#sala d’aspetto stazione
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Matteo Philippe (Partito Democratico): Dichiarazioni sul presidio trasporti di sabato 1 marzo
Durante gli anni, si è registrata una drammatica perdita di servizi nella nostra stazione: attività commerciali, presidio Polfer e biglietteria.
Durante gli anni, si è registrata una drammatica perdita di servizi nella nostra stazione: attività commerciali, presidio Polfer e biglietteria. Perdita che fa macchia per la sedicente “Capitale del Monferrato”.Tuttavia, oggi non sono qui per discutere di epiteti fantasiosi, ma di un tema fondamentale che mi sembra giusto abbordare dato il recente furto avvenuto ai danni della tabaccheria della…
#abbandono strutture ferroviarie#Alessandria today#biglietteria stazione Casale#criminalità urbana#Degrado urbano#dichiarazioni PD Casale#Federico Riboldi#furti in stazione#Google News#Illuminazione pubblica#infrastrutture trasporti#italianewsmedia.com#Luca Servato#manutenzione stazioni ferroviarie#Matteo Philippe#miglioramento trasporti Casale#Mobilità sostenibile#Partito Democratico Casale Monferrato#pendolari Piemonte#Pier Carlo Lava#politiche trasporti Piemonte.#Polizia Ferroviaria#presidio Polfer#presidio Polfer mancante#qualità servizi ferroviari#questionario sicurezza stazioni#Regione Piemonte trasporti#riapertura bar stazione#riqualificazione stazioni#sala d’aspetto stazione
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Il viandante
Entro in sala d’aspetto alla stazione,manca l’aria.In tasca ho un libro,poesie altrui, tracce d’ispirazione.Accanto, sulle panche, due vagabondi e un ubriaco(oppure due ubriachi e un vagabondo).Al lato opposto della sala, lo sguardo volto altrove,in alto, verso l’Italia e il cielo,siede un’elegante coppia anziana.Fummo sempre divisi. L’umanità, i popoli,le sale d’aspetto.Mi fermo un attimo,…
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Invisible°Show presenta Radio Hito
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Canti per lingue sconfinate
- Signore, deve tornare a valle. Lei cerca davanti a sé ciò che ha lasciato alle spalle.
(Giorgio Caproni, Conclusione quasi al limite della salita)
domenica 8 ottobre 2023
ore 17:30
Invisible°Show presenta:
Radio Hito (Bruxelles)
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Antonella Bukovaz (Topolò)
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Posti limitati: per sapere il luogo esatto e prenotarsi scrivi a [email protected]
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RADIO HITO
Radio Hito è la voce musicale dell'artista e scrittrice Y-My Zen Nguyen, nata nel 1985 a Les Ulis, in Francia, da famiglia italo-vietnamita. È docente di educazione artistica alla Haute école des Arts du Rhin di Strasburgo e co-curatrice della rivista di poesia La tête et les cornes insieme a Benoît Berthelier, Maël Guesdon e Marie de Quatrebarbes. Ha studiato incisione, tipografia e pianoforte classico in Francia, Svizzera, Inghilterra e Paesi Bassi. La sua musica, nata “dall'intuizione e dalla necessità di fare di tutto un ritornello”, coglie testi e ispirazioni da versi di poeti nelle loro traduzioni italiane – in particolare, del messicano Octavio Paz e dell'argentina Alejandra Pizarnik. Ha inciso le sue canzoni perlopiù su audiocassetta, in tiratura limitata: Ascoltami (2019), Non Solo Sole (Midi Fish, 2020) e Voce Lillà (Kraak, 2021). Vive e canta tra Bruxelles, Parigi e Strasburgo.
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ANTONELLA BUKOVAZ
Originaria di Topolò-Topolove, borgo sul confine italo- sloveno, Antonella Bukovaz è poetessa, autrice teatrale e performer. Dal 1995 ha partecipato a diverse rassegne di arte contemporanea in Italia e in Slovenia, e dal 2005 si dedica alle interazioni tra parola, suono e immagine. Presente nell'antologia Einaudi Nuovi poeti italiani, 6 (con Storia di una donna che guarda al dissolversi di un paesaggio, premio Antonio Delfini 2009), le sue poesie – apparse su riviste web e cartacee (il Verri, Alfabeta, In pensiero…) - sono state tradotte in sloveno, tedesco, inglese, francese e arabo. Ha pubblicato Tatuaggi (Lietocolle, 2006); al Limite (Le Lettere, 2011; con dvd), in collaborazione con il video maker Paolo Comuzzi e con il musicista Antonio Della Marina; i librini koordinate (pulcinoelefante, 2015) e Guarda (pulcinoelefante, 2015); 3X3 parole per il teatro_3X3 besede za teater (ZTT-EST, 2016), raccolta dei testi scritti per il teatro sonoro di Hanna Preuss (per la quale è stata autrice e attrice nelle opere S.E.N.C.E, Sonokalipsa e Pavana za Antigono, con rappresentazioni a Lubiana, Trieste, Kyoto e Cagliari); casadolcecasa_domljubidom (Miraggi, 2021; menzione speciale al premio Rilke), e Compagnevole animale (B#S edizioni, 2022). È inoltre autrice di Tra_in between_Mèd, premio Kristal 2017 al Festival di Letteratura di Vilenica. Collabora con l'elettrorumorista Eva Sassi Croce, con cui ha realizzato le performance casadolcecasa, Lessico elettronico,Utopia del rumore (tributo all'Arte dei rumori di Luigi Russolo),e Femminilizzazione del mondo. Sempre con E.S.Croce ha realizzato una video-lettura da Osip Mandel'stam (Viaggio in Armenia) e con il musicista e artista sonoro Claudio P. Parrino un'audio installazione da un poema di Evgenij A. Evtušenko (La stazione di Zima). Tra i molti altri musicisti e artisti del suonocon cui ha lavorato – tra i quali Marco Mossutto, Teho Teardo, Antonella Macchion - collabora stabilmente con il trombettista Sandro Carta, insieme a cui trova continue dimensioni sonore a testi propri e di altri autori. Ha contribuito alla realizzazione di Stazione di Topolò-Postaja Topolove, per la quale ha curato soprattutto la sezione letteraria Voci dalla sala d’aspetto, ed è stata presidente dell’associazione che ha organizzato tutte le 29 edizioni del festival. Da sempre, insegna in lingua slovena nella scuola bilingue di San Pietro al Natisone-Špeter.
youtube
http://www.ozkyesound.altervista.org/UTOPIADELRUMORECDR.html
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Strage di Bologna: i Vigili del fuoco, primi nei soccorsi, ricordano la giornata e le 85 vittime
Il 2 agosto del 1980, alle 10.25 del mattino, una bomba esplose nella sala d’aspetto della stazione di Bolognasource
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Bologna, 2 agosto 1980 La mattina del 2 agosto 1980 l’interno della stazione di Bologna era piuttosto affollato. Fuori faceva un gran caldo e le persone stavano approfittando dell’aria condizionata della sala principale della stazione, ignare del fatto che in una sala d’aspetto di seconda classe, sopra a un tavolino, c’era una valigia contenente una bomba di 23 chili. Alle 10.25 quella bomba esplose, uccidendo 85 persone e ferendone oltre 200 in una strage che rimase profondamente impressa nell’opinione pubblica italiana, per la sua entità ma anche per la lunga serie di inchieste giudiziarie e depistaggi che si trascinarono nei decenni successivi, fino a oggi. Il boato dell’esplosione fu enorme e l’impatto fece crollare una larga parte del tetto e danneggiò pesantemente il treno Ancona-Chiasso che sostava sul binario 1. La prima versione dei fatti – diffusa dalle autorità per evitare allarmismi – parlava dello scoppio di una caldaia, ma quando in tarda mattinata arrivarono le prime rivendicazioni fu chiaro che doveva essere stata una bomba. Del resto lo scenario che si trovarono davanti i soccorritori era inequivocabile e terribile, come testimoniano le foto e le immagini girate all’epoca. Dato il periodo, molti medici erano in ferie e i soccorsi ebbero qualche difficoltà viste le dimensioni della strage: c’erano poche ambulanze e quindi si decise spontaneamente di utilizzare l’autobus della linea urbana 37 per trasportare i morti, permettendo cos�� alle ambulanze di trasportare solamente i feriti. Insieme all’autobus della linea 37, un altro simbolo della strage è l’orologio della stazione, rimasto fermo da allora alle 10.25. (...) «Vedevo solo polvere e sangue, sentivo urla», disse Caprioli. «Un odore nelle narici, un odore che non ho mai dimenticato. E poi soprattutto questo silenzio glaciale e le urla dei soccorritori, “ho trovato, ho trovato! Aiuto, aiuto!”. C’erano mani dappertutto, pezzi, sangue dappertutto, gambe». Il corpo di una delle vittime non fu mai trovato, e si pensa sia stato disintegrato dall’esplosione. La strage di Bologna va inquadrata in un contesto complicato della storia repubblicana, quello degli “Anni di piombo”. Sintetizzando, durante quegli anni la stabilità democratica del paese fu quasi rovesciata dalle stragi, gli omicidi e i sequestri di alcuni gruppi armati estremisti, di destra e di sinistra. Convenzionalmente si ritiene che questo periodo sia iniziato nel 1969, con la bomba di piazza Fontana a Milano, e che sia poi culminato nella strage di Bologna. I vari gruppi agirono per motivi e con metodi molto diversi tra loro: in generale, i gruppi di sinistra come le Brigate Rosse si concentrarono principalmente contro obiettivi che ritenevano simboli di un sistema da scardinare. In quest’ottica scelsero persone singole da colpire, soprattutto giudici, giornalisti e politici: l’esempio più famoso è il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro. I gruppi armati di estrema destra ragionavano in modo diverso e seguivano quella che divenne nota come “strategia della tensione”: il loro obiettivo era provocare lo stato di emergenza e far sentire tutti in pericolo, per minare la democrazia e instaurare un regime autoritario. Per farlo, scelsero come obiettivi posti molto affollati, allo scopo di colpire più persone possibili: treni, banche, stazioni, posti frequentati da gente comune che nell’intento dei neofascisti non avrebbe dovuto mai sentirsi al sicuro, da nessuna parte. Il senso di smarrimento e insicurezza generale avrebbe dovuto quindi condurre, sempre secondo i gruppi di destra, a un colpo di stato o almeno all’introduzione di leggi speciali per ristabilire l’ordine. Ci provarono con la bomba di piazza Fontana, con quella di Bologna, ma anche con quella di Brescia, messa a piazza della Loggia durante una manifestazione antifascista, e con quella del treno Italicus. Le vicende giudiziarie della strage di Bologna sono tortuose e complesse e continuano ancora oggi. L’ultima sentenza della corte di Bologna è arrivata il 9 gennaio 2020, e ha condannato Gilberto Cavallini per aver aiutato Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, questi ultimi condannati come esecutori materiali dell’attentato. Cavallini, come gli altri tre, era un terrorista dei NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari), un gruppo neofascista particolarmente violento coinvolto in diversi omicidi e di cui faceva parte anche Massimo Carminati, l’uomo al centro dell’inchiesta cosiddetta “Mafia Capitale”. I processi hanno individuato e condannato anche chi ha cercato di depistare le indagini: Licio Gelli, capo della loggia massonica P2, che ebbe un ruolo centrale in quel tentativo di sovvertire l’ordine democratico, e tre membri dei servizi segreti militari: il generale Pietro Musumeci, Giuseppe Belmonte e Francesco Pazienza. In un altro processo sul depistaggio sono stati invece assolti Massimo Carminati e Federico Mannucci Benincasa, un altro dirigente dei servizi segreti militari. I mandanti della strage non sono mai stati individuati. Le indagini si sono concluse l’11 febbraio 2020 e andranno a giudizio diversi imputati. L’ex membro di Avanguardia Nazionale Paolo Bellini è accusato di aver partecipato alla strage per mandato di Licio Gelli e del suo collaboratore Umberto Ortolani. Gli altri presunti mandanti sarebbero il funzionario del ministero dell’Interno Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi, che fu senatore del Movimento Sociale Italiano e per decenni direttore della rivista di destra Il Borghese. Gelli, Ortolani, D’Amato e Tedeschi sono tutti morti, circostanza che secondo il codice penale italiano estingue il reato. Gli altri imputati sono accusati di aver ostacolato le indagini: sono l’ex carabiniere Piergiorgio Segatel, l’ex generale dei servizi segreti Quintino Spella e Domenico Catracchia, che gestiva gli appartamenti di via Gradoli (a Roma) per conto dei servizi segreti.... Il Post
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PSICHE VS SOMA 0-1
Prima che le nostre figlie si disinteressassero completamente ai loro poveri genitori che si sono consumati per rendere felici le loro vite di giovani donne irrispettose e irriconoscenti dei sacrifici immani con cui ci siamo immolati sull’altare della genitorialità in cambio dell’assoluto nulla se non uno stitico ‘ok’ sulla chat di watsapp dopo aver visualizzato il giorno dopo, dicevo, prima di questo periodo eravamo soliti portarle sulla bellissima spiaggia del bellissimo mare di Viareggio, mia solatia natia patria.
Dopo aver raccolto miliardi di conchiglie e aver costruito milioni di metri cubici di castelli di sabbia, mi potevo finalmente sdraiare sull’asciugamano steso al sole e riposarmi, in assoluto la mia cosa meno preferita. Non riposarmi... mi piace un sacco riposarmi ma questo deve avvenire in un silenzioso buio assoluto, preferibilmente freddo e secco, tipo una cava sotterranea di asbesto, mica a 50 gradi del sole di Agosto coi melanomi che ti friggono sulla pelle e gli altri bagnanti coi tatuaggi di mussolini che ciarlano fastidiosamente di calcio e figa. Ma sto divagando.
Io sono una persona che ha la capacità straordinaria di addormentarsi a comando ma in quelle condizioni descritte non mi era possibile entrare nell’ipnagoghé ed è allora che ho scoperto, quasi per caso, una tecnica fenomenale di rilassamento di cui ho subito depositato il brevetto e per cui ho fatto richiesta di validazione presso Consiglio Nazionale dell'Ordine degli Psicologi...
IL COSTRUTTO CROMOSINESTESICO
Mi sono reso conto che - pur essendo a occhi chiusi - potevo attribuire un colore e una forma a tutti gli altri stimoli sensoriali che puntualmente martellavano la mia pace di stanco genitore: iniziavo l’esercizio ponendomi sotto un'immaginaria cupola di pleocroica Rubellite del Madagascar (il rosso del microcircolo delle mie palpebre attraversate dai raggi solari) e poi lasciavo che ogni suono e ogni profumo si trasformasse autonomamente in una composizione che prendeva la forma, l’estensione e il colore dettati dall’ambiente.
Lo sciagottìo della risacca sul bagnasciuga diventava una verde treccia a nodi celtici che si posava sul fondo della cupola, mentre il profumo di cocco della crema solare delle piccole nuvole arancioni che si sfilacciavano e si ricomponevano intrappolate dall’apice rosso-trasparente. Là il riso di un bambino fiorisce come gocce di rugiada posate su un salice piangente scosso dal vento del mattino, mentre l’urlo di richiamo di una mamma diventa una lancia di luce rosea che trafigge il nero cactus spinoso della suoneria di un cellulare.
E così via, fino a raggiungere la soglia di un sonno che malauguratamente era subito interrotto dalla richiesta filiare di conchiglie più esotiche o castelli più alti.
Per anni ho usato questa Tecnica Estraniante tutte le volte che ero costretto a stare in una qualche sala d’aspetto o in una qualche fila, traendone grande giovamento emotivo e ricavandone un decente spazio vitale perché chi cazzo si metterebbe vicino a un matto che tiene gli occhi chiusi in stazione o alle casse del supermercato?
Poi, nell’ultimo periodo ho avuto un’intuizione: perché non provare a utilizzare il Costrutto Cromosinestesico come metodo di controllo del dolore?
E allora, dopo essermi sdraiato sul letto, ho cominciato a visualizzare tutti i miei problemi fisici: laggiù il dolore crampiforme delle mia ernia del disco L5-S1 come un tentacolato anemone fucsia, là il dolore trafittivo della mia borsite sottopatellare sinistra come un ago blu di ghiaccio, il reflusso gastro-esofageo è diventato un mazzo di ortica tagliato da poco, le mie emorroidi un tizzone ardente di scuro carbone rosso-fuoco, la cefalea una nera corona di spine di Aralia e poi...
...e poi di scatto ho cominciato a frantumare col pensiero l’ago nel ginocchio, a schiacciare l’anemone, ad accartocciare la corona, a soffocare il tizzone e a sminuzzare le ortiche.
Ed ecco che mi sono improvvisamente accorto di una cosa sconvolgente.
Non era cambiato un cazzo di nulla.
Avevo ancora mal di testa e mal di schiena con un gran bruciore di stomaco, per non parlare poi del mal di culo e di ginocchio.
Tutto questo per dirvi che il Costrutto Cromosinestesico è davvero molto carino, rilassante e divertente (usatelo pure, tanto mica credevate davvero che l’avessi brevettato) ma fabula docet che quando uno sta male è meglio si curi con le medicine e non con le prime baggianate trovate su internet, soprattutto se scritte da un tipo con troppa barba e troppo poco cioccolato bianco in dispensa.
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Abbracciami, Amore,
che parto e non torno.
Nella sala d’aspetto,
nessuno l’ha vista,
a Bologna m’attende
la bomba fascista......................
Dedicata agli 85 morti della bomba neofascista esplosa alle 10:25 del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna. @Azzurra, poetessa antifascista
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Accadde Oggi: 2 Agosto 1980
Alle 10:25, nella sala d’aspetto di 2ª classe della stazione di Bologna, affollata di turisti e di persone in partenza o di ritorno dalle vacanze, un ordigno a tempo, contenuto in una valigia abbandonata, esplode causando il crollo dell’ala ovest dell’edificio.
Continua su Aforismi di un pazzo.
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Ho sempre avuto un ego molto debole. Non mi sono mai piaciuto, esteticamente soprattutto. Ho sempre pensato che tutti, in modo o nell’altro avessero e abbiano qualcosa in più di me, in tutto.
Tu cara F. lo sapevi, fin dall’inizio. Quanto hai insistito per volermi: dicevi che in me vedevi tanto di quel buono, che ti piacevo. E che onore per me piacere a una come te, che ti consideravo come una inarrivabile. E poi diciamocelo, anche il fatto che tu avessi tre anni più di me era una cosa in più, che mi rendeva ancora più orgoglioso e che in un certo senso mi faceva anche sentire più giusto.
Mi piaceva come mi facevi stare. Mi piaceva quello che ero quando ero insieme a te. Mi piaceva il tuo modo di fare.
Ricordi il nostro primo appuntamento? Io ricordo tutto.
Ricordo come eri vestita: cappello grigio, giacca in pelliccia grigia, sotto un maglione blu, jeans e scarpe con un piccolo tacco.
Camminammo un sacco quel giorno, più di 18 chilometri, ma d’altronde dovevo mostrarti Bologna.
Ricordo che avevo un po’ d’ansia prima di scendere dal treno. Tu eri già arrivata e mi aspettavi fuori dalla stazione e quando uscii non ti trovai e pensai “ecco, cominciamo bene”. Poi arrivò il tuo messaggio “fermati, ti ho visto”. Io come uno scemo mi guardavo intorno spaesato quasi un po’ intimorito di poter incrociare il tuo sguardo.
Poi ti sei finalmente palesata e credo che quello fu l’incontro/saluto più imbarazzante della storia: tu che mi saluti e tiri dritto e io che penso “bene, le faccio già schifo”.
Prova a studiarti fin da subito, a percepire i dettagli, i sorrisi, gli sguardi. Notai fin da subito i tuoi occhietti che si stringevano così tanto quando sorridevi.
Ti portai subito a vedere Bologna dall’alto e nel cominciare a parlare ti ricordi quale fu una delle prime cose che facemmo? Fu quella di metterci a cantare, e ovviamente io più di te.
Ti ricordi quando in piazza ci fermammo a guardare quei ragazzi che ballavano? Ci fu un momento in cui ci trovammo uno di fronte all’altro ed entrambi morivamo dalla voglia di abbracciarci ma entrambi eravamo frenati dalla nostra timidezza.
E ti ricordi quando non sapendoci decidere su dove andare a mangiare tu proposi “il primo che troviamo a destra”?
E ti ricordi seduti al tavolino del bar? Sorrisi, sguardi, carezze. E quel coniglio gigante con le luci in vetrina nel negozio di fronte.
E ti ricordi quando in stazione, seduti in sala d’aspetto, ti rimproverai perché mi avevi promesso che mi avresti stritolato e ancora non lo avevi fatto? E finalmente ci demmo un abbraccio, mentre le persone intorno ci fissavano e tu cercavi di nascondere il tuo sguardo dai loro.
Io ricordo tutto, ogni dettaglio.
Ricordo le notti passate al telefono fino anche alle due di notte, anche se tu poi la mattina dovevi svegliarti presto e ricordo anche la settimana passata a commentare Sanremo insieme.
Ricordo quando sei poi venuta da me a Forlì. Ricordo come passai il pomeriggio a mettere in ordine la stanza: ti chiesi anche di che colore avresti preferito le lenzuola. Ricordo quando uscì di casa per venirti a prendere alla stazione. Questa volta ci saltammo addosso immediatamente. Ricordo quando girato l’angolo della strada ti presi per mano e tu che diventasti tutta rossa, e appena andammo in camera ci buttammo sul letto a riempirci di baci. Era sera, ora di cena, ma che fatica alzarsi da quel letto. A una certa ci decidemmo e uscimmo per mangiare.
Ricordi come seduti al tavolo ci tenevamo per mano e come io mi allungavo per baciarti? Quanti sorrisi quella sera. Ogni parola, ogni gesto, ogni bacio, ogni tutto era accompagnato da un sorriso.
Quella sera mi piacque un sacco consumarti il rossetto a forza di baciarti. Fu una costante che si ripeté anche nei mesi successivi. Baciarti fino a consumarti le labbra mentre assaporavo il tuo profumo mischiato all’odore delle tue sigarette.
La notte fu speciale. Prima a parlare del nostro passato e a piangere uno sulla spalla dell’altro, poi finalmente a dormire insieme. Che colpo al cuore pensare ora a quello che ti raccontai quella sera e la pugnalata che qualche mese dopo mi avresti dato.
La mattina ricordo che aprì gli occhi e tu eri già sveglia ed eri lì che mi guardavi e io nascosi subito la mia testa fra le tue braccia.
Ricordo tutto, ogni cosa. Ogni attimo, ogni istante. Io che rimango a fissarti con il magone mentre parti con il treno.
Ricordo quando all’inizio della nostra relazione tu cercavi di tranquillizzarmi in tutti i modi sulla distanza, dicendo che ne valeva la pena, che bisognava provarci a tutti i costi perché insieme stavamo benissimo.
Ricordo le tue insicurezze, quando mi dicevi che tu cominciavi a provare qualcosa di veramente importante per me e non volevi quindi che io magari me ne approfittassi. E io che ti rispondevo che mai mi sarei potuto approfittare di te.
Dio quanto hai insistito per entrare nella mia vita.
I fine settimana passati nella tua Firenze. Io che esco dalla stazione e che corro incontro a te che mi aspetti in macchina. Noi che cantiamo in auto, io che ti tengo la mano e tu che mi baci ad ogni incrocio, ad ogni semaforo. Le ore interminabili passate a baciarci sul divano, la spesa fatta insieme e la cena preparata giocando a svestirci. Le sere passate a guardare i soliti ignoti e tu che li azzeccavi quasi tutti, non uscire di casa con la scusa de “ancora cinque minuti dai”.
Ricordo com’era camminare per Firenze insieme a te, ricordo la piazzetta della passera, ricordo il pranzo al ristorante brilli di Chianti che si rideva e ci si baciava, e ricordo il sorriso del cameriere nel vederci quando venne a chiederci se volessimo il caffè. Ricordo come ci mettemmo a ridere dell’accento strano della signora al tavolo di fianco.
Ricordo quando seduti a Palazzo Strozzi mi misi a piangere perché non volevo tornare a casa e stare senza di te. Ricordo le tue rassicurazioni, il tuo abbraccio in quel momento, il fatto che si rimase insieme una notte in più. Ricordo il primo “ti amo” detto con il cuore in gola, ricordo quelle lacrime, ricordo lo svegliarci la mattina e ascoltare Battisti, Jovanotti e “Guerriero” di Mengoni. Sì, perché io ti volevo solo proteggere da tutto e tutti.
Ricordo il prendere il gelato insieme, ricordo l’andare al cinema insieme e fare di tutto meno che guardare il film.
Ecco, quello invece non lo ricordo per niente.
Ricordo tutte le tue parole, probabilmente più false che mai: “nessuno mi aveva mai fatto stare così bene”, “nessuno è mai stato come te”, “non avevo mai amato nessuno così tanto dopo poco tempo”, “nessuno mi aveva mai dato la tua dolcezza”.
Ricordo quando andammo sugli autoscontri e ne uscimmo con qualche livido, ricordo quando al parco tu ti avvicinasti a quel cigno tanto bello ma al suo svolazzare ti voltasti verso di me dicendomi “amore mi fa paura”.
Ricordo quando hai passato tutta una giornata a guardarmi negli occhi, a sorridermi e a dirmi “mannaggia a te ma che mi hai fatto”.
Ricordo quando per scherzo facevo qualche tiro delle tue sigarette perché così a te avrebbero fatto meno male.
Ricordo anche il tuo essere schiva nelle ultime settimane, il tuo voler cercare lo scontro volutamente.
Ricordo quando morì mia nonna, una delle persone più importanti della mia vita, e tu che non facesti nulla per starmi vicino.
Ricordo ancora quel fine settimana dell’8 Giugno, l’ultimo passato insieme da fidanzati. Ricordo ancora il tuo sguardo appena ci vedemmo: era il solito sguardo di quella ragazza che io credevo innamorata, il solito sguardo che mi faceva sciogliere. Ricordo ancora il tramonto di quella sera in macchina con te mentre attraversavamo le colline toscane.
Ricordo quel cagnolone di Marvin e le sue zampe giganti.
Ricordo quella notte, ricordo che la passammo a fare l’amore, ma di quanto volte lo facemmo ne ho perso il conto.
Ricordo però anche come cambiò il tuo sguardo la mattina dopo e di come alle mie domande tu facevi finta di nulla. Ricordo il muro contro muro di quel giorno: se avessi saputo che sarebbe stato l’ultimo da fidanzati avrei provato ad essere più diplomatico e sicuramente non avrei mai smesso di baciarti.
Ricordo i messaggi dei giorni successivi: il tuo essere lunatica, il tuo passare dal chiedermi di andare a vivere insieme al più presto all’essere fredda e distaccata. Io che ti propongo cose da fare nelle settimane successive per goderci l’estate insieme e metterci alle spalle i dissidi delle ultime settimane.
E poi.
E poi il fine settimana successivo dal nulla mi dici che vai al mare con le amiche, e che ci saresti andata anche il fine settimana successivo, che lo avevi deciso da un po’ di tempo ma che ti eri scordata di dirlo. E va bene dico io.
Ricordo però come sei sparita in quei due giorni. Non ti ho mai tartassato di messaggi quando uscivi, non ti sono mai stato attaccato, ti avevo sempre lasciato i tuoi spazi, ma ora c’era qualcosa che non andava.
Riappari la Domenica sera, ti scusi, mi mandi più di 80 messaggi in cui mi scrivi “ti amo”. Dici che è vero che sei stata stronza così come lo sei stata nell’ultimo periodo, ma che mi ami, che non mi vuoi perdere.
La mattina dopo mi lasci.
Così, senza un motivo. O meglio, senza sapermi dire il vero motivo. Arranchi scuse su scuse, motivazioni sommarie e poco approfondite. Nei giorni successivi te ne esci dicendo che tu e le tue amiche avete conosciuto un gruppo di ragazzi con il quale passerai anche il fine settimana successivo (e poi anche tutti gli altri) e che probabilmente ci farai anche una vacanza insieme ad Agosto.
Comincio davvero a non capirci più niente. Il Truman show doveva essersi impossessato della mia vita, solo che stava funzionando al contrario e mi aveva buttato dentro una realtà orrenda.
Decido di venire da te, perché almeno meritavo di sapere la verità, e dovevi dirmela guardandomi negli occhi.
Tu piangi, mi baci, ma arranchi ancora scuse. Il motivo di tutto sarebbe la distanza. Ma come, tu che pochi mesi fa insistevi così tanto ora mi lasciavi con questa motivazione? Proprio tu che mi dicevi “in fondo non sono neanche due ore di macchina”. Non aveva senso.
Mi guardi negli occhi e mi dici che mi ami ancora ma che non te la senti. Mi lasci promettendomi che mi avresti lasciato. Sono in macchina con te, seduto al tuo fianco. Ci guardiamo e piangiamo, e tu lo dici. Pronunci quelle parole: “prometto che ci penserò”. Ti restituisco il pupazzo che mi avevi regalato, dicendoti che me lo avresti riportato il giorno che saresti voluta tornare. Il giorno che avresti messo da parte le paure che avvolgevano te e la verità che mi nascondevi.
Inutile dire che nei giorni e nelle settimane successive hai fatto di tutto meno che pensarci.
Era davvero surreale. Una sera non fai che dedicarmi frasi d’amore, non fai che esprimere la tua voglia di avere un futuro con me e il giorno dopo mi lasci. Improvvisamente mi crolla tutto e non solo, dei perfetti sconosciuti, che quasi per uno scherzo del destino hai conosciuto qualche ora prima di lasciarmi, ora trascorrevano accanto a te tutto il tempo di quell’estate che io avevo sognato insieme a te. E la cosa peggiore è che questo era forse il meno di tutta la vicenda.
Sì perché se ci mettiamo anche che avevi fatto credere ad amici e genitori che noi non stavamo più insieme, che ti avevo lasciato io, addirittura ben prima di quando invece l’hai fatto te, quando ancora stavamo insieme. E ora magari queste tue nuove amicizie ti consolavano pure. A te, che tutto meritavi meno che di essere consolata.
Ovviamente dopo alcune settimane mi faccio vivo io, perché una risposta, qualunque essa fosse, me la dovevi. Me l’avevi promesso.
La tua risposta sembra una presa in giro. Anzi, togliamo il sembra.
Dici che mi ami, che mi ami follemente, ma che no, non ci hai pensato perché tanto non cambierebbe nulla, tanto non si potrebbe stare insieme. Risposte sempre vaghe, mai che andassero nel merito.
E qui faccio una grandissima cazzata. Sì perché qualche giorno dopo torno di nuovo da te, voglio vederti ancora, e come un povero deficiente ti consegno pure una lettera. Dio quanto vorrei averla tra le mie mani e poterle dare fuoco. Sei pagine. Non ho mai scritto così tanto per nessuno. C’era di tutto lì dentro. Non erano sei pagine mielose, ma credo che arrivasse al cuore quanto tu fossi importante per me.
Tu la leggi e piangi. Io come te sono in lacrime e ti chiedo solo una cosa: non baciarmi di nuovo se non vuoi rimanere con me.
Tu mi baci.
Non una volta, ma lo fai tantissime volte. Mi prendi da dietro e mi chiedi di non andarmene.
Ora però hai cambiato versione: dici che non puoi tornare perché hai paure, insicurezze su te stessa che devi combattere da sola per vivere appieno la nostra storia, che hai solo bisogno di una pausa e che vorresti che io ti aspettassi.
Potrei fermarmi anche qui, tanto basta per capire quanto io sia stupido.
“Lasciala perdere, questa è pazza” mi dicevano. “Questa non è normale”, “ti sta solo prendendo in giro”, “ti sta usando”.
In effetti facevo un po’ fatica a crederti completamente, ma come potevo pensare che tu stessi mentendo così spudoratamente? Sapevo del tuo passato un po’ turbolento e pensavo che certe sofferenze fossero tali da non poterci mentire sopra.
Come avrei dovuto ascoltare quelle persone.
Invece non l’ho fatto.
Dopo quel giorno abbiamo passato più di una settimana a parlare ogni giorno, tutto il giorno. Mi riempivi nuovamente di “ti amo”. Dio mio quanto volte me l’hai ripetuto in quei giorni. Mi hai perfino dedicato nuovamente frasi qui sul mio blog.
Per ben due volte in quei giorni mi hai chiesto di tornare insieme: “sono seria”, “non sto scherzando”. E ricordi cos’�� successo? È successo che il giorno dopo in entrambi i casi hai fatto finta di niente: “no, non sono ancora sicura”.
E intanto io cominciavo sempre di più a urlarti il mio dolore, i miei pianti, il mio non capire nulla. Tu mentivi così bene e io credevo ancora meglio.
“Devo trovare me stessa”, e intanto io ero lì fermo e tu ogni giorno, ogni sera, ogni notte eri in giro felice a cercare tutto meno che te stessa, perché sicuramente non era un qualcosa da cercare. “Non voglio fare la libertina, non è quello che mi interessa. Devo solo togliermi alcune paure per amarti completamente”.
A fine Luglio dico basta. Non ce la facevo più a parlarti, a sentirti dire costantemente che mi amavi ma di fatto non stare insieme. Non ce la facevo più a vedere te che di punto in bianco diventavi fredda volutamente per mettere un muro e un secondo dopo tornavi a fare quella dolce e affettuosa.
Ovviamente non contenta del tutto, tu ti congedasti dicendo che non mi amavi più come prima, aggiungendo così una nuova versione.
Smettiamo di parlare ma tu cominci a scrivermi messaggi. Di notte, a volte li cancelli a volte no, altre volte mi scrivi in anonimo qua sul blog. Questi messaggi non sfociano mai in una conversazione, ma sono frasi di canzoni, dediche, “ti amo ancora”, “mi manchi”, “ti amo ancora ma non possiamo stare insieme”.
Anche il giorno prima di partire per quella vacanza tu me lo scrivi nuovamente: “ti amo”.
Poi più nulla, fino ai primi di Settembre, quando ti rifai viva, e a poco a poco riprendiamo a parlare. Dici che ora stai meglio, che sei felice con te stessa. Penso che vorrei perdermi anche io e ritrovarmi in discoteche, spiagge e mojito. Dev’essere un’esperienza introspettiva davvero interessante.
Dici che sì, vorresti recuperare il rapporto con me, ma prima è necessario riprendere un rapporto d’amicizia.
Io non ragiono bene. Ho il cuore ancora troppo coinvolto e tu lo sai perfettamente. Non ho passato un giorno senza piangere e il solo risentirti mi faceva sentire più leggero.
Parliamo, ma tu sembri non voler impegnarti nemmeno più di tanto. Penso che dovresti essere tu a darti da fare dopo tutto quello che hai combinato. Tu ti giustifichi dicendo che non bisogna avere fretta e comunque nonostante ci fossimo lasciati per la prima volta tu non ti eri comportata in modo stupido, che io ero il primo che tu avevi rispettato veramente.
Poco più di un mese dopo faccio la domanda che non avrei mai dovuto fare, o forse sì. Tu rispondi che sì, avevi baciato un ragazzo in discoteca mentre eri in vacanza.
Com’era? “Se volessi tradirti non ho bisogno di farlo in vacanza, posso farlo anche qua”,
“Mi scrivevi “ti amo”, “aspettami” e pochi giorni dopo baciavi un altro.
“È stato solo uno, solo una sera”. “Ero single”. “Se non avessi pensato a te ci sarei stata di più”.
Mi domando con quale faccia tosta tu possa aver scritto queste frasi.
Lo sai che c’è? Che in quei giorni in qui tu eri in vacanza è successo che una sera una ragazza ci ha provato a baciarmi e credimi che per un secondo ho anche pensato di starci perché mi dicevo “quella là ti ha trattato di merda, probabilmente non starà perdendo tempo e nel caso se lo meriterebbe”.
Ma no, non l’ho fatto. Non l’ho fatto perché il mio cuore gridava il tuo cazzo di nome e la sola idea che potessi baciare una ragazza che non fossi tu mi faceva piangere, mi dava perfino l’idea di essere uno stronzo che ti tradiva.
Merito davvero di essere chiamato coglione.
Ma tu non sei mai contenta del male che fai. Vuoi sempre andare fino in fondo e per questo cominci a fare la vittima e a dire che è vero, mi avevi raccontato tante cazzate, che mi avevi lasciato perché nella tua test c’era il caos, che per la prima volta avevi trovato una persona che si era accorta veramente di te e la tua testa è andata in tilt, hai cominciato a pensare che tanto prima o poi sarebbe finita.
Lo sai, nonostante tutto ti avrei perdonato. Ma no, il tradimento non lo posso perdonare, è stato veramente il colpo più basso. Perché sì, io ricordo tutto.
Ricordo ogni giorno di questa maledetta estate in cui passavo giornate chiuso in camera a piangere. A malapena uscivo per fare la spesa perché tanto non mangiavo.
Ricordo gli esami che non ho dato perché non riuscivo a studiare o perché passavo le notti insonne.
Ricordo tutte quelle notti in cui mi prendevano attacchi di panico e mi maledicevo ogni volta per essere così fragile.
Un’estate intera a piangere e a stare male come un cane bastonato. Anzi, mesi e mesi a stare così male, perché ancora adesso in qualunque posto io mi trova scoppio a piangere a ripensare a ciò che mi hai fatto.
Ricordo le tue promesse quando dicevi che mi avresti portato al mare a Castiglioncello.
Ricordo quando dicevi che avresti voluto portarmi anche in montagna a Dicembre, perché volevi condividere quei posti con me e perché dovevi assolutamente insegnarmi a sciare.
Ricordo quando dicevi che fare una vacanza con me era la cosa che più desideravi.
Ricordo le storie che mi dedicavi e che ancora hai salvate sul tuo profilo, così come ancora hai salvata la storia di quella sera in cui mi hai tradito.
Dio come rincoglionisce l’amore. Come potevo credere a tutte quella frasi in cui dicevi che volevi progettare un futuro insieme a me?
Ricordo tutto. Ogni istante di dolore, di sofferenza, di pianto provato a causa tua, e credimi che non c’è un solo di questi istanti che sia valso la pena di essere vissuto rispetto ai momenti felici. Quelli sono ormai tutti oscurati dai giorni peggiori che mi hai fatto passare.
Perché sai, in quei momenti l’unica cosa che mi teneva lucido e mi confortava era il pensare “lei ti ama, non ti tradirà. Ti ama veramente”.
No, non mi hai mai amato. E sì, mi hai solo usato. Sono stato il tuo passatempo, il tuo rimpiazzo in qualche giornata un po’ troppo vuota e noiosa. Hai calpestato i miei sentimenti e ridicolizzato con la tua incoerenza quello che dicevi di aver subito nel passato.
Hai tentato di rientrare nella mia vita solo per il gusto di giocare, senza avere alcuna intenzione seria.
Hai mentito senza provare nessun rimorso nel farlo.
Mi hai rubato un’estate, ma probabilmente è solo colpa mia.
Mi hai rubato giorni di spensieratezza e di felicità.
Mi hai rubato sogni e speranze. Mi hai rubato l’amore.
Non ho più fiducia in nessuno, non credo più a nessuno, figuriamoci a me stesso.
Mi hai annullato.
Mai, mai per un secondo ti sei dimostrata dispiaciuta, ma non potrebbe essere altrimenti.
Hai avuto tutto quello che volevi. Ti è bastato circondarti di nuove amicizie per scoprirti come una “”donna”” forte.
Ti ho dimostrato in tutti i modi quanto tenessi a te e quanto stessi male. Mi sono messo a nudo e reso fragile. Dovevi solo evitare di ferirmi. Invece hai agito, a parole e non, proprio per ferirmi. Hai agito in modo perfettamente cosciente solo con l’intento di farmi del male. Probabilmente la colpa è solo mia che te l’ho permesso. È colpa mia che ho creduto in te, che ho creduto che tu ne valessi la pena, che ho creduto tu avessi la maturità che si pensa abbia una ragazza di 26 anni.
Ma dopotutto hai avuto quello che volevi. Le cose sono andate esattamente come tu volevi che andassero.
Quindi complimenti.
Hai vinto tu.
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Clochard — Fabiano Pini
Mi siedo nella sala attesa della stazione ferroviaria di Pisa, aspettando il Freccia Bianca delle nove e zero sette per Roma. Ho alcuni minuti a disposizione, guardando l’orologio che segna le otto e quaranta. Decido di messaggiare a mia moglie la sorpresa di aver trovato le strisce blu a pagamento, dove di solito erano bianche: “Adesso dobbiamo pagare anche qui!”. Nelle panchine davanti a me, due donne intente sui loro cellulari in evidente attesa pure loro. Dietro, verso il bar, altre persone. Nella panchina di fondo, adiacente alla parete che ci separa dall’ufficio informazioni, ho notato precedentemente una clochard con il suo carico di masserizie appoggiate su due sedute accanto a lei. Mentre armeggio con il cellulare mi arriva una chiamata; ancora la consorte. Nel mentre converso a bassa voce per non disturbare, noto che la bionda senza tetto si alza, avviandosi verso l’uscita e bofonchiando qualcosa, credo all’indirizzo di una delle due donne, o a tutte e due, sedute di fronte a lei ma onestamente non ci faccio caso, non buttando neanche uno sguardo incuriosito.
Terminata la telefonata, riprendo a sbirciare su una delle maggiori reti sociali l’andamento della mia pagina, di come seguono i miei post, leggo i commenti e osservo il numero crescente dei seguaci, pensando di dover realizzare un nuovo video di ringraziamento per la fiducia dimostratami. Ormai è diventata una piacevole abitudine quando, ogni mille “mi piace” alla pagina, se ne aggiungono altri facendola crescere. Avendo superato la soglia dei seimila seguaci, ritengo opportuno dimostrare loro un segno di ringraziamento per la loro fiducia.
Non mi accorgo che nel frattempo è rientrata, onestamente non ho neanche notato se fosse veramente uscita dalla porta o se ne fosse rimasta in qualche posto della grande sala d’aspetto, quando a un certo punto del suo camminare, si ferma davanti a me, iniziando a parlarmi sottovoce con un tono simile a chi parla in modo disagiato per la mancanza della dentatura; ma lei, noto stavolta, anche se non tutti i denti ce li ha. Non capisco le sue parole e non comprendo quello che mi chiede. Restando con le gambe accavallate e le mani che tengono il cellulare appoggiato sul ginocchio, mi abbasso gli occhiali fin sulla punta del naso guardando la donna con fare indagatore misto a “questa mi vuole spillare quattrini!”
Si siede davanti a me, continuando con le sue parole ancora incomprensibili anche se qualcosa comincio a percepire.
“Non importa che tu mi guardi così, non ti mangio mica!”, con un filo di voce gentile che lascia trasparire una timidezza strana, quasi avesse timore di provocarmi fastidio ma in realtà, non me ne ha dato nessuno; anzi.
Poi, partendo un po’ da lontano, inizia a descrivere la sua misera condizione per giungere ovviamente dove voleva arrivare: “Almeno un caffè!”, chiedendomi, aggiungendo che le tonerebbe scomodo tornarsene a casa per fare colazione, “già che sono qui, la farei al bar!”
Probabilmente una casa la possiede veramente, una di quelle costruite in mattoni intendo, non con le scatole di cartone, visto che ha rincarato la dose tirando in ballo, non so come né perché, suo padre e sua madre.
Non ha la solita faccia inespressiva o aggressiva che alcuni suoi “colleghi” ostentano quando avanzano richieste di elemosina, né ha insistito oltre il lecito e per tutta onestà, mi ha rivolto una sola richiesta peraltro con la dovuta educazione che non ti aspetti da quel tipo di persona, lasciandomi veramente sorpreso. Ovviamente non ha un aspetto da donna di alto rango né i suoi vestiti sono sagomati da atelier di alta moda ma quel suo modo di fare garbato, fa passare in secondo piano anche la vista di quel piumino dal color celeste sbiadito dal tempo e logoro dall’uso.
Continua a parlare con quel linguaggio altalenante e poco chiaro ma più che lo ascolto, più percepisco quei suoni come un qualcosa di intuibile, come se il prestare orecchio ripetuto e continuo, accendesse un fantomatico traduttore simultaneo rendendo comprensibilissime quelle parole.
Non so come abbia fatto ma è riuscita a farmi compiere quel gesto che non ho mai fatto con così tanta indulgenza ma che anzi, ho sempre evitato per una sorta di principi che lì per lì non mi sono venuti in mente.
Apro il portafogli e vedo che nel porta monete mi sono rimasti solamente otto centesimi, pochi per un caffè; gli altri nove euro di metallo li avevo “generosamente” consegnati in quell’infernali macchinette succhia soldi della Pisamo, l’emerita banda gestore dei parcheggi. Dovendo scegliere tra una banconota da cinque euro e una da cinquanta e pensando che chiedergli il resto pareva brutto, sfilo il taglio più piccolo e lo consegno alla donna che ancora non capisco perché abbia scelto proprio me tra le persone presenti, per attaccare bottone.
Tra una parola e l’altra, apprendo la domanda “Tu di cosa ti occupi?”, con fare quasi da conoscente che non vedevi da qualche anno e in un caso fortuito di incontro, cominci a sciorinare la tua vita cercando di colmare buchi di non convivenza.
“Mi diletto a scrivere libri”, rispondendo secco senza tentennamenti, ostentando una certa durezza che mi fa tornare al pensiero iniziale di non voler parlare con lei perché mi voglio occupare delle mie cose. Invece proseguo, meravigliandomi del mio gesto, fregandomene della gente intorno che, penso, avranno avuto da dire qualcosa tipo, “Ma guarda quello come si fa abbindolare da una barbona. Meno male è andata da lui perché se veniva da me…!”, come se avessi commesso chissà quale tipo di delitto o avesse chiesto un passaggio per tornarsene a casa.
È vero, siamo pieni di pregiudizi, lo siamo da sempre almeno da quando ci riteniamo in grado di criticare gli altri, mentre giustifichiamo il nostro operato: noi facciamo sempre bene, sono gli altri a sbagliare.
“Se l’è cercata quella vita, perché mi viene a chiedere soldi che mi guadagno onestamente? Che se ne vada a lavorare invece di importunare la gente!”. Mi pare di sentirli quelli dietro di me e pure le due donne davanti che nel mentre spippolano su Candy Saga e Facebook, girano un attimo gli occhi per osservare le gesta della donna che ho di fronte a me: figuriamoci se non mi hanno ingiuriato!
Non capisco ancora perché ma “sento” che devo continuare ad ascoltarla e mentre do una veloce occhiata all’orologio, decido di proseguire fino al tempo concessomi da quei sette minuti che mi dividono tra la sala d’aspetto e la partenza del treno.
Poi mi estraneo dalla conversazione, ricevo i suoni ma non li distinguo più, come se il traduttore si fosse inceppato ammutolendosi pure lui, lasciandomi da solo con la clochard, “Oddio e adesso?”. Mi accorgo invece, di osservare meticolosamente la sua figura in una sorta di scanner utile a memorizzare più cose possibili di lei, “Ma per cosa poi?” mi chiedo, non comprendendo l’utilità del mio gesto, il movente di tutto ciò cominciando a preoccuparmi: “Sto forse invecchiando e intenerendomi come non ho mai fatto nella mia vita?”. La luce blu elettrico e il netto rumore del mio personale scanner, continua nel suo lavoro visionando i grigi e lunghi capelli, mescolati a quel lontano ricordo di biondo platinato che un tempo, immagino, lucenti e perfettamente in ordine e profumati. Quella sciarpa di stoffa indefinita e di un grigio rovinato, trattengono dietro il collo la parte di capelli che insistono nel voler ancora crescere in ordine sparso, nonostante l’alimentazione ricevuta negli ultimi chissà quanti anni, non sia perfettamente in linea con la dieta mediterranea. Le labbra carnose e già crepate probabilmente dalle prime notti fredde di un inverno ancora in ritardo, si muovono in una danza quasi soave e beneaugurante, come se avessero trovato il compagno di ballo con il quale sfogarsi, destandosi da un torpore verbale che dura da diverso tempo, nel tentativo di sgranchire la mente e la voce, uscendo da quel logorroico tran tran quotidiano privo di socialità, privo di amore, di parole diverse da una litania giornaliera che immagino, la attanaglia nelle interminabili giornate senza niente da fare, girovagando di giorno in cerca di cibo, di compagnia o di chissà cos’altro, mentre di notte in cerca di un riparo dal freddo e dalla pioggia ma comunque da sola.
Forse è così, forse no, forse anch’io sono stereotipato dagli innumerevoli film e visione univoca dove gli homeless sono disegnati così, dove la massa classifica queste persone come non persone o esseri umani dannatamente persi e da lasciare dove stanno, ai margini della vita ma soprattutto, lontani dalle vite delle “persone per bene”, che hanno una dignità decorosa da rispettare, da non compromettere con “quella gentaglia” neanche offrendogli un caffè gettandogli per terra quei pochi spiccioli, peraltro fastidiosi, che si ritrovano nelle tasche.
Poi per un attimo soffermo lo sguardo sulle dita delle mani, su quelle unghie vagamente colorate, alcune si altre no. “Ma dove lo trova lo smalto? Lo compra, lo ruba, lo trova nei cassonetti?”. Il tempo da dedicare alla manicure di certo non le manca ma lo smalto? Mi incuriosisce ancora di più e le osservo meglio mentre lei, concentrata sulle sue parole, continua a dire quello che vuole, il traduttore è ancora spento.
Non faccio in tempo a guardare che tipo di pantaloni indossa, pare una tuta, ma noto al volo le scarpe, una certa vaga somiglianza a un classico paio da tennis.
“Scrivi libri? Che bello! Eeh, io ho una storia da scrivere lunga una vita! E prima o poi la scrivo!” Toh, è ripartito il traduttore! “Brava, scrivilo, inizia e non fermarti fintanto che non arrivi alla fine”, di certo il tempo non le manca e probabilmente neanche gli spunti.
Chissà cosa avrà da dire, quale sarebbe la sua prima frase, come scriverebbe l’incipit e soprattutto, che razza di finale metterebbe. Probabilmente non riuscirebbe più neanche a sorreggere tra le dita una penna e forse, davanti a dei fogli bianchi, si chiuderebbe in un mutismo inespressivo rispecchiandosi in quelle pagine vuote come la sua vita, da quando è partita la sua avventura da errabonda. Niente mi toglie dalla testa che quella vita è diventata una non vita per scelta, in conseguenza di un evento o una serie di eventi bellicosi, cattivi, bastardi, talmente violenti da spingere un uomo o una donna ai margini dell’oblio, a evitare per un soffio il suicidio anche se a mio avviso, quella scelta è una sorta di suicidio controllato e continuo, un uccidersi giorno dopo giorno per il resto della propria esistenza, per quanto possa durare.
Chissà quale potrebbe mai essere la copertina di quel libro che racchiude, per adesso, un mucchio di ipotetici fogli bianchi già numerati come gli anni fin qui trascorsi, dove in prima pagina spicca il titolo, “L’inizio” e nell’ultima si intravede la scritta “Fine”. La fine di un inizio che non c’è mai stato o è stato cancellato appena scritto, come quando uno scrittore in piena crisi, non trova neanche una parola per scrivere l’inizio.
Chissà quale quarta di copertina potrebbe mai avere quel libro ben stampato, per adesso, nella mente di una donna con una maledetta voglia di chiacchierare con qualcuno, di sentirsi ascoltata per quello che ha da dire e di non essere osservata come un fenomeno da baraccone o una belva da circo rinchiusa nella sua gabbia quando non esegue il suo numero, suscitando compassione e tenerezza per quello stato di vita che pare in completo abbandono ma che non invoglia nessuno a presentarsi innanzi a lei porgendogli un saluto, guardandola con occhi umani di chi ha negli occhi il desiderio di aiuto.
“E sai come lo inizierei?”, con il sorriso stampato in volto e come intuisse i miei pensieri, all’improvviso le si accendesse una luce benevola rischiarando per un istante la sua vita, una sorta di faro da palcoscenico che illumina l’attore protagonista, nell’intento del suo monologo lungimirante seguito da uno scroscio infinito di applausi.
“C’era una volta una principessa…”, terminando la frase al buio, spegnendo quel sorriso iniziale come se qualcuno avesse tolto d’un colpo la corrente al faro e quell’attore si fosse ritrovato istantaneamente a esibirsi in un teatro vuoto, senza applausi, con il sipario chiuso. Come resterei io, se durante una presentazione la gente cominciasse senza una spiegazione logica, a uscire dalla sala, senza motivo, lasciandomi solo con le mie parole, abbandonando i miei libri al loro destino infame, senza nessuno che li comprasse né che li leggesse. Avrei faticato per niente, ci resterei malissimo, scoppierei a piangere e urlerei “Bastardi! Ci lasciate soli me e i miei libri? Che vi abbiamo fatto?”. Ecco, adesso ho paura anch’io, paura di aprire un mio libro e di scoprire che sotto la copertina ci sia soltanto un mucchio di fogli bianchi, vuoti, come il vuoto che il pubblico mi ha lasciato andandosene via, “Bastardi…”. Che farei senza l’inchiostro per i miei pensieri, che ne sarebbe di me e delle mie giornate, come passerei il tempo forse girovagando da una libreria all’altra, incollato alle vetrine perché non mi farebbero entrare, o rovisterei dentro i sacchi della raccolta della carta, il mercoledì, nella disperata ricerca di qualche pezzo di libro strappato da poter leggere. Ma quale sacrilegio sto dicendo? I libri non si gettano né si strappano al massimo si regalano! E gli altri giorni! Dio, che disperazione! Non provo neanche a immaginare come possa trascorrere uno solo giorno così quella donna, figuriamoci un’intera vita. Eppure ci riesce, con apparente facilità, con celata nostalgia o con pianti disperati e nascosti agli occhi della “gente per bene”, magari dietro un cassonetto dell’immondizia o nei silenzi notturni di una stazione ferroviaria dove sovente trovano rifugio come la tana di un animale.
“Ma perché questa donna è venuta da me stamani? Che giorno è mai questo?” penso, mentre rifletto sull’ultima frase che il traduttore mi ha sfornato, “C’era una volta una principessa…”, rimbombandomi nel cervello, come se il mio sub inconscio stesse cercando di memorizzare quella frase. “Ancora? Anche questa? Ma qualcuno mi vuol spiegare perché?”
Guardo nuovamente l’orologio, nel tentativo di leggere, finalmente, l’orario di partenza staccandomi da questa assurdità, contrapposta con tenacia da un’immaginabile voglia di restare e ascoltare all’infinito quale storia voglia raccontare questa donna: ancora tre minuti…
“Con mio padre le cose andavano bene ma con mia madre…”, troncando la frase con una smorfia che lascia intendere molto, mista tra terrore e nostalgia, tra dolore e voglia di vivere e con quelle parole e quella espressione, mi apre la mente lasciandomi pensare “ma allora una storia ce l’ha per davvero!”
Poi squilla la campanella, una voce gracchiante annuncia la partenza, il traduttore si spenge, “No, proprio adesso!”. Proprio ora è scaduto il tempo? Quando forse, la nebulosa che attraversava la sala d’aspetto si stava diradando lasciando intravedere un po’ di luce.
Mi alzo, prendo le mie cose e faccio il primo passo verso la porta, verso la salvezza quando il traduttore ha un sussulto, un gracchiante ritorno: “Devi partire? Tanto io sono qui!” e sono fuori dalla porta.
“Non ho capito, che ha detto?”, mentre velocemente mi inerpico per le scale che dal sottopasso mi sbarcano al binario quattro.
Forse quella principessa è vissuta veramente?
Ma perché oggi e perché proprio a me doveva capitare?
Tra tutti quelli che erano in quella sala, perché è venuta da me?
Mi stavo facendo gli affari miei, mica l’ho guardata in cagnesco, in fin dei conti ho solo spostato gli occhiali sulla punta del naso, che avrò fatto mai!
E se dovessi essere proprio io a scrivere quella frase?
“C’era una volta una principessa…”
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ANGELA E MARIA: LA VITTIMA PIÙ GIOVANE DELLA STRAGE DI BOLOGNA E LA SUA MAMMA LETTERALMENTE DISINTEGRATA DALL’ESPLOSIONE
Il 2 agosto del 1980 nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna ci sono tante persone. È una giornata estiva, è agosto appunto, e in molti partono per una vacanza o per tornare nelle proprie terre d’origine. Tra chi va e chi viene ci sono tre donne. Sono amiche, e hanno deciso di andare a passare insieme alcuni giorni sul Lago di Garda. Vengono da Firenze e cambiano a Bologna, dove aspettano il treno per Verona. Una di loro si chiama Maria Fresu, e porta con sé sua figlia Angela, di appena tre anni.
È un’operaia, lavora in una ditta di confezioni e può riprendere fiato dopo un anno di fatiche solo nelle prime due settimane di agosto. Maria ha sempre gli occhi puntati sulla sua piccolina. Una bambina dai capelli spettinati e dal temperamento vivace, che è stanca di starsene seduta e che scalpita per muoversi, divertirsi, giocare.
Ma in quella sala d’aspetto non c’è solo gente comune, gente che è stanca del caldo, che vuole andare in ferie, che pensa già al mare e alla montagna, alla famiglia da riabbracciare dopo tanto tempo. C’è anche una valigia. Una valigia nera, piena di esplosivo. È piazzata proprio vicino a Maria ed Angela, nei pressi della porta d’ingresso, su un tavolino a cinquanta centimetri di altezza.
Alle ore 10:25 la bomba scoppia.
La sala d’aspetto, gli uffici al piano di sopra, il ristorante, il bar si sollevano e poi ricadono. Muri portanti distrutti, schegge e detriti che investono i binari e il parcheggio dei taxi, fumo e polvere che si alzano al cielo. La stazione non c’è più. Dove c'erano muri restano solo macerie, dove c’erano persone innocenti, ci sono cadaveri.
Il boato si sente in tutta Bologna. Centinaia e centinaia di cittadini accorrono per dare soccorso ai feriti (200), per sottrarre i corpi dalle macerie, per raccogliere i morti.
Saranno 85.
Tra gli altri la bomba uccide la piccola Angela, cancellando così un’esistenza ancora tutta da vivere. Uccide una delle due donne in vacanza con sua madre, e ovviamente uccide Maria Fresu.
Ma il corpo di Maria non si trova. I suoi resti sembrano essere scomparsi nel nulla. Polverizzati. Come se l’esplosione non avesse solo spento la sua vita, ma cancellato la sua stessa presenza su questa terra.
Qualche mese dopo, analizzando alcuni minuscoli resti sotto un treno, dei periti stabiliscono che è tutto quello che rimane di Maria. Saranno messi in un’urna e dati ai parenti. Recentemente si è sostenuto che i resti del cadavere di Maria Fresu siano stati portati via dal luogo dello scoppio. Si tratterebbe di un primo depistaggio.
Speriamo che la storia di Angela e Maria tenga vivo il ricordo di questo tragico evento e che possa spingere tutti a chiedere con sempre maggiore insistenza che si faccia completamente luce su questa e su tutte le altri stragi che hanno insanguinato il nostro paese.
Cannibali e Re
Cronache Ribelli
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Ceccano, puoi aspettare il treno soltanto in piedi
Ceccano, puoi aspettare il treno soltanto in piedi
Continua il persistente degrado della stazione ferroviaria di Ceccano: puoi aspettare il treno soltanto in piedi o altrimenti sederti all’aperto. La sala d’aspetto senza panchine è l’ultimo particolare che si aggiunge ai bagni murati ormai da anni, alla sporcizia, agli ingressi senza protezioni, alla mancanza di biglietteria, neppure elettronica. Ceccano è trattata da Rete Ferroviaria Italiana…
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Detenuto in permesso non torna in carcere alla Spezia, lo arrestano alla stazione di Aulla
Detenuto in permesso non torna in carcere alla Spezia, lo arrestano alla stazione di Aulla
LA SPEZIA – Dura meno di una settimana la fuga di un condannato a 9 anni, che ora sarà processato per evasione. Un detenuto del carcere di La Spezia, irreperibile dal 10 marzo scorso, quando non aveva fatto rientro nella casa circondariale dopo un permesso premio, è stato rintracciato dagli agenti della polfer venerdì scorso nella sala d’aspetto della stazione ferroviaria di Aulla (Massa…
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Il viandante Entro in sala d’aspetto alla stazione, manca l’aria. In tasca ho un libro, poesie altrui, tracce d’ispirazione.
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La mia da un paio di giorni si taglia a fette. Ma adesso andró alla stazione, prenderó il treno, scenderó e saliró sul tram e andró nella solita sala d’aspetto e quando toccherà a me mi faró fare tutto quello che c’è da fare. E forse poi andró al cinese e in libreria o non lo so, ma prima di sera saró sul mio divano sotto alla copertina e basta. E chiameró a casa e fingeró di essere stata a lavorare.
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Accadde Oggi: 2 Agosto 1980
Alle 10:25, nella sala d’aspetto di 2ª classe della stazione di Bologna, affollata di turisti e di persone in partenza o di ritorno dalle vacanze, un ordigno a tempo, contenuto in una valigia abbandonata, esplode causando il crollo dell’ala ovest dell’edificio.
Continua su Aforismi di un pazzo.
#Accadde Oggi#2 Agosto#1980#Stazione di Bologna#strage di bologna#Aforismi di un pazzo#Stefano Zorba
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