#sentirsi un po' emily
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continuoasbagliare · 3 days ago
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Se sfiorassi una candela non mi brucerei.
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october24th · 4 years ago
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Resoconto Giorno 121
Ieri sera, dopo essermi messa a letto, gli occhi mi bruciavano e le palpebre cedevano. Pertanto ho voluto approfittarne per addormentarmi senza problemi, dopo le ultime due notti. Appena ho posato il cellulare e ho chiuso gli occhi, la mia mente ha iniziato a elaborare pensieri al posto di preparare il set dei miei sogni. Ecco... a differenza delle ultime due notti stavolta ho saputo trattenere le lacrime. Comunque all’improvviso non riuscivo più a dormire e sono rimasta con gli occhi serrati in attesa della chiusura del sipario. Mi sono poi svegliata verso le cinque e ho fatto fatica ad addormentarmi successivamente. Mi sono svegliata in continuazione tra le sei e le nove.
Stamattina papà mi ha portato il cornetto a marmellata, frutti di bosco. Dopo averlo mangiato ho sistemato la camera da letto mentre lui ha ultimato le pulizie nel lato giorno della casa. Ho visto delle puntate di My Hero Academia, di cui una con Robb. Dopo mi sono messa in cucina con papà che ascoltava la musica da YouTube. Si è svegliato di buon umore, ballava e cantava. Mi faceva tanto ridere. Mi sono messa alla ricerca di appartamenti, ma non ho trovato nulla. Verso la mezza abbiamo iniziato a pranzare, avevamo già fame, e dopo abbiamo fatto entrambi il pisolino, io sul divano e lui sul letto.
Questo periodo di totale sconforto mi sta risucchiando la voglia di fare qualsiasi cosa. Sono totalmente distratta, con la testa tra le nuvole. Prima riuscivo a trovare equilibrio tra la testa sognante e i piedi per terra. Mi sono resa conto che purtroppo non ci riesco più e sto trascurando le persone a cui tengo, che come me non stanno passando un bel periodo. E so che posso e devo far di meglio, anche al costo di mettere da parte un po’ me. Anche se vorrei passare intere giornate a letto, senza qualcosa da fare. Anche se vorrei piangere ogni momento della giornata. Anche se vorrei star da sola. E allora devo mettere da parte la stanchezza, lo sconforto, la malinconia, la confusione. Per loro. Ma quanto vorrei qualcuno qui a prendersi cura di me.
Nel pomeriggio ho giocato alla PlayStation a Warzone, poi sono andata a casa di mamma dove mi stava aspettando mia cugina. Ho salutato tutti, Lola compresa, e dopo ci sono rintanate in cameretta a chiacchierare. Mi ha raccontato cosa è successo negli ultimi giorni, si è sfogata e ha pianto un pochino e ho cercato di confortarla. Dopo la chiacchierata abbiamo anche trovato una soluzione e tutto sembra aver trovato finalmente pace. Ho giocato con Lola, mangiato una fetta di pandoro con la crema manna spalmabile, guardato l’inizio del film The invisible man, parlato con zio e mio cugino. Poi io e papà siamo ritornati a casa, abbiamo cenato e dopo ho provato a mettere il dvd di harry potter dal computer, avrei potuto guardarlo dalla tv, ma volevo provare il regalo di Lucia. Al pc mancava l’app per leggere il cd così ho scaricato ben due applicazioni, ma nessuna delle due funzionava. Mi sono fatta aiutare da Robb, che è bravo e finalmente ci sono riuscita. Harry Potter e i doni della morte parte II con Vitto che vorrebbe guardarlo davvero con me.
The invisible man: Cecilia Kass è intrappolata in una relazione violenta un uomo d'affari, Adrian Griffin, almeno finché una notte non decide di fuggire. Cecilia fugge con l'aiuto di sua sorella Emily e trova rifugio a casa del suo amico d'infanzia James, un detective della polizia, e sua figlia adolescente Sydney. Due settimane dopo Adrian si suicida e lascia a Cecilia 5 milioni di dollari nel suo testamento. Ma il testamento contiene una clausola, la donna infatti riceverà l'ingente somma solo se non verrà dichiarata mentalmente disturbata. Proprio questo vincolo convince Cecilia che il suo ex le abbia riservato qualche spiacevole sorpresa e che la sua morte celi qualcosa di oscuro. Col tempo inizia a sentirsi osservata e ad avvertire una presenza in casa, tanto da convincersi che Adrian in verità non sia mai morto, ma sia semplicemente diventato invisibile.
26 Dicembre
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isabelamethyst · 6 years ago
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Ben & Isabel 🗓 01/06/2019 ; pomeriggio 📍Casa Hughes
È passato fin troppo tempo dal loro ultimo incontro, incontro abbastanza strano sia per le condizioni della ragazza sia per il luogo dove è avvenuto. Quel dannato ospedale sembra essere perennemente e costantemente presente nella vita di Ben e più lui cerca di allontanarsi più accade qualcosa di spiacevole che lo spinge ad avvicinarsi. Uscito dal lavoro ha fatto una breve visita ad Emily, ancora ricoverata ed ancora senza memoria, per poi dirigersi verso casa dell’amica con la quale si è precedentemente sentito tramite messaggi.
« Sono io, Ben. »
Risponde al citofono, tra le mani la consueta scatola di cioccolatini misti dato che ricorda benissimo quanto ad Isabel siano piaciuti la scorsa volta.
#RavenfireRpg
Isabel Amethyst M. Hughes
Pensieri oscuri, perfino malati s'abbattevano ripetutamente sulla mente della giovane Hughes mettendo a dura prova la sua stabilità mentale. Immagini di morte, di torture dove lei stessa era protagonista occupavano la mente di Isabel ogni volta che chiudeva gli occhi. Per non parlare di quella sensazione di fame costante che non le dava tregua, una fame che non aveva mai provato in vita sua, tutte sensazioni che portavano la newyorchese a isolarsi, sempre di più, sempre più soventemente. Che cosa le stava davvero succedendo? Chiuse gli occhi seduta su quell'ampio divano da sempre testimone dei suoi sbalzi d'umore. Sentiva la sua stabilità mentale abbandonarla e ogni giorno che passava, tutto diventava più confuso. Forse era davvero pazza. Solo quando un suono acuto distrasse Isabel dai suoi pensieri, si rese conto che era trascorso più tempo di quanto non avesse creduto. Era già pomeriggio inoltrato, e quando rispose al citofono sapeva esattamente chi fosse. Non aveva parlato minimamente a Ben delle sue sensazioni, dei suoi tormenti interiori, sapeva come la pensava ma a mano a mano che il tempo passava sentiva quella distanza farsi sempre più strada tra di loro. Aprì la porta lisciando i capelli scuri come la notte e diede una fugace occhiata all'amico di vecchia data. « Dai, non stare lì impalato, entra. » Cercò di essere il più naturale possibile, un tono di voce che sperava non tradisse quando fosse turbata. Mostrò un sorriso cordiale e si voltò in direzione della sala, certa che ci avrebbe pensato Ben a chiudere la porta di ingresso. « Almeno non sono più in ospedale, quindi non voglio vedere quel muso lungo eh... Come stai? Posso offrirti qualcosa? »
Ben Alexander Scott
« Non sto qui impalato, sono solo educato. » Mormora sentendosi un perfetto idiota mentre varca la soglia di casa Hughes chiudendo la porta alle proprie spalle. La segue senza emettere alcun suono, si maledice per essere così imbranato nelle relazioni sociali e, per combattere l’ansia che lo sta divorando, si guarda attorno studiando un po’ l’abitazione che lo sta ospitando. È la prima volta che fa visita ad Isabel e deve ammettere che è davvero accogliente quel appartamento ma, nonostante si soffermi su questi futili pensieri c’è qualcosa che lo allerta, una strana sensazione che lo pervade nel stare al fianco di quella amica che ormai conosce da tanti anni. « Devo ammettere che qui è molto meglio del ospedale anche se, per mia sfortuna, ci devo tornare per trovare un’amica. » Già, quel posto sembra ormai essere diventato un incubo sempre più presente nella di lui vita e la cosa non gli piace proprio per niente. « Se hai una birra la bevo volentieri, altrimenti un bicchiere di acqua va più che bene. » Non vuole sentirsi un peso per Isabel ma non può nemmeno risultare il solito musone dinanzi alla cordialità dell’amica. « A proposito, ti ho portato nei nuovi cioccolatini, so che ti piacciono. » E così dicendo le offre la scotola cercando di abbozzare un sorriso non troppo impacciato.
Isabel Amethyst M. Hughes
Isabel e Ben non potevano essere più diversi caratterialmente, erano come il diavolo e l'acqua santa, la luce e il buio, eppure erano riusciti ad instaurare un legame forte ed intenso: ma sarebbero sopravvissuti anche a ciò che stava accadendo a Isabel? Questa non era propriamente una certezza nella mente della Hughes che, in piedi all'ingresso della sala, non mostrò alcun turbamento. Da quando aveva lasciato l'ospedale, sentiva il controllo scivolare via da sé. Inspirò sonoramente, strinse i pugni affondando le unghie nei palmi delle mani e cercò di rilassarsi ripetendo a se stessa che era tutto normale. « Spero nulla di grave... E che abbia anche un trattamento ben più breve di quello che è capitato a me. Comunque, birra sia... » Si voltò nella sua direzione per strizzargli l'occhiolino e andare così verso la cucina. Aprì il frigorifero e dal cartone delle bottiglie ne estrasse un paio che prontamente aprì. Era bello poter lasciar andare ogni attenzione al bon ton, e comportarsi come una persona normale e questo valeva anche per bere una semplice birra. « Cioccolatini e birra, vuoi viziarmi? Non potrei mai resistere, lo sai! » Con i suoi movimenti la Hughes cercò di mettere a suo agio l'amico, gli offrì la birra ghiacciata appena aperta e prese allo stesso tempo la scatola che questa volta virava sui toni caldi del rosso, il suo colore preferito. Era golosa di natura, eppure quel senso di fame che non le dava tregua era ben diverso da quello che provava per i suoi amati dolci. Andò così a sedersi sul divano, rannicchiò le gambe sotto di sé e mise la scatola, ora aperta, sul tavolino in mogano posizionato proprio di fronte al divano. « Allora che mi dici? Finalmente sono uscita da quella tortura, per cui voglio sapere tutto ciò che mi sono persa... Uscite, ragazze, scontri... »
Ben Alexander Scott
« Nulla di così grave per fortuna. Nulla di rotto ma ha perso momentaneamente la memoria dopo un forte colpo alla testa. Spero sia momentaneo, almeno, penso sia terribile non ricordarsi nulla della propria vita.... » Con un sorriso prende la bottiglia che, gentilente, Isabel gli ha offerto e - seppur cerchi di apparire il più normale possibile - la vicenda di Emily lo riporta all’aggressione che ha subito e può capire perfettamente lo stato d’animo della ragazza nel non ricordare. Prende posto sul divano e subito si sporge verso la scatola dei cioccolatini per rubarne uno, cioccolato fondente e cocco, il suo preferito. « Ogni tanto bisogna viziarci, no? » Domanda per poi gustarsi quella prelibatezza che, per qualche secondo, annulla quella strana sensazione che prova ogni volta che sta a contatto con Isabel. « Sai bene che io non sono un tipo che esce e se posso evito anche gli scontri inutili. » Ragazze poi... lui?! Questa Si che è bella!
Isabel Amethyst M. Hughes
Isabel cercava di comportarsi nel modo più naturale possibile, senza dover necessariamente pensare a ciò che era successo settimane prima. In fondo era sempre la stessa, e poteva riprendere la vita di tutti i giorni sforandosi solo un poco di più. Inspirò sonoramente mentre allungò una birra all'amico e sentì la vicenda dell'amica di Ben che inevitabilmente portò la Hughes a pensare, almeno per un momento, al suo rapimento. Ciò che però turbava la mente di Isabel era il fatto che difficilmente riuscisse a distinguere ciò che era vero da ciò che non lo era, e una prova inconfutabile era ciò che era successo durante l'evento a casa dei Fitzgerald. Socchiuse per un momento gli occhi prima di mostrarsi comprensiva nei confronti di quella persona che non conosceva. « Credo di sì... » Si limitò a rispondere Isabel. Si passò una mano sulla fronte e si rannicchiò maggiormente sul divano mentre allungò una mano per afferrare un cioccolatino ricoperto di cocco. Lo gustò lasciando che il sapore amaro del cioccolato fondente si mischi con la dolcezza del cocco, mentre gli occhi cominciarono a vagare senza mai osservare con attenzione il suo ospite. Si sentiva sotto esame in sua presenza, e ricordava piuttosto bene che cosa le aveva detto quando era andato a trovarla in ospedale. « Hai ragione, ma tu mi vizi sempre così... Ad ogni modo, non fare il timido, magari non sarai il tipo da movida, ma di certo non sei casa e chiesa, no? Quindi vuota il sacco... E non è passato inosservato alle mie orecchie che non hai toccato il discorso ragazze, quindi dimmi... Che mi sono persa? » Con quella sua arringa, Isabel sperava davvero di distogliere l'attenzione da sé e spostarla così sulla vita dello Scott, ma qualcosa le diceva che Ben non si sarebbe arreso molto facilmente.
Ben Alexander Scott
Accetto con un sorriso la birra che gli offre Isabel, forse uno dei pochi vizi che si è concesso nel corso della sua triste e noiosa vita da cacciatore. Ricorda ancora quando io padre l’ha scoperto con una lattina di birra stretta tra le mani e ricorda ancora meglio le sberle che ha ricevuto per essere stato così sciocco da aver ceduto così ad un desiderio innocente di essere come tutti gli altri ragazzi. Con questi ricordi porta la bottiglia alle labbra e ne prende un lungo sorso, alla faccia di quel vecchio deposta del capostipite degli Scott. « Credi...? Ancora non mi hai detto è successo realmente a te. Ricordi qualcosa? » Come con la Kebbel anche con Isabel è intenzionato a scoprire cosa sia realmente accaduto; Andrea ha ricordi sfuocati invece la Hughes cosa rimembra di quel rapimento? « Non sono casa e chiesa ma solitamente non mi piace partecipare ad eventi, a feste e odio frequentare posto troppo affollati a meno che non mi obblighi qualcuno.... cosa abbastanza difficile ma questo già lo sai. » Prende un altro sorso di birra, non capisce perché mai tutti sono così fissati con quel discorso “ ragazze “ e si ritrova a sbuffare roteando gli occhi al cielo. « Non ti sei persa nulla. » asserisce con una lieve alzata di spalle. « A me non interessano e io non interesso a loro. »
Isabel Amethyst M. Hughes
L'istinto di Isabel era sempre stato fin troppo sviluppato, come se avesse un sesto senso per le situazioni scomode, eppure quando arrivò quella domanda da parte dell'amico, ella si ritrovò a reprimere un lieve sussulto. Era naturale che prima o poi anche quel discorso dovesse essere affrontato, come tutti i nodi che venivano al pettine, eppure Ben era anche la persona che più temeva. La Hughes chiuse gli occhi per un momento, fece un lungo sospiro prima di distogliere lo sguardo e prendere un altro cioccolatino: in fondo se aveva la bocca impegnata non poteva rispondere, no? Era decisamente un'inutile perdita di tempo. « Io... Ricordo immagini frammentarie. E' ancora tutto così confuso nella mia mente... » Disse questa volta stringendosi le ginocchia al petto. Come poteva dire all'amico che non sapeva nemmeno più cosa fosse reale e cosa? Buttò fuori l'aria che non sapeva nemmeno di trattenere e si allungò per un momento per afferrare la bottiglietta di birra e berne così un sorso. In attimo tornò nella stessa posizione di poco prima. « Lo so che tu e qualsiasi tipo di evento siete come due universi paralleli, ma potresti magari sforzarti qualche volta, non credi? E non puoi di certo dire che non ti interessano né che tu non interessi a loro. Sei un bel ragazzo, intelligente, e sono certo che se tu dessi anche solo una piccola chance a qualcuno non te ne pentiresti. » Attraverso quel discorso Isabel riuscì a distogliere l'attenzione dell'amico, eppure qualcosa le diceva che Ben non si sarebbe dato per vinto e una volta scoperta la verità, le cose sarebbero di certo peggiorate tra loro.
Ben Alexander Scott
Ben sa con certezza di aver toccato un tasto dolente con quella domanda ma è quasi diventata un’ossessione quella di scoprire la verità sui rapimenti che hanno visto vittime fin troppe persone che conosce. Legge chiari segnali di agitazione sul viso di Isabel ma quello è un discorso che avrebbero dovuto affrontare prima o poi e la Hughes lo conosce, sa quanto Ben può essere testardo quando si imputa su qualcosa. La risposta che non tarda ad arrivare non lo soddisfa molto ed è un piccolo sospiro che esce dalle di lui labbra, un sospiro che soffoca con la bottiglia che si porta alle labbra. « Ricordi altro? Qualche particolare, anche piccolo. Ricordi delle celle? Eri da sola? » Avrebbe fatto di tutto per aiutare l’amica ma è sicuro che quel incontro finirà senza Molte informazioni in più. « Ogni tanto mi sforzo, alche volte sono uscito e sono andato al Long Night ma mi sento sempre fuori posto. » Si passa una mano tra i capelli e sospira. Cos’e questa storia che tutte gli stanno ripetendo che è un bel ragazzo?! Forse sono tutti davvero impazziti. « Intelligente, forse si, ma non sono interessante. »
Isabel Amethyst M. Hughes
Isabel sapeva perfettamente che l'amico non sarebbe passato sopra a quell'argomento, soprattutto se vedeva in lei anche solamente una traccia di titubanza. Sapeva quanto Ben fosse determinato quando si impuntava su qualcosa, ma soprattutto quelle domande che le rivolse apparirono quasi un interrogatorio. Si ritrovò così a chiudere gli occhi, appoggiare la schiena sullo schienale del divano e mettere un cuscino in grembo, come se con quel gesto potesse prendere in qualche modo le distanze. « Era tutto così buio... Ricordo delle catene, uno spazio così angusto che mi sembrava l'ambientazione di un film horror eppure era la realtà. » Abbracciò il cuscino, lo sguardo perso in un punto non definito e quella voce che ora appariva spezzata alle sue stesse orecchie. Solo quando non riuscì più a resistere, Isabel alzò lo sguardo posandolo su di lui. « Ci sono così tante cose che non mi tornano, Ben... A volte mi sembra di essere pazza. » Confessò portando questa volta anche le ginocchia al petto. Si allungò solamente per prendere la bottiglietta di birra e portarla alle labbra, solamente così avrebbe evitato di dire qualcosa di troppo. Scosse appena il capo ed in qualche modo cercò di portare nuovamente l'argomento di conversazione su di lui. « Semplicemente perché non dai loro una chance... Ben, la vita è troppo breve per non godersi ogni momento. »
Ben Alexander Scott
« Non sei pazza Isabel sei solo turbata è ancora sotto shock. Vivere in prima persona un rapimento non è una cosa da sottovalutare quindi devi solo aver pazienza per poter ricominciare a vivere nonostante i ricordi resteranno sempre vividi nella tua mente. » Che Ben sia un pessimo amico in fatto di rassicurare le persone è già stato appurato ma alla Hughes ci tiene ed è pronto a fare qualsiasi cosa per donarle anche solo pochi attimi di serenità. « Prima o poi riusciremo a scoprire cosa c’è dietro tutto questo e riusciremo a scrivere la parola fine a questi orrori. » E di questo ne è convinto perché nessuno può nascondersi per sempre e, prima o poi, anche i colpevoli di quelle cattiverie commetteranno un passo falso. Quando l’argomento cade di nuovo su di lui, sbuffa, ma forse è meglio così lasciando Isabel la possibilità di pensare ad altro. « Questo lo so bene ma sono una frana. Sono persino andato in ansia per uscire a bere una birra con una ragazza che conosco da anni. Gli appuntamenti e la vita romantica non fanno per me. »
Isabel Amethyst M. Hughes
Le parole di Ben avrebbero dovuto tranquillizzarla, rendere lo stato d'animo della Hughes apparentemente più sereno, e invece dentro di lei sentiva la tempesta formarsi e prendere sempre più vita. Il fatto di non sapere, di non conoscere tutti gli elementi per poter valutare la situazione in modo oggettivo sembrava far impazzire Isabel. Eppure non era solamente questo che turbava la sua mente: era anche il fatto che alcune cose fossero troppo irreali per essere vere. « Forse è proprio questo il problema... » Disse abbassando lo sguardo sul collo della bottiglietta di birra che ancora teneva in mano e continuava a guardare come se quella avesse le risposte a tutti i suoi quesiti. Si ritrovò così a sospirare sonoramente ma doveva ammettere che le parole di Ben avevano sortito un poco il loro effetto. Un sorriso comparve sulle di lei labbra. « Prima o poi sì... Grazie Ben. » Prese un altro sorso di birra nascondendo quel debole sorriso che le era nato su quelle labbra carnose. Era difficile per Isabel poter confessare qualunque cosa fosse accaduta durante il suo periodo di prigionia, ma sapeva che non appena le cose fossero venute a galla, il suo rapporto con Ben ne avrebbe risentito. Cercò dopodiché il suo sguardo, inclinò di poco il capo prima ampliare quel sorriso. « Nessuno è nato maestro, Ben. Le cose si imparano, e poi dici tu che sei una frana... Piuttosto raccontami di questa ragazza, dai. »
Ben Alexander Scott
Quei silenzi sono abbastanza imbarazzanti per uno come Ben che non è in grado di saperli riempire con battute o con aneddoti divertenti. No, semplicemente se ne sta in silenzio ad osservare Isabel senza sapere cosa aggiungere o se quello che ha detto è servito per rincuorarla almeno un po’. Picchietta nervosamente le dita contro il vetro freddo della bottiglia ormai quasi vuota ed ascolta le poche parole dell’amica sperando che non smetta di parlare ma la Hughes non sembra molto incline ad avere un dialogo ma sembra molto più interessata ad osservare la propria bottiglia di birra che tiene stretta tra le dita. « Cosa... cosa ti devo raccontare? » Domanda grattandosi il naso con l’indice sinistro. « È stata una normale uscita, la alleno e forse voleva ringraziarmi per quello che faccio. »
Isabel Amethyst M. Hughes
Era raro per un tipo come Isabel rimanere in silenzio ma dal rapimento tutto in lei era cambiato: s'era in qualche modo evoluto. Non erano rari, infatti, i momenti di silenzio, immersa nei suoi pensieri, in quelle elucubrazioni che non la facevano dormire di notte. Anche in quel momento, sotto l'occhio critico di Ben, Isabel s'era sentita sotto giudizio, ma incapace di ribattere com'era suo solito fare. Si ritrovò così ad inspirare sonoramente e nascondersi, ancora una volta, dietro la bottiglietta di birra, prima di alzare un angolo delle labbra. « Io non credo... Nessuna ragazza ringrazia il suo maestro con un'uscita, a meno che non abbia un secondo fine... Ad ogni modo, non devi vedere più di quello che è, l'importante è che tu sia stato bene. » Smorzò così un sorriso, fermandosi quando volle stringere la mano dell'amico: quel semplice gesto avrebbe rovinato tutto e Isabel non poteva permetterselo. Continuarono così a chiaccherare, immergendosi successivamente nella visione di un film prima che fosse l'ora per Ben di abbandonare casa Hughes. Nonostante la Hughes fosse felice di aver trascorso un po' di tempo assieme a Ben, sapeva perfettamente che quell'equilibrio che lei stessa aveva creato era solamente questione di tempo prima che si spezzasse.
❪ 𝑭𝒊𝒏𝒆 𝑹𝒐𝒍𝒆. ❫
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sissimum · 8 years ago
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Ad ogni edizione di Pitti Bimbo, la sfilata di Monnalisa è semplicemente the place to be.
Le ragioni sono tante: non solo una sfilata che presenta l’intera collezione Spring/Summer 2018, ma anche una scenografia eccezionale in una location di eccezione (parole ridondanti, ma aspetta le foto… e mi darai ragione!). Anche quest’anno Monnalisa ha incantato buyer e stampa selezionati ospitandoli nel complesso di Giardino Corsini al Prato, nel centro storico di Firenze.
Sai che amo l’architettura e la storia dell’architettura, un po’ per formazione (e deformazione) professionale e un po’ per passione personale: prima dimostrarti Monnalisa e la sua sfilata, voglio quindi raccontarti qualcosa su questa splendida location, che normalmente è visitabile (quindi se fai un giro a Firenze… segnala sulla tua Moleskine!)
Il Giardino di Villa Corsini al Prato: location di eccellenza
Attualmente il Giardino Corsini, così come il Palazzo, è visitabile. Durante il mese di maggio ospita la manifestazione Artigianato & Palazzo, nata nel 1995 da un’idea di Neri Torrigiani e promossa dalla principessa Giorgiana Corsini, principalmente per rivalutare e rinquadrare ai giorni nostri la figura dell’artigiano e del suo lavoro.
Nel 1591 Alessandro Acciaiuoli chiese a Bernardo Buontalenti di progettare un casino di delizie con un grande giardino su un terreno sul Prato d’Ognissanti. Buontalenti realizzò il complesso impianto idraulico per condurre l’acqua alle fontane, con i tracciati per i percorsi delimitati da rare e sontuose spalliere di cedri, la loggia e le grandi finestre inginocchiate. Nel 1620 la famiglia Corsini acquistò la proprietà e incaricò Gherardo Silvani di completare la residenza e il giardino. Silvani realizza un classico giardino all’italiana, piuttosto in voga in quel periodo storico, delimitato da grandi limonaie, con aiuole geometriche e siepi di bosso. Le conche dei limoni e il viale centrale con le statue costituiscono una vera e propria scenografia e palesano il gusto barocco dell’architetto. Per ottenere un effetto di maggiore profondità prospettica, i basamenti delle statue sono di grandezze diverse. Nel giardino c’è anche un piccolo labirinto, ottenuto utilizzando delle siepi di alloro, tre piantagioni di limoni e due piccoli boschetti dove la famiglia Corsini amava rilassarsi e rinfrescarsi dalla calura estiva.
Per molto tempo usato prevalentemente come residenza estiva dei Corsini, dal 1834 diventò abitazione permanente di Neri Corsini di Laiatico e sua moglie. Il giardino ospita circa 180 piante di agrumi, ha tre grandi limonaie e vagano liberamente un centinaio di tartarughe di una colonia secolare.
Puoi accedere da Via del Prato 58 oppure Via della Scala 115.
  Monnalisa SS18: la sfilata
Scenografia della sfilata SS18 di Monnalisa è il loggiato del palazzo del Buontalenti, coperto per l’occasione da tralci fioriti, così come il viale di accesso che sembra davvero nato per accogliere la passerella.
Continua a leggere perchè ti racconto la sfilata ANCHE dal suo punto di vista 😉
La collezione Primavera/Estate 2018 Monnalisa è all’insegna di uno stile gioioso ed effervescente: fiori e stampe trionfano allegri, come negli anni ’70. Le stampe di tendenza sono tropical o floreali, in romantici broccati. Gli abiti hanno uno stile vagamente gipsy, con scolli alla baiadera e gonnelloni a vita alta con cascate di rouches, oppure sono in pizzo, con tanti volants in georgette. Le bambine impazziranno per i corpetti in paillettes e le gonne a corolla. Il trend del bomber non si arresta: il classico chiodo diventa iperfemminile con i ricami floreali e diventa perfetto anche per la stagione calda grazie al tessuto extralight oppure si illumina di paillettes con maniche in nylon e fantasie tropical sovrastampate. Inaspettate le cappe, corte e in broccato lurex con maniche a campana. Per le gonne la parola d’ordine è volume: a ruota o a teli, meglio se in tulle multistrato, illuminate dal lurex e movimentate da balze. I pantaloni abbracciano lo stile seventies con gamba leggermente a zampa con orli sfrangiati, cropped con bande metalliche o parachute in divertenti righe effetto pigiama. I top diventano micro, spesso increspati con maxi maniche a palloncino, o in impalpabile mussola con frange in tripolino.
Ci hai seguito su Instagram Stories in diretta (trovi anche i video sulla pagina Facebook di SissiWorld), ecco ora tutte le foto della sfilata firmate Emily Kornya (premi le frecce per scorrere 😉 )
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La grande novità Monnalisa SS18: MONNALISA FOREVER, la capsule per mamma e bambina
Quante volte hai detto, guardando la tua bimba vestita Monnalisa, che vorresti i suoi abiti per te? Dalla primavera/estate 2018 il tuo desidero diventa finalmente realtà: Monnalisa ha creato una capsule per mamma e bambina con dodici outfit e due capispalla speciali, in taglie mini, ripensati per la mamma, per un ironico “Maxi You”. Non un mini-me in cui le bimbe scimmiottano noi donne adulte, ma finalmente abiti coordinati da indossare insieme, per sentirsi più vicine e per sorridere della propria somiglianza, ma studiati per le fisicità della mamma e della bimba. I capi donna sono sviluppati nelle taglie XS-S-M-L e hanno la vestibilità adattata alle mamme di oggi: irresistibili abiti gipsy in georgette fantasia per le più ironiche, abito a trapezio con stampa calle per le più bon ton, completo in tulle con blusa con maniche a campana per le più spiritose, mini chiodo in ecopelle ricamato per le più rock, tunica in pizzo per le più romantiche. Finalmente indossare un abito Monnalisa sarà davvero senza età, sarà davvero FOREVER.
La sfilata vista con gli occhi di… Sissi
Sei curiosa di sapere cosa ha pensato Sissi? Non era la prima sfilata alla quale assisteva ed è abituata a vivere in mazzo ad abiti, macchine fotografiche, eventi… insomma, non è stata colpita da un abito in particolare o dall’abito da principessa come ci si potesse aspettare da una bimba della sua età: il suo occhio analitico di bambina di 5 anni e mezzo è caduto su alcuni capi chiave, quelli che mi ha chiesto di acquistare immediatamente!
Il suo pezzo preferito (anche il mio, onestamente):
I top con la pancia scoperta hanno letteralmente illuminato i suoi occhi:
Infine alcuni dettagli, accessori speciali come: il cerchietto con la veletta, i guanti lunghi rigorosamente bianchi e la borsetta. E alla mia domanda “Ma quando li indosserai?” la sua risposta lapalissiana è stata “Ovviamente quando mi cambio dopo la scuola e usciamo insieme, magari a fare shopping”.
Tra le varie collezione presentate alla sfilata Monnalisa SS18, la mia preferenza come gusto, come mamma e come blog di moda bambini va sicuramente a Jakioo (la collezione più trendy e casual, che veste dai 6 ai 16 anni), che rappresenta una ragazzina quasi impertinente, che indossa uno stile streetwear in cui risaltano le stampe Tropical, i bomber in paillettes, pantaloni parachute a righe e maxi maniche.
  #kidsfashion Pitti Bimbo 85: la sfilata di Monnalisa SS18. Pronta a sognare? #monnalisa #pittibimbo85 Ad ogni edizione di Pitti Bimbo, la sfilata di Monnalisa è semplicemente the place to be…
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pangeanews · 6 years ago
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“Nell’oltranza, dentro un nitore refrattario alla miseria lineare delle parole”: dialogo intorno a Emily Dickinson, con Silvia Bre
Sfilettare i versi di Emily e poggiarli sulle palpebre – così si fa per decenza di profondità, per decentrarsi e irrompere in una nodosa ampiezza, senza economia di iene. La Dickinson, decisamente, non si ‘legge’: si inghiotte. Una assunzione medica, intendo, per celebrare la solarità, gli odori, e tornare alla quota dell’anima, che dal tempo, questo, l’altro e l’ulteriore, è turbata. Con Silvia Bre non ci scambiamo dei messaggi, ma dei pezzi di legno per irrorare un fuoco comune. Come se sradicassimo una sfilza di croci, libere dei corpi, grigie e già immemori del massacro, e scaglia per scaglia, districandole, ne rivelassimo la luce. È bello. Silvia Bre è tra i poeti forti di oggi (per Einaudi ha pubblicato, Le barricate misteriose, Marmo, La fine di quest’arte), ma cosa importa, qui, in un verbo che è sempre il grado zero e unico. La ascolto su Emily Dickinson, la sua ossessione al visionario levigato, all’universo creato mescolando lettera, tenda e margherita. Per Silvia Bre la Dickinson è una compagnia decennale, il libro d’ore dall’adolescenza. La Dickinson è poetessa costantemente attraversata da diverse gradazioni della traduzione, spesso grandi (i lavori di Silvio Raffo e di Barbara Lanati, le versioni di Margherita Guidacci e di Guido Errante, di Amelia Rosselli e di Nadia Campana, di Massimo Bacigalupo e di Nicola Gardini, e quelle sporadiche di Eugenio Montale, Mario Luzi, Giovanni Giudici…). Silvia Bre, in aurorale disciplina, sempre per Einaudi, ha realizzato una antologia della Dickinson in tre volumi: Centoquattro poesie (2011), Uno zero più ampio: altre cento poesie (2013), Questa parola fidata. Terza centuria, infine, che sarà tra noi a fine maggio. Da questa parzialità, raccogliendo parole spese, dall’ignoto americano, una misura di secoli fa, dalla finestra al giardino, di carne e enigma, ai tu attoniti, ci parliamo, io e Silvia. (d.b.)
Silvia Bre (qui in una fotografia di Francesco Francaviglia) lavora nell’opera di Emily Dickinson da quando ha quattordici anni
Da quanto tempo dimori nella poesia di Emily Dickinson e perché lei? Troppo facile amarla, non so se sia così facile scegliere di tradurla, in lavorio di dieci anni, per ciò che ne sappiamo noi lettori (la prima traduzione pubblica è del 2011). Dimmi.
Ho tradotto a quattordici anni la prima poesia di Emily Dickinson letta in vita mia. Ero a Riccione, era trascritta a mano sul quaderno di una babysitter inglese. Era la 160, Just lost, when I was saved!, che poi è entrata nei miei primi libri, I riposi, e Le barricate misteriose. Così, insensatamente, una traduzione in mezzo ai miei versi. Finisce con un roteare cosmico che ingoia tutto, lasciando solo l’idea di che cos’è la poesia. Poi, tanta lettura, e, lentamente, l’acquisizione del suo universo, l’inquisizione alla quale Emily sottopone la vita, la mente, la natura, e la morte. Come un soldato, come una scienziata, una visionaria che si attrezza come può per dare forma a qualcosa che solo lei vede molto bene, qualcosa che è anche la sua stessa forma. Grande scuola. Decidere di tradurla è stato facile, e farlo non mi è mai sembrato difficile. Se si coglie il senso della sua astuzia poetica, la scelta radicale di mettere la Possibilità al posto del mondo, e l’Assenza al posto della presenza, accettando il prezzo che quel taglio netto comporta, si comprende che cos’è l’Altro con il quale lei intrattiene il suo furioso dialogo poetico, e che quello è il solo modo per lei di non farlo scomparire, di mantenere al suo fianco quella alterità scabrosa. Si comprendono la violenza sprigionata dal suo rapporto diretto con l’assoluto dell’anima – la grande ammutinata –, la dismisura che segna tutta la sua percezione, le estasi e i baratri che frequenta, e che lei cerca di domare con le parole. Diventata straniera a se stessa, tutto il suo guardare diventa un orizzonte vuoto nel quale lo spettacolo totale della vita emerge come Possibilità, e che lei offre come una farfalla al meridiano. Emily fluttua nell’immaginazione, in un mondo in bilico, e anche chi legge è chiamato a riformulare continuamente il suo paesaggio interiore – quello che il poeta e psicanalista Vittorio Lingiardi chiama mindscape –, la dimensione spazio-temporale che struttura, in modo dinamico, la nostra mente. E gli spazi interiori di Emily sono spesso delle trappole angosciose, sprofondi nei quali si cade letteralmente senza fine, oppure paradisi dove è domenica – di continuo, e mancheranno i radiosi pomeriggi di mercoledì, e non si potrà neanche una volta cercare il mezzogiorno – con lo sguardo. Un po’ alla volta, adattiamo la visione al buio, e la corrente dei versi entra in modo sempre più nitido, e spietato, con le sfaccettature aguzze del suo occhio di diamante.
Come scegli le poesie di Emily e che alchimia del tradurre adotti? Intendo: quasi mai – tranne casi episodici – mantieni le maiuscole tipiche della Dickinson, perché?
La scelta delle poesie è, mi piacerebbe dire, rabdomantica, se non fosse che è gran facile non sbagliare quando davvero tutte hanno una luce propria. Anche nell’esiguo numero, trecentoquattro su millesettecentosettantacinque, di quelle da me tradotte per i tre volumi Einaudi, c’è tutto il ventaglio delle mosse con cui ti mozza il fiato, per quanto è crudele l’amore che sprigionano, o per quanto è veloce a sferrare il colpo, per l’architettura insopportabile in cui trascina. E ci sono anche poesie che non si sa di cosa siano fatte, come questa (1702):
Stamani o a mezzogiorno aleggiava così vicina che l’ho toccata quasi Stasera se ne sta oltre i dintorni oltre il ramo e la torre Ora oltre l’ipotesi
E poi, dopo quasi duemila poesie, tanti tumulti, esaltazioni, lucide consapevolezze sul proprio valore, l’affaccio sulla morte, il suo congedo è un omaggio estremo: al grillo, unico a sapere cosa sia la bellezza del cantare (1775). Sappiamo, mi sembra, che quella poesia è finita lì perché era tra quelle non datate. È il posto che le compete.
La terra ha molti toni – Dove manca melodia c’è l’ignota penisola – La bellezza – è un atto di natura –
Ma testimoni le distese – e testimone il mare – il grillo, per me, è il suo apice in elegia –
La poesia si traduce quando l’originale lascia senza parole. E non esistono criteri, o una tecnica da sapere. Meglio non sapere, che cadere in una tecnica. Meglio navigare a vista. E anche quando si ottiene un risultato, non credere di sapere come è accaduto. Ogni poesia, ogni verso, ogni parola, è un caso a parte. L’unico criterio è il testo originale. È non appesantirlo con significati ulteriori, e non spiegare, è usare le parole semplici, se lei lo fa, accettare l’enigma, se lei lo include, è ascoltare e basta. Voglio che chi non legge l’inglese continui a cogliere ogni poesia come un gesto di potenza istantanea, dove suono e immagine sono fusi insieme a una temperatura siderale. È questa l’aderenza di cui parlo. Poi, poche scelte di carattere generale. Per esempio, le maiuscole all’inizio del verso, che sono una convenzione stilistica del suo momento storico, non le mantengo quasi mai. Mi attengo alla voce che parla, via dalla storia, che entra nell’italiano come un conversare, a volte severo, a volte intimo. Lo stesso vale per le fitte maiuscole all’interno dei versi, che lei stessa abbandona nelle poesie finali: rendono antica la poesia, la allontanano dall’orecchio. Ho fatto poche eccezioni, per qualche sua parola eminente: il marchio Disperazione (258), o, per esempio, nella 286, la Congettura, sublime nominazione di Dio coniata da Emily per l’occasione.
Ma ho fatto anche un arbitrio, in una frase, tratta dalla 1383, di cui mi sono più volte servita: l’assenza del mago non annulla il sortilegio, dove in inglese non c’è magician, ma witch, cioè strega. Contraffazione e appropriazione indebita. Altro discorso vale per i trattini, sua creazione, per disarmare la frase, fessure che permettono di guardarci attraverso e vedere il silenzio che assedia da tutte le parti, quel silenzio che Emily tanto corteggia e al quale ha dedicato versi di palpabile bellezza. Un esempio di come un poeta possa calare la sua visione fino al materiale grezzo della lingua.
La Dickinson è stata tradotta tantissimo, spesso da poeti, spesso da donne. Hai rapporti con le traduzioni di Margherita Guidacci, Amelia Rosselli, Cristina Campo, Nadia Campana, ad esempio, o percorri un linguaggio solitario? Dove lo scavi, infine, questo linguaggio?
Penso che sempre un traduttore, o un poeta, percorra un linguaggio solitario. È lì il bello. Vedere la libertà degli altri, che poi equivale alla propria. Tutte le possibilità di traduzione che il testo contiene stanno lì, anche loro, a indicare un infinito. Non le definirei ‘interpretazioni’. Una traduzione, fatta anche da una persona senza particolare competenza, è comunque la sua verità. Non si mima niente. La postura che si assume di fronte al testo è la propria postura. Per questo sentirsi una differenza accanto alle altre è inevitabile e giusto allo stesso tempo. Per quanto mi riguarda, vorrei che le poesie di Emily cantassero come cantano in me. Non sappiamo dire una volta per tutte che cos’è il canto della poesia, al quale gli esseri umani ubbidiscono da sempre. (Voices, voices, mesmerize, qui è Patti Smith). Avvertiamo una sua prepotenza, sentiamo che vuole farsi sentire. Mettiamo in una forma quel suono perché ci richiama a una totalità avulsa che ci esclude dalla misura chiusa della persona che siamo – qui è Borges – e ci apre a qualcosa d’Altro. È una gioia dare corpo a dei versi, che siano i nostri o del poeta che si traduce, anche se il contatto tra la loro bellezza e la nostra vita avviene in un angolo cieco, che non riusciamo a presidiare con la mente; ma, che il contatto avvenga o non avvenga, si deve trattare di una prossimità incandescente. Nell’intuizione, le cose più potenti si rivelano – non nelle parole –.
Prima che i versi suonino facilement, come Cristina Campo riferiva di Chopin, la loro fattura è, come sa ogni traduttore, un’impresa di pazienza e di fortuna. Alcune parole si fanno avanti, ad altre si da la caccia, a volte ci si dispera per ciò che va lost. Ma anche adesso, per esempio, provo un brivido di piacere quando rileggo questa sestina, dalla 483:
Magnifico – sentire il sole dare un altro ritocco alla guancia che credevi terminata – con occhio distaccato, e senso critico – sposta il picciòlo – un poco – per dare uno sguardo – al nòcciolo –
dove l’accento di picciòlo arretra in nòcciolo, due parole quasi identiche. Versi che si alzano per gentile omaggio dell’italiano.
Prova a ritagliare un verso – o un nugolo di versi – esemplari che ci faccia capire la tensione lirica della Dickinson e il tuo lavoro artigianale (con occhi come giaguari o come nottola? di rosa o di iena?) nell’attraversarla. 
È interessante, questa domanda. Ci ho provato, a fare il viaggio a ritroso, a ripercorrere i passaggi che, in qualche particolare caso, mi hanno portato dall’inglese alla forma e al suono e al senso in italiano, ma non ci sono riuscita. In Conversazioni su Dante Mandel’stam scrive a questo proposito:
“Bisogna varcare in tutta la sua ampiezza un fiume ingombro di giunche cinesi mobili e spinte nelle più varie direzioni – è in questo modo che si crea il senso del discorso poetico. Il senso, in quanto itineriario, non lo si può ricostruire chiedendo informazioni ai barcaioli: essi non ci daranno conto di come e perché noi siamo balzati di giunca in giunca”.
Per la traduzione, che è sempre una rifondazione poetica, è lo stesso. Tutto il lavorio è sparito, e anche la sua memoria. C’è solo l’esito.
Domanda interessante.
Attraverso la Dickinson ti chiedo. Che rapporto c’è tra forma poetica e atto politico, tra etica ed estetica? Anche la reclusione e il disadorno sono un gesto, anche adottare una certa scrittura è una scelta, una liturgia dello stare nella storia. Dimmi.
Ma infatti. Che cosa c’è di più eticamente significativo del gesto artistico, imperativo e gratuito insieme, senza resto, che pronuncia in un urlo (è sempre un urlo che sento) la propria presenza nel mondo dopo averlo accolto tutto in sé (o la propria assenza dal mondo dopo averlo espulso), la propria ipotesi sul reale, la propria tensione a incontrarlo davvero, l’altro, affinandosi come uno strumento, fino a spremere via tutto il corpo, a volte, perché corrisponda a quell’imminenza fino in fondo, in una ricerca che dura per sempre, che dura da sempre, e che, come dice Giorgio Agamben, la morte non fa che interrompere. Non esiste altro evento che questo. Persino la scelta del silenzio, con tutto il suo mistero, apre voragini di senso, anche se poi le sigilla. Persino, più che mai, la follia.
Come diventi politico tutto questo è una domanda che tortura i giorni, e i minuti. Saltano in testa nomi, oggetti, l’ultima riga di varie biografie, episodi, frammenti che si connettono elettricamente (Vallejo, Radnoti – cadavere riaffiorato dal concentramento con le poesie cucite negli stracci –, i giornali parlati e Dante recitato nelle università dei campi, Mandel’stam, Simone Weil, la valigia di Benjamin, i quaderni da tutte le carceri, da tutti i manicomi, da tutti i lager, i quaderni mangiati a memoria – lunga catena: la risposta è dispiegata nella storia dell’umano, e del disumano, di un nitore refrattario alla miseria lineare delle parole. La risposta è nell’oltranza che salta su da tutto questo, la balena che guizza fuori dall’acqua, vivissima, dopo che si è inabissata, anche se ha un palo piantato dentro, sul dorso.
Oltre Emily. Chi vorresti tradurre, dentro quali altri poeti dimori, passeggiando, con questa costanza? E soprattutto, spiegami un po’ meglio cosa significa questo verbo, ‘tradurre’. 
Tradurre è una responsabilità abissale. Non si tratta dell’operazione inerte (che vuol dire proprio ‘senza arte’) di cercare una qualche identità nella nuova lingua, se si considera che non c’è nessuna identità tra le parole e il mondo. Si tratta di proteggere, all’ombra della lingua che ci accoglie, quello che non c’è, l’indicibile che le parole abitano liberamente, quello che suona, da muto, in un verso prima ancora che venga scritto. Si tratta di far risuonare un’immagine. Se tutto questo a priori viene avvertito, l’esito della traduzione è sempre una differenza viva, che si anima delle corrispondenze, delle connessioni della lingua d’arrivo, che si accende al calore di una tensione nuova. Tradurre è una responsabilità abissale perché si maneggia l’immagine di un altro e bisogna figurarsi il punto in cui quell’immagine era allo stato sorgivo, era di tutti, prima che venisse intrappolata dal linguaggio. È un atto eminentemente poetico. Di fede poetica. Il terzo libro di Emily, che esce a maggio, porta nel titolo Questa parola fidata. L’altro poeta che volevo tradurre lo sto traducendo, è Robert Frost, nato nella stessa America di Emily Dickinson, dodici anni prima che lei morisse, e contemporaneo di Wallace Stevens. Un altro protagonista del Novecento, poco letto in italiano. Sto traducendo un copiosa raccolta per Adelphi. Avrei dovuto già consegnarla, sono in grande ritardo, purtroppo.
Come è entrata la Dickinson nella tua lingua poetica, come ti ha sigillato? E infine: leggi la poesia italiana contemporanea? Hai avuto, hai dei maestri? 
Emily Dickinson è entrata nella mia poesia esattamente come io sono entrata nella sua. Certo che porto in me la sua visione, che quindi agisce; insieme a quella degli altri poeti che ho accostato, di quelli che leggo adesso. Come si porta la visione di un quadro che ti si ficca in testa, (mettere gli occhi su La nave negriera di Turner, per non togliersela più), o di un attacco musicale, non un momento qualsiasi. La vera storia dell’arte è questa. E in questa vera storia i maestri sono caso mai fratelli, caso mai sorelle, infine senza nome. E poi, che importa chi parla, qualcuno ha detto. Oppure è così: chiunque è diverso da me è mio maestro. La storia dell’affinità non regge. Il confine di un’opera poetica viene pensato come una curva che si chiude su se stessa, compiendosi: invece, il moto profondo di ogni atto poetico è sempre centrifugo, cioè in fuga, anche da se stesso, inappropriato, espropriato alla fonte. Se a volte ci si flette verso i cosiddetti simili, dove magari si coglie una parvenza che ci riguarda, dove pare di riconoscere dei lineamenti, è solo per rimbalzare verso lo smarrimento, la potenzialità, il continuum. Carmelo Bene citava Goya quando ripeteva che ogni quadro viene dipinto contro la pittura. Della mia poesia non so parlare, non so niente. Ma è vero che mi attengo a una certa economia. Non mi sembra pessimo l’ideale di riuscire a fare poesia con una grande povertà di mezzi, quattro legnetti in croce. Perché le parole facciano prima a divincolarsi dalla lingua, facciano il loro bel salto mortale, e non lo sbaglino, e muoiano nel suono. Ma questo non mi ha impedito, per esempio, una lunga dedizione a Wallace Stevens, che traduce l’Ottocento americano di Emily Dickinson nel Novecento del Mondo come meditazione e della Finzione suprema. La poesia è la storia di un unico dissimile. Due nomi a me cari però li dico, Beppe Salvia e Francesco Nappo.
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Per gentile concessione pubblichiamo una poesia di Emily Dickinson da “Questa parola fidata. Terza centuria” (Einaudi, 2019). La traduzione in italiano è di Silvia Bre.
Questo era un poeta – colui che distilla un senso sorprendente da significati ordinari – e un’essenza così immensa
dalle specie familiari appassite alla porta – che ci stupiamo di non esser stati noi ad afferrarla – prima –
Di immagini rivelatore – il poeta – è lui – per contrasto – a conferirci – povertà infinita –
così ignaro – di spartizioni – che il furto – non lo turba – lui stesso – per lui – una fortuna – avulsa – dal tempo –
*In copertina: un particolare da una delle rare immagini di Emily Dickinson, un dagherrotipo del 1846, di dolcezza rinascimentale
L'articolo “Nell’oltranza, dentro un nitore refrattario alla miseria lineare delle parole”: dialogo intorno a Emily Dickinson, con Silvia Bre proviene da Pangea.
from pangea.news http://bit.ly/2KGLKwz
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