#quegli spirti...
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valentina-lauricella · 6 months ago
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Una poesia di Trilussa dall'aldilà
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"Caro amico, vorresti comporci una poesia intitolata 'Lo spiritismo'?"
La risposta cortese fu la seguente:
"Nel 1916 ho già composto una poesia con questo titolo, ma allora ero scettico; ad ogni modo ve ne farò volentieri un'altra, una quartina per ogni seduta. Trilussa (Salustri Carlo Alberto)"
LO SPIRITISMO
(Dettata medianicamente dopo la morte da Trilussa)
Novembre 1951
Era de moda Eusapia Paladino
e 'gni tanto la sera a casa mia,
s'aridunamio accanto ar tavolino,
pe' conversà co' l'anima de zia.
Lei nun mancava mai l'appuntamenti,
margrado ch'io nun ce credessi affatto
“perchè” pensavo “co' st'esperimenti
c'è caso che diventi mezzo matto”.
Me pare strano assai che li cristiani
pe' potè conversà coll'altro monno
deveno formà un cerchio co' le mani
come li regazzini ar girotonno!
Se sapeva che barba de' scenziati
come Richette, Crocchese e Bozzano,
erano stati in parte cojonati.
“Perciò” pensavo “è mejo annacce piano!”
Però ce stava sempre quarche cosa
che me lassava in dubbio e pensieroso:
l'apporto de' na' foja o de' na' rosa,
un fojo co' no' scritto misterioso,
na' stretta sulle spalle all'improvviso,
l'impronta de' na' mano drento an vaso
un ciancechio come se fusse raso.
Immezzo a sta' buriana er tavolino
ce venne a dì che c'era na' persona
pronta a parlà con me, che poverino
n' fonno n' fonno ero n'anima bona.
A me nun parse vero e n'cominciai
a damandaje chi era e che voleva.
“Stai bene? M'aricordi? Come mai...”
Ma a ste' domanne lui nun risponneva.
De botto ce ordinò de fa silenzio
e incominciò a dettacce adagio adagio
“Sabato venti aprile, via Crescenzio,
nun t'aricordi più?...” e sto' messaggio
era un messaggio de parole belle
che solo io fra tutti li presenti
potevo riconoscele: eran quelle
cose che si so' tue, te te le senti.
La frase che me disse era d'amore,
d'amore puro senza cose strane.
“Amore” disse “m'hai rubbato er core...”
“ma nun durò che poche settimane...”
Che d'è lo spiritismo? In quer messaggio
ce stava n'antra vita; sì, 'un finiva.
Capii ch'er monno è un ponte de passaggio
fatto pe' riportacce all'antra riva.
(Da R. Piergili, Quegli spirti..., Diari - Trascrizione di sedute medianiche del Gruppo spiritualistico "Gastone De Boni", Roma, vol. I)
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melissacosenzablog · 4 years ago
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Don Rodrigo, al cospetto di Dio
di Melissa Cosenza
Il diavolo l'aveva in corpo e andò su e giù, spronando il cavallo, finché ebbe fiato.
Quale che sia il divario tra demoni e santi, di certo esso si restringe in punto di morte, soprattutto se l'empio, inchiodato al legno di un funesto presagio, avanza in un corpo a brandelli, costretto al peso della pìetas, elargita da occhi che un tempo lo temevano.
Si trascinava così Don Rodrigo, scontando il calvario della peste. Lo sguardo di Cristoforo, quel dannato frate, tradiva compassione. Oh, Dio... Compassione per lui, che trascorse ogni singolo giorno di vita a pretendere rispetto.
Dov'era dunque il rispetto e dove l'onore? Il mondo stava cambiando, portando con sé tutto quello per cui si era battuto, facendosi largo tra le schiere di noiosi aristocratici e popolani incolti.
Mentre si inerpicava su per l'altura, in groppa a un cavallo ormai esausto, i suoi occhi si chiusero e, per un istante, la memoria lo riportò ai saloni del suo castello, a giorni di fasto e opulenza. Prima i saloni, poi la sala del convito, il frastuono di posate, piatti e voci sovrapposte, stridule. Furono davvero giorni felici? Una risposta a dir poco leggera e priva di fondamento potrebbe giungere da uno di quei paesanotti portati a misurare il mondo sul metro di ciò che la Provvidenza, o forse il potere di Don Rodrigo, gli avevano negato. A quei paesanotti la bicocca di Don Rodrigo mostrava un felice lustro, malvagio ma lieto, per chi sguazzava al suo interno. Sprezzante dunque la risposta di un popolano che, tuttavia, in cuor suo, avrebbe ben volentieri adagiato il corpo sul morbido talamo del signorotto.
Furono davvero giorni felici? Don Rodrigo, ormai in punto di morte, non ne era più così convinto. Dietro il portone del suo palazzotto, dietro le carcasse degli avvoltoi, inchiodate ai battenti, era vissuto respirando la paura di chi lo serviva, ma chi lo aveva amato, chi ebbe mai il coraggio di affrontarlo?
Simili questioni si insinuarono lentamente in lui a partire dal crepuscolo di un dì ormai lontano, quello in cui il conte Attilio, il suo ardito cugino, lanciò, quasi per gioco, un'insolita sfida. Non avrebbe dovuto prendersi il lavoro o gli averi dei suoi popolani ma anche i sospiri di una giovane donna, Lucia Mondella.
Una sfida dunque, destinata a divenire il suo tarlo. Poteva mai esistere una qualsiasi cosa che non potesse far sua o semplicemente prendere, senza chiedere?
Se mai una simile cosa fosse esistita, se non l'avesse presa per sé, cosa avrebbe mai pensato di lui quella massa di carne e sudore chiamata gente?
La sua stirpe impiegò anni, intere generazioni, a costruire quel potere, a vivere per esso, a venerarlo. Quel fardello era giunto fino a lui, senza che lo chiedesse, e non poté né volle sottrarsi al suo destino. Fu così che quella sfida trasformò Lucia, una giovane acerba ma di straordinaria bellezza, in un trofeo da ottenere come tanti altri, in una semplice cosa, da far piegare al proprio volere o cancellar da vista e comune memoria.
Tutto iniziò così, per poi cambiare, ma questa parte della storia appartiene solo a Don Rodrigo e, mentre si trascinava su per l'altura, in quegli ultimi istanti di vita, non poté raccontarla a nessuno, se non forse al suo cavallo.
Tutto cambiò nel momento stesso in cui l'Innominato condusse Lucia alla bicocca.
La giovane possedeva qualcosa di insolito e non era la sua ingenuità, né la paura, bensì uno sguardo curioso, misto a uno spirito di ricerca indomito che, seppur sepolto sotto il peso di un'intera giovinezza vissuta tra luoghi comuni e superstizioni, continuava in lei a bruciare, come brace sotto la cenere, come la brace dei suoi stessi occhi scuri. Quegli occhi lo accusarono e condannarono sin dal primo istante in cui si incrociarono ai suoi, ma Don Rodrigo non sapeva chiedere, né aspettare; si avvicinò così a Lucia, balzando su di lei e strappandole un bacio. Un bacio, sì, o almeno credette che lo fosse, fino a quando non conobbe il sapore del bacio che porterà con sé, serbato tra i segreti di un moribondo.
«La supplico, si allontani, in nome di Dio».
«Dio, dov'è Dio, mia giovane Lucia? Lei forse lo sa?».
«È persino in lei, persino nel fondo buio del suo cuore».
Don Rodrigo rispose con una risata simile a un ghigno sguaiato, mostruoso, presagio di quanto quelle poche parole stessero per incrinare le sue certezze.
Qualcosa accadde e non seppe mai definire che fu a fremergli nel petto, che fu a rigargli il viso di quello strano sudore, ogni volta che la vedeva.
Eppure qualcosa accadde, al punto da portarlo a una domanda insolita.
«Le farò un dono, mia giovane Lucia, qualcosa che non concedo a molti. Scelga pure la sala che vorrà visitare e quella sarà sua».
La risposta lo sconvolse, coprendolo di uno stupore insolito. Quella giovane popolana, incapace di leggere, o fors'anche di sfogliare un libro nel giusto verso, pronunciò un'insolita richiesta.
«Mi conduca nella biblioteca, se non oso chieder troppo. Non ne ho mai visto una, eppure dicono che lì sia racchiuso il sapere del mondo e della nostra Santa Chiesa, con i suoi sacri testi».
Don Rodrigo quasi non ricordava di avere una biblioteca. Suo padre, un uomo alquanto diverso da lui, vi trascorreva diverse ore del giorno, a scrivere ordinanze e doveri dei suoi sottoposti.
Aperti i battenti in legno della biblioteca, la polvere avvolse Don Rodrigo, ma Lucia non ne apparve turbata.
«Mi legga qualcosa».
«Non mi sovviene innanzi alcuna Bibbia o storia di Santi, ma forse questo potrebbe interessarle...».
Fu così che Don Rodrigo iniziò a leggere i versi del Petrarca, inconsapevole di come il poeta descrivesse lo stesso sentimento che gli si agitava in petto e che Laura e Lucia divenivano entrambe sublimi ai suoi occhi.
«Son versi di trecent'anni fa, ma a lei non credo dispiacciano...».
E così lesse, con la voce incerta di chi non è solito farlo:
Far potess’io vendetta di colei che guardando et parlando mi distrugge, et per più doglia poi s’asconde et fugge, celando li occhi a me sì dolci et rei.
Così li afflicti et stanchi spirti mei a poco a poco consumando sugge, e ‘n sul cor quasi fiero leon rugge la notte allor quand’io posar devrei.
Quando sollevò gli occhi dal libro, vide il respiro di Lucia farsi veloce, i suoi seni muoversi, e le sue piccole dita bianche posarsi vicino alle sue tozze mani, sulle pagine del libro, a sfiorarne la rilegatura.
«Strani versi, che forse non si addicono a una donna, ma da un uomo come lei cos'altro aspettarsi?».
«Strani versi, giovane Lucia, eppure scritti per una donna. Sa che solo una donna può generar simili affanni. Oh... Ne è stupita? Lo ero anch'io, finché lei non si insinuò qui, simile a un demone».
«Un demone, e lo dice proprio lei, che afferra ogni cosa, terrorizzando?».
«Dunque, è forse lei terrorizzata?».
Lo disse con quel tono di sfida misto a tremore, incerto, per la prima volta. Avvenne tutto così, in un solo istante, l'istante in cui lei diede, senza che le venisse chiesto, né imposto. Fu quello l'istante in cui le loro labbra si serrarono, poi tutto svanì. Fu come se lei venisse presa da un tremito, un pentimento, e iniziò a correre verso l'esterno e lui, che avrebbe potuto fermarla, rimase lì, immobile.
Il potere inizia a sciogliersi così, lentamente, come fredda neve. Don Rodrigo si sentiva inerme e neppure urlò quando seppe che i suoi uomini, con le vesti e i palati impregnati di vino, non fermarono Lucia.
L'avrebbe ritrovata, presa, e strappata a quelle inutili nozze con un giovinotto che non ne avrebbe neppure compreso palpiti e tremiti.
Si trovò dunque a far ciò per cui era nato, per l'ennesima volta. Si trovò a dare ordini, precisi, perentori. Questo matrimonio? Non s'ha da fare, né domani, né mai.
Qui la storia si tinge di strani colori, ancora una volta, ed è una storia che nessuno conosce. È così comodo credere ai tremori di un umile prete, innanzi alle minacce dei Bravi, che, in breve tempo, di bocca in bocca, l'intero paese si trovò a ciarlare di quel Don Abbondio come d'un vaso di terracotta tra tanti vasi di ferro.
Il marchio della codardia non turbò il prete, e non perché a turbarlo fossero le minacce, bensì per i pensieri che celava dietro la falsa codardia.
È così agevole pensare che il prete volesse celebrar le nozze, che a nessuno venne mai l'insano dubbio che in fondo provasse un malato piacere, nel vedere Lucia ancora nubile, poiché gli era più semplice, da nubile, renderla protagonista delle sue più perverse fantasie.
Dunque chi è malvagio, o perverso? Dov'è il demone e dove il santo?
Don Rodrigo, che il destino del suo casato portò al comando, credette al fine di agire per liberar la giovane, per sottrarla agli incolti popolani, ma chi mai avrebbe creduto alla sua versione, chi l'avrebbe accolta?
Di certo non la Santa Chiesa o quel Padre Cristoforo che tutto sapeva.
Cristoforo, le cui parole si insinuarono tra le ombre notturne, a levargli il sonno, neppure sapeva di cosa parlasse, quando intimò, con fare minaccioso quell'orrendo dire: «Verrà un giorno...».
Don Rodrigo, pronto ormai a incontrar la morte, sapeva che il giorno era giunto, ma non era al fin così sicuro di essere colpevole, non al cospetto di Dio.
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fondazioneterradotranto · 5 years ago
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L'Arcadia salentina (Tommaso Perrone, Ignazio Viva, Pasquale Sannelli, Pietro Belli e Lucantonio Personè) e la peste di Messina (1/2)
di Armando Polito
Della tragedia che si abbattè su Messina dal 20 febbraio 1743 fino al 23 febbraio 1745 (data in cui la città ricevette la certificazione dalla liberazione dal morbo dopo che erano passati nove mesi senza che si registrasse un solo caso di contagio) una relazione dettagliata è nella memoria di Orazio Turriano, della quale riproduco di seguito il frontespizio.
Com’era naturale, il flagello destò preoccupazione anche in continente e sul comportamento del governo centrale ecco quanto scrive il Turriano a p. 4: Lodevolissima intanto è stata la condotta del Monarca Carlo Borbone, e de’,suoi Ministri pietosissimi, che non solo scandalizzati non si mostrarono per lo fatal’avvenimento di Messina, ma più tosto ritrassero motivo d’usar seco maggiore pietà, e compassione. La soccorsero a maraviglia, tantochè fu effetto, dopo il Divino aiuto, della reale Munificenza, il non essere rimasta totalmente distrutta come più appresso diremo.
Anche se il Turriano ricopriva la carica di segretario della città e la mia diffidenza nei confronti dei gestori del potere (dal più al meno importante nella scala gerarchica, anche, forse soprattutto, nel settore burocratico) rimane sempre attiva, tuttavia, debbo credergli sulla fiducia, non avendo da esibire prove in contrario.
Se, dunque, il sovrano verosimilmente si preoccupava dei sudditi e si occupava dei loro bisogni (oltretutto il duplice cordone sanitario per impedire che l’epidemia si diffondesse in Calabria funzionò), altrettanto si può dire dei sudditi, almeno quelli leccesi, nei suoi confronti. Infatti il sindaco dell’epoca, Angelo Antonio Paladini in nome della città aveva offerto al sovrano ed a tutta la casa reale di ricoverarsi in Lecce, come Città, che con tutta la Provincia, sotto la Protezione del Gloriosissimo S. ORONZO Primo Vescovo di Lecce, era stata sempre esente dal morbo contagioso, come si legge in un rapporto sulla risposta del sovrano stilato da Francesco Saverio De Blasi Consolo dell’Accademia dei signori Spioni di Lecce a nome della medesima ed indirizzato al sindaco. Tale rapporto, del quale di seguito riproduco il titolo, è all’inizio del secondo volume del Saggio istorico della città di Lecce di Pasquale Marangio, uscito a Lecce per i tipi di Marmi nel 1817 e ristampato da Giuseppe Saverio Romano, sempre a Lecce, nel 1858.
  Il volume è importante perché una sezione intitolata Componimenti in loda di S. Maestà l’invittissimo Carlo Borbone Re delle due Sicilie comprende versi di autori salentini, tra i quali alcuni soci conosciuti della famosa accademia romana dell’Arcadia (che era stata fondata nel 1690) ed altri molto probabilmente ignorati fino ad ora non solo da me, tanto più che il loro nome non compare in nessuno dei cataloghi della detta accademia. Certo, avrei preferito parlare di loro ad integrazione, sempre provvisoria, della collana Gli Arcadi di Terra d’Otranto  fin qui pubblicata in 20 puntate su questo blog, non in coincidenza della tragedia sanitaria che stiamo vivendo; ma le poesie che presenterò, in cui la celebrazione del sovrano prende quasi il sopravvento sulla tragica esperienza di quel tempo col riferimento, direi apotropaico, a s. Oronzo, possano essere di buon, anzi migliore auspicio per tutti, ma in particolare per coloro che invocano l’aiuto divino dopo aver violentato l’ordine naturale delle cose.
Comincio da TOMMASO PERRONE, del quale, nell’ambito della collana citata, mi ero già occupato in  https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/03/gli-arcadi-di-terra-dotranto-10-x-tommaso-perrone-di-lecce/. 
Le pagine 50-53 e 59 ospitano di lui, rispettivamente,  un carme (A) ed un sonetto (B).
  A
Questa, che miri ogn’or memoria Augusta
e tanto al suo splendor chiarore aggiunge,
città, che l’ortoa da Malenniob avesti.
è ben dover, c’alla futura etade
passi de’ Figli tuoi. Perché i tuoi Figli,
premendo l’ormec de’ Maggiorid  loro,
sieguanoe ad illustrartif in ogni tempo.
Che bel misto di glorie in lei traluce!
Glorie, che vanno a terminare al Santo
tuo Difensorg da questa Terra al Cielo,
ad emularh quella verace gloria,
ond’Eii fruisce in sì stupende guise.
Il tuo gran Santo ha in Ciel la gloria vera,
che gli cagiona la vision di Dio,
vista soave, che Beato il rende
pe ‘l diffuso piacer, che sempre abbonda.
__________
a nascita
b Secondo la tradizione, discendente di Minosse, fondò Lecce. Ebbe un figlio di nome Daunio e una figlia, Euippa, che andò sposa ad Idomeneo re di Creta.
c seguendo l’esempio
d antenati
e continuino
f darti fama
g S. Oronzo, protettore della città.
h tentare di uguagliare
i Egli (s. Oronzo)
  Ved’egli Dio, com’è in sè stesso. Vede,
che l’unità della Divina essenza
non contraddica all’esser Uno, e Trino.
Vede ingenito il Padre ed il Figliuolo
dal solo Padre generato e d’Ambo
(come da un sol Principio) procedente
lo Spirtossantok e tutto quel che sempre
a lui dispensa della gloria il lume
in quell’abisso d’infinito Bene.
Ma dalla Terra ha un’altra gloria il Divol,
gloria, c’accidental da noi si noma.
Nasce da quell’onor, dal sacro culto,
c’assi di lui, da’ Templi e sacri Altari,
dalle Colonne, dagli Archi e Colossi
eretti al nome suo: da’ dì festivi
a lui sacrati, dalle molte cere,
da’ lieti fuochi, da’ notturni lumi,
c’ardon per lui, dalle diverse lodi
che gli si danno e dall’immenso Stuolo
c’accorre ad onorarlo. Ei tutto accoglie
in lieto aspetto, e ne dimostra i segni
dal Ciel, donde largisce in copia i doni.
Quindi, se Iddio, per vendicar le offese
che l’uomo ingrato ogn’or gli fa peccando,
scuota la terra, ovver di strage l’empia,
che dal contagio, o dalla guerra nascam,
Ei supplice lassù, pregando, il placa
____________
k Ricorre, invece di Spirito Santo (quasi una resa grafica del concetto di uno e trino), anche in opere in prosa dei secoli scorsi. Qui, però, la scelta era obbligata per motivi metrici.
l divino (S. Oronzo).
m Viene qui ripresa la concezione medioevale del Dio punitore con sciagure di ogni tipo.
  in tuo favore; e tu sicura osservi
da lungi il colpo dell’ultriceo destra
altrove con furor di già vibrato.
S’avvien che il Ciel da lungo tempo nieghi
l’umor vitalep alle tue piante e accorri
divota all’Ara a lui sacrata, tosto
benigno manda lor l’attesa pioggia.
Se mai le mandre del tuo gregge assalga
spiacevol morbo, che le uccida, basta
che tu le segni con fiducia ferma
del pingue umorq che dalle olive spremi,
che sempre arde in su’ onor presso l’Altare,
e in simil guisa ne riporti lieta
grazie, e favori allor, c’a lui ricorri.
Ma la parte miglior di questa gloria,
c’or dalla Terra al tuo gran Santo ascende,
è quella, che dal Regio onor diriva.
Il Re, accogliendo con pietoso affetto
l’Olio del Santo in auree Ampolle accolto,
che il provido tuo Padre  in don gli porse,
baciolle e in sacri accenti il labbro sciolse,
per onorarlo, in sì divote forme,
che degli Astantir umoris dagli occhi estrasse,
allor che parte del Sicaniot suolo
era di peste nel malore involta.
E a te si espresse, che se il mal seguisse
ad infestar questo bel Regno, il seno
 ____________
o vendicatrice
p la pioggia
q l’olio, simbolo della grazia divina (oleum divinae gratiae)
r presenti
s lacrime
t siciliano; i Sicani, insieme con i Siculi e gli Elimi errano antichi popoli della Sicilia.
  del tuo ricinto ad onorar verrebbe,
come di tanto mal sicuro asilo.
Or chi sa dunque se invitato e mosso
dall’innata pietà, che in lui risplende,
non porti il culto del tuo Santo dove
bagna il Betiu, la Vistolav e Garonnaw,
non che al vicin suo Regno di Trinacriax?
O chi sa ancor, che non l’avesse un giorno
per la Città Regale, ov’Ei dimora,
ad ottenere in suo Padrone, e Donnoy,
che ben può farlo? e sì a tal gloria aggiunga
gloria maggiore, a sè medesmo ancora?
Ma chi di sì bel fatto e sì bell’opra
ne porta il vanto? Egli è il tuo Padre, e Duce,
che ti governa, e regge. Il Duce, e Padre
è quegli, c’or da Sindaco presiede,
vegghiando in tuo vantaggio. Ei basta solo
che sia dal sangue Paladinz disceso,
per dir che sia di nobiltade adorno.
di generosi spirti, di prudenza,
di senno, di valore e di pietade.
Viva egli dunque il tuo gran Santo in Cielo.
Viva egli in Terra dentro il cuor di Tutti,
e nella lingua. Viva il tuo gran Rege,
che tanta gloria a Lui divoto accresce
e di tal gloria la cagion pur viva.
_____________ 
u Fiume della Spagna; da Baetis, nome latino del Guadalquivir.
v Il principale fiume della Polonia.
w Fiume della Francia.
x Sicilia. Trinacria è l’antico nome, dal greco τρινακρία (γῆ)=(terra) a tre punte.
y signore, dal latino dominu(m).
z La nobile famiglia Paladini, della quale parecchi rappresentanti eccelsero nelle armi (d’altra parte, con quel cognome, sembravano predestinati …)
  B
Sia principio il gran Carlo, e fine al canto
di nostre rime, o bei cignia d’Idumeb.
Da lui prendiam, nel dir, vigore e lume,
che largo spande oltre i confin del vanto.
Cantiam com’Ei, divoto al nostro Santoc,
renda più Santo il suo Regal costume,
poiché, qual fiamma, ch’altra fiamma allumed, accresce a sua pietà pietade ahi quanto!
Per ciò, benigno, a noi volgendo il petto,
le prove del suo amor ne ha rese contee.
Or quale onor può compensarlo appieno?
Escano a schiere dall’ondoso letto,
e ‘l Regio piè per noi gli bacin pronte
Ninfe e Tritonif onor del bel Tirreno.
____________  
a poeti
b Fiume leccese; vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/04/18/alle-fonti-dellidume-idronimo-inventato/
c S. Oronzo
d illumina; francesismo, da allumer.
e cognite, note.
f creature fantastiche, metà uomo e metà pesce.
  Passo ora ad IGNAZIO VIVA, integrando quanto già registrato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/11/gli-arcadi-di-terra-dotranto-ignazio-viva-di-lecce-11-x/
Alle  pagine 62 e 93 ii due sonetti (A e B) che seguono.
A
De’ più be’ fiori ornando il crine, e ‘l seno
surge il Sebetoa in fra gli eletti cori
dell’Almeb Ninfe e in mezzo alli splendori
di CARLO passa al mar lieto, e sereno.
Mira intorno le sponde del Tirreno
cinte di Palme, e di veraci Allori;
mira de’ Gigli d’oroc i nuovi onori
sul Po, la Dorad, e sulla Mosae e ‘l Renof.
Mira di CARLO il forte invitto Brando,
che strinse in sua difesa, e per suo vanto
là sul Tebrog in quel Giorno memorando.
Poi si riposa dolcemente a canto
(l’alte Ghirlande dell’Eroe membrandoh)
all’ombra del Reale inclitoi Manto.
 _____________
a Fiume di Napoli.
b che danno vita
c I tre gigli dello stemma.
d Nome generico di due affluenti del Po (Dora Baltea e Dora Riparia).
e Fiume che nasce in Francia e scorre attraverso il Belgio e i Paesi Bassi.
f Tra i più lunghi fiumi europei, attraversa sei stati (Svizzera, Liechtenstein, Austria, Germania, Francia, Paesi Bassi).
g Tevere, dal latino Tibri(m). Allude ai fatti primavera del 1736, quando una serie di gravi abusi commessi a Roma dagli arruolatori napoletani e la violenta reazione popolare portarono a un punto di rottura i rapporti con la Chiesa: ne seguirono l’espulsione del nunzio da Napoli e duri provvedimenti militari contro le popolazioni laziali dalle truppe spagnole di stanza nello Stato pontificio.
h illustre 
  B
A S. Eccellenza il Signor Marchese di Salasa
 Non perché in te, Signor, l’alto splendore
del Nome Illustre è di sè pago e degno,
sdegnar tu dei che ogni divoto ingegno
del nostro Idumeb offra il suo puro Amore.
Non giugnec, è ver, tanto alto un parco onore
del nostro umile Amor verace segno;
ma pur si appaga di un sincero pegno
di rispetto, e di fede il tuo gran Core.
Movesi il bel desiod che ne conduce
a spiegar l’opre eccelse e in van fa mostra
di giugnere là dove Virtù ti adduce.
Ma godiamo in pensar che l’età nostra,
or che di Astreaf tu sei la guida e il Duce
coll’età degli Eroi si agguaglia, e giostrag.  
___________ 
a Giuseppe Gioacchino di Montealegre, Segretario di Stato e di Guerra.
b Vedi la nota b al componimento B di Tommaso Perrone.
c giunge
d desiderio
e giungere
f Dea greca dell’innocenza e della purezza. Scesa sulla terra nell’età dell’oro, diffuse i sentimenti di bontà e di giustizia ma, disgustata dalla degenerazione morale del genere umano si rifugiò nelle campagne e sopraggiunta l’età del bronzo, scelse di ritornare in cielo dove oggi risplende nell’aspetto della costellazione della Vergine
g gareggia
Nella seconda parte passerò in rassegna gli arcadi salentini dei quali fino ad ora ignoravo l’esistenza, anche se, ribadisco, sarebbe stato opportuno che ben altre circostanze me ne avessero propiziato la “scoperta”. L’augurio è che, tra voglia di conoscere, tenacia, intuito, circostanze magari fortuite ma fortunate ben altri ricercatori giungano presto a conoscere completamente ed a consegnare, cancellandola, alle pagine della storia della medicina la minaccia che incombe.
CONTINUA)
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valentina-lauricella · 6 months ago
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Da "Quegli spirti...", trascrizione delle sedute medianiche del Gruppo Gastone De Boni, redatte da Renato Piergili, amico del medium, pittore e regista Demofilo Fidani.
Gino - L'armonia che noi vi abbiamo chiesta si riferisce a voi e tra voi, e non soltanto nei cinque minuti che ci sentite. Pensate che per arrivare al massimo, cioè per poter entrare in argomenti che tanto desiderereste, dovreste affinare tanto i vostri sentimenti da amare il prossimo più di voi stessi. Dovreste, malgrado le distanze che vi separano l'uno dall'altro, essere compatti come un unico essere, altrimenti vi dovrete accontentare di quanto vi si offre.
K. - Se io per esempio andassi a scassinare un negozio e poi mi presentassi qui pieno di armonia e di affetto verso i miei amici, secondo te sarei a posto e tutto andrebbe per il meglio?
Gino - Tu, avendo scassinato il negozio, ne rispondi verso te stesso, e se i tuoi amici del circolo non lo sanno, l'armonia non ne sarebbe turbata. Ne riparleremo meglio un'altra serata...
😆
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