#ritualità religiosa
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Siamo quello che facciamo e non ciò che diciamo di essere.
I 'peccati' non esistono: ci sono solo i Reati. Chi appartiene ad una setta religiosa dovrebbe ben sapere che la moralità non è affatto Verità, ma superstizione, creduloneria. 'dio' non esiste e pertanto tutto ciò che viene detto da una setta di sciamani (clero religioso) e da coloro che si mostrano subordinati ad essa non ha alcuna autorevolezza.
Partecipare con costanza (o meno) ad un rito 'magico' che si tiene in un tempio (chiesa), ad opera di una setta di sciamani (chiesa cattolica) non può offrire ad alcuno un attestato di 'brava persona'; ci indica, invece, che tale soggetto è ignorante, irrazionale, privo di etica e preda di un'isteria collettiva (ritualità religiosa), provocata da un abuso di indottrinamento religioso. Tale persona, evidentemente affetta da psicosi, proprio per quello che fa (senza spirito critico), è inaffidabile nelle proprie azioni e non autorevole, a partire dalle sue affermazioni.
Siamo quello che facciamo e non ciò che diciamo di essere.
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I peccati non esistono: ci sono solo i Reati. Chi appartiene ad una setta religiosa dovrebbe ben sapere che la moralità non è affatto Verità, ma superstizione, creduloneria. 'dio' non esiste e pertanto tutto ciò che viene detto da una setta di sciamani (clero religioso) e da coloro che si mostrano subordinati ad essa non ha alcuna autorevolezza.
Partecipare con costanza (o meno) ad un rito 'magico' che si tiene in un tempio (chiesa), ad opera di una setta di sciamani (chiesa cattolica) non può offrire ad alcuno un attestato di 'brava persona'; ci indica, invece, che tale soggetto è ignorante, irrazionale, privo di etica e preda di un'isteria collettiva (ritualità religiosa), provocata da un abuso di indottrinamento religioso.
Tale persona, evidentemente affetta da psicosi, proprio per quello che fa (senza spirito critico), è inaffidabile nelle proprie azioni e non autorevole, a partire dalle sue affermazioni.
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Partecipare con costanza (o meno) ad un rito 'magico' che si tiene in un tempio (chiesa), ad opera di una setta di sciamani (chiesa cattolica) non può offrire ad alcuno un attestato di 'brava persona'; ci indica, invece, che tale soggetto è ignorante, irrazionale, privo di Etica e preda di un'isteria collettiva (ritualità religiosa), provocata da un abuso di indottrinamento religioso.
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Siamo quello che facciamo e non ciò che diciamo di essere.
Partecipare con costanza (o meno) ad un rito ‘magico’ che si tiene in un tempio (chiesa), ad opera di una setta di sciamani (chiesa cattolica) non può offrire ad alcuno un attestato di ‘brava persona’; ci indica, invece, che tale soggetto è ignorante, irrazionale, privo di etica e preda di un’isteria collettiva (ritualità religiosa), provocata da un abuso di indottrinamento religioso. Tale…
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Siamo quello che facciamo e non ciò che diciamo di essere.
Partecipare con costanza (o meno) ad un rito 'magico' che si tiene in un tempio (chiesa), ad opera di una setta di sciamani (chiesa cattolica) non può offrire ad alcuno un attestato di 'brava persona'; ci indica, invece, che tale soggetto è ignorante, irrazionale, privo di etica e preda di un'isteria collettiva (ritualità religiosa), provocata da un abuso di indottrinamento religioso.
Tale persona, evidentemente affetta da psicosi, proprio per quello che fa (senza spirito critico), è inaffidabile nelle proprie azioni e non autorevole, a partire dalle sue affermazioni.
Siamo quello che facciamo e non ciò che diciamo di essere.
#autorevolezza#religione#tempio#chiesa#setta#sciamani#ignoranza#irrazionalità#etica#isteria collettiva#ritualità#indottrinamento#abuso#psicosi#azioni#essere
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Non capisco i funerali, sia quelli in chiesa, con tutta quella litania religiosa impersonale dove ogni tot viene fatto un riferimento ai peccati, sia i funerali-non funerali dove il feretro viene seguito fino al cimitero o al forno crematorio per dargli un ultimo saluto. Non so se è un mio limite non riuscire a capirli o se è perché, essendo fatta a modo mio con le mie credenze e le mie ritualità più personali, ma ritrovarmi in una situazione sovraccarica di dolore dove si dice addio a una cassa di legno con dentro un corpo oramai svuotato di ciò che lo rendeva una persona cara è qualcosa di incomprensibile. Non sarebbe meglio salutare la persona defunta salutandola con discrezione per poi, se proprio ci deve essere un momento di raccoglimento per condividere il dolore di chi resta, celebrare la sua vita in un modo che amava?
L'ho pensato un anno fa quando se ne è andata zia, dove per tutta la messa funebre il mio cervello è andato altrove senza sentirmi in colpa perché l'avevo già salutata a modo mio tra una lacrime e, soprattutto come avrebbe voluto, un sorriso, e lo penso oggi per andare al funerale di una persona che, tutti, ricordiamo come un amante della vita, dei suoi boschi dove andava per funghi, del mare dove passava le estati a bruciarsi al sole, delle cene con gli amici, del ballo, della vita in tutte le sue sfaccettature. L'A. che ho conosciuto così bene da considerarlo uno zio adottivo, perché con mio padre erano oramai un tutt'uno, avrebbe voluto vedere la sua gente ridere, non piangere su un feretro che, da ateo, considerava pieno solo di un corpo morto.
#e io di vedere il dolore di suo padre novantenne sopravvissuto al figlio non so neanche se ne ho la forza#givemeanorigami
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Buon Natale Benché il Natale non possa più considerarsi una festa cristiana, ma solo una ritualità di cui si sono smarriti i significati, anche quelli più arcaici su cui la celebrazione religiosa si è innestata, ovvero la festa del Sol invictus e i Saturnali, legati al mutare delle stagioni, alla morte e al risveglio della natura.
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Da Anime a Ultima: la memoria secondo Boltanski nei suoi progetti per Bologna
di Stefano d’Alessandro
Marcel Proust, in un passo del suo capolavoro Alla ricerca del tempo perduto, paragona la memoria al laboratorio di un chimico: vi si procede a tentoni mettendo le mani a caso, e c'è tanto la probabilità di trovare una sostanza salubre, quanto quella di trovarne una nociva. Eppure, nonostante sia così potenzialmente pericolosa, come potremmo farne a meno? Solo la memoria può dare realmente un senso alle cose; solo la memoria rappresenta un possibile rimedio alla caducità dell'esistenza.
Questo lo sa bene un artista come Christian Boltanski, che la usa, la modella, la amplifica, la tratta come creta viva nelle sue mani. E da abile scultore crea artefatti che, come degli ex voto offerti in dono al passato, riportano alla mente fatti e sensazioni che valgono la pena di essere rivissuti. Forse è stata proprio la sua predilezione verso questa particolarissima materia prima a rendere il suo sodalizio con Bologna, una città in cui la memoria trasuda da ogni luogo, così prospero. Fin dal 1997, quando venne organizzata a Villa delle Rose la prima grande mostra a lui dedicata in Italia; per poi tornare nel 2007, a realizzare quell'opera magnifica che è A proposito di Ustica, lasciando alla città una testimonianza permanente del suo modo di intendere l'arte: lo strumento più efficace di cui disponiamo per mantenere viva la fiamma del ricordo.
Con una ritualità quasi religiosa, dopo altri dieci anni l'artista francese torna nella città felsinea; e lo fa con un articolato progetto che, sotto la direzione artistica di Danilo Eccher, si dipana sotto varie forme nello spazio e nel tempo. Sicuramente il fulcro di tutto questo è la grande mostra ospitata al Mambo dal titolo Anime. Di luogo in luogo. Le sale dedicate alle mostre temporanee sono state letteralmente invase dalle opere di Boltanski, in un allestimento suggestivo che sembra sfruttarne al meglio gli spazi, come un liquido che si espande fino a colmare totalmente il contenitore in cui è inserito.
E una delle immagini più suggestive l'abbiamo proprio nella prima sala, interamente dedicata all'opera Coeur. Quattro file di specchi neri, perfettamente allineati, sono posizionati alla stessa distanza su ognuna delle pareti; lo spettatore è totalmente immerso nella stanza buia, illuminata unicamente da una lampadina a intermittenza posta al centro. A farle compagnia c'è un suono sordo, ad intervalli regolari, che va a ritmo con la luce: Boltanski ci fa letteralmente entrare nel cuore del titolo, attraverso una suggestiva esperienza che finisce per coinvolgere tutti i nostri sensi.
Proseguendo nei successivi ambienti, il rapporto delle opere con lo spazio che le circonda rimane sicuramente uno degli aspetti più interessanti: le tende e i teli di Entre temps e di Regards creano tante soglie, che il visitatore deve attraversare letteralmente scostando le opere per crearsi un passaggio. Le due scritte che campeggiano in alto, Départ e Arrivée, rispettivamente in rosso e in blu, amplificano proprio questo rapporto con lo spazio: funzionano come due didascalie, una vicino all'ingresso e l'altra al lato opposto della sala, a ricordarci che tutto ha un inizio e una fine, ma ciò che conta è quello che riusciamo a vivere nel mezzo.
Il centro della sala principale è occupato dalla grande installazione Volver: una “montagna”, realizzata con coperte isotermiche dorate, si erge imponente; è interessante notare come Boltanski abbia sfruttato questo atipico materiale per creare un suggestivo effetto luministico, dato dalle increspature irradiate dalla luce che proviene dall'alto; un presidio medicale, strumento tecnico legato spesso a situazioni pericolose e d'emergenza, viene così reimpiegato a fini estetici, e ci riporta con la mente ad una quotidiana tragedia della nostra attualità, quella dei migranti che perdono la vita durante le traversate in mare.
La maggior parte delle opere presenti appartengono alla serie degli altarini votivi, autel in francese. In essi, pur con le varie declinazioni sul tema, troviamo degli elementi che si ripetono: le fotografie, ritratti di volti di cui non ci è dato sapere il nome, spesso di bambini i quali, nell'iconografia religiosa, sono da sempre il simbolo dell'innocenza e della purezza; e delle lampadine che le illuminano, grazie alle quali le opere, immerse nella penombra, non hanno bisogno di alcun espediente illuminotecnico per vivere, ma brillano di luce propria.
Dallo psichedelico e straniante blu di Autel détective alla composizione piramidale e più austera di Autel Lycée Chases, fino alla variante con scatole di latta di Autel Chases, gli altari di Boltanski non rievocano una morte materiale, ma quella della memoria: non conosciamo questi volti, o semplicemente non li ricordiamo? Forse li abbiamo incrociati una, due, cento volte nella nostra vita, ma li abbiamo rimossi, come informazioni superflue; e queste immagini sfocate, senza alcuna didascalia, non vengono certo in nostro aiuto. Gli altari di Boltanski sono un monumento alla memoria: perché essere cancellati da essa è l'unica, reale morte che può colpire un essere umano.
Ma le fotografie non sono l'unico artificio che Boltanski usa per riattivare i complessi meccanismi del ricordo. In Containers, ad esempio, dei carrelli sormontati da neon sono ricolmi di vestiti. La struttura non è dissimile da quella degli altari: c'è un'impalcatura, c'è un sistema di illuminazione, ma stavolta l'elemento che riattiva la consapevolezza della traccia, della presenza di qualcuno, sono gli abiti: vederli accumulati alla rinfusa nelle ceste non può che farci chiedere a chi mai saranno appartenuti.
Ed è forse proprio in questo continuo stimolare interrogativi che risiede la forza dell'arte di Christian Boltanski. Nell'opera Le grand mur de suisse mort questa enigmaticità è amplificata dalle scatole di latta, appoggiate una sull'altra a formare appunto un muro, ognuna etichettata da una fotografia, come se ci trovassimo davanti ad un grande archivio: cosa nasconderà ognuna di quelle cassette? Forse celano degli indizi, che possono aiutarci a scoprire qualcosa in più dei nostri eroi; comunque sia non ci è dato saperlo, perché il loro contenuto rimarrà interdetto alla nostra vista.
In mostra è presente anche un video, dal titolo Animitas (blanc). E' stato girato in Cile, nel deserto di Atacama, dove l'artista francese ha installato più di 300 campanellini sulla cima di alcune piante che, mosse dal vento, producono una musica celestiale. Anche il linguaggio del video viene piegato alle dinamiche di recupero della memoria: d'altronde anch'esso, come la fotografia, rappresenta una traccia del nostro passaggio su questo mondo. Il deserto di Atacama è uno scenario che ha un forte legame con la storia: è dove Pinochet abbandonava le persone per farle sparire. La tragedia dei Desaparecidos rivive così nei campanelli di Animitas: anime leggere, che non producono molto rumore e che possiamo facilmente decidere di ignorare; ma le cui voci, se prestiamo la giusta attenzione, continuano ad echeggiare nei meandri della storia.
La stessa sensazione di caducità di Animitas è, infine, rievocata in Ombre, opera posta all'interno di un'edicola e fruibile da un finestrella: sagome di latta illuminate da una lampada proiettano su una parete ombre di demoni e spiritelli. C'è una leggerezza incredibile, nelle opere di Boltanski; una leggerezza che si scontra con la profondità dei temi che tocca, in un corto circuito che ci porta inevitabilmente a riflettere su quanto sia labile il confine tra la luce e l'oscurità, tra vita e la morte.
Come già annunciato, la mostra non è la sola protagonista di questo speciale progetto che coinvolge Bologna e l'artista francese. Tutto è cominciato a metà giugno, con i lavori intitolati Billboards: interventi posti in luoghi di periferia della città, dove lo spazio generalmente destinato alla segnaletica pubblicitaria è stato occupato da gigantografie di sguardi, dettagli anatomici su cui spesso lavora Boltanski; è proseguito con Réserve, l'installazione nell'ex bunker dei Giardini Lunetta Gamberini, e continuerà in settembre con Take me (i'm yours), il progetto, ideato da Boltanski e Hans Ulrich Obrist nel 1995, che ha l'obiettivo di scardinare il tradizionale concetto di mostra, permettendo ai fruitori di agire con gli oggetti esposti, toccandoli, modificandoli, scambiandoli.
Altro evento firmato da Boltanski per Bologna è stata, infine, l'installazione performativa Ultima, ospitata al teatro Arena del Sole dal 27 al 30 giugno. Chi è riuscito ad assistervi in quei giorni, ha avuto la fortuna di entrare letteralmente all'interno di un'opera di Boltanski, di diventarne parte. All'inizio il visitatore viene fatto accomodare sugli spalti del teatro; davanti a lui, una rete nera a trame fitte lascia intravedere delle sagome dall'altro lato. Dopo qualche minuto di contemplazione, si è liberi di “squarciare il velo”, di andare aldilà, attraversando quella sorta di quinta immaginaria. Ed ecco che le sagome che prima avevamo potuto solo intravedere diventano più chiare: la scena è invasa da mobili, accatastati l'uno sopra l'altro e ricoperti di lenzuola bianche; tra di essi, assieme agli altri visitatori, si aggirano delle figure vestite di nero, il cui volto è celato da una maschera col volto di un bambino. Sotto lo sguardo attento del pubblico, gli attori compiono gesti semplici, quotidiani: dal piegare un lenzuolo a cullare un bambino fra le braccia; a volte alcuni di loro si distaccano dal gruppo, percorrono i corridoi e, avvicinandosi ai visitatori, gli sussurrano frasi nell'orecchio: “perché guardi e non fai niente?”, “hai sofferto molto?”, “hai lasciato il tuo amore?”.
Per due volte, durante la performance, una cantante lirica si cimenta in un'aria, e il suo canto non attira solo i visitatori, ma anche le comparse vestite di nero. Dei campanelli segnalano la fine della performance: le anime si mettono in fila ed escono di scena, regalando ai visitatori un ultimo, intenso sguardo.
Mentre si è liberi di percorrere la sala, ci si accorge che i mobili che compongono la scenografia “parlano”: degli altoparlanti regalano stralci di storie raccontate da voci anonime; sussurrano, sono quasi impercettibili, eppure sembrano urlare “non dimenticarci, mai”. Ed è questo, in fondo, il grido che si cela dietro ogni opera dell'eclettico artista francese: la storia è fatta di tanti protagonisti muti, ad ogni tempo e latitudine, dalle vittime di Ustica a quelle di Pinochet; dimenticarli purtroppo è facile, invasi come siamo in questo oceano di informazioni e stimoli in cui la contemporaneità ci immerge. Ma l'arte, riportando a galla storie che non vogliono essere dimenticate, può aiutarci a non cadere nella trappola che troppo spesso ci divora: quella dell'indifferenza, che è uno dei più grandi mali che colpisce l'uomo dei nostri giorni.
Stefano D'Alessandro – Laureato in Arti Visive
#stefano d'alessandro#arti visive#università di Bologna#anime#ultima#christian boltanski#memoria#memory#arte#video#sculture#installazione#anime. di luogo in luogo
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Sotto il cappuccio nero
di Luca Bufarini (foto dell’autore e di Alberto Marchegiani)
La via è silenziosa. L’illuminazione elettrica è assente. Tra due file di fedeli, oscure figure incappucciate avanzano, illuminate solo dalle lanterne agganciate a lunghi bastoni. Un coro intona una nenia:
“Deh! Voi sentite/Sassi pungenti/ I miei lamenti: Pietà! Pietà!”.
Un rumore metallico, di ferro che sbatte sul legno. Ritmicamente.
La passione e la morte di Cristo sono il punto di svolta dell’anno liturgico cattolico. Cristo muore sulla croce perché sia compiuta la volontà di Dio, il padre, che lo ha fatto nascere allo scopo di resuscitare dai morti. Se il vangelo (o meglio i vangeli) fossero un film, la passione e la morte di Cristo sarebbero il climax prima del finale distensivo, nella gloria eterna, con la resurrezione, l’ascensione al cielo con le trombe angeliche e la luce divina che promana dalla volta celeste.
A Osimo esiste una confraternita che si occupa, dal 1837, anno della sua fondazione, di tenere in vita lo svolgimento degli ancora più antichi riti (probabilmente risalenti al tardo medioevo) del Venerdì santo, giorno appunto in cui si celebra la passione e la morte di Gesù. Si tratta della “Confraternita della pia unione del Cristo morto” (d’ora in poi, solo “la Confraternita”).
Come sappiamo, se c’è una cosa che la Chiesa cattolica è in grado di fare molto bene, è organizzare riti suggestivi, intrisi di simboli, misterici in certe loro fasi, in grado di scatenare nel fedele un sentimento capace di far sentire più vicini a Dio, quasi di fargli percepire la sua voce, bisbigliante, lungo la schiena. La teatralità e la ritualità, d’altronde, sono sempre state legate sin dai tempi antichi, e nel rito che stiamo per andare a vedere c’è, anche solo storicamente, una forte componente teatrale: di fatto, la stessa nascita della rappresentazione della passione di Gesù Cristo, la via crucis, e le 14 stazioni, si può inquadrare nel teatro; un teatro medievale, certo, per un popolo analfabeta che doveva essere istruito alla conoscenza delle sacre scritture. Ancora oggi, la processione del Venerdì santo di Osimo non ha perso la sua componente teatrale, e si svolge nello stesso modo ogni anno grazie all’operato della Confraternita, fondata appunto per preservarne la tradizione, e si può ben affermare che rientra a pieno titolo nel novero dei riti più suggestivi del cattolicesimo in tutto il centro-nord Italia.
Ma andiamo con ordine: il martedì della settimana santa conosciamo, all’interno della cattedrale di Osimo, il Priore della confraternita, il professor Raimondo Lombardi, 83enne, che ricopre tale carica dal 1978. Il “prof.” come lo chiamano gli altri confratelli, mentre sono in corso le operazioni di montaggio del cataletto dove verrà deposto il Cristo morto, si rivela un tipo molto disponibile e alla mano. Ci illustra l’imponente carro funebre su cui Gesù compirà il suo viaggio verso il simbolico sepolcro. Il cataletto prende man mano corpo, mentre alcuni membri della confraternita ne compiono il montaggio. Alto da terra circa tre metri, sarà ornato di tutta una serie di paramenti (risalenti al XVIII secolo) che recano i simboli della passione e le frasi pronunciate da Cristo prima di spirare. Non è proprio come montare una scaffalatura dell’IKEA: il modo in cui vengono assemblate le parti in legno e le decorazioni è un’operazione che si tramanda fin dall’inizio del suo utilizzo, cioè quasi 150 anni fa; lo stesso Priore ci mostra un foglietto scritto di sua mano, con su indicati i lati specifici per la collocazione dei paramenti.
Sorgono alcune difficoltà dovute all’età: l’incastro di una colonna di legno del baldacchino si è gonfiato e non aderisce bene con la base; è necessario limarla. Prima che faccia buio, comunque, il cataletto sarà pronto; adornato con le stoffe settecentesche, il letto funebre e i quattro angeli di cartapesta (anch’essi settecenteschi) agli angoli. La confraternita va veramente fiera di questo imponente oggetto che un tempo veniva trasportato, per le due ore della processione, in spalla, tramite la forza di otto uomini, richiedenti, a quanto ci dicono, un’ausiliaria propulsione “a fiasco de vì” nei momenti di pausa. Oggi invece, la stoffa nera nasconde il telaio e la meccanica di una fiat 1500 a cui, dopo una breve esperienza con motorizzazione a scoppio negli anni ‘60, è stato innestato un motore elettrico, alimentato da tre batterie. E manovrata da un omino nascosto lì sotto.
Il giorno seguente si svolge, sempre nella Cattedrale, una messa solenne in onore dei defunti della Confraternita, ed abbiamo la prima occasione di assistere alla vestizione dei confratelli nell’adiacente battistero. I membri della Confraternita, durante le celebrazioni, vestono il “sacco”, una tunica completamente nera, con cappuccio a punta, cui sono applicati due fori per gli occhi. Una corda bianca stringe il bacino, e ad essa è intrecciato un rosario. Il cappuccio tuttavia verrà calato solamente il Venerdì, dopo la morte di Cristo sulla croce. Non sono in molti a partecipare a questa messa. Circa una trentina su 282 membri. Il grosso parteciperà più che altro alla processione del venerdì. Al termine della messa, la confraternita procede in processione verso la cappella del crocifisso sulle note del Vexilla Regis, cantata dal coro della Confraternita.
Alcuni confratelli assistono alla messa del mercoledì santo per i defunti della confraternita
Infine, arriva il centrale momento del Venerdì santo, il motivo stesso dell’esistenza della Confraternita della Pia unione del Cristo morto. Quando arriviamo in Cattedrale è già in corso, nel primo pomeriggio, la “messa delle tre ore di agonia”, nella quale viene rivissuta la passione di Cristo sulla croce. La chiesa è gremita di fedeli. Sull’altare, sono disposte sette alte candele allineate, che corrispondono alle sette frasi pronunciate da Gesù durante la crocifissione e la successiva agonia. Sotto il crocifisso sono state trasportate le statue settecentesche di cartapesta della Madonna, di Maria Maddalena e di San Giovanni apostolo. Il momento è solenne: il coro, a cui si aggiungono alcuni elementi della prestigiosa accademia lirica di Osimo, esegue i canti scritti appositamente dal compositore osimano Domenico Quercetti (1845-1928). Ogni candela viene spenta da un membro della Confraternita al termine dell’omelia relativa alla parola del Signore. Poi, terminata l’ultima omelia, sulle parole “Padre, nelle tue mani raccomando il mio spirito”, l’ultima candela viene spenta, e con essa si spengono tutte le luci all’interno della cattedrale. Sembra davvero che si sia fatto buio su tutta la terra. Cala un grave silenzio, Cristo è spirato. Le campane suonano a morto lenti rintocchi. Il tempo pare essersi fermato. Il solo rumore, oltre alle campane, è quello delle timide macchine fotografiche che scattano fotografie indiscrete.
Il momento in cui Cristo muore: le luci all’interno della cattedrale vengono spente e cala il silenzio, mentre le campane suonano a morto.
La messa termina, ma non il rito. La Madonna e le altre statue vengono portate nella navata laterale: saranno più tardi portate in processione.
Tre confratelli pongono la croce tra le mani della Maddalena
È il momento in cui la Confraternita diventa realmente protagonista: Cristo viene deposto dalla croce e avvolto nel sudario, mentre il cataletto è trasferito dalla navata laterale a quella centrale. L’organo suona. I neri incappucciati discendono le scale dell’altare col Cristo morto tra le braccia, così che i fedeli, già in fila, possano baciarne i piedi.
Terminata l’adorazione dei fedeli nel sudario, il crocifisso deposto viene infine trasportato all’interno del cataletto e coperto da un velo bianco traforato. I credenti escono finalmente dalla cattedrale illuminata da fioche luci. Nel frattempo la Confraternita compie gli ultimi preparativi per la processione.
Sono le 18 e 30 quando ci si sposta nella chiesa sconsacrata di San Filippo, di fronte ai giardini. Un edificio a pianta quadrata, in stile barocco con un tocco decadente. È qui che infine i confratelli si raduneranno tutti per raccogliere le offerte interne, per vestirsi, e per ricevere gli oggetti da portare in processione. Piano piano, col passare dei minuti, sempre più persone arrivano, e l’ambiente si riempie. Una macchia nera si allarga all’interno dell’ormai non più sacro edificio.
Ci si arrovella su chi c’è e chi manca, perché a ciascuno viene assegnato un oggetto. Tramite un microfono si chiede se c’è il tale confratello. La caciara comincia ad essere impressionante: da un lato il coro prova parti delle Orme sanguigne; da ogni parte si chiacchiera, ci si rivede spesso dopo un anno. I più anziani stanno seduti, in attesa. Seduti verso una parete, sono radunati i bambini, consegnati ad alcuni membri più adulti che li guideranno durante la processione. Poi vengono assegnati gli oggetti. Prima il bastone della Confraternita, poi i lampioni e le battistangole. Queste ultime sono uno strumento pressoché sconosciuto ai nostri giorni; eppure un tempo, prima che si diffondessero le campane (VIII-IX secolo), si faceva uso di strumenti come questi per richiamare i fedeli alla celebrazione religiosa. E fino all’altro ieri venivano usate ancora durante la settimana santa, perché, da tradizione, le campane non dovrebbero suonare fino a Pasqua. Il loro suono costituisce una delle peculiarità della processione di Osimo.
I lampioni adagiati sull’altare della chiesa di S. Filippo. Verranno poi consegnati ai confratelli, a seconda del ruolo che essi svolgono in processione
Due tipi di battistangole
Fin qui abbiamo dato rilevanza ai riti, agli abiti, alle tradizioni. Ma si rischia così forse di dimenticare che sotto il cappuccio nero vi sono donne e uomini. Ma non solo: anche molti bambini e adolescenti hanno deciso di far parte di questa associazione religiosa. Si è già accennato anche al ragguardevole numero delle persone che vi aderiscono: ben 282. Ciò potrebbe far pensare che anche se gli iscritti sono tanti, non è detto poi che tutti partecipino alla processione del Venerdì santo; eppure ci dicono da più parti che c’è gente, originaria di Osimo ma trasferita da un pezzo, che ritorna da fuori regione per prendere parte a questo antico rito.
Il Priore della Confraternita, il prof. Lombardi ci spiega che nel 1978 quando ottenne la carica si contavano 65 di confratelli. Come è stato possibile questo exploit? E soprattutto come si spiega un attaccamento simile ad una associazione religiosa, quando la tendenza in tutto l’occidente è la fuga (o, per essere meno cattivi, la disattenzione) per il rito ecclesiastico?
Chiediamo dunque al prof. Lombardi come si entra a far parte della confraternita, e se vi si entra più che altro per una questione di tradizione familiare, dato che è una cosa che storicamente viene tramandata da genitore a figlio, oppure se vi siano, e in che proporzione vi sono, gli ingressi spontanei.
“Una parte è la famiglia, ma è circa il 35%. Molto spesso vi si entra spontaneamente, oppure tramite amicizia con qualcuno che già ne fa parte, tramite invito con lettera, ecc. Poi ci sono i bambini soprattutto che sono attratti.” Allora chiediamo al professore se vi sia anche un fattore meramente estetico che porti uno a unirsi alla Confraternita: “Più che altro, direi che è per la tradizione. Credo che non ci sia osimano che non abbia pensato almeno una volta nella vita di vestirsi da saccone. È una cosa molto sentita in città, ed è visto come lo svolgimento di un servizio importante.”. Per quanto riguarda il lato tecnico, chiunque può far parte della Confraternita: basta compilare un modulo.
Ciò che più ci interessa sapere però è il lato umano; i motivi per cui si entra a far parte di questa associazione. Ancora Lombardi: “è una componente di fede, storia e tradizione; la fede viene prima, perché se manca quella… e poi ci sono storia e tradizione: c’è l’attaccamento della popolazione a questa processione. Anche quando piove, si esce lo stesso e si fa un percorso più breve: i più scaramantici dicono che se non esce la processione l’annata andrà male. E difatti, solamente due volte, da che vi è memoria, la processione non si è svolta: nel 1934, quando vi fu un acquazzone impressionante, e nel 1944, e io me lo ricordo, quando i tedeschi non la consentirono”.
Sempre a proposito dei motivi ispiratori alla partecipazione, un altro confratello più giovane del Priore, ci dice che l’adesione alla Confraternita è una cosa che una volta che inizi a fare non la lasci mai: “io ne faccio parte da quando avevo cinque anni, e ne sono passati più di trenta. L’ho fatto coi legamenti strappati o mezzo zoppo, ma cerco di non mancare mai”.
Questa risposta in particolare colpisce, perché, se la si guarda bene, non dà una vera motivazione per cui si fa parte della Confraternita. Dice solo che una volta che si decide di farlo, lo si fa e basta. Credo che seppure semplice, una affermazione simile nasconda la consapevolezza che risiede in ciascuno dei membri della Confraternita della Pia unione del Cristo morto: la consapevolezza di svolgere un servizio fondamentale per la comunità che solo loro possono svolgere. Una consapevolezza riassumibile con “se non noi, chi?”.
Il fatto di svolgere tale servizio non trova le proprie ragioni soltanto nella fede, seppure sicuramente vi si trovino le radici più profonde; trova quelle ragioni anche (e, forse, soprattutto) nella tradizione, nell’affezione reciproca che c’è tra la cittadinanza, che vuole la sua affascinante processione plurisecolare, e la Confraternita, che vuole che la cittadinanza partecipi. Ritorniamo al già citato dualismo ritualità/teatralità: il pubblico vuole il suo spettacolo; chi fa lo spettacolo vuole che ci sia il suo pubblico.
Chiediamo al prof. Lombardi come vede la Confraternita tra 50 anni. Un po’ pensieroso risponde: “Questo è un bel problema. La Confraternita negli ultimi 40 anni si è molto ingrandita. Se negli anni ‘50 e ‘60 la quasi totalità dei confratelli era composta da uomini, molti provenienti dalla campagna e inviata dai proprietari terrieri, noi abbiamo fatto due cose fondamentali: riaperto alle donne negli anni ’80, quasi completamente scomparse nel dopoguerra, ma per le quali era previsto che potessero partecipare fin dal primo statuto del 1837 (oggi le donne sono quasi il 40% dei membri della Confraternita), e abbiamo compiuto un’operazione capillare nelle scuole. E oggi abbiamo dal ragazzino della scuola elementare e media, fino a quello delle superiori.”
Allora domandiamo direttamente al Priore se ci sarà ancora la Confraternita tra 50 anni: “Sì! Io credo di sì. Spero e mi auguro di sì. I ragazzetti ci sono, quindi…” Un altro lì vicino aggiunge: “Sì! E ci sarà ancora il professor Lombardi tra 50 anni”.
È ormai l’ora. Il sole sta tramontando e i confratelli si spostano in massa dalla chiesa di San Filippo alla vicina cattedrale, portando già in mano i lampioni ancora spenti, i bastoni, le battistangole. La gente è già schierata su due file ai lati della via, altri attendono dove capita, molti con le piccole candele ornate con un paralume colorato. Nel sagrato, mentre vengono accese le candele dei neri lampioni ottocenteschi, l’illuminazione elettrica si spegne, e così avviene in tutto il centro storico, ora illuminato solo da flebili fiammelle disposte lungo i muri degli edifici, e dalle candele in mano ai fedeli. Tutto è pronto: il cataletto, le statue di cartapesta, ben tre croci diverse vengono portate, come tradizione vuole, sempre dai membri di una stessa famiglia.
Finalmente la processione del Cristo morto parte. Uomin, donne e bambini incappucciati discendono verso la piazza al rumore delle battistangole. Più sotto la banda attende di unirsi alla processione, accompagnata da alcuni confratelli che illumineranno i loro spartiti con le lanterne. Passano i lampioni neri. Poi la grossa croce con la scritta “O crux Ave spes unica”; poi il coro, che canterà le Orme sanguigne. L’altra croce con la scritta “In hoc signo vinces”. La statua della Maddalena, i misteri della passione portati dai chierichetti su piatti bianchi. Sfila il clero, seguito dalla Reliquia della Sacra spina. Quasi alla fine, ecco il Cristo morto nello straordinario cataletto illuminato da due file di lampade, seguito dalle autorità civili e militari, e, ovviamente, dalla statua della Madonna addolorata e da quella di San Giovanni. Alla fine il popolo dei fedeli.
È un treno lunghissimo di persone, statue, luci e oggetti sacri. Quando il capo della processione arriva nella piazza del Comune, la coda deve ancora uscire dalla cattedrale.
La prima parte della processione si caratterizza per essere, per così dire, musicata: si alternano le battistangole col coro che canta i lamenti della via crucis. Poco più indietro la banda suona due marce funebri diverse: quella di Chopin e l’altra di Quercetti. Dopodiché tutto tace e si sfila in silenzio e nella semioscurità. Quando passano gli oggetti sacri si propaga come una ola di segni della croce tra i fedeli astanti.
Questo silenzio assume tratti quasi inquietanti nelle vie più strette del percorso, dove gli unici fedeli sono quelli affacciati alle finestre degli alti palazzi. Ha del sublime l’immagine di queste figure completamente nere, spiriti oscuri che reggono lanterne, anch’esse nere, le quali creano giochi di ombre totalmente instabili.
Il giro dura quasi due ore. Poi moltissimi si riversano nella cattedrale, per ascoltare l’omelia del cardinale. I lampioni della Confraternita svettano nel corridoio centrale tra le due panche. Il cataletto ha condotto Cristo nel suo immaginario sepolcro.
Il cataletto, si accinge a fare il suo rientro nella cattedrale
Il rito è completo, ci si avvia verso casa. Chi a piedi, chi in auto. Le vie si svuotano mentre ci si fa gli auguri di Buona Pasqua.
Anche quest’anno, così come è stato per quasi due secoli, la Confraternita della Pia unione del Cristo morto ha svolto il suo ruolo nella celebrazione del Venerdì santo. “Tutto è compiuto”. Almeno fino al prossimo anno.
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Quello che accade da circa 500 anni nella cattedrale di una delle città più belle del Mondo, di per sé per la Chiesa Cattolica Romana non è un miracolo. Eppure in questi secoli papi, arcivescovi, dotti della chiesa, santi ne hanno parlato come tale. Per non parlare di chi, da imperatori e re, a filosofi, scienziati, medici e religiosi di altri culti, tutti venuti a vedere un liquido vermiglio che sembra sangue ribollire, passare da solido a liquido. Francesco Paolo De Ceglia, storico della scienza, in un saggio rigoroso, stupendo ed indimenticabile e che davvero come dice la quarta di copertina sembra una spy story, racconta la storia naturale del miracolo della liquefazione del sangue del martire Gennaro, patrono di Napoli. È fondamentale sottolineare quel naturale: non si tratta qui di spiegare se sia o meno un miracolo, ma di cercare di capire come il rito, la sua fama, la stessa costituzione eortologia (cioè di festa religiosa) abbia segnato il pensiero occidentale. Si perchè quasi ogni grande pensatore d’Europa ne sentì parlare, e quasi tutti ne scrissero. Persino quelli che a Napoli non c’erano mai stati. Lo stesso Voltaire lo cita nel lemma superstition dell’ Enciclopedia. Più che capire cosa ci sia in quelle ampolline incastonate in uno stupendo reliquiario dorato, quello davvero sconvolgente è ragionare sui tre livelli di letture storiche e antropologiche che De Ceglia, in un lavoro rigorosissimo ma accattivante come un romanzo (ci sono 1250 note, alcune che da sole valgono il libro) ci offre: una di carattere logico-epistemologico, con una incredibile simmetria inversa di posizioni, che ciclicamente si scambiano tra loro, tra i difensori del miracolo in sé e della sua negazione; il fatto che il miracolo, nella sua natura tangibile e popolare, divenendo forse anche più famoso e conosciuto di quello che le istituzioni religiose si aspettavano, altro non ha fatto che incuriosire generazione intere di scienziati che, tralasciando in maniera molto discutibile sia la ritualità che la forza stessa della sua complessità, volevano solo scoprire l’inganno, non che questo corrispondesse alla realtà; il rapporto, unico e irripetibile, del Santo e della sua Città, che nel 1527 firma, lui stesso con la città, con atti notarili veri ancora visibili, la nascita della Delegazione laica che ancora oggi gestisce la processione di maggio e la custodia dell’immenso Tesoro, considerato il più ricco del mondo.
Non voglio anticipare nulla di un libro che sebbene complesso e di taglio scientifico, apre una marea di curiosità e, nonostante il prezzo accademico, andrebbe letto. Ma due piccole storielle le racconto: in un libro intitolato Le frodi dei monaci e dei preti cattolici, Gabriel d’Emilliane, ex sacerdote, sosteneva che siccome i cuochi napoletani erano dei diavoli per le squisitezze che sapevano preparare, per cui il segreto si doveva trovare non in ambito chimico ma in ambito gastronomico, il sangue altro non è che un sorbetto. Nel 1969 la riforma del calendario generale romano ad opera di papa Paolo VI Montini, provocò dei tumulti a Napoli poichè, essendo la vita del santo molto misteriosa (e aggiungo essendo il suo miracolo del tutto particolare, non dovuto alla sua azione terrena, ma ad una sangue che continua a vivere oltre la fine naturale del corpo a cui apparteneva) la festa del 19 settembre, onomastico del santo, fu declassata a festa locale, in una sorta di retrocessione, nonostante l’eco globale del santo. Come racconta Luciano De Crescenzo, a pochi passi dalla cattedrale (che va detto non è nemmeno in suo onore, ma dedicata alla Santa Maria Assunta) fu scritto da mano ignota un invito, espressione secolare della saggezza partenopea: San Genna’, fottatenne!
La filosofia del secolo XVIII e la chimica moderna v’han perduto il latino: Voltaire e Lavoisier han voluto mordere quella teca e, come il serpente della favola, v’han consumato i loro denti.
Alexandre Dumas, Il corricolo, 1843
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Con la celebrazione della festa ebraica di Shavuot (lo scorso venerdì 29 maggio) ha riaperto al culto anche la Sinagoga di Firenze in via Farini n.6
Riaperta al culto (anche se in forma limitata, per 130 persone) dopo il periodo di lockdown, il Tempio Ebraico con la Coop Culture ha dato la possibilità di visite guidate gratuite ai cittadini che nell’occasione hanno potuto ammirare una suggestiva installazione site-specific.
La festa di Shavuot detta Pasqua delle rose o Pentecoste è associata alla primavera, alla natura ed ai primi raccolti di maggio che sappiamo è il mese delle rose. L’installazione progettata dall’architetto David Palterer, vuole essere il segnale del nuovo inizio della liturgia religiosa ma anche della riapertura della sinagoga alla città.
Una simbolica “pioggia” di rose sospese, tra le nove arcate del tempio, accolgono il visitatore nella fascinosa architettura in stile moresco del Tempio.
Arch. David Palterer
Cenni storici dal sito http://www.coopculture.it dove si possono prenotare ed acquistare i biglietti per la visita alla Sinagoga :
“La grande sinagoga di Firenze fu inaugurata nel 1882, qualche anno dopo l’Emancipazione degli ebrei italiani, avvenuta nel 1861 con la proclamazione dell’Unità d’Italia. E’ uno degli esempi più significativi in Europa dello stile esotico moresco. La sua fisionomia, diversa dalle tradizionali architetture fiorentine di epoca medievale – rinascimentale e la grande cupola rivestita in rame verde (in origine dorata) risaltano nello skyline della città e si impongono come monumento cittadino visibile da ogni punto panoramico. L’interno è particolarmente suggestivo per la ricchezza delle decorazioni geometriche negli affreschi alle pareti, per la luce soffusa che filtra dalle vetrate policrome e per lo splendore dei mosaici.
Parte integrante della visita alla Sinagoga è il Museo Ebraico fondato nel 1981 e ampliato nel 2007. Allestito su due piani all’interno dell’edificio ospita una ricca collezione di oggetti cerimoniali d’arte ebraica. Argenti e tessuti provenienti dalle antiche sinagoghe del ghetto fiorentino, documentazione fotografica e archivistica riguardante la storia della comunità ebraica a Firenze. Al secondo piano sono esposti oggetti e arredi legati ai momenti più significativi del ciclo della vita ebraica, della ritualità familiare e delle festività religiose. Una sala è dedicata alla memoria della Shoah e attrezzata per proiezioni. A disposizione del pubblico un ‘area computer collegata con i maggiori musei e centri ebraici nel mondo. La fruizione del complesso è affidata alla mediazione di guide che offrono al visitatore un supporto di conoscenze per la comprensione del patrimonio culturale ebraico nelle sue diverse sfaccettature. Il percorso di visita è arricchito dalla presenza di un bookshop museale e da un ampio giardino dove sostare all’ aperto”.
La Sinagoga dal 1 giugno è nuovamente chiusa per poter realizzare gli interventi di manutenzione del pavimento. Verrà nuovamente aperta il prossimo 5 luglio.
per info :
http://www.jewishtuscany.it/
https://www.coopculture.it/heritage.cfm?id=37
Andrea Paoletti © 2020
La Sinagoga di Firenze riapre con una “pioggia” di rose Con la celebrazione della festa ebraica di Shavuot (lo scorso venerdì 29 maggio) ha riaperto al culto anche la Sinagoga di Firenze in via Farini n.6
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Zoè, il principio della vita - Campli
8 Dicembre dalle ore 16.00 Campli (TE) / Piazza Vittorio Emanuele II
Zoè, il principio della vita
Piccolo Nuovo Teatro spettacolo con trampoli, fuoco, musica ed effetti pirotecnici Zoé, ovvero Vita in greco antico, è uno spettacolo basato sul rapporto tra l’uomo e la natura, realizzato attraverso scene poetiche alternate a momenti d’intensa drammaticità e messo in scena come spettacolo di teatro di strada con trampoli, attraverso l’uso di costumi di scena, fuoco, luci ed effetti pirotecnici. In un mondo in cui le lotte etniche e culturali sembrano sopraffarci provocando un vortice di follia generale, abbiamo sentito forte l’esigenza di raccontare un sentimento capace di contrastarle, l’amore. L’amore di una madre per sua figlia, l’amore di una dea per le sue creature, l’amore di un dio per una fanciulla destinata a far prosperare l’umanità. Un intreccio di amori che pone al centro di tutto un’origine fondamentale per tutti, la vita e la sua essenza. Fin dal medioevo i riferimenti alla mitologia erano presenti nel quotidiano e in molti aspetti della vita culturale e religiosa. In particolare negli insediamenti rurali, dove il contatto diretto con la Natura manteneva intatta una ritualità strettamente legata a quella Pagana, che nel tempo si era trasformata e adattata alla religione Cristiana. Gli aspetti esoterici e simbolici avevano una forte presa nella cultura popolare, e non solo, lasciando tracce evidenti nella letteratura, nell’arte e nella ritualità religiosa. Read the full article
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Sette sataniche. Satanismo e culti religiosi. Classificazioni e tipologie dei culti satanici. Classificazione di Michele del Re. Classificazione di Giuseppe Maggioni. Classificazione di Francesco Barresi. Classificazione di Francesco M. Mastronardi
Michele del Re
Francesco Barresi
Vincenzo Maria Mastronardi
Sette sataniche
Satanismo e culti religiosi
Classificazioni e tipologie dei culti satanici
Il satanismo è una realtà che mostra tante sfaccettature quante sono le forme della perversione umana.
Classificazione di Michele del Re
Lo studioso fornisce una classificazione empirica piuttosto articolata degli individui che entrano in contatto con il mondo dell'occulto e del satanismo.
1.Pagani e neopagani: la nostalgia degli déi: quei soggetti che seguono rituali e tradizioni appartenenti al mondo del paganesimo di matrice druidica. Le cerimonie mescolano il satanismo alla stregoneria e soono organizzate seguendo le informazioni riportate sui libri che si occupano della stregoneria in epoca medievale: la caratteristica principale di questi riti è di essere abbastanza "pittoreschi", ma contenenti scarsi elementi di vero satanismo (infatti, i punti di riferimento sono soprattutto le divinità nordiche, come Odino e non Satana). 2. Giocare con Satana: satanisti sperimentali. Il satanismo "sperimentale" o "occasionale", è un pretesto usato da alcuni individui per comportarsi in un certo modo mentre sono in gruppo, in particolare ragazzi alla ricerca di un "mondo migliore" da trovare attraverso il fantasy e il nero satanico. Questa forma può portare ad azioni criminali, soprattutto vandalismo e sacrifici di animali, ed è tipico di adolescenti che si riuniscono in gruppo e che sono caratterizzati da interesse per canzoni dissacratorie, magia, morte e simboli dell'occulto, e dall'ostentazione della loro "ideologia" (uso di un abbigliamento stravagante, presenza di tatuaggi tematici ecc.). 3. Congreghe tradizionali: malvagità ortodossa: satanismo autentico, in cui persone di tutte le età aderiscono a gruppi organizzati che si fondano sull'adorazione di Satana e agiscono con riservatezza, praticando l'attività rituale soprattutto in giorni festivi stabiliti generalmente in corrispondenza di festività sataniche). Fra i crimini principali compiuti da questi gruppi, c'è l'abuso rituale dei bambini. 4. Covi lilithiani: il nero - del - nero. Nell'immaginario satanista, dopo Satana c'è, in una zona d'ombra assoluta, il buio - del - buio. Lilith, che richiede sangue e dolore ancora più di Satana e che rappresenta una specie di antispirito o femmineo del Maligno, un negativo di Satana decisamente più pericoloso. Del Re fa notare che il numero dei membri di una congrega lilithiana deve essere di tre o multipli di tre per rispettare il numero lunare (3x3), sia la triade divina>>. In queste congreghe, la trasgressione deve essere assoluta perché solo il male più perverso soddisfa la dea (corrispondete a Kalì, la dea distruttrice della mitologia indiana). 5. Gruppi satanisti autonomi. Piccoli gruppi indipendenti composti da soggetti che hanno un trascorso criminale e/o sociopatiico, quindi sono persone molto pericolose che giustifcano le loro azioni più seòvagge affermando <<il Diavolo mi ha fatto fare questo>> e non provano sensi di colpa. Diversi serial killer "pseudosatanisti" possono rientrare in questa categoria e vantano un'ispirazione generica a Satana, ma non sono dei satanisti autentici. 6. Mansonisti, ovvero fedeli di un Satana incarnato. Si tratta di gruppi formati da persone di età diverse: soprattutto adolescenti e giovani adulti, che seguono gli "insegnamenti" di un leader carismatico sul modello di Charles Manson. Tale leader può esercitare un influenza molto estesa, anche con l'ausilio di droghe e manipolazione mentale, che porta i seguaci a commettere azioni criminali "in nome del benessere del gruppo". 7. Sciamani isolati e Chiesa degli spiriti: l'ambigua valenza: gli individui che si definiscono "sciamani" sostengono di fungere da canale, da "messaggeri" di entità soprannaturali, che devono trasmettere un messaggio al mondo dei vivi. Questo sciamanesimo spesso, sconfina nel satanico, nel trasgressivo e nel criminoso anche grazie all'amplificazione spettacolare dei mezzi d'informazione. Questa forma si mescola allo spiritismo, dottrina basata sulla fede nell'esistenza e nelle manifestazioni di spiriti, che, nei resoconti sensazionalistici, diventano inevitabilmente sempre "spiriti malvagi" identificandosi nel diavolo.
Classificazione di Giuseppe Maggioni
Maggioni distingue otto tipi di satanisti.
a) Tradizionali da cui ci si reca per ottenere incantesimi di magia nera contro i propri nemici. E' improbabile che adorino il demonio, anche se assumono atteggiamenti demoniaci per meglio sedurre la clientela, e praticano forme di magia cerimoniale, di spiritismo o di culti ispirati alla ritualità afroamericana. b) Psicotici: veri casi da ospedale psichiatrico. c) Selvaggi: nei quali il coktail di droga e satanismo talora produce comportamenti pericolosi. d) Sessuali: che si dedicano aad attività eterosessuali od omosessuali nel quadro di liturgie sataniche. e) Anticristiani: che profanano i riti cristiani, in particolare della messa cattolica. f) Baphomettisti: dal nome dell'idolo Baphomet, attraverso il quale si rivolgono a Satana signore della Terra in contrapposizione a Dio Signore del Cielo. g) Carismatici: per i quali il Dio della Bibbia è il cattivo demiurgo che ha fatto male il mondo, e Satana è l'unica guida che sappia aiutare a fuggire dal mondo corrotto. h) Razionalisti: che celebrano i riti satanici, messe nere comprese, come psicodramma terapeutico per liberarsi negandole violentemente, dalle superstizioni cristiane. E' il caso della Chiesa di Satana di La Vey.
Classificazione di Francesco Barresi
Barresi propone <<una suddivisione basata sulla moralità comportamentale - motivazionale del satanista, nella quale il soggetto viene studiato in relazione al sistema nel quale si trova e alle relazini infragruppali all'interno dell'ambiente di riferimento circostante:
a) Satanismo religioso: tipo di culto satanico per il quale l'adepto si dimostra realmente devoto alla divinità infernale e che in questa crede realmente. b) Satanismo ludico: tipo di culto satanico per il quale l'adepto si accosta più per gioco che per convinzione religiosa. c) Satanismo sessuale: culto satanico esercitato per estrinsecare le proprie pulsioni sessuali. d) Satanismo acido: forma di satanismo tipicamente adolescenziale caratterizzato da assunzione di droghe e alcool. e) Satanismo schizofrenico: con questa espressione s'intende un'adesione al culto satanico di tipo psicopatologico da parte dell'adepto.
Gli adepti del culto satanico possono essere suddivisi ulteriormente in altre tra grandi tipologie a seconda del fatto che professino il satanismo da soli oppure insieme ad altre persone.
a)Satanisti solitari. Si tratta di individui che professano il loro credo intimamente e autonomamente nel segreto delle loro mura domestiche: possono essere classificati come "disorganizzati" in quanto non aderiscono a nessun gruppo satanico. I "satanisti solitari" possono essere suddivisi nelle seguenti sotto categorie:
- Solitari reali: individui realmente soli, a volte senza neanche un gruppo familiare di appartenenza, che non professano esternamente il loro credo. - Deliranti schizofrenici/ebefrenici: individui psicotici gravi che, a seguito di psicosi importanti, immaginano una divinità infernale cui sottomettersi; - Lucidi (adolescenti): giovani che giocano a fare i satanisti, generalmente iniziano a trafficare nella propria camera da letto con formule magiche apprese con leggerezza da libri sull'occulto. - Egotici: satanisti che, in solitudine, professano un culto satanico dispregiativo nei confronti della collettività e fondato sull'accrescimento del proprio potenziale fisico e sessuale; - Professionali: s'intende per "satanisti professionali" i maghi professionisti, detti anche "operatori dell'occulto"; spesso si tratta di individui che si arricchiscono alle spalle dei loro incauti e creduloni clienti.
b) Satanisti intermedi. Categoria unica di transizione dall'una all'altra, di passaggio, cioè, dal satanismo individuale a quello sociale. I soggetti di questo gruppo a volte operano da soli, altre volte in compagnia di qualcuno. c) Satanisti di gruppo: Professano il loro credo in modo sociativo, condividendoli con altri individui per svariati motivi; possono essere classificati come "organizzati" per il fatto che, spesso, sviluppano forti trame sociali con forti vinccoli di adesione.
- Carismatici: individui dotati di forte carisma, fondano loro stessi il gruppo satanico del quale diventano il leader. In questi casi l'adesine degli adepti al gruppo satanico può essere ricondotta alla personalità del carismatico e non già alla sola ideologia dei satanisti; - Parafilici sessuali: individui che sono soliti legittimare le proprie pulsioni - devianze sessuali attraverso l'adesione ad un gruppo di satanisti; - Egotici: satanisti che professano un credo satanico dispregiativo nei confronti della colettività e fondato sull'accrescimento del proprio potenziale fisico e sessuale; - Tossicodipendenti: individui che aderiscono ad un culto satanico per assumere le presunte droghe che avrebbero fornite durante la celebraazzione di particolari riti satanici; - Lucidi misti (adulti/adolescenti): individui che giocano a fare i satanisti: gli adulti lo fanno per goliardia, gli adolescenti per avvicinarsi al mondo del sesso alternativo ed innovativo.
Classificazione di Vincenzo M. Mastronardi
Un'altra classificazione prettamente psicodinamica e non già fenomenologica, secondo Mastronardi, è la seguente e può spingersi fino all'attività omicidiaria:
- Purificatori (con finlità catartica, per espiare le negatività, accumulate dai fedeli e/o dal genere umano). - Ingrazianti la divinità (accordandosene i favori e quindi per trarne il potere necessario per una possibile egemonia sociale). - Propiziiatori di controllo sulla vita e sulla morte e quindi sugli eventi, per conferire e rafforzare l'autostima di cho lo esegue sia per se stesso che agli occhi dei "fedeli". - Orgiastici (preludio e/o culmine di pratiche erotico-religiose di edonismo e fecondità anche con l'uso di droga). - Ringraziamenti la divinità stessa (allo scopo cioè di gratificare la divinità dopo chhe quest'ultima abbia manifestato il proprio intrevneto). - Caratterizzati da volontà di approviggionamento di materiale umano da utilizzare a scopo rituale (tessuti e liquidi biologici, ossa o interi organi per la preparazione di cerimonie, filtri, pozioni amuleti ecc.). - Alla ricerca di accettazione gruppale (abitualmente trattasi di timidi ed isolati alla ricerca di una qualche forma di accettazione interpersonale). - Sensaions' searcher (alla ricerca di forti sensazioni con o senza uso di droga). - Trasgressori transgenerazionali (alla fisiologia ricerca di trasgressione transgenerazionale classica dell'età aadolescenziale, che però talvolta può essere scelta anonimata in una forma di comportamento estremizzato e/o perverso). - Il muti murder (muti="medicina" in lingua zulu) o omicida seriale per guarigione, il quale sulla base delle proprie esperienze personali, sostiene che, tra le popolazioni del corno d'Africa, è in uso un tipo particolare di omicidio seriale che si può chiamare omicidio seriale per guarigione: gli indigeni sono convinti che, uccidendo una vergine, succhiandone il sangue e ripetendo il procedimento a intervalli di tempo regolari, si possa guarire da alcune malattie.
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Siamo quello che facciamo e non ciò che diciamo di essere.
Partecipare con costanza (o meno) ad un rito 'magico' che si tiene in un tempio (chiesa), ad opera di una setta di sciamani (chiesa cattolica) non può offrire ad alcuno un attestato di 'brava persona'; ci indica, invece, che tale soggetto è ignorante, irrazionale, privo di etica e preda di un'isteria collettiva (ritualità religiosa), provocata da un abuso di indottrinamento religioso.
Tale persona, evidentemente affetta da psicosi, proprio per quello che fa (senza spirito critico), è inaffidabile nelle proprie azioni e non autorevole, a partire dalle sue affermazioni.
Siamo quello che facciamo e non ciò che diciamo di essere.
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Il sesso, per la cultura occidentale, non ha la stessa valenza che assume, ad esempio, nella filosofia Tantrica e ne si lega, fortunatamente, a pratiche e ritualità arcaiche come avviene in Africa. Altrettanto certo, però, è che vivere la sessualità, per un europeo o un americano significa essere legati ancora a restrizioni morali e inibizioni personali fortemente connesse alla tradizione religiosa e al contesto sociale che di essa continua comunque ad essere pervaso. Differentemente dalle altre realtà, la sessualità nel mondo occidentale può essere vista sotto un duplice punto di vista: quello religioso, che ci ha sempre insegnato a ripudiare il sesso oltre il fine della procreazione, e quello laico che, sull’onda delle continue evoluzione sociali, politiche ed economiche, ha saputo fare di questo ambito della nostra vita prima un traguardo e poi una risorsa. Infatti la libertà sessuale, nelle sue varie forme, è sempre stata l’oggetto del desiderio represso nel chiuso dei luoghi di perdizione che hanno sempre prolificato nella nostra storia più o meno passata, mentre le sue manifestazioni, esplicite o meno, e la simbologia che lo riguarda hanno sempre costituito elemento di sfruttamento economico. Così dalle antiche culture Greca e Romana ad oggi, pur passando da forme più o meno esplicite, accettate o condannate, di ricerca del piacere alle posizioni più conservatrici e puritane, mai ha visto la luce una concezione che abbia potuto slegare gli amanti della trasgressione sessuale dall’appellativo di peccatori. Poveri noi! La storia dell’Occidente ha visto, a partire soprattutto dagli inizi del secolo scorso e in maniera diversa a seconda dei diversi Paesi, un processo di evoluzione sociale che, tra i tanti effetti, ha favorito e continua tuttora a favorire una graduale accettazione della sessualità e delle sue numerose pratiche e varianti. Così, tolti gli esempi negativi legati a tutte le forme lucrative di sfruttamento della “dimensione” sessuale, assistiamo finalmente ad una “maturazione ideologica” che, se pur lontana dall’attribuirgli una valore sacro, almeno diffonde una nuova speranza affinché anche il sesso possa conquistare il valore che davvero detiene. Nel passato si è sempre cercato di inibire la sessualità senza, però, mai riuscire ad evitare le scappatelle extraconiugali e le trasgressioni più varie mentre ora, godendo finalmente di una morale più aperta, ciò che prima rappresentava un segreto oggi sembra esser divenuto troppo manifesto. Di sesso se ne parla ormai molto, magari molti lo praticheranno e sempre di più lo “sperimentano” in tutte le salse e i modi conosciuti. A tutti l’augurio di trovare il modo migliore per sentirsi finalmente liberi con la propria sfera sessuale
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sede: CIAC – Centro Italiano Arte Contemporanea (Foligno); cura: Italo Tomassoni e Giuseppe Morra.
Curata da Italo Tomassoni e da Giuseppe Morra, dal 1974 storico gallerista ed editore degli scritti di Nitsch cui ha dedicato nel 2008 un Museo a Napoli, la mostra raccoglie circa 40 opere, divise in 9 diversi cicli di lavori, realizzati tra il 1984 e il 2010 e allestite come fossero un’unica grande opera aperta negli spazi del CIAC, che diversifica nuovamente la propria offerta espositiva offrendo l’opportunità di incontrare uno tra i maggiori protagonisti dell’arte internazionale della seconda metà del Novecento.
La mostra presenta alcune celebri installazioni di Nitsch come 18b. malaktion, 1986 Napoli Casa Morra. Si tratta di grandi tele dove domina il colore rosso versato o schizzato, “una pittura d’azione – afferma Nitsch – che assolve una funzione drammatica, coinvolgendo gli spettatori, come un accadere drammatico che si manifesta a mò di litania, all’interno del mio teatro, attraverso una esibizione pittorica”. Oppure azioni dimostrative-teoriche come 108. lehration, 2001 Roma Galleria d’Arte Moderna, dove in altre grandi tele Nitsch evidenzia elementi base del suo teatro, cercando “il segreto profondo del colore” e dando precise indicazioni sulla propria teoria estetica, le sue speculazioni filosofiche e la sua idea del cosmo. E 130. aktion installazione di relitti, 2010 Museo Nitsch Napoli, dove l’artista costruisce opere autonome ma al tempo stresso tracce rielaborate delle sue precedenti azioni sceniche con elementi che provengono dall’azione stessa come grandi teli bianchi e camici macchiati di sangue, barelle servite per trasportare corpi che divengono tavoli o altari, attrezzi chirurgici come bisturi o divaricatori, provette e alambicchi che rimandano al corpo e ai suoi umori, zollette di zucchero e fazzolettini di carta messi in file perfettamente regolari, che suggeriscono sensazioni di freschezza e purezza. Relitti come installazioni di quanto è già avvenuto, testimonianza di un evento sacrificale assente, segni rituali e formali di fatti fisici e carnali. Sono esposte inoltre alcune emblematiche stampe su tela come Die Eroberung Jerusalem, 1971-2008, Grablegung, 2007 e Ultima cena, 1983, opere di ispirazione religiosa dove Nitsch è affascinato dall’emanazione sensuale del rituale, soprattutto dall’Eucarestia che fa di ogni individuo un Cristo. Pane e vino, cibi basilari dell’uomo, divengono strumenti dove vita e morte si compenetrano e, grazie al rito, fanno rivivere nell’uomo l’essenza del mondo, la trasformazione dalla morte alla resurrezione, rendendoci consapevoli dell’amore altruista.
“Nitsch non esaurisce nella ritualità la complessità metaforica e teorica dei suoi oggetti e delle sue azioni – afferma Tomassoni – dal rito si liberano infatti, come annuncia il titolo della Mostra, una chimica del colore e una potenzialità di fenomeni estetici che vanno ben oltre il limite liturgico dell’azione “.
Con Tavole di colore, 2008, una installazione composta da dieci tavole disegnate con pastelli a cera, si cambia del tutto registro: qui Nitsch si rapporta direttamente al colore, alla sua bellezza, cerca “la possibilità di accrescerne ulteriormente questa bellezza con l’arte combinatoria e di individuare i rapporti sinestetici con le altre percezioni sensoriali”. Chiudono la parte delle installazioni alcuni lavori creati per il Museo Nitsch di Napoli nel 2010, dove ritornano alcuni oggetti utilizzati nei celebri Relitti: immagini di Cristo, zollette di zucchero, abiti talari, boccette, polveri, cerotti, siringhe e pinze. Completano la mostra nove litografie del ciclo The Architecture of the O. M. Theatre realizzate tra il 1984 e il 1987-1991, dove ogni quadro appare come parte di una scenografia più grande e in cui Nitsch esprime la sua teoria riguardo all’Architettura, l’elemento più complesso e importante del suo Teatro delle Orge e dei Misteri. Queste opere hanno una duplice natura: da un lato costituiscono un modello base del labirinto sotterraneo a sei-sette livelli di profondità che Nitsch voleva costruire sotto il castello a Prinzerdorf, dall’altro i piani incorporano la dimensione temporale, anticipando il dramma che l’artista avrebbe messo in scena in futuro. L’Architettura dell’O. M. T è in definitiva un cosmo sotterraneo, un castello interiore.
Hermann Nitsch (1938) massimo esponente dell’Azionismo viennese, elabora già dal 1957-1960 la sua idea di Orgien Mysterien Theatre (Teatro delle Orge e dei Misteri): esperienza di arte totale legata al concetto psicanalitico di Abreaktion, cioè la scarica emozionale che consente ad un soggetto di rimuovere gli effetti di accadimenti drammatici. L’esecuzione di atti orgiastici e onanistici con la messinscena di riti sacrificali consente, secondo l’artista, la liberazione catartica da tabù religiosi, moralistici, sessuali. Nel frattempo Nitsch dipinge seguendo il movimento del tachisme cioè l’immediatezza del gesto che versa o schizza colori sulla tela, anche usando direttamente le mani. Dal 1961 si intensificano le azioni in cui Nitsch comincia ad utilizzare gli animali macellati, il cui sangue viene usato come colore, così come aumenta il numero di partecipanti alle sue azioni con attori passivi crocefissi e cosparsi di sangue e attori attivi che utilizzano interiora di animali, si diversificano i materiali e gli apparati scenici. La provocazione si fa sempre più spinta tanto che nel 1965 Nitsch andrà in carcere per due settimane, ma si allarga anche il giro delle sue relazioni internazionali, specie con la Germania e gli Stati Uniti. Nel 1971 acquista il castello di Prinzerdorf in Austria che diventa la sede del suo Orgien Mysterien Theatre. Nel 1974 entra in contatto a Napoli con Giuseppe Morra e il suo Studio che diviene la sua galleria e il suo editore di riferimento, pubblicando l’O. M. Theatre 2, sua opera teorica fondamentale e gli spartiti musicali delle sue molteplici azioni sceniche. Nel corso degli anni Settanta-Ottanta si intensificano le partecipazioni alle grandi rassegne internazionali, gli interventi in prestigiosi musei e le esecuzioni musicali. Nel 1984 la sua 80. ma azione dura tre giorni e tre notti consecutive e dieci anni dopo Morra ne pubblica la partitura integrale. Dagli anni Novanta prevalgono in tutto il mondo le esposizioni dotate di forte energia espressiva, in cui Nitsch installa i relitti, gli oggetti, le grandi tele, le partiture, i progetti grafici che hanno dato vita alla sua personalissima esperienza artistica, in cui confluiscono teatro, pittura, musica, fotografia, video, performance.
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Hermann Nitsch. O.M.T. Colore dal Rito sede: CIAC - Centro Italiano Arte Contemporanea (Foligno); cura: Italo Tomassoni e Giuseppe Morra.
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