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Editoria, libri. Intervista a Stefano Izzo, senior editor di narrativa italiana per Salani Editore
16 febbraio 2024 È mattina presto. Mi sono imposta di fare una camminata lungo il fiume, anche se pioviggina. Poco male, mi dico, la piega ai capelli la faccio domani. Infilo la borsa al braccio, avvolgo la sciarpa sotto il mento e lascio a casa l’ombrello, che mi pare porti sfortuna. Sono dieci minuti a piedi fino al bar; un caffè, sorrisi mesti e secchi, pago ed esco. Costeggio il muretto…
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"Purtroppo è morto per cause naturali."
NAVALNY MORTO «PER UN COAGULO DI SANGUE»
«L’hanno avvelenato!»
«Un pugno nel petto!»
«Ha stato Putin!»
Il capo della direzione principale dell'intelligence del ministero della Difesa ucraina, Kirilo Budanov, ha dichiarato che Alexei Navalny è morto per cause naturali, a causa di un coagulo di sangue.
Si è persino sentito di dover anticipare questa notizia con un «forse vi deluderò…».
La notizia è stata confermata anche dallo staff di Navalny.
Panico nelle redazioni di tutta Italia.
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Epigoni in piccolo di berlusclown che non sanno cosa sia la dignità e non hanno nessuna vergogna.
Né sulle poltrone né nelle redazioni della carta igienica padronale.
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Che fortuna abbiamo avuto noi che abbiamo incrociato e da allora per sempre provato ad essere all’altezza della tua discrezione, della tua sincerità, del rigore che non perde mai l’ironia, la capacità di chiedere come stai e poi ascoltare attento, di esserci sempre quando c’era bisogno, a volte all’improvviso, proprio all’ultimo momento, altre volte prima, così tanto prima che uno ti diceva: Andrea, è presto. C’è tempo. Va bene, ma intanto cominciamo – diceva quella tua voce fonda, autorevole, accogliente. Intanto prepariamoci. La cura delle piccole cose, l’ostinazione nella ricerca e l’esercizio permanente del dubbio- sempre, sempre: il dubbio anche di sé, della propria capacità di aver inteso, la conferma negli occhi degli altri, in altre fonti, in altre prove. La tenacia tante volte solitaria, la risata sempre all’erta, in bilico sul buio. Che fortuna chi ti ha letto per anni, ti ha seguito in tv da casa, ha imparato e compreso, ha saputo. Chi ti ha accompagnato nelle più divertenti avventure, incredibili proprio, quando nessuno capiva dove stavate andando ma voi sì, tu più di tutti sempre. Chi ha fatto notte con te a parlare di cinema, i tuoi film amatissimi, le giornate infinite al Lido, e poi a discutere di politica, ne sapevi sempre scorgere la rotta, la preveggenza nitida, il bandolo dei grandi misteri: c’è sempre un dettaglio che deve essere sfuggito, dicevi alle redazioni di ragazzi adoranti. Cerchiamolo. L’eleganza. Quel modo di parlare, di camminare, di occupare lo spazio nel mondo. Inconfondibile, eppure a volte invisibile. L’amore, dato e ricevuto in quantità fuori misura. Ti portiamo. Poco poco, un pezzo ciascuno. Ce la faremo, fidati. Abbiamo imparato dal migliore.
dalla rubrica di oggi su @larepubblica
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Le Olimpiadi di cui nessuno può parlare male, se no arriva l’internazionale macroniana a spaccarti le palle e darti del putiniano.
È agosto, fa caldo, le redazioni sono piene di stagisti che fanno confusione sul sesso e gli opinionisti progressisti scrivono i loro articoli con le palle in acqua e un cocktail in mano. Solo così si spiega il delirio complottista di Repubblica & Co. di ieri, a cui degli sport olimpici frega tanto quanto a me frega del calcio femminile: la prima pagina di ieri era un’orgia di cazzate buone per una festa dell’Unità, anzi dell’Unit*: “il ko dei diritti” perché un’italiana abbandona un incontro contro un’intersex, i baci della judoka alla fidanza “davanti alla premier” come se fossero la risposta alle polemiche sulla pugile algerina, lo stop alla cannabis light.
Ma il capolavoro è dentro, roba da far impallidire terrapiattisti e seguaci di Qanon: “Dai russi a Elon Musk, la campagna organizzata dall’internazionale di destra per screditare i Giochi”. Ginori e Foschini parlano di “fasciosfera” e non gli scappa neppure da ridere. Il succo è che è vietato criticare le Olimpiadi organizzate dall’antifascista in chief Emmanuel Macron, che fa tutto benissimo, cambia il sesso degli atleti con la sola imposizione delle mani e ha ripulito la Senna pisciandoci dentro.
E se qualcuno critica è perché glielo hanno detto Putin, Musk e la Rowling (fossi in Aldo Cazzullo mi farei qualche domanda, a questo punto).
Io me ne sbatto allegramente i coglioni, penso a tenere in fresco la bionda e faccio il conto alla rovescia per l’inizio della Premier League: sabato prossimo c’è il Community Shield, e quello dopo comincia il campionato più bello del mondo. Anche se comunque il calcio non mi è mai piaciuto.
grande Jack O'Malley, via https://www.ilfoglio.it/sport/2024/08/03/news/ma-e-vietato-parlare-male-delle-olimpiadi-di-macron--6818518/
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Giuli, stare nel giro... dei fascisti
C'è un articolo de Il Riformista, mica Il Secolo d'Italia, dove si fa tutto un panegirico per giustificare la mancanza di una laurea da parte di Giuli.
Vengono portati ad esempio Jobs, Zuky, Gates, Michele Ferrero... Ops certo tutta gente senza laurea... e con una famiglia ricca alle spalle.
Si ripropone la balla che "i grandi uomini non fanno scuola", mortificando per altro tutti quelli che la scuola la fanno.
Si porta ad esempio il nanismo scolastico italiano tra i manager come se fosse generalizzato e positivo.
La si butta li, giusto per dare l'apparenza di un articolo equilibrato, che però non si da il buon esempio a fare ministri senza laurea e poi aspettarsi che la gente studi... ma alla fine si insiste che conta il networking, anche qua camuffando con frasi come "prendendo posizione nei convegni o nelle redazioni in cui la si pensa diversamente da voi"... o forse l'esatto contrario? Leccando culi e allineandosi?
Si dice che i recruiter manco la guardano più la laurea in certi settori.
Si definisce Giuli un intellettuale di area. Quale area non lo si dice. Insomma devi andare ai convegni a fare contraddittorio... ma anche essere di "area" non ben specificata.
Che uno è proprio leggendo questa roba che si convince di come la mancata laurea di Giuli sia la ciliegina sulla torta di merda.
Un'affermazione come "c'è gente con la laurea che capisce meno di gente senza la laurea" che è populista QB da mettere d'accordo tutti guarda caso finisce per essere usata come propaganda.
Un'affermazione del genere dovrebbe portare a conclusioni OPPOSTE a quelle di giustificare un ministro fascio senza laurea.
Perchè ci sono cojoni con la laurea e gente decente senza? Perchè la possibilità di conseguire una laurea non è funzione dell'essere capaci ma molto più spesso di poterselo permettere, o potersi permettere di mollare li e fare altro, perchè a posizioni ambite contribuisce di più la cooptazione che il merito, perchè i corsi di studi potrebbero essere MEGLIO, la selezione dovrebbe essere fatta su criteri leggermente diversi, i corsi dovrebbero essere più stimolanti...
Senza parlare di questo e allineandosi al "c'è gente con la laurea che capisce meno di gente senza la laurea" nel contesto della scelta di un ministro fascista, si fa propaganda dalla parte sbajata. E parlando di questo alla fine si capisce che un ministro fascio senza laurea È un problema non di poco conto anche per la propaganda che poi finisce a fare anche il Riformista.
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" Esiste una fondamentale differenza [...] fra l’Ucraina e gli Stati baltici. Non credo che Putin voglia rimettere in discussione la loro indipendenza. Ma nei rapporti con le tre Repubbliche del Nord ha adottato una linea scopertamente nazionalista. Uno dei più frequenti motivi di incidenti fra la Russia e i suoi piccoli vicini è quello dei molti memoriali in onore dei grandi bolscevichi e dei caduti sovietici nella seconda guerra mondiale, costruiti nel mezzo secolo che ha preceduto il collasso dell'Urss. Per Putin quei monumenti sono intoccabili. Se i Baltici vogliono eliminarli o relegarli in una foresta, Putin reagisce come se fosse stato commesso un reato di lesa maestà e lascia intendere che certi affronti non resteranno impuniti. È accaduto ancora una volta nel Maggio del 2016 per una targa in memoria dell'equipaggio di un aereo russo caduto in Estonia qualche anno fa, sfregiata dalla popolazione locale.
Con l’Estonia, in particolare, gli screzi sono stati numerosi. Il più grave è quello della tempesta cibernetica che la Russia ha scatenato sul Paese nel 2007. Dopo la rimozione di un monumento al soldato sovietico da una piazza di Tallinn, l’offensiva degli hacker russi ha colpito per tre settimane la presidenza, il Parlamento, quasi tutti i ministeri, le sedi dei partiti politici, tre palazzi che ospitano redazioni giornalistiche, radiofoniche e televisive, due banche e parecchie imprese del mondo della comunicazione. Per premunirsi contro altri attacchi l’Estonia, più recentemente, ha creato una sorta di deposito informatico nel Regno Unito dove ha collocato tutto ciò che può garantire la continuità di uno Stato ciberneticamente occupato da una potenza ostile: i certificati di nascita della sua popolazione, gli archivi dei ministeri e delle banche. "
Sergio Romano, Putin e la ricostruzione della grande Russia, Longanesi, 2016¹. [Libro elettronico]
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[...] Ormai degli svarioni che contiene se ne parla sulla stampa di mezzo mondo. In particolare l’aver usato foto di località slovene per promuovere il turismo in Italia e traduzioni piuttosto approssimative (es Camerino che diventa Garderobe) stanno facendo divertire le redazioni internazionali. L’agenzia Reuters ha dedicato alla campagna un articolo dal titolo “Official promo video for Italy tourism features Slovenia” in cui si ricorda tra l’altro il costo dell’iniziativa (9 milioni di euro) e si ricorda come l’agenzia di pubblicità Armando Testa, a cui la campagna è affidata, non abbia voluto rilasciare un commento.
L’emittente televisiva statunitense Cnn scrive “Video per la promozione del turismo italiano ridicolizzato per l’uso di foto della Slovenia” ricordando poi come la ministra Santanché abbia definito “snob” le persone che criticano la campagna.Il sito greco Ieidiesis parla di un “errore epico nella campagna istituzionale”. Della vicenda parla anche il portoghese Publico. Grecia e Portogallo, due concorrenti diretti del turismo italiano a cui non par vero di poter raccontare di questo scivolone. Oggi a rigirare il coltello nella piaga è il quotidiano inglese Guardian che, dopo aver raccontato come il ministero sia stato messo in ridicolo per aver usato immagini della Slovenia in cui compare anche un vino con l’etichetta di un vigneto sloveno, riporta i giudizi dello storico dell’arte Tomaso Montanari che ha definito la campagna “grottesca” e un “osceno” spreco di denaro pubblico.
Anche il giornale britannico sottolinea come l’agenzia Testa non abbia voluto commentare.Come se non bastasse il dominio opentomeraviglia.it non è stato registrato e se lo sono prontamente accaparrato due esperti di marketing. Secondo il ministero “un dettaglio tecnico di scarso peso”. Le immagini della campagna sono state pubblicate sul sito Italia.it ma tutte in bassa risoluzione, tutte messe in rete dopo averle scaricate direttamente da whatsapp senza neanche rinominarle, il che ha conseguenze disastrose per quanto riguarda l’indicizzazione dei contenuti.
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Proviamo a immaginare la discussione nelle redazioni dei giornali che hanno pubblicato la fondamentale notizia: «Andrea Giambruno è andato dal barbiere per tagliarsi il ciuffo».
– Giambruno è andato dal barbiere. La pubblichiamo? – Mi sembra una cazzata. – Mi hai convinto. Pubblichiamola.
FINE
[L'Ideota]
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Le mezze stagioni stanno ammazzando il giornalismo, orfane del caldo africano e troppo in anticipo per il freddo polare, le redazioni vagano sperdute in una terra di nessuno in cerca di vere notizie. La cronaca, si è detto, offre spunti da cinema splatter, Amato spara la sua su Ustica, Papa Francesco lascia la Mongolia per far rientro a Roma, in questo mortorio generale la gente è costretta a leggere le news sui siti porno, peraltro vietati ai minori, e i minori, rimasti senza donne, si drogano: un paese allo sbando. L'unico che si è fatto la villa è il generale Vannacci.
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🟨 NOI DI MEZZOPIENO
Ogni giorno, in tanti contesti e con diversi strumenti, noi di Mezzopieno siamo impegnati a fianco della gente, per favorire la cultura della positività e della gratitudine.
In ospedali, scuole, luoghi di lavoro, Comuni, università, redazioni, comunità e tra la persone, per credere sempre nel mondo e negli esseri umani e nella capacità di creare bellezza e armonia collaborando.
VIENI CON NOI
www.mezzopieno.org
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Presumo ricordiate la storia del vigile urbano di Sanremo sorpreso a timbrare il cartellino in mutande. Ne scrissero tutti i giornali con entusiastico corredo della prova documentale: la foto dell’uomo in slip, evidentemente pronto a rituffarsi fra le lenzuola in orario di lavoro. Era il 2015. Il vigile e la sua immagine divennero i simboli dell’Italia imbrogliona e nullafacente, su cui noialtri riversammo vibrante indignazione dall’alto della nostra statura morale. Tuttavia erano sufficienti cinque minuti per appurare che la casa del vigile, il suo ufficio e la timbratrice erano tutti nello stesso edificio. Il vigile si alzava alle 5.30, timbrava il cartellino, apriva i cancelli del mercato ortofrutticolo, di cui era custode, e cominciava la giornata. Bastava porre una domanda, ma a nessuno venne in mente. Così ci sono voluti cinque anni: nel 2020 il vigile è stato assolto, e forse sarà la mia negligenza, oppure che le cronache ne hanno dato notizia nell’angolo in basso, senza approfondimenti sui guasti di certe inchieste, giudiziarie e giornalistiche, ma io lo ignoravo. L’ho scoperto ieri quando è stato stabilito – a carico del comune di Sanremo, che licenziò il dipendente dalla sera alla mattina – un risarcimento danni di 227 mila euro. Un’ultima annotazione: a fornire ai giornali la foto, con cui il vigile è stato messo in ridicolo e alla gogna in tutta Italia, furono gli inquirenti. Però lo sappiamo: la magistratura è santa e non si tocca. E come al solito a noi delle redazioni importa poco di essere rimasti senza le mutande del diritto di cronaca: possiamo sempre coprirci le vergogne con il famoso bavaglio. (Mattia Feltri)
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Promemoria a tutte le redazioni dalla Suprema Cupola Politicamente Corretta:
Siete dei poveri dementi!!😏
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Il partito della meloni nel 2018 stava al 4%, proprio come la lega nel 2016 quando, inspiegabilmente, salvini iniziò a spuntare nelle case degli italiani perfino dagli oblò delle lavatrici perché bisognava oscurare il M5S nel pieno dei suoi massimi consensi. Da quando il M5S diventò il partito di maggioranza relativa in parlamento la vera battaglia politica si svolge nelle redazioni di media e giornali solo perché l'establishment, il potere che conta, quello economico e finanziario che controlla e possiede media e giornali non gradisce che gli italiani possano scegliere autonomamente i propri rappresentanti politici, specie se arrivano da un mondo distante dal suo. E allora, proprio come con l'avvento del fascismo, quando fu la borghesia e non il popolo a volere mussolini perché terrorizzata dall'idea di perdere soldi e privilegi, chi ha soldi e potere si organizza e, piuttosto di mandare al governo gente che potrebbe interrompere il magnifico status quo che comanda l'Italia da ottant'anni non si fa scrupolo di mandare al governo partiti antidemocratici e autoritari perché tanto, chi ha i soldi può comprare tutto quello che gli manca, anche la libertà. #statocanaglia, oggi più di ieri e meno di domani. #26settembre
@ Cristina Correani
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Quando, tra il settembre e l’ottobre del 1935, si dedicò alla stesura de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Walter Benjamin non sapeva ancora che la pubblicazione di quello che unanimemente è considerato il suo lavoro più influente sarebbe stato rimaneggiato dalla redazione della rivista Zeitschrift für Sozialforschung tanto da farlo incazzare come una iena e spingerlo all’ennesima riscrittura di un testo che avrebbe visto la luce solo postumo nel 1955.
Nel tredicesimo capitolo della prima stesura dattiloscritta dell’opera, Benjamin gettò lì una frase che pur fotografando una situazione fattuale anticipava nelle sue implicazioni di qualche decennio Andy Warhol: «Ogni uomo contemporaneo avanza la pretesa di essere filmato». Nella sua lapidarietà, questa frase rivela un mondo. Non soltanto ci parla di una nascente società di massa che si interfaccia con lo shock del cinematografo, ma ci fa comprendere come, pur cambiando a distanza di quasi un centinaio d’anni la natura dei media, l’approccio dell’ uomo “contemporaneo” non sia cambiato, anzi.
Ma quanto colpisce del testo di Benjamin è la requisitoria che segue, una critica sociale verso la tendenza autoriale dei lettori, che abbandonavano il ruolo passivo di fruitori per diventare essi stessi scrittori. Nulla da eccepire: ci troviamo agli albori di una democratizzazione della scrittura, che in linea di massima non sarebbe in contrasto con gli ideali di Benjamin, ma che in realtà fece scattare in lui un allarme. Il sospetto era che dietro la scomparsa della distinzione tra autore e pubblico vi fosse all’opera una logica capitalista: era il lavoro stesso a prendere la parola.
Nel suo secondo pantagruelico romanzo Il pendolo di Foucault, Umberto Eco ambientò parte delle vicende nella redazione della casa editrice Garamond, dove Casaubon, Jacopo Belbo e Diotallevi vengono introdotti proprio dall’editore ai perversi meccanismi delle Edizioni Manuzio. Quest’ultima è un APS (acronimo di Autori a proprie spese): cioè una classica vanity press, con gli stessi autori che, nell’illusione di entrare a far parte del fantastico mondo dell’editoria, finanziano la stampa del proprio libro.
Il malcapitato di turno (nello specifico Eco decide per un pensionato con il vizio della poesia, tal commendator de Gubernatis) farà i salti mortali per firmare un contratto vessatorio celato dietro un lancio editoriale “satrapico”: delle diecimila copie promesse ne saranno stampate solo 1.000, di cui solo 350 rilegate. Per finire in bellezza, 200 di queste saranno cedute all’autore, le altre distribuite a biblioteche locali, redazioni e riviste pronte a cestinare il plico, nonostante le dieci cartelle di presentazione entusiasta. Un meccanismo spiegato con sottile ironia dal filosofo piemontese, ma che sostanzialmente illustra un mercato dell’editoria parallelo e, che in alcuni casi, si sovrappone a quello ufficiale.
Il mercato editoriale post-pandemico ha conosciuto un’evidente e positiva crescita, che ha visto come settore trainante quello dei fumetti, unico segmento che nell’ultimo decennio è stato in costante e continua crescita. Eppure, questo scenario idilliaco è stato scosso da un dato allarmante. Secondo uno studio realizzato da CAT Confesercenti Emilia-Romagna in collaborazione con SIL, Sindacato Italiano Librai Confesercenti, e con il supporto scientifico di Nomisma, i dati non sono così incoraggianti.
Il 30% dei libri pubblicati – spesso tra autopubblicazioni, editori improvvisati e vanity press – non vende neanche una copia, e 35.000 titoli su quelli pubblicati nel corso del 2022 hanno venduto meno di dieci copie. Quando ho letto la notizia ho subito pensato alle pagine del romanzo di Eco, e sostanzialmente la situazione nell’arco di quasi trent’anni è peggiorata: il bacino dei lettori si è notevolmente ristretto a scapito invece di quello degli autori. Certo, è indubbio che il quadro è più complesso: a una scarsa selezione a monte – con un lavoro quasi nullo di scouting e editing – si aggiunge una promozione assente o basata sull’improvvisazione e sulla buona volontà dell’autore.
Al computo dei libri che nessuno compra vanno sicuramente annoverati una serie di titoli “scientifici” o accademici spesso pubblicati grazie a sovvenzioni pubbliche o fondi personali utili a creare un rating spendibile e che praticamente hanno una vita editoriale praticamente nulla. Ma quest’ultimo è un discorso un po’ ostico.
Senza dubbio, di libri inutili ne vengono pubblicati a migliaia ogni anno, alimentando un mercato dopato e falsamente democratico. La falsa speranza che la possibilità che a tutti venga data voce e dignità di stampa nasconde, come sottolineato da Walter Benjamin, una strategia del capitale che in maniera bulimica si sostenta della vanità autoriale di lettori avidi di gloria editoriale.
Se i dati possono essere riportati anche sul segmento che riguarda il fumetto dobbiamo inferire che molti dei titoli pubblicati spesso da editori minori e con scarsa capacità di proiezione sul mercato non vengono acquistati e letti. Questo dato non può non essere sovrapposto alla scarsa qualità dei contratti proposti agli esordienti. Sull’onda della campagna #ComicsBrokeMe, anche i fumettisti italiani hanno evidenziato situazioni di sfruttamento e scarsa tutela del diritto d’autore. Spesso contratti vessatori e capestri diventano la norma,soprattutto nel caso di esordienti e wannabe interessati a entrare a far parte di questo settore.
L’associazione MeFu ha sottolineato il problema, evidenziando soprattutto le ricadute sul diritto d’autore e sulle royalties. Fermo restando che sono pochi gli autori in grado di vendere tante copie da generare compensi derivanti da royalty in un mercato curvato sui soliti nomi. Che, pur generando interesse e facendo da traino per l’intero segmento, monopolizzano un settore con poche reali possibilità di successo per giovani autori che meriterebbero più attenzioni anche e soprattutto da parte dei loro editori.
Ora, a latere sarebbe opportuno forse avere il coraggio di demistificare l’importanza del libro cartaceo: nonostante alcuni lavori non possano fare a meno della capacità del supporto cartaceo – vuoi per soluzioni cartotecniche particolari, vuoi per un formato di lettura che ha nel libro la sua struttura cardine – ci sono decine di migliaia di titoli, tra cui sicuramente anche fumetti, che non meritano la dignità di stampa e che potrebbero forse vivere una vita più agevole nella loro dematerializzazione, sfruttando le opportunità democratiche e anarchiche del web.
Forse è arrivato il momento di invertire la rotta e sovvertire l’idea che la dignità di stampa renda un’opera degna di essere letta. Il feticismo del libro come simulacro del proprio pensiero è una narrazione un po’ obsoleta e deleteria: ognuno avanza la pretesa di essere pubblicato in un mercato in cui la maggior parte dei libri finisce al macero o a prendere polvere sugli scaffali. Il libro nell’epoca dei social è un oggetto anacronistico, un vezzo avvolto da un romanticismo affettato e imbolsito.
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Nelle case vivono italiani vecchi, guardano in strada dalla finestra le piccole grandi barbarie che si compiono ogni giorno, non hanno forze per combattere contro i cancellatori. La trasformazione dei nomi. Un nome così polesano come quello di papà, Giovanin. Un nome sempre voluto come quello di mio fratello, Gianni. Quando uno per quarant’anni si è chiamato Gianni o Giovanni o Giovanin o Nini, non potrà mai abituarsi a Ivan. Come può una Gigia di sessant’anni essere chiamata Vjekoslava dall’oggi al domani? Ti immagini, mio fratello Gianni dovrebbe pagare di persona, con la sua stessa vita, con il suo stesso nome, i debiti che il fascismo ha contratto con gli slavi! Pola è diventata Pula. Le lettere non partono e non arrivano se sulle buste non si scrive Pula. Pola cancellata dalla faccia della terra. Il nome era un simbolo, e quando i simboli cadono, nulla è più come prima.
Quanti anni dopo scoprirò che nella documentazione medievale il nome della mia città appariva attestato ora nella forma Puola, appartenente al più antico registro venezianeggiante, ora nella forma Pola, un latinismo proprio della lingua scritta. Dalle redazioni del 1332 e del 1358 dello statuto di Pirano emerge il preveneto Pula come l’originaria forma locale del toponimo, caratterizzato dall’esito tipicamente istrioto di o breve latina in sillaba libera.
Gli slavi sicuri di slavizzarla non fecero altro che adattare il tipo dialettale romanzo di più genuina tradizione locale. Lo avessero saputo, come l’avrebbero ribattezzata?
Anna Maria Mori & Nelida Milani, Bora. Istria, il vento dell’esilio
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