#studi medici nella Seconda Guerra Mondiale
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raffaeleitlodeo · 1 year ago
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La controrivoluzione delle élite di cui non ci siamo accorti: intervista a Marco D’Eramo - L'indipendente on line
Fisico, poi studente di sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi, giornalista di Paese Sera, Mondoperaio e poi per lungo tempo de il manifesto. Marco D’Eramo ha di recente pubblicato il saggio Dominio, la guerra invisibile contro i sudditi (ed. Feltrinelli, 2020), un libro prezioso che, con uno stile agevole per tutti e dovizia di fonti, spiega come l’Occidente nell’ultimo mezzo secolo sia stato investito di una sorta di rivoluzione al contrario, della quale quasi nessuno si è accorto: quella lanciata dai dominanti contro i dominati. Una guerra che, almeno al momento, le élite stanno stravincendo e che si è mossa innanzitutto sul piano della battaglia delle idee per (ri)conquistare l’egemonia culturale e quindi le categorie del discorso collettivo. Una chiacchierata preziosa, che permette di svelare il neoliberismo per quello che è, ovvero un’ideologia che, in quanto tale, si muove attorno a parole e concetti chiave arbitrari ma che ormai abbiamo assimilato al punto di darli per scontati, ma che – una volta conosciuti – possono essere messi in discussione.
Ci parli di questa rivoluzione dei potenti contro il popolo, cosa è successo?
Nella storia i potenti hanno sempre fatto guerra ai sudditi, se no non sarebbero rimasti potenti, questo è normale. Il fatto è che raramente i sudditi hanno messo paura ai potenti: è successo nel 490 a.C., quando la plebe di Roma si ritirò sull’Aventino e ottenne i tribuni della plebe. Poi, per oltre duemila anni, ogni volta che i sudditi hanno cercato di ottenere qualcosa di meglio sono stati brutalmente sconfitti. Solo verso il 1650 inizia l’era delle rivoluzioni, che dura circa tre secoli, dalla decapitazione di re Carlo I d’Inghilterra fino alla rivoluzione iraniana, passando per quella francese e quelle socialiste. Da cinquant’anni non si verificano nuove rivoluzioni.
E poi cosa è successo?
Con la seconda guerra mondiale le élite hanno fatto una sorta di patto con i popoli: voi andate in guerra, noi vi garantiamo in cambio maggiori diritti sul lavoro, pensione, cure, eccetera. Dopo la guerra il potere dei subalterni è continuato a crescere, anche in Italia si sono ottenute conquiste grandiose come lo statuto dei Lavoratori, il Servizio Sanitario Nazionale ed altro. A un certo punto, le idee dei subordinati erano divenute talmente forti da contagiare le fasce vicine ai potenti: nascono organizzazioni come Medicina Democratica tra i medici, Magistratura Democratica tra i magistrati, addirittura Farnesina Democratica tra gli ambasciatori. In Italia come in tutto l’Occidente le élite hanno cominciato ad avere paura e sono passate alla controffensiva.
In che modo?
Hanno lanciato una sorta di controguerriglia ideologica. Hanno studiato Gramsci anche loro e hanno agito per riprendere l’egemonia sul piano delle idee. Partendo dai luoghi dove le idee si generano, ovvero le università. A partire dal Midwest americano, una serie di imprenditori ha cominciato a utilizzare fondazioni per finanziare pensatori, università, convegni, pubblicazioni di libri. Un rapporto del 1971 della Camera di Commercio americana lo scrive chiaramente: “bisogna riprendere il controllo e la cosa fondamentale è innanzitutto il controllo sulle università”. Da imprenditori, hanno trattato le idee come una merce da produrre e vendere: c’è la materia prima, il prodotto confezionato e la distribuzione. Il primo passo è riprendere il controllo delle università dove la materia prima, ovvero le idee, si producono; per il confezionamento si fondano invece i think tank, ovvero i centri studi dove le idee vengono digerite e confezionate in termini comprensibili e affascinanti per i consumatori finali, ai quali saranno distribuiti attraverso giornali, televisioni, scuole secondarie e così via. La guerra si è combattuta sui tre campi della diffusione delle idee, e l’hanno stravinta.
Quali sono le idee delle élite che sono divenute dominanti grazie a questa guerra per l’egemonia?
La guerra dall’alto è stata vinta a tal punto che non usiamo più le nostre parole. Ad esempio, la parola “classe” è diventata una parolaccia indicibile. Eppure Warren Buffet, uno degli uomini più ricchi del mondo, lo ha detto chiaramente: «certo che c’è stata la guerra di classe, e l’abbiamo vinta noi». O come la parola “ideologia”, anche quella una parolaccia indicibile. E allo stesso tempo tutte le parole chiave del sistema di valori neoliberista hanno conquistato il nostro mondo. Ma, innanzitutto, le élite sono riuscite a generare una sorta di rivoluzione antropologica, un nuovo tipo di uomo: l’homo economicous. Spesso si definisce il neoliberismo semplicemente come una versione estrema del capitalismo, ma non è così: tra la teoria liberale classica e quella neoliberista ci sono due concezioni dell’uomo radicalmente differenti. Se nel liberalismo classico l’uomo mitico è il commerciante e l’ideale di commercio è il baratto che si genera tra due individui liberi che si scambiano beni, nel neoliberismo l’uomo ideale diventa l’imprenditore e il mito fondatore è quello della competizione, dove per definizione uno vince e l’altro soccombe.
Quindi rispetto alle generazioni che ci hanno preceduto siamo diventati un’altra specie umana senza accorgercene?
L’idea che ogni individuo è un imprenditore genera una serie di conseguenze enormi. La precondizioni per poter avviare un’impresa è avere qualcosa da investire, e se non ho capitali cosa investo? A questa domanda un neoliberista risponde: «il tuo capitale umano». Questa è una cosa interessantissima perché cambia tutte le nozioni precedenti. Intanto non vale l’idea del rapporto di lavoro come lo conoscevamo: non esiste più un imprenditore e un operaio, ma due capitalisti, dei quali uno investe denaro e l’altro capitale umano. Non c’è nulla da rivendicare collettivamente: lo sfruttamento scompare, dal momento che è un rapporto tra capitalisti. Portando il ragionamento alle estreme conseguenze, nella logica dominante, un migrante che affoga cercando di arrivare a Lampedusa diventa un imprenditore di sé stesso fallito, perché ha sbagliato investimento. Se ci si riflette bene, la forma sociale che meglio rispecchia questa idea del capitale umano non è il liberalismo ma lo schiavismo, perché è lì che l’uomo è letteralmente un capitale che si può comprare e vendere. Quindi non credo sia errato dire che, in verità, il mito originario (e mai confessato) del neoliberismo non è il baratto ma lo schiavismo. Il grande successo che hanno avuto i neoliberisti è di farci interiorizzare quest’immagine di noi stessi. È una rivoluzione culturale che ha conquistato anche il modo dei servizi pubblici. Per esempio le unità sanitarie locali sono diventate le aziende sanitarie locali. Nelle scuole e nelle università il successo e l’insuccesso si misurano in crediti ottenuti o mancanti, come fossero istituti bancari. E per andarci, all’università, è sempre più diffusa la necessità di chiedere prestiti alle banche. Poi, una volta che hai preso il prestito, dovrai comportarti come un’impresa che ha investito, che deve ammortizzare l’investimento e avere profitti tali da non diventare insolvente. Il sistema ci ha messo nella situazione di comportarci e di vivere come imprenditori.
Ritiene che l’ideologia neoliberista abbia definitivamente vinto la propria guerra o c’è una soluzione?
Le guerre delle idee non finiscono mai, sembra che finiscano, ma non è così. Se ci pensiamo, l’ideologia liberista è molto strana, nel senso che tutte le grandi ideologie della storia offrivano al mondo una speranza di futuro migliore: le religioni ci promettevano un aldilà di pace e felicità, il socialismo una società del futuro meravigliosa, il liberalismo l’idea di un costante miglioramento delle condizioni di vita materiali. Il neoliberismo, invece, non promette nulla ed anzi ha del tutto rimosso l’idea di futuro: è un’ideologia della cedola trimestrale, incapace di ogni tipo di visione. Questo è il suo punto debole, la prima idea che saprà ridare al mondo un sogno di futuro lo spazzerà via. Ma non saranno né i partiti né i sindacati a farlo, sono istituzioni che avevano senso nel mondo precedente, basato sulle fabbriche, nella società dell’isolamento e della sorveglianza a distanza sono inerti.
Così ad occhio non sembra esserci una soluzione molto vicina…
Invece le cose possono cambiare rapidamente, molto più velocemente di quanto pensiamo. Prendiamo la globalizzazione: fino a pochi anni fa tutti erano convinti della sua irreversibilità, che il mondo sarebbe diventato un grande e unico villaggio forgiato dal sogno americano. E invece, da otto anni stiamo assistendo a una rapida e sistematica de-globalizzazione. Prima la Brexit, poi l’elezione di Trump, poi il Covid-19, poi la rottura con la Russia e il disaccoppiamento con l’economia cinese. Parlare oggi di globalizzazione nei termini in cui i suoi teorici ne parlavano solo vent’anni fa sembrerebbe del tutto ridicolo, può essere che tra vent’anni lo sarà anche l’ideologia neoliberista.
Intanto chi è interessato a cambiare le cose cosa dovrebbe fare?
Occorre rimboccarsi le maniche e fare quello che facevano i militanti alla fine dell’Ottocento, ovvero alfabetizzare politicamente le persone. Una delle grandi manovre in questa guerra culturale lanciata dal neoliberismo è stata quella di ricreare un analfabetismo politico di massa, facendoci ritornare plebe. Quindi è da qui che si parte. E poi bisogna credere nel conflitto, progettarlo, parteciparvi. Il conflitto è la cosa più importante. Lo diceva già Machiavelli: le buone leggi nascono dai tumulti. Tutte le buone riforme che sono state fatte, anche in Italia, non sono mai venute dal palazzo. Il Parlamento ha tutt’al più approvato istanze nate nelle strade, nei luoghi di lavoro, nelle piazze. Lo Statuto dei Lavoratori non è stato fatto dal Parlamento per volontà della politica, ma a seguito della grande pressione esterna fatta dai movimenti, cioè dalla gente che si mette insieme. Quindi la prima cosa è capire che il conflitto è una cosa buona. La società deve essere conflittuale perché gli interessi dei potenti non coincidono con quelli del popolo. Già Aristotele lo diceva benissimo: i dominati si ribellano perché non sono abbastanza eguali e i dominanti si rivoltano perché sono troppo eguali. Questa è la verità.
[di Andrea Legni]
https://www.lindipendente.online/2023/11/01/la-controrivoluzione-delle-elite-di-cui-non-ci-siamo-accorti-intervista-a-marco-deramo/?fbclid=IwAR0J1ttaujW9lXdoC3r4k5Jm46v3rQM_NMampT4Sd_Q-FX4D-7TFWKXhn3c
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alchimilla · 4 years ago
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• Covid-19 • 182 giorni di Apocalisse, tra morti misteriose, sparizioni, e report dei servizi segreti
La vita ai tempi della pandemia - Mondo, Zona Rossa / giorno 116
Ieri, 30 giugno 2020, sono stati 6 mesi da quel fatale 30 dicembre 2019, che ha cambiato il mondo che conoscevamo. Per sempre.
In questi 6 mesi, un virus letale, di origine (s)conosciuta, con epicentro la megalopoli cinese di Wuhan, da 11 milioni di abitanti, fuoriesce dal BioLab-4 di Wuhan (un super laboratorio di massima sicurezza che gestisce i patogeni più letali al mondo) e comincia silenziosamente ad infettare ed uccidere migliaia di persone in tutto il pianeta.
Questo virus mortale, provoca polmoniti interstiziali bilaterali mai viste prima: alle radiografie, i polmoni appaiono a “vetro smerigliato” e, all’auscultazione, i polmoni producono un caratteristico rumore di “carta accartocciata”.
Ma soprattutto, questo virus letale, nato già “perfetto” e che non ha bisogno di replicarsi per mutare e perfezionarsi (com’è accaduto invece per il similare virus della Sars, questo sì, un virus di origine naturale, che ha fatto “solo” 800 morti nel mondo in 32 paesi, in 4 mesi totali di epidemia, da novembre 2002 a marzo 2003, contro i 500.000 morti, in 188 paesi, di Covid-19, in soli 6 mesi, e non è ancora finita), uccide con un meccanismo mai visto prima in altri virus: provoca una reazione immunitaria abnorme, che fa “impazzire” il sistema immunitario umano, il quale comincia a produrre centinaia di coaguli nel sangue, che, una volta arrivati agli organi vitali, portano alla morte.
Il mondo si blinda in un lockdown globale.
Le economie precipitano.
Disoccupazione e povertà arrivano a livelli esponenziali, intaccando anche il ceto medio.
Cominciano rivolte e guerriglie in diversi paesi, soprattutto negli Stati Uniti, dove l’epidemia è fuori controllo.
I suicidi aumentano, sia tra il personale sanitario, che tra le persone comuni.
Gli ospedali di tutto il globo collassano.
Finiscono i respiratori.
Non ci sono farmaci nè vaccini contro il virus.
I malati vengono messi per terra, nei corridoi, o all’esterno, nelle tende di biocontenimento.
Gli obitori, i cimiteri, i forni crematori di tutto il pianeta, non bastano più.
Si scavano fosse comuni per seppellire i corpi infetti.
Decine e decine di camion militari trasportano decine e decine di bare da cremare.
Centinaia di persone, in tutto il mondo, vengono trovate morte, da sole, a casa, senza nessuna assistenza. Uccise dal virus.
Poi, dopo 3 mesi di buio e di lotta per la sopravvivenza individuale, qualcosa nella genetica del virus muta, e s’indebolisce: la carica virale non è più in grado di uccidere le cellule umane. I sintomi diventano lievi, e le terapie intensive si svuotano, insieme ai Covid Hospital, prima in Cina, poi in Italia, poi in Europa, ovvero, nei paesi che la pandemia ha colpito per primi. Il resto del mondo, invece, è ancora alle prese con le fasi più feroci e mortali della malattia.
Attualmente, in Cina, Italia ed Europa, ci sono ancora alcuni importanti focolai, ma sono tutti di persone asintomatiche, che non richiedono, nella maggior parte dei casi, ricovero ospedaliero, ma solo quarantena e assistenza domiciliare.
E mentre imperversa ovunque questo caos apocalittico, in questi 6 mesi di puro terrore, ci sono state anche misteriose “scomparse”, morti, uccisioni di ricercatori, blogger, giornalisti, che hanno cercato di dire la verità sul virus, e cioè che proviene dal BioLab-4 di Wuhan, da cui è fuoriuscito per un errore umano, e dove è stato geneticamente modificato con innesti di altri virus, per scopi, molto probabilmente militari, e molto meno probabilmente per semplice “studio”.
In un dossier di 15 pagine, redatto da “Five Eyes” (una super intelligence internazionale, basata su un’alleanza tra i servizi segreti dei maggiori 5 paesi di lingua anglofona: Australia, Canada, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati Uniti), la Cina viene accusata di aver nascosto o distrutto prove sull'origine della diffusione del virus, di aver negato inizialmente la trasmissibilità da uomo a uomo, e di aver bloccato l'accesso delle organizzazioni internazionali a Wuhan, epicentro del contagio, e ai campioni del virus inizialmente disponibili. Nel fascicolo, inoltre, si fa riferimento all'esistenza di prove in grado di dimostrare che il virus sia stato generato nei laboratori dell'istituto di virologia di Wuhan, a pochi passi dal mercato del pesce, prove che Pechino ha intenzionalmente cercato di insabbiare.
In particolare, il report di Five Eyes muove 3 pesanti accuse contro la Cina:
1) la prima, riguarda la scomparsa di molte persone, tra cui la ricercatrice dell'istituto di Wuhan, Huang Yan Ling, da molti ritenuta la ‘paziente zero’ di Covid-19, misteriosamente scomparsa. Pechino non ha fornito spiegazioni in merito, e addirittura il profilo della ricercatrice è stato rimosso dal sito dell'Istituto di ricerca di Wuhan.
Anche altre persone sono scomparse, come i ricercatori cinesi Botao Xiao e Lei Xiao (di cui mi sono già occupata tempo fa), che per primi avevano parlato della possibilità che il virus fosse uscito dal laboratorio di Wuhan, dove, già in passato, c’erano stati altri incidenti di ricercatori infettatisi coi virus dei pipistrelli.
Ma la scomparsa più eclatante, riguarda Shi Zenghli (anche di lei ho già ampiamente parlato), la virologa numero 1 della Cina, soprannominata “Batwoman”, per i suoi studi sui coronavirus dei pipistrelli, di cui è la massima esperta a livello mondiale.
Di Shi Zenghli non si hanno più notizie da aprile 2020.
Il 2 gennaio 2020, terminando la mappatura della sequenza del genoma di Covid-19, Shi scopre che è identico per il 96% a quello di un virus studiato nel suo laboratorio.
Lo stesso 2 gennaio, la direttrice dell’istituto in cui si trova il BioLab-4 di Wuhan, diretto da Shi, invia una mail, rivolta a tutta la comunità scientifica, in cui vieta la divulgazione dei risultati delle ricerche sul virus Sars-Cov-2.
Ma Shi non rispetta questo monito, e il 23 gennaio 2020, pubblica una relazione scientifica, ripresa poi da “Nature”, in cui spiega di aver scoperto l’altissima contagiosità di questo virus il 14 gennaio (6 giorni prima che il regime di Pechino lo riveli al mondo).
L’11 marzo 2020, Shi rilascia inoltre un’intervista (per lei fatale), nonostante le fosse stato vietato, alla rivista “Scientific American”, in cui dichiara i suoi dubbi sul presunto passaggio animale-uomo fatto dal virus e avvenuto in una zona urbana, il mercato del pesce di Wuhan, anziché negli ambienti tropicali che lei studia da 16 anni, e a cui ha dedicato la sua vita e la sua carriera.
Ammette poi che <<il virus potrebbe essere arrivato dal nostro laboratorio. Questo è stato un vero peso, non ho chiuso occhio per giorni>>.
Più avanti, nell’intervista, dice anche di aver abbandonato gli studi su Covid-19, senza peró spiegarne i motivi.
Queste sono state le ultime dichiarazioni di Shi, dopodiché, di lei si sono perse le tracce.
Molte voci dicono che sia fuggita dalla Cina e abbia trovato rifugio a Parigi con la sua famiglia, e sia pronta a consegnare un dossier sulla fuga dal laboratorio di Wuhan del Covid-19.
Ma anche altre persone sono state colpite dalle misure restrittive del regime, come diversi medici che hanno cercato di dare l’allarme sulla diffusione dell’epidemia, e sono tutti stati incarcerati o scomparsi, oppure come l'uomo d'affari Fang Bin, l'avvocato Chen Qiushi e l'ex reporter televisivo statale Li Zehua, anche loro tutti incarcerati, per aver diffuso il proprio pensiero in merito alla gestione governativa dell’emergenza.
Infine, c’è un’altra scomparsa misteriosa: l’uccisione, a maggio 2020, di Bing Liu, 37 anni, un professore cinese dell'università di Pittsburgh, che era vicino a "scoperte molto significative" sul Covid-19, e che è stato assassinato nella città della Pennsylvania in un caso di omicidio-suicidio.
Bing Liu, è stato ucciso nella propria abitazione, con numerosi colpi di pistola alla testa, al collo e al torace. L'omicida è il 46enne Hao Gu, anche lui di Pittsburgh, che poi si è ucciso nella sua auto, parcheggiata poco distante. La polizia ritiene che i due si conoscessero e che il movente non fosse una rapina. Il delitto è avvenuto sul patio della casa mentre la moglie della vittima era fuori.
L'università di Pittsburgh ha poi spiegato che Bing Liu aveva un dottorato in chimica ed era "un eccezionale e prolifico ricercatore", e che era "vicino a realizzare scoperte molto significative per la comprensione dei meccanismi cellulari che sottintendono all'infezione da SARS-CoV-2 e alle successive complicazioni".
Bing Liu è stato ucciso perché stava per trovare le prove di una manipolazione genetica di Covid-19? Certamente sì.
2) La seconda accusa mossa da Five Eyes a Pechino, riguarda la possibilità di una fuoriuscita del virus dai laboratori di Wuhan, nei quali l'equipe della dottoressa Shi Zhengli ha per anni condotto esperimenti sui Coronavirus nei pipistrelli, manipolando un campione del virus corrispondente al 96% con il Covid-19.
3) La terza, e ultima accusa, riguarda la continua attività di insabbiamento delle prove da parte di Pechino, attraverso la censura delle notizie sul virus dal web, già dal mese di dicembre 2019, e la deliberata rimozione dai motori di ricerca di key words riguardanti il coronavirus, le sue similitudini con la Sars, il mercato del pesce e il laboratorio di Wuhan.
Il mondo punta (a ragione) il dito contro la Cina, ma tutte le colpe del regime di Pechino nell’aver taciuto per mesi (gli inizi dell’epidemia sembra risalgano addirittura ad agosto 2019) il diffondersi del virus, alla fine non avranno conseguenze, perche nessuna nazione, per quanto ricca e potente, puó risarcire il mondo intero per un suo errore, anche se fatale e letale, e soprattutto perché, rivalersi sulla Cina, significherebbe arrivare alla terza guerra mondiale, e alla fine dell’umanità.
E già adesso, l’umanità si trova in bilico sull’orlo del baratro.
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generalstarfishperfection · 4 years ago
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Vaccini, vaccinazioni, vaccinati Oggi e Ieri
06/05/2021
Svolta storica degli Stati Uniti che hanno deciso di rinunciare alla protezione dei brevetti sui vaccini anti Covid. "Le circostanze sono straordinarie" ha spiegato Biden. 
Il direttore dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus ha parlato di momento monumentale nella lotta contro il Coronavirus: ora anche Paesi in forte difficoltà sia economica che epidemiologica, come India e Brasile, potranno fabbricarsi in casa il siero anti-virus.Per le case farmaceutiche invece nessuna svolta storica!
 Alla richiesta di liberalizzare i brevetti dei vaccini ecco l'ennesima risposta:“No alla sospensione dei brevetti dei vaccini covid, non aumenterà la produzione”Case farmaceutiche contro la sospensione dei brevetti dei vaccini covid. 
Secondo la Federazione internazionale dei produttori e delle associazioni farmaceutiche, la posizione del governo Usa che si schiera per la sospensione temporanea dei brevetti dei vaccini anti-Covid, è "deludente". "Il nostro obiettivo è di garantire che i vaccini Covid-19 siano rapidamente ed equamente condivisi in tutto il mondo. Ma, come abbiamo costantemente affermato, una rinuncia è la risposta semplice ma sbagliata a ciò che è un problema complesso. 
La rinuncia ai brevetti dei vaccini Covid-19 non aumenterà la produzione né fornirà soluzioni pratiche necessarie per combattere questa crisi sanitaria globale" fanno sapere le case farmaceutiche, concludendo: "Il sistema internazionale di proprietà intellettuale ha dato alle aziende la fiducia per impegnarsi in più di 200 accordi di trasferimento tecnologico per espandere la consegna dei vaccini Covid-19 sulla base di partnership senza precedenti tra i produttori di vaccini industrializzati e dei paesi in via di sviluppo. 
L'unico modo per garantire un rapido aumento e un equo accesso ai vaccini a tutti coloro che ne hanno bisogno rimane un dialogo pragmatico e costruttivo con il settore privato".
Un po' di storia per mettere a confronto le scelte delle case farmaceutiche dei nostri giorni a quelle di medici come Bruce Albert Sabin, inventore del vaccino antipolio. 
Il 3 marzo del 1993 moriva a 86 anni all’ospedale della Georgetown University di Washington Bruce Albert Sabin. È diventato famoso anche come “l’uomo della zolletta di zucchero”: era stato infatti lui a ideare il più diffuso vaccino contro la poliomielite che veniva somministrato con una zolletta imbevuta. Il suo nome viene spesso citato in questi giorni per via della pandemia da coronavirus, dell’andamento lento della campagna vaccinale, dei brevetti: chi propone di condividerli e chi dice che è impossibile.“È il mio regalo a tutti i bambini del mondo”, disse invece Sabin che visse una vita piuttosto rocambolesca, spesso drammatica. 
Non ha mai vinto il Premio Nobel per la Medicina ma è finito nel ritornello della canzone del film Mary Poppins con quel “poco di zucchero e la pillola va giù”. Un inno, allegro e inconsapevole, alla sconfitta di un’epidemia tragica.  Sabin era nato nel 1906 nel ghetto di Bialystok, in Polonia, una città parte dell’Impero Russo. Quando aveva 15 anni era partito con la famiglia per gli Stati Uniti. Il padre Jacob era artigiano: aveva deciso di partire per via della crescente ostilità anti-ebraica che si andava diffondendo in Europa. Bruce Albert fin dalla nascita era quasi cieco dall’occhio destro.Con l’appoggio dello zio, divenne un promettente studente di odontoiatria alla New York University. 
Quando però lesse il libro I cacciatori di microbi di Paul de Kruif cambiò idea: non più dentista, ma medicina. Microbiologia, per la precisione: un’epifania. L’aneddotica sulla sua vita racconta che andasse perfino raccogliendo microbi per la città, lì dove capitava: stagni, polvere, cassonetti della spazzatura e via dicendo.Sabin si laureò, divenne capo della ricerca pediatrica, assistente di William Hallock Park, celebre per gli studi sulla difterite. Approfondì quindi lo studio delle malattie infettive: la poliomielite era una piaga in quegli anni. 
La malattia virale aveva paralizzato tra il 1951 e il 1955 oltre 28.000 bambini. Diverse migliaia le vittime. Nel solo 51 negli USA aveva colpito 21.000 persone; in Italia oltre 8.000 nel 1958.La poliomielite colpisce il sistema nervoso centrale e in particolare i neuroni del midollo spinale. Il contagio avviene per via oro-fecale: ingestione di acqua o cibi contaminati o tramite la saliva e le goccioline emesse con i colpi di tosse e gli starnuti da soggetti ammalati o portatori sani. La fascia più a rischio sono i bambini sotto i cinque anni di età. L’1% dei malati sviluppano paralisi, il 5-10% una meningite asettica. Un vaccino annunciato negli Stati Uniti nel 1934 si era rivelato inefficace, anzi letale. 
Il Presidente Franklin Delano Roosvelt il 3 gennaio del 1938, costretto su una sedia a rotelle con una diagnosi di poliomielite – che in seguito sarebbe stata contestata – scrisse un appello sui quotidiani e fondò la National Foundation for Infantile Paralysis allo scopo di raccogliere fondi per la lotta alla malattia. La campagna, alimentata anche da volti noti, fece esplodere l’attenzione sulla poliomielite.Sabin era uno scienziato rigoroso ed intransigente. 
Un’esplosione di contagi a New York lo aveva spinto a studiare la polio, dal 1931 presso l’University of Cincinnati, nello stato dell’Ohio. Il suo primo grande risultato fu capire che non si trattava di un virus respiratorio: ma che vive e si moltiplica nell’intestino. Aveva inaugurato l’epoca degli enterovirus. Ma allo scoppio della II Seconda Guerra Mondiale Sabin partì come ufficiale medico: sbarcò in Sicilia e poi a Okinawa, in Giappone; a Berlino aveva intanto assistito a una terribile epidemia di polio. Quando tornò in America riprese le sue ricerche armando un laboratorio con 10mila topi e 160 scimpanzé. 
Mise a punto così un vaccino che si basava su ceppi indeboliti e che andava somministrato per via orale. Jonas Salk, ricercatore della University of Pittsburgh, aveva realizzato intanto tre vaccini, uno per ogni tipo fondamentale di polio, a partire da virus uccisi e conservati in formalina, che gli USA nel 1952 approvarono. Il farmaco di Salk tuttavia non preveniva il contagio iniziale e veniva somministrato tramite iniezione.A chiamare in causa gli sforzi di Sabin fu l’Unione Sovietica che, con altri Paesi dell’Est europeo, richiese allo scienziato di sperimentare il farmaco sulla sua popolazione. Fu un successo: il primo Paese a produrlo su scala industriale fu la Cecoslovacchia, poi la nativa Polonia, l’Urss stessa, la Repubblica Democratica Tedesca e la Jugoslavia. L’autorizzazione in Italia arrivò nel 1963, dal 1966 il vaccino divenne obbligatorio. In ritardo arrivarono anche gli Stati Uniti.Si vaccinarono milioni di bambini in tutto il mondo. L’ultimo caso negli Usa risale al 1979, in Italia al 1982.
 Sabin divenne molto celebre: ricevette 40 lauree honoris causa, il Premio Feltrinelli, la Medaglia Nazionale per la Scienza. Divenne anche presidente del Weizmann Institute of Science di Rehovot, in Israele, e dopo la pensione continuò a studiare i tumori, il morbillo e la leucemia. “Non dobbiamo morire in maniera troppo miserabile – diceva – La medicina deve impegnarsi perché la gente, arrivata a una certa età, possa coricarsi e morire nel sonno senza soffrire”.
Se dolce come lo zucchero era il suo farmaco, altrettanto non era lui a quanto pare: dai modi spesso burberi, anche per una vita fin dall’infanzia segnata da drammatici sconvolgimenti che, non finirono in età adulta: la sua prima moglie, madre delle figlie Amy Deborah – chiamate come le nipoti uccise dalle SS durante la guerra – si tolse la vita trangugiando barbiturici nel 1966. Eredi dello scienziato vivono in Italia, tra Milano, Biella e Bologna. “Il vaccino di Sabin – si legge sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità – somministrato fino ad anni recenti anche in Italia, ha permesso di eradicare la poliomielite in Europa ed è raccomandato dall’Organizzazione mondiale della sanità nella sua campagna di eradicazione della malattia a livello mondiale”.
Se Sabin così spesso viene tirato in causa in questi giorni è per la sua decisione di non brevettare la sua invenzione, rinunciando allo sfruttamento commerciale dell’industria farmaceutica. “Tanti insistevano che brevettassi il vaccino, ma non ho voluto. È il mio regalo a tutti i bambini del mondo”, disse e non guadagnò un dollaro dalla sua scoperta. Donò i ceppi virali all’Urss, superando le gare sull’orlo della Cortina di Ferro, tra Usa e Urss, in piena Guerra Fredda, e continuò a vivere del suo stipendio da professore. 
Molti lo tirano quindi in ballo per la campagna vaccinale, e la penuria di farmaci, contro il coronavirus che avanza a fatica in queste settimane, questi mesi.La questione è argomento di dibattito ormai da mesi. Oxfam ed Emergency hanno scritto un appello al governo per la liberalizzazione dei brevetti “ponendo fine al monopolio delle case farmaceutiche. A cominciare dal vaccino italiano Reithera, in dirittura d’arrivo”. Un brevetto riconosce un monopolio: un’esclusiva di produzione, uso e vendita. Vale di solito 20 anni. 
Questo meccanismo è considerato da molti economisti ed esperti un incentivo per investire nella ricerca. È anche vero però che molte ricerche vengono – e sono state, nel caso specifico – finanziate da ingenti investimenti pubblici.I vaccini sono anche farmaci poco redditizi rispetto a quelli che vengono assunti per una malattia cronica. I governi hanno in effetti la possibilità di sospendere momentaneamente il monopolio, da Risoluzione 58.5 dell’Assemblea Mondiale della Sanità (Ams). Una strada alternativa, come ha ricordato il Post in un lungo e approfondito articolo sulla questione, potrebbe essere una licenza su base volontaria da parte delle aziende farmaceutiche che permetta la produzione ad altre società. 
Il dibattito è comunque molto più complesso di così e si ramifica in tutti i brevetti che possono esserci dentro un solo vaccino, nelle norme per gli stabilimenti industriali, negli accordi e le collaborazioni tra case farmaceutiche (Sanofi e Novartis si occupano dell’imballaggio e del confezionamento dei lotti di Pfizer e BioNTech, per esempio), nelle autorizzazioni in arrivo per altri vaccini.
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levysoft · 7 years ago
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Shadows from the walls of death è un libro stampato in cento copie nel 1874, largo circa 50 centimetri e alto 70: al mondo ne sono rimaste soltanto quattro e se le toccate potreste stare molto male, se non addirittura morire. Le circa cento pagine che compongono il volume sono infatti intrise di arsenico, come chiesto dall’autore Robert M. Kedzie, un chirurgo unionista durante la guerra civile statunitense e poi professore di chimica al Michigan State Agricultural college (MSU). Kedzie aveva un buon intento: richiamare l’attenzione sulla tossicità della tappezzeria dell’epoca, che impiegava alcuni pigmenti fatti con l’arsenico, pubblicando un libro con i campioni di quelle più comuni e pericolose. Il libro, inviato a circa cento biblioteche pubbliche del Michigan, era accompagnato da un avvertimento del Consiglio per la salute dello stato, di cui Kedzie faceva parte, sui motivi della sua tossicità.
All’epoca si pensava che l’arsenico fosse tossico soltanto se ingerito: è il veleno che uccise Romeo e Giulietta e Madame Bovary, per capirci, insieme a tantissimi signori delle corte medievali e rinascimentali italiane. I sintomi da avvelenamento erano come quelli del colera ed era difficile da rintracciare, era inodore e insapore e si confondeva facilmente con lo zucchero e la farina. Nell’Ottocento l’arsenico divenne famoso come “la polvere dell’eredità”, usata per sbarazzarsi facilmente di vecchi parenti che tardavano a morire, e giornali e romanzi già dai primi anni Trenta traboccavano di storie di omicidi con l’arsenico rimasti impuniti. L’arsenico fu usato per secoli in medicina per curare malattie come la sifilide e poi in epoca vittoriana mescolato a gesso e aceto per sbiancare la pelle; la Rivoluzione industriale lo rese un prodotto di successo, economico, accessibile a tutti e impiegato per moltissimi oggetti di uso comune: candele di sego meno care di quelle di cera, veleni per vermi e topi, cialde da applicare sul viso per togliere i brufoli, e per i pigmenti verdi più brillanti e in voga all’epoca, impiegati nelle tinture dei tessuti, delle tappezzerie e dei dolcetti.
Il primo pigmento verde realizzato con l’arsenico fu il Scheele’s Green, ottenuto nel 1775 dal chimico Carl Wilhelm Scheele utilizzando l’arseniato di rame. Era di una qualità superiore ai verdi dell’epoca e in breve li rimpiazzò tutti aprendo la strada ad altri verdi a base di arsenico, come il verde smeraldo e il verde di Parigi, chiamato così perché usato per derattizzare le fogne della città, e poi come larvicida contro la malaria in Italia e in Corsica nella Seconda guerra mondiale. La diffusione di queste tinte mortali fu dovuta ai pittori pre-raffaelliti, che la apprezzavano appunto per la sua brillantezza, e agli arredatori delle case della classe media: portarono a morti di artisti e signore vittoriane. Secondo stime dell’Associazione dei medici americani, a fine Ottocento il 65 per cento della carta da parati usata nel paese conteneva arsenico.
A metà Ottocento si sospettava che l’arsenico potesse essere velenoso anche se aspirato, e stava nascendo un movimento di opinione tra medici e persone comuni che chiedeva di non impiegarlo più nei coloranti e negli oggetti quotidiani. A rafforzarlo fu un caso di avvelenamento avvenuto a Limehouse, vicino Londra, nel 1863, di cui la stampa si occupò moltissimo. Nel giro di pochi mesi morirono di una malattia misteriosa tutti i quattro figli piccoli di Richard Turner, un muratore da poco trasferitosi da quelle parti. Thomas Orton, un importante medico dell’epoca, si mise a indagare e dopo aver sospettato difterite e contaminazione dell’acqua, notò il verde splendente della carta da parati della camera da letto e si ricordò di una strana teoria che circolava allora tra i medici, cioè che alcuni coloranti fossero velenosi. Richiese l’autopsia del corpo di una figlia di Turner e scoprì che si trattava di avvelenamento da arsenico. La storia finì con un processo e un verdetto di “morte naturale” da parte della giuria che ne fece discutere ancora di più. Da allora molti arredatori e fabbricanti di stoffe smisero di impiegare pigmenti con arsenico, anche se restavano spesso convinti che si trattasse di un allarmismo dei medici. William Morris, che disegnò le più famose carte da parati di metà Ottocento, parlò per esempio di una “caccia alle streghe”, anche se l’azienda per cui lavorava, la Morris and Co, abbandonò i pigmenti di arsenico nel 1875.
Nella prefazione di Shadows from the walls of death, Kedzie spiegava che l’arsenico poteva avvelenare giorno per giorno, lentamente, anche senza un contatto diretto: le donne che si stendevano a letto per riprendersi da indisposizioni, corpetti troppo stretti e appuntamenti sociali sgradevoli cercavano sollievo in «un’aria appesantita dall’alito della morte». Da qui molte morti giovani e misteriose, fatte di dolori addominali, pelle scolorita, problemi al cuore e mal di testa, come quella della scrittrice Jane Austen che secondo nuovi studi sarebbe morta per un avvelenamento involontario di arsenico. Le obiezioni di quelli che prosperavano tra tappezzerie verdi e sgargianti è spiegata perché i corpi tollerano diverse dosi di arsenico: basse in bambini e anziani, più alte negli adulti e in chi si nutre di molte proteine.
Delle quattro copie che restano di Shadows – le altre sono state distrutte dai librai per paura di avvelenare i lettori – due sono conservate alla MSU University in una scatola verde della sezione speciale della biblioteca, con tutte le pagine sigillate nella plastica per permettere di maneggiarla senza guanti e senza il pericolo di leccarsi la punta delle dita. Una si trova nella biblioteca della Scuola medica della Harvard University e un’altra in quella della National Library of Medicine che, impiegando le adeguate tute protettive, ha digitalizzato il libro e l’ha reso disponibile online (oppure potete comprare la versione innocua su Amazon).
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entheosedizioni · 5 years ago
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Le famose sconosciute: Nellie Bly
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Mentre raccoglievo informazioni su Nellie Bly la domanda "ma quante vite ha vissuto, questa donna?" mi è nata spontanea. La prima impressione è stata quella che lei sia stata qualcuno che ha fatto talmente tante cose per cui non basterebbe una vita per farle. Invece è morta a 57 anni.
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Photo@wikipedia Nel 1864 Elisabeth Jane Cochran nasce nel paese fondato da suo padre, a Cochran's Mills, Pennsylvania. Il padre, da semplice aiuto mugnaio era diventato un ricco proprietario terriero. Vedovo con dieci figli, si risposò con Mary Jane, futura madre di Elisabeth da cui ebbe altri cinque figli. Qualche tempo dopo, il padre morì senza lasciare testamento e la seconda moglie, non avendo diritti sull'eredità, dovette lasciare la casa insieme ai suoi cinque figli. Elisabeth aveva solo sei anni. Trasferitasi a Pittsburg, la vedova si risposò con un uomo che si dimostrò violento e dedito all'alcool. Quando decise di divorziare, Mary Jane fu costretta a dimostrare in tribunale gli abusi subiti, la figlia stessa dovette testimoniare in merito. Ancora quindicenne, Elisabeth s'iscrive all'Indiana Normal School. La scelta è pressoché obbligata: studia per diventare maestra, una delle poche occupazioni aperte alle donne a quel tempo. Non eccelle nello studio, ama però scrivere e ci si dedica con passione. Neanche sei mesi più tardi invece deve sospendere gli studi: non ci sono più i soldi per pagare la retta. Torna quindi ad aiutare la madre che gestisce una piccola pensione. Elisabeth è determinata a trovarsi un vero lavoro, impresa quasi impossibile in un epoca in cui per una donna lavorare non era rispettabile. Ed è appunto di questo che parla l'articolo What girls are good for (A cosa servono le ragazze) – e sorvolerò sulla mia risposta a questo titolo cretino – uscito sul Pittsburg Disptach con la firma di Erasmus Wilson, uno dei più famosi editorialisti di Pittsburg.
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Erasmus (che non aveva niente a spartire con il proprio nome, Cretinus sarebbe stato molto più appropriato, per l'appunto) asseriva che le donne devono orbitare esclusivamente nella sfera domestica: cucinare, stirare, lavare, sfornare e crescere bambini, ecco a cosa servono le donne. Per la precisione, le ragazze, non so quindi cosa dirvi, forse le donne non servivano neanche più a quello? Cretinus non si fermava qui, no, la cosa non era abbastanza obbrobriosa, lui andava persino oltre, definendo una mostruosità le donne che avevano l'indecenza di lavorare! Ebbene, intanto che sono occupata a inorridire copiosamente e a evitare con cura l'intera lista di attività elencata da questo... signore, vorrei fermarmi un attimo per riflettere. Perché, a pensarci bene, questa storia mi ricorda qualcosa. Questa storia mi ricorda che i tempi in cui viviamo (fine 2018, per chi avesse perso il conto) stanno iniziando ad assomigliare sempre più a certe mostruosità storiche che l'umanità ha già vissuto. Sia chiaro, tutto presentato in edulcorate vesti perbeniste da vari Cretinus o Cretinas (ma sì, mica ha l'uomo l'esclusiva) che si stanno diffondendo a dismisura. E che ci dicono come dobbiamo vivere, chi dobbiamo amare, che tipo di famiglia scegliere di costruire, ci indicano le razze migliori (come se al mondo ci fossero altre razze oltre a quella umana – ah, già, c'è anche quella dei cretini, certo!) oppure ci spiegano verso chi dobbiamo essere compassionevoli. Loro però non si fermano qui, no. Loro sono talmente generosi da infonderci i loro ideali assoluti persino su cosa NON dobbiamo fare. Chi NON dobbiamo amare – che è contro natura. A chi NON dar modo di integrarsi – che tanto, è pericoloso. A chi NON dare assistenza – che tanto, è qui a rubare. A chi NON garantire giustizia – che tanto, è solo un drogato. E moltissimi altri "che tanto..." Da qui a "che tanto, è solo una donna" il passo è breve. Ma forse questo richiederebbe un articolo a parte. Tornando invece all'articolo incriminato, questo suscitò un'onda d'indignazione e una pioggia di lettere di protesta, fra cui spiccava una firmata Little orphan girl: un concentrato di acume talmente potente da spingere il direttore del giornale, George Madden a scommettere che sotto la firma si nascondesse decisamente un uomo. Per smascherarlo e confermare la sua certezza, Madden offrì un posto di lavoro a chiunque dimostrasse di aver scritto la lettera. Ecco dunque Elisabeth che si presenta a prendere in carico il promesso lavoro. Ha 21 anni ed è qui che inizia la sua folgorante carriera giornalistica. Com'era da aspettarsi, il mondo giornalistico poco gradisce le firme al femminile, quindi Elisabeth è costretta a cambiare nome, scegliendo quello di Nellie Bly (nome ispirato da una famosa canzone popolare scritta da Stephen Foster). Per riscattarsi dalle scelte obbligate per essere accettata, Nellie decide la sua linea editoriale: si schiera dalla parte delle lavoratrici sfruttate, scrive sul lavoro minorile, sulla sicurezza sul lavoro, sul diritto di divorzio. Il suo nome inizia a essere conosciuto, ma con la fama arrivano anche i primi problemi. Troppo scomoda, troppo vera: gli investitori minacciano il giornale di sospendere i finanziamenti e Madden è costretto a relegare Nellie alle pagine di moda e giardinaggio. Mondo che, ovviamente, sta stretto alla ragazza. Indomita, nel 1886 convince il direttore a spedirla come inviata in Messico. Da lì racconta storie di soprusi e miseria, descrive la corruzione che avvelena il paese e, solo sei mesi più tardi, si fa espellere. Aveva pubblicato la storia di un giornalista imprigionato per ordine del Presidente con l'accusa di aver criticato il governo. Ritorna al giardinaggio giusto il tempo per trovare un lavoro a New York, dove convince Joseph Pulitzer ad assumerla in uno dei suoi più famosi giornali, il New York World. Nellie è talmente determinata e crede in quello che fa a tal punto da lanciarsi nel giornalismo investigativo in prima persona. Letteralmente. Fingendosi disturbata mentalmente si fa ricoverare per dieci giorni nel manicomio femminile di Blackwell's Island. La sua inchiesta (Dieci giorni in manicomio) diventa famosa. Il racconto alienante delle condizioni delle internate – alcune addirittura sane, racchiuse dalla famiglie per motivi di soldi o vendette personali –, gli abusi, la mancanza di cure mediche, tutto questo smuove l'opinione pubblica a tal punto da attuare una riforma degli istituti mentali nello stato di New York.
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Photo@goodreaders Nellie continua la sua battaglia giornalistica su vari fronti: è l'unica a raccontare lo sciopero degli operai di Pullman Railroads dal loro punto di vista, racconta la vita delle donne nelle fabbriche, viene addirittura arrestata, parla delle serve-schiave nelle ricche dimore di New York, intervista personaggi famosi – tutto con uno stile inconfondibile. Infatti, nel 1894, il New York Journal la sceglie come "Miglior reporter d'America". Già famosa, raggiunge l'apice della sua carriera in seguito a un'impresa folle e inaudita allo stesso tempo: nel 1899 decide di replicare il Giro del mondo in ottanta giorni di Jules Vernes. Convince Pulitzer a finanziarla e parte all'avventura: farà il giro del mondo in nave, in treno, a dorso di mulo, col risciò e altri esotici mezzi, tornando a New York dopo 72 giorni, 6 ore, 11 minuti e 14 secondi, stabilendo un vero record mondiale.
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Photo@BustMagazine Il mondo intero segue la sua avventura, Pulitzer istituisce una lotteria per i lettori, più di un milione di persone partecipa cercando di indovinare la data del suo ritorno, la sua fama è alle stelle. Trentenne, Nellie sposa a sorpresa un miliardario di quarant'anni più grande di lei, si ritira dal giornalismo e conduce una vita lontana dai riflettori. Nel 1905 suo marito muore, lei si dedica agli affari di famiglia. Introduce ambulatori medici, palestre e biblioteche nelle sue fabbriche, istituisce corsi per insegnare a leggere e scrivere agli operai, combatte per migliorare le condizioni lavorative. Pochi anni dopo deve dichiarare però fallimento e si rifugia in Svizzera per sfuggire ai creditori. La Prima Guerra Mondiale è la scusa per tornare al giornalismo: Nellie fa l'inviata di guerra sul fronte austriaco per New York Evening Journal. Le atrocità della guerra le forniranno la determinazione di raccontarle direttamente dalla trincea, gomito a gomito coi soldati morenti sotto una coltre di fango. Rientrata a New York continua il suo impegno giornalistico e dà vita a una nuova impresa: trovare una casa ai bambini abbandonati. Muore per una polmonite nel 1922, dopo aver vissuto mille vite. Annabelle Lee Read the full article
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