pittura. Se potessi cambiare lo stato comatoso in cui vive oggi la nostra società, quali sarebbero le tue soluzioni, le proposte? Il coma di cui parli è dovuto a una scelta precisa di suicidio. La società capitalistica ha trasformato gli uomini in consumatori-consumati. La cultura è stata disarmata e trasformata in merce o in un continuo e deprimente spettacolo di evasione e di distrazione. Sono contrario a qualsiasi ipotesi cristiana di salvazione o di redenzione, per me e per gli altri; perciò, non propongo nessuna ipotesi di soluzione. Se l’Italietta ha scelto l’eutanasia, si accomodi pure. Io, per me, ambisco a ritirarmi nel bosco, siccome il protagonista del bellissimo libro di Ernst Jünger, Der Waldgang. Qual è la tua ultima fatica editoriale? Puoi parlarcene brevemente? L’ultimo libro è Svenimenti a distanza, edito da il melangolo nel 2018. Sberleffo al perbenismo logico e rassicurante del linguaggio borghese, calcolatore, ipocrita, cattolico, tradotto nella forma di un incubo ininterrotto, felicemente (e innocentemente) crudele. Read the full article
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Perché è morto Aldo Bianzino? Chi lo ha ucciso?
A dieci anni dai fatti si riapre la battaglia per la verità sulla morte di Aldo Bianzino, «Ok, è arrivato il momento – scrive Rudra Bianzino sul suo profilo social – in queste ore i miei legali stanno lavorando alla RICHIESTA DI RIAPERTURA DEL PROCEDIMENTO PER OMICIDIO volontario A CARICO DI IGNOTI per quanto riguarda la vicenda di Aldo Bianzino, mio padre, morto dopo nemmeno 48 ore di carcere il 14-10-2007».
Rudra annuncia così «importantissime analisi e rivelazioni medico legali, che mettono a dir poco in discussione la verità processuale emersa sino ad oggi riguardo alle cause della morte di mio padre».
Stasera, in un centro sociale romano, il Forte Prenestino, Bianzino spiegherà meglio quali siano le relazioni che, esaminati tutti i fatti, i reperti, e le vicende processuali susseguitesi sino ad ora, hanno persuaso alcuni esperti «ad accettare l’incarico da me proposto volto alla richiesta di riapertura del fascicolo per omicidio ad oggi archiviato in virtù delle evenienze all’epoca acquisite, ma ad oggi superate».
E’ un appello per sostenere una battaglia lunga oltre dieci anni. «Chiedo a tutte le persone che leggeranno queste parole di unirsi alla mia voce, in maniera tale che non sia più solo un urlo perso nel vuoto di un ragazzo rimasto solo, ma un coro composto da tutta la società civile, dove l’interlocutore non potrà che prendere atto della voglia di verità e giustizia di una moltitudine di persone». Rudra, infine, ringrazia i legali Massimo Zaganelli e Cinzia Corbelli, i consulenti medico legali, Luigi Gaetti e Antonio Scalzo, per «la possibilità di proseguire in una battaglia importantissima per me e per tutte quelle persone che pretendono di vivere in uno Stato dove di carcere non si debba più morire».
«Altro ringraziamento al CSOA FORTE PRENESTINO ed a tutti gli organizzatori, gli artisti e le associazioni che parteciperanno oggi, Venerdi 27 Aprile 2018 alla serata benefit per far conoscere il caso di Aldo Bianzino».
«E se ad ucciderti fosse proprio chi dovrebbe difenderti, a chi ti rivolgeresti?», è la domanda che il dibattito nel centro sociale formulerà di nuovo. Rudra, figlio di Aldo, non ha intenzione di fermarsi e va avanti nella legittima richiesta di verità per lui e per chi subisce una qualsiasi forma di abuso da parte dei rappresentanti dello Stato e perché episodi come questo non possano piu ripetersi. «La seratà – spiegano gli organizzatori – verrà aperta dai racconti, dalle parole e dalle esperienze di chi in Italia per sua scelta o SUO MALGRADO si è trovato faccia a faccia con casi di “ordinaria” barbarie. Chi si fa carnefice attraverso una divisa puo contare su un sistema di garanzia di impunità. Noi ci interrgohiamo sul perchè tutto questo venga permesso! Abbiamo voglia di capire insieme agli altri come questo meccanismo possa essere non solo monitorato, ma definitivamente scardinato; siamo stanchi di questa macabra conta». Alla discussione con Rudra e gli occupanti del Forte interverranno: Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa; il “nostro” (nel senso di Popoff), Checchino Antonini che fu il primo a scrivere del caso dalle colonne di Liberazione, Gennaro Santoro (Antigone), Rosso Fiorentino (Regista indipendente), Giancarlo Castelli autore di un video su Mario Scrocca, ucciso in un carcere il primo maggio di 31 anni fa.
Aldo Bianzino, l’ebanista pacifico
Aldo Bianzino era un falegname di 44 anni residente a Pietralunga, a una ventina di chilometri da Città di Castello in provincia di Perugia. Il caso è ricostruito in una sezione del sito di Acad. Aveva scelto una vita appartata insieme alla compagna Roberta Radici e a suo figlio Rudra: un appezzamento di terra nel cuore delle colline umbre, una cascina, uno stile di vita alternativo all’insegna del pacifismo e delle filosofie orientali. Questo fa di Aldo il perfetto “attenzionato”, un elemento che non può passare inosservato in una piccola comunità collinare, ma che era e rimane una persona ben vista da tutti. Un hippie con la barba lunga, una decina di piante di marijuana coltivate nell’orto di casa e con un modesto lavoro di falegname, facilmente può essere etichettato come diverso. Per quelle piantine di canapa, la notte del 12 ottobre Aldo e Roberta vengono arrestati con l’accusa di possesso e spaccio di sostanze stupefacenti. Suo figlio Rudra, di appena quattordici anni e la nonna di novanta vengono lasciati completamente soli e lontani da tutto per due giorni. Vengono condotti al carcere di Capanne e separati in diversi reparti. Dall’ingresso in carcere Roberta non vedrà più Aldo se non dopo la sua morte. La mattina seguente alle ore 8.15 Aldo viene trovato morto nella sua cella. Ad annunciarlo alla moglie ancora detenuta nella sezione femminile , è un dipendente del carcere che ambiguamente esordisce con questa domanda: «Signora che lei sappia suo marito soffriva di svenimenti?». Sarà Roberta a descrivere il tono incalzante di quel surreale dialogo, che avveniva mentre Aldo era già steso sul tavolo dell’obitorio. «Signora suo marito soffre di cuore? Ha mai avuto problemi al cuore? E’ mai svenuto?», queste le domande che il dipendente dell’amministrazione penitenziaria rivolge alla compagna di Aldo. Roberta viene scarcerata verso mezzogiorno. Nei corridoi incontra quel funzionario accompagnato da un’altra persona e si precipita a chiedere quando avrebbe potuto vedere Aldo. L’uomo testualmente le risponde: «Signora, martedì dopo l’autopsia». Roberta muore un anno dopo di tumore, dopo aver dedicato gli ultimi mesi della sua vita alla ricerca della verità, convinta fin da subito che Aldo abbia subito violenze. Sarà il medico legale nominato da Gioia Toniolo, ex moglie di Aldo, il primo a parlare chiaramente di pestaggio “particolare”, effettuato con tecniche militari atte a non lasciare segni esterni ma a distruggere gli organi interni. Il fegato di Aldo presentava una profonda lacerazione. A curare le indagini è lo stesso Pm che ha ordinato l’arresto di Aldo che al primo incontro con la signora Toniolo esordì dicendo: «Signora lei non si deve preoccupare, svolgeremo indagini a 360 gradi, ma non è detto che troveremo il colpevole», dettaglio inquietante visto che il carcere è una struttura circoscritta sotto il pieno controllo delle istituzioni. Per ben tre volte il Pm Giuseppe Pietrazzini chiederà di archiviare il procedimento a carico di ignoti e ci riuscirà concludendo che Bianzino è morto per cause naturali in seguito alla rottura di un aneurisma cerebrale. Una prima fase delle indagini tecniche, basata sulle consulenze del Pm, evidenziava una causa di morte violenta. Ulteriori approfondimenti sulle videoriprese del carcere e su altri dati ricondurranno nuovamente il decesso a cause naturali determinando la definitiva archiviazione.
Mario Scrocca, l’uomo che lottava per i marciapiedi
Il 1 maggio 1987 alle 21.30 viene dichiarata, dai medici del S. Spirito di Roma, la morte di Mario Scrocca. Era stato prelevato il giorno prima da casa, accusato di un pluriomicidio avvenuto quasi dieci anni prima; su sua espressa richiesta durante l’interrogatorio era stato sottoposto a vigilanza a vista. Il ragazzo (27 anni) costretto in isolamento era sorvegliato con la cella aperta. Per un “errore” nel cambio di consegna degli agenti penitenziari, la sorveglianza a vista si trasforma in controllo ogni dieci minuti dallo spioncino. Alle 20 del primo maggio, orario del cambio di guardia, gli agenti trovano il giovane impiccato, non in una cella antisuicidio, ma in una cella anti impiccagione. Riuscì ad impiccarsi per uno scarto di 2 millimetri usufruendo dello spazio del water, incastrando la cima del cappio nella finestra a vasistas, cappio confezionato con la federa del cuscino scucita e legata alle estremità con i lacci delle sue scarpe (che erano stato confiscati insieme alla cintura al momento della carcerazione); lacci che torneranno magicamente sulle scarpe del ragazzo (uno regolarmente allacciato) quando arriverà al S.Spirito. I primi soccorsi vengono effettuati direttamente a Regina Coeli, sembra, nella stessa cella, poi il detenuto viene portato all’ospedale che dista circa 500 metri dalla casa circondariale, che purtroppo sono contromano, 1.6 km per un tempo stimabile al massimo in 10 minuti. Il trasporto avverrà nel portabagagli di una 128 Fiat familiare, anziché sull’autoambulanza di servizio del carcere. Due agenti di custodia e un maresciallo, senza alcuna presenza del medico che avrebbe dovuto prestare teoricamente il primo soccorso; appare evidente ai sanitari dell’Ospedale che nulla è stato tentato per salvare Mario. Arriverà al S. Spirito alle 21.00 già cadavere. Non sarà permesso ai familiari (avvisati per altro al telefono e senza qualificarsi) di vedere il corpo fino alle 6 del mattino successivo, che non presenta tracce di lesioni se non per l’enorme ematoma sulla spalla destra e sul collo, solcato da larghi e profondi segni, dichiarati dagli stessi sanitari, non prodotti da stoffa. Tre giorni dopo la morte di Mario, il Tribunale del Riesame revocherà il mandato di cattura. Dopo la costituzione come parte civile, nel procedimento aperto contro ignoti, della moglie, spariranno tutti i fogli di consegna, di ricovero e requisizione degli oggetti al momento dell’arresto. A distanza di un anno il procedimento si chiuderà in primo grado senza responsabili se non lo stesso giovane. L’accaduto è sempre stato volutamente nebuloso fin dall’arresto su dichiarazioni di una pentita che all’epoca dei fatti aveva 14 anni, dichiarazioni non di scienza diretta, ma di natura di relato proveniente da persona non rintracciabile e soprattutto al disconoscimento fotografico di Mario da parte della stessa pentita. Passando per le irregolarità nella carcerazione, nella morte del giovane e nei referti autoptici. Nessuno ha mai dato risposte se il giovane sia “stato suicidato” o se sia stato istigato al suicidio, reato che all’epoca non esisteva. La responsabilità “reale” di quel giovane è stata avere un nome troppo comune, una famiglia, un bimbo di due anni, un lavoro stabile, essere uno dei fondatori delle RdB del settore sanitario, amare il suo lavoro, la sua vita e le sue convinzioni politiche.
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L’Amore ai tempi del Colera, di Gabriel García Márquez
Mondadori, 1986
15 euro
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“Quando Florentino Ariza l’aveva vista per la prima volta, sua madre l’aveva scoperto da prima che lui glielo raccontasse, perché aveva perso la parola e l’appetito e passava le notti in bianco a rigirarsi nel letto. Ma quando incominciò ad aspettare la risposta alla sua prima lettera l’ansia gli si complicò con diarree e vomiti verdi, perse il senso dell’orientamento e soffrì di repentini svenimenti... Il padrino di Florentino Ariza si allarmò anche lui a prima vista per lo stato del malato, perché aveva il polso debole, il respiro affannoso e i sudori pallidi dei moribondi. Ma l’esame rivelò che non aveva febbre né dolore in nessuna parte e che l’unica cosa concreta che sentiva era il bisogno urgente di morire. Gli bastò un interrogatorio insidioso, prima a lui e poi alla madre, per comprovare una volta di più che i sintomi dell’amore sono gli stessi del colera.”
Quello tra Fermina Daza e Florentino Ariza è un casto amore di gioventù, scandito da lettere vibranti e sguardi furtivi.
Fino a quando il padre della fanciulla non scopre la loro passione nascosta e decide di sottrarre la figlia a quel destino modesto (Florentino Ariza è un semplice impiegato di poste).
Fermina Daza è costretta ad abbandonare la cittadina di Cartagena de Indias per seguire il padre in un viaggio d’affari. Nemmeno la distanza riuscirà a tenere lontani i due amanti: Florentino insegue con le sue lettere la giovane in ogni porto in cui attracca.
Intanto Fermina viaggia, scopre volti nuovi e visita luoghi bellissimi e altri terribili. Fermina Daza diventa una donna. Tanto che al suo ritorno Florentino quasi non la riconosce, col suo portamento fiero e la treccia che ora le cade di lato su una spalla.
Quando i due s’incontrano anche Fermina Daza è stupita del cambiamento che è avvenuto dentro di lei: scopre di non essere più innamorata di Florentino Ariza. Sposerà il facoltoso medico Juvenal Urbino e con lui trascorrerà una vita felice.
Florentino dovrà aspettare cinquantatre anni, sette mesi e undici giorni, notti comprese per riconquistare il cuore della donna e, finalmente, fare l’amore con lei.
Perché leggerlo: perché racconta di un amore tragico e divertito insieme, e perché è uno dei romanzi più teneri di Marquez.
Ti piacerà se ti è piaciuto: Dona Flor e i suoi due mariti di Jorge Amado, Donne sull’orlo di una crisi di Nervi di Pedro Almodovar, D’amore e ombra di Isabel Allende.
#l'amore ai tempi del colera#gabriel garcia marquez#cultura ambulante#dona flor#letteratura sudamericana#d'amore e ombra
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Ely Martini legge una poesia tratta da "Svenimenti a distanza" di Mario Fresa (Il Melangolo, Genova, 2018).
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Mario Fresa (Salerno, 1973)
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Marianna Visconti intervista Mario Fresa. Su Lego et Cogito
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Mario Fresa (Salerno, 1973)
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Ely Martini legge Mario Fresa (creato con Spreaker)
#mario fresa#svenimenti a distanza#ely martini#poesia#lettura#prosimetro#il melangolo#poesia italiana contemporanea
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Ely Martini legge Mario Fresa (creato con Spreaker)
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