#porte in legno bianche
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Living Room in Milan Inspiration for a mid-sized contemporary open concept dark wood floor and brown floor living room library remodel with beige walls and a media wall
#pavimento in parquet#soggiorno#library#mobili in legno#porte scorrevoli in vetro#divano#porte in legno bianche
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Ti sveglia piano, ti accompagna dal giorno alla notte: apri gli occhi, è l'amore a privarti del sonno. E lui è come un ventaglio che fa fresco, petali che si dischiudono e sbocciano, nell'intensità della vita: piangi per quanto è bella, per quanto la ami. Hai imparato tante cose, e una di queste è che l'amore è una rivoluzione che parte dagli occhi: si illuminano quando guardi la persona che ami, il cuore batte forte e lo senti, ma sai quando lo provi? Quando ti si chiudono le porte in faccia e allora ti sforzi e trovi i tuoi passi, trovi la tua strada e lo avverti nel vento che di botto ti scosta i capelli e gentilmente te lo fa vedere, quindi corri per sbranartelo e impari a sbranarlo quando sei da solo. Perché sei caduto così tante volte che, sei stanco di trovare mani che non assomigliano alle tue e che per appigliarsi e appigliarsi ti graffiano e lasciano un segno: alcune volte per stare meglio devi lasciare andare con tutto te stesso la vecchia immagine di te e di chi ti sta a cuore, scoprirai che è l'amore ad averti cambiato, ma non per lui, non per lei, per te stesso. E ti accorgerai, che non ti aspetta, che corre veloce, che molti di noi ne hanno paura, molti di noi lo fuggono per paura degli occhi dolci che si sciolgono, di capirlo ascoltando canzoni. Molti di noi dicono che è come una nevicata su dolci e bianche margherite: è pesante, è opprimente, è qualcosa che ti ruba le gambe, le mani e ti fa scarabbocchiare tramite carboncini e carezze, è qualcosa che lascia un vuoto, pesante come singhiozzi e solitudine ma, al tempo stesso, è qualcosa di tangibile, dove metti tutto te stesso e allora scopri che il tuo cuore e il tuo corpo danzando al chiaro di luna, come soldatini di legno, l'amore e la vita è in caricamento in corso secondo questa, è quella rarità che si concedono i fiori prima di diventare tali: semi spaccati. Per farti capire sono quel girasole che cerca la sua luce e non la luce, ma posso averla? O sarò spenta dal mondo come mozziconi di sigaretta? L'amore, saprò mai cos'è l'amore anche se lo cerco dentro me? Ho così tanta rabbia per i tempi andati da voler sia sbattere porte in faccia a chi non mi capisce, che sbuffare e sollevare un ciuffo bruno perché non posso fare niente con gli altri e la persona che sono, però so che l'amore ti rende migliore, ti rende una persona nuova, una persona che si ama e si fa il regalo di scoprire la vita, si fa il regalo di restare viva, e dio, vorrei fosse facile ma non lo è così tanto da voler dispensare parole, pareri, consigli, abbracci, affetto, disegnare quello che il mondo porta dentro. Scegliere l'amore, tu creatura che puoi vivere fallo, per me, scegli l'amore ogni volta che non ti scelgono, scegli l'amore ogni volta che sbagli e ti odi o ti incolpi, quando qualcosa va storto scegli l'amore, quando il mondo ti fa meravigliare scegli l'amore per essere amore, se avessi potuto avrei scelto l'amore, ma continua a sceglierlo, e ben presto sarai ciò che cerchi intensamente, specie se leggi le mie parole, sarai amore, come lo sono io per le carezze e le mani strette di mia nonna nei giorni di pioggia e ora sono tua. -Tua, Jetaime
Old but gold. E ancora oggi mi chiedo cosa sia davvero l'amore.
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È notte, buio completo. Sono "a casa" ma non nella " mia casa", è mia solo qui e appena mi alzo dal letto mi accorgo di non conoscerla e di non sapere dove sia l'ingresso eppure, in pochi passi, ci arrivo.
Le porte sono bianche scrostate e il pavimento è in legno ma non scricchiola. Uscendo mi trovo sotto la luce di un solo lampione ma nemmeno il giardino mi è noto, anche se è mio.
Dal buio sbuca un procione, piccolissimo eppure riesce a prendermi la mano tendendo la zampetta e correndo mi trascina al molo.
Salgo su una barchetta che è non ha forma di barca, è più una grande bara spaccata a metà e il procione si butta in acqua, si aggrappa alla mia strana imbarcazione e mi traghetta. Allontanandoci dal molo il buio si fa così fitto che pare entrare in un tunnel ed improvvisamente mi sento precipitare nel vuoto.
Mi sveglio nel mio letto, quello vero, e vedo il procione sulla porta della camera. Gli occhietti luccicano nella prima luce dell'alba e, anche se non parla, è come se mi esortasse a correre fuori con lui di nuovo.
Mi sveglio nel mio letto, sono le 3.18
Martedi
23 /03/21
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Cap.1
Anno 2064
Uno dei suoni piú fastidiosi nella vita dell’uomo è sicuramente quello della sveglia. Un suono acuto, incessante e capace di cambiare ritmo nella frazione di un secondo, un suono che ti obbliga ad aprire gli occhi e smettere di sognare, per cominciare a vivere un'altra giornata.
Ed è proprio per quel suono acuto che aprì un occhio e allungo la mano per fare cessare quel coso. Puntellò i gomiti sul materasso, si prese la testa tra le mani per poi farle scivolare sul viso. Si guardò intorno; la stanza, come al solito era in disordine; vestiti sparsi ovunque, ormai non si vedono più neanche i mobili. Solo il letto è salvo.
“devo dare una ripulita” pensò tristemente “se entra mamma sicuro le prende un infarto”
Ridacchiò al solo pensiero. ‘’Fortuna che abito da sola da un po’ ‘’.
Mi alzai a fatica, appendendomi letteralmente all’anta dell'armadio che avevo appena aperto. Vuoto. Completamente vuoto.
“devo ASSOLUTAMENTE mettere a posto” pensai. Con poca voglia iniziai a cercare i vestiti da mettere quel giorno. Dopodichè raggiunsi il bagno per la mia beauty routine quotidiana.
Mi guardai allo specchio.. “sembro uno zombie”.
Dopo essermi lavata la faccia passai la crema giorno sul viso... non tanto per mascherare chissà quale ruga “ho ancora 25 anni per Diana!” Ma perché nonostante l'acqua gelata sembra ancora che stia dormendo. Grazie alla crema il viso prese un po’ di elasticità. “Ecco, ora sembro piú o meno sveglia!”. E come tutti i giorni: passo l'eyeliner nero sui miei occhioni verdi e subito dopo il mascara; spazzolo i miei capelli rosa e mi lavo i denti.
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Esco dal bagno e mi dirigo in cucina. Di tutte le stanze di questo appartamento solo la camera da letto sembra un campo di battaglia, mentre le altre sembrano uscite dalla rivista “ikea”. Adoro pulire , e sono piuttosto brava, ma purtoppo ho l'abitudine di gettare vestiti a casaccio in camera “perché probabilmente dopo mi serviranno”.
Esco di casa vestita con camicetta smanicata bianca e gonna nera a vita alta. Indosso scarpe da ginnastica ai piedi e in mano (oltre alla pochette) ho un paio di scarpe con tacco 10. Apro lo sportello della macchina e mi dirigo a lavoro.
20 minuti di strada separano il mio appartamento dall’azienda, e pensare che manco ci speravo di finire a lavorare proprio lì.
Per un caso fortunato sono diventata la segretaria personale del direttore di “Suna™�� una delle poche (forse l'unica) ad avere il monopolio di apparecchi tecnologici. Telefoni, tv,computer, droni.. tutto quello che è tecnologico a all'avanguardia lo abbiamo fatto noi.. cioè lo hanno fatto loro. Lavorano sia per i cittadini che per le autorità. Ma per quest'ultima le tecnologie che usiamo sono riservate.
Ho conosciuto il direttore un anno fa ad un aperitivo in un locale in centro di Miami. Ci avevano scambiato gli aperitivi al bancone. E tra uno scambio di battute e un altro il giorno dopo ero nel suo ufficio per essere assunta come segretaria personale. Mi disse semplicemente che aveva bisogno di una persona con il mio carattere e la mia grinta. Io invece credo il contrario. Sono convinta che avesse bisogno di qualcuno che tenesse a freno la sua “mano lesta” ed evitasse che il suo matrimonio di finisse a rotoli. Non che non ci abbia provato, anzi! Dal primo secondo che misi piede in quell’ufficio lui azzardo per due volte di appoggiare la sua “mano di velluto” (cosí la chiama) sul mio fondoschiena. Ovviamente gli impedii di arrivare al suo scopo e al terzo tentativo gli minacciai di tagliargli la mano di netto con taglia carte che aveva sulla scrivania. Il giorno dopo avevo un contratto a tempo indeterminato e uno stipendio da fare girare la testa.
Parcheggio l'auto nei sotterranei, infilo i tacchi, lancio le scarpe dietro i sedili e prendo l'ascensore per salire al 20esimo piano.
Non è un palazzo altissimo, anzi si può dire che è uno dei più bassi qui, ma solo perché questa è una filiale che stava andando a rotoli e che il presidente (direttamente dal Giappone) ha deciso di tirarla su con le proprie mani. Il suo sogno e che questa sia una delle 3 aziende che gestirà uno dei suoi figli (uno per azienda). Ma è ancora indeciso a chi e quando lascerà le redini.
Anzi non so nemmeno quando parte per andare a trovare la sua famiglia. So solo che un giorno c’è e il giorno dopo no, con tanto di nota sulla scrivania “ci vediamo tra 2 settimane” ,lasciando l'intera azienda a me.
Molte volte vorrei ucciderlo .
Mi guardo allo specchio dell'ascensore per controllare che tutto sia a posto. Poi appena si aprono le porte mi dirigo in presidenza. In realtà avrei anche un ufficio tutto mio ma ci entro solo per far accomodare gli ospiti quando il capo è in riunione.
Durante quei pochi metri saluto i vari dipendenti calorosamente. All'inizio sembravano tutti schivi ma dopo appena due giorni ho capito che in realtà sono buoni ed ottimi impegnati. È solo la Mattina che è traumatica.
Anche i nostri uffici non sono enormi. Anzi azzardei a dire che sono anche piuttosto piccoli. Ma siamo pochi ed è anche giusto così. Solo noi dipendenti in ufficio saremo una 20ina. Se poi messi insieme agli operai nell'azienda di fianco, camionisti, sotto segretari e altri dipendenti non raggiungiamo nemmeno le 400persone.
Busso alla porta del direttore. Una porta di legno chiaro, quasi bianco e ai lati gigantesche finestre. Le sottili tapparelle bianche sono abbassate, probabilmente il capo è già arrivato ha iniziato già a lavorare. Mi sono sempre chiesta a che ora arrivasse, e non solo io. Alcuni dicono che dorma direttamente lì. In effetti nessuno l'ha mai visto uscire.
Non aspetto risposta e apro subito la porta. Il capo è seduto dietro la scrivania. Il gigantesco pc acceso con minimo 10 pagine aperte e una marea di fogli sparsi nella scrivania.
-buon giorno signor Rasa-
Sentendosi chiamare alza la testa e mi sorride.
Devo ammettere che è comunque un bell'uomo nonostante abbia 52 anni suonati. Capelli corti color nocciola, occhi dal taglio orientale (tipico dei giapponesi) scuri, sguardo freddo. Non molto alto ma ha un fisico asciutto, quasi atletico. Tutto quello che indossa gli sta divinamente. Intelligente, buon osservatore, gran oratore e soprattutto innato senso per gli affari. Unico difetto: l'oro.
Con se porta sempre una boccettina di oro in polvere al collo che usa a suo piacimento. Come? Forza di volontà. Basta anche un solo pensiero che la boccetta di stappa da sola e la polverina esce, finendo per essere praticamente il suo terzo braccio.
-buon giorno signorina Tsundere- ecco ci risiamo.
-Haruno, Sakura Haruno per favore- lo imploro. Da quando l'ho minacciato mi ha soprannominato “tsundere”. Dice che si adatta perfettamente al mio “carattere”
Di fianco al capo c’è il suo fedele amico e consigliere personale Baki. Sicuramente di ritorno dal Giappone per qualche altro progetto top secret.
Saluto anche lui con il mio solito sorriso. Lui al contrario di Rasa, non risponde. Si limita ad alzare la testa e a fissarmi per qualche secondo per poi tornare sui documenti che ha in mano.
Mi manda in bestia quando fa così! Dannato pelato chi ti credi di essere?! Gli tirerei volentieri uno schiaffo in quella testa pelata e perfettamente lucida solo per sentirne il suono!
Anche lui stessa età del sig. Rasa, ma con degli strani tatuaggi sotto gli occhi. Carnagione scura. Sembra abbronzato tutto l'anno. E soprattutto è pelato. Fisico molto più palestrato del capo, ex generale della difesa militare iraniana. Nonostante siano passati davvero troppi anni da quando ha lasciato il servizio militare, continua ad avere lo stesso carattere e portamento. Sembra sempre che sia pronto per la guerra.
Decido di ignorare questo atteggiamento e mi avvicino alla scrivania.
-c'è un sacco di lavoro oggi, Tsundere , dobbiamo preparare tutto per l'arrivo di mio figlio!-
Da un mese a questa parte sembra che Rasa si sia deciso di lasciare le redini ad uno dei suoi figli maschi. La figlia femmina ha già avuto la sua azienda vicino a quella del padre. “per tenerla sotto controllo” mi disse una volta.
-certo, dove devo cominciare?-
Rasa mi porge alcuni documenti e inizia a farmi l'elenco di email da spedire, documenti da fotocopiare e altre pratiche burocratiche che lui ovviamente non ha la minima voglia di affrontare.
-ah e oltre a questo dovresti organizzare una riunione aziendale per questo venerdì. Voglio tutti quanti, comunicherò loro che lascerò l'azienda a mio figlio e che da qui ad un mese ci saranno cambiamenti-
-quindi avete già deciso a chi lasciarla?-
- no, sono ancora indeciso. Tutte e due sono degli ottimi candidati- mi dice appoggiando il mento sul palmo sinistro. Questa cosa lo sta letteralmente affaticando.
-capisco. Se sono così bravi sarà difficile poiché questa azienda è una delle più piccole e quella che ha avuto più difficoltà nell'ultimo periodo-
Prendo i fogli che Baki mi sta “gentilmente” porgendo.
-no questa azienda vale più di quelle che abbiamo, ed è proprio per questo che il sig. Sabaku ha bisogno di ponderare bene le sue scelte. Sono due ragazzi formidabili, ma ci vuole polso e un innato senso degli affari per mandarla avanti-
Ha parlato finalmente! Ovvio non sono le parole più dolci, anzi sento il tono acido e schifito, ma almeno mi ha rivolto la parola!
-qualsiasi cosa deciderò lei rimarrà la segretaria personale del futuro presidente, non si preoccupi. Ah e prima che inizi il suo lavoro potrebbe portarmi un caffè? Lo vuoi anche tu Baki?- chiede Rasa volgendo lo sguardo dolce prima su di me e poi sul suo amico. Se non fosse felicemente sposato ci avrei fatto un pensierino..
-macchiato freddo-
Finisco di raccogliere i documenti e lascio la stanza. Poi svolto a destra e mi dirigo nel mio piccolissimo ufficio. Nessun tocco personale. Pareti bianche, una pianta verde, finestra gigante che da sulla strada, una scrivania di legno chiaro e uno scaffale piccolo sempre dello stesso colore. Appoggio i documenti sulla scrivania e mi cade l'occhio sull'unica foto che ho. La prendo tra le mani e la bacio. È la foto dei miei genitori al loro 25 esimo anniversario di matrimonio. Si sposarono quando mia madre era al sesto mese di gravidanza. Ripenso a quando mi manchino e decido che quella sera gli averi chiamati… chissà se non uscivo troppo tardi gli avrei portati in un ristorantino per una cena un famiglia. Lascio la foto e prendo la cornetta del telefono. Digito il numero del barista difronte all’ufficio. Intanto che squilla il telefono accendo il mio pc e digito la mia password. Dall'altra parte del telefono mi risponde il famoso barista. Ordino tre caffè e un croissant ai frutti di bosco e riaggancio. Ovviamente il terzo caffè e per me. Lo faccio ogni mattina e al capo non dà nessun fastidio .. ci mancherebbe, A volte salto il pranzo per stagli dietro!
Inizio così la mia giornata, corro a destra e sinistra, organizzo riunioni, colloqui di lavoro, scorto il capo in tutto lo stabile e in quello a fianco per vedere i lavori come procedono, salto anche oggi il pranzo, riunioni, ancora riunioni, documenti, fax, riunioni e finalmente arriva la sera.
Dopo tutto quel via vai ho le gambe a pezzi, una fame da lupi e mi sento leggermente nervosa. Guardo l'orologio. Anche oggi ho fatto le 21.30. sono troppo stanca per mangiare fuori. Magari chiamo i miei solo per sentirli. E poi mi vado a prendere un pezzo di pizza prima di collassare sul divano.
Prendo il cellulare dalla borsa che ho abbandonato sta mattina in ufficio. 10 messaggi
Due di papá che mi avvisa che per alcuni giorni non ci saranno, pubblicita e una di Ino. Ino è l’unica ragazza con cui mi sono legata durante la settimana di work shop in Giappone con il mio capo. Lei lavora in un’altra azienda, fa la contabile all'Uchiha Group. Questa azienda diversamente dalla nostra si occupa di farmaceutica. Si occupano di trovare una soluzione agli effetti collaterali della famosa tempesta solare accaduta vent’anni fa.
“da gradi poteri derivano grandi responsabilità”. Penso tristemente. Quasi tutti i miei compagni avevano sviluppato qualche sorta di potere, mentre io niente. Mi sarebbe piaciuto averne uno, anche piccolo.
Non si sa in che modo questi poteri si manifestino, ne come o cosa sono. C’è a chi sono spuntate orecchie e artigli, c’è chi ha preso padronanza dell'arte bianca o nera, chi può avere il mondo delle ombre ai suoi piedi ( la parte oscura dell'essere umano) e chi il suo contrario. Si dice che oltre a questi poteri siano usciti anche creature, chi dice demoni e chi spiriti, che sono stati “ospitati” controvoglia da ragazzini innocenti. 9 sono i ragazzini ma solo i capi delle nazioni sanno chi sono. Sono ragazzini che hanno una forza e un potere incredibile, capaci di controllare il mondo e di sottometterlo ai propri piedi. Nessuno sa chi siano, ne che volto abbiano. E spero vivamente di non incontrare uno. So solo che alcuni di questi sono stati brutalmente uccisi ,chi per smania di potere e chi invece per paura.
Mi riscuoto da questi cupi pensieri e decido di rispondere alla mia amica. Mi ha invitato ad un piccolo party in un locale poco lontano da casa, ma sono troppo stanca per poter andare. Raccolgo le mie poche cose e mi dirigo nell’ufficio di Rasa per dargli la buona notte.
Busso piano questa volta e mi affaccio. Rasa è ancora la computer, intento a scrivere. Silenziosamente entro e mi schiarisco la voce.
Lui mi guarda, si toglie gli occhiali da vista e mi fa cenno di avvicinarmi alla scrivania. Faccio come mi dice mettendomi di fronte. Non vorrei mai che gli passasse in testa di regalarmi una carezza con la sua “mano di velluto”. Sorride a questo mio gesto. Si, sicuramente e quello che voleva fare.
Mi guarda intensamente negli occhi e vedo delle sottili occhiaie. Deve essere molto stanco.
Appoggia i gomiti sulla scrivania e congiunge le mani come in preghiera.
Sta altri 10 secondi in questa posizione e poi sospira. Si stende sullo schienale della sedia e punta il suo sguardo in alto
-venerdí presenterò i miei figli a tutti-
Mi dice sempre guardando in alto
-avranno un mese di tempo per stupirmi. Ognuno di loro guiderà l'azienda per due settimane. A fine mese sceglierò chi far rimanere- stacca Gli occhi dal soffitto e li punta su di me. Sento un brivido lungo la schiena. È serio. Dannatamente serio.
-voglio che tu sia a disposizione di entrambi. Sarai la loro guida. Aiuterai entrambi a dare il meglio e illustrerai loro come funziona. In questo mese dovrei occuparti di cose un po’ più delicate- marca la voce sull'ultima frase. So dove vuole arrivare. Dovrò occuparmi di questioni riservate tra loro e lo stato americano. Inizio a sudare freddo solo all'idea. Non posso fare passi falsi. Non solo verrei licenziata in tronco ma scatenerei una guerra che sarà difficile da sedare.
-ne siete sicuro?- chiedo
-si. In questo anno hai dimostrato di avere polso e grinta. Vedi come me anche i ragazzi sono stati colpiti da quella famosa tempesta. Io allora ero sposato da pochi anni e il più grande aveva 5 anni, mentre il più piccolo era solo un piccolo puntino nel ventre di mia moglie- Perdo un battito. Quindi anche loro sono potenzialmente pericolosi?
-non posso lasciare che Baki si occupi anche di loro due.Ormai è troppo vecchio per farlo- una piccola risata esce dalla sua bocca, ma è amara
-sará solo per questo breve periodo. Dopo di che, appena avrò scelto , tornerà a fare quello che faceva prima, o quasi. Resterà al fianco del ragazzo anche nelle questioni delicate. Voglio che diventi come un secondo Baki per intenderci-
-cinico e con un senso dell’umorismo pari a zero?- dico per sdrammatizzare
-no no assolutamente.- abbozza un altro sorriso
-voglio che sia fedele e decida come Baki. Che supporti mio figlio in tutto anche se l'azienda disgraziatamente dovesse cedere. Peró non si preoccupi. Ci terremo strettamente in contatto. Per qualsiasi cosa potrà chiamarmi.- mi porge un bigliettino con il suo numero privato. Perdo un altro battito. Come ho fatto ad arrivare fin qui?
-mi raccomando, acqua in bocca fino a venerdì-
-non si preoccupi, è un buone mani-.
Resto altri cinque minuti per i convenevoli, poi esco dall’ufficio e mi dirigo in ascensore. Lo prendo e scendo nei sotterranei. Appena le porte si aprono avanzo verso la mia auto, ma qualcosa attira la mia attenzione. Una macchina, una Mercedes nera, si è appena fermata. Continuando a camminare mi accorgo con la coda dell’occhio che qualcuno sta scendendo. Mi fermo davanti la portiera della mia auto, prendo le chiavi e istintivamente alzo la testa. Guardo la persona appena scesa, è un uomo. Alto 1.80 credo. Mocassini ai piedi, jeans scuri e maglietta a collo alto fasciano perfettamente il suo corpo. Poi il mio sguardo si posa sul suo. Anche lui mi sta fissando. Un brivido percorre tutto il mio corpo. Carnagione non troppo chiara, labbra e naso perfetti. Capelli rossi come il fuoco, leggermente arruffati , bellissimo. Ma sono i suoi occhi a lasciarmi senza fiato. Dei bellissimi occhi verde-acqua, contornati da una matita nera spessa. Sopra gli occhi ha un tatuaggio che non riesco ad identificare. Continuo a fissarlo e lui pure. Il suo sguardo freddo e serio mi intimorisce ma per qualche strana ragione sento le guance in fiamme. “wow” non riesco a pensare ad altro. Poi lui si gira e inizia ad incamminarsi verso l'ascensore. Io inserisco le chiavi nella portiera della mia peugeot, salgo, metto in moto ed esco dal parcheggio.
Compro del cibo in un fast food e torno a casa. come un automa apro la porta e senza troppi preamboli mi scaravento sul divano. Accendo la TV e inizio a mangiare. L'immagine di quell'uomo è ancora nella mia mente. Decido così di scacciare via quella bellissima immagine dalla mia testa e di tentare di dormire. Prima di chiudere gli occhi ed abbandonarmi a Morfeo mando un messaggio ai miei genitori. Dopo di che ripenso a tutto quello che era successo durante il giorno.
“Sarà un mese impegnativo. Spero di esserne all'altezza”. L'ansia inizia a salire, la sento. Mi guardo intorno e scorgo la boccetta di Xanax sul tavolino. La prendo, verso qualche goccia in un bicchiere con un dito d'acqua e bevo. Forse quella notte sarei riuscita a dormire serenamente. Dopo poco le gocce iniziano a fare effetto e piano piano sento le palpebre appesantirsi. Finalmente mi addormento con l'unico pensiero che mi sarebbe piaciuto incontrare ancora quell’uomo.
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La prima collega con cui parlai al telefono, qui nell’ufficio svizzero, fu Ramona. Ramona fu anche la persona che mi aprì la porta quando venni a fare il colloquio, e colei che mi aiutò nel gestire tutta la burocrazia. Ramona è una signora sulla 60ina, dai fianchi ammorbiditi dall’età e dai seni grandi, coi capelli tagliati corti e senza trucco, senza marito, fidanzato e senza figli, sempre vestita con gonne troppo lunghe e golfini di colori sgargianti e bottoni decor. Vive in un paesino sulle montagne di 60 anime, di quei paesini che per arrivarci la strada è stretta e tutta tornanti, e a ogni curva è buona norma suonare il clacson affinchè ti sentano, e se sei un passeggero è meglio non guardare mai giù, ma solo in alto, nell’infinito pezzo di cielo ritagliato tra i profili delle montagne. Ramona vive in una piccola casa/pensione in cima a una salita, su una scarpata ripida, e vive nella stessa casa insieme con la sorella, il cognato e un cane nero e arruffato fatto di fibre di paura di nome Mokka, che altro non fa che abbaiare per timore di tutto. La casa ha due porte e finestre piccole, tutte decorate con piccole tendine bianche di macramè, gerani rossi e fiori vari, piccole sculture di legno e frutta secca. L’interno è tutto in legno, con un vecchio televisore e libri di cucina unti e consunti, vecchi adesivi, quadri sbiaditi che richiamano a quando la pensione veniva visitata spesso da viandanti in giro per i monti. Lassù la luce va via davvero tardi e la visione delle montagne e dei prati verdi è davvero qualcosa che riuscirebbe a ingentilire anche i cuori più incartapecoriti. Infatti, nemmeno a farlo apposta, i cuori di questa famiglia sono tra i più gentili che io abbia mai conosciuto. In soli 4 mesi Ramona mi ha invitato a pranzo a casa sua 3 volte (anche di più, ma quasi sempre io avevo il pranzo con me e dovevo declinare). Mi hanno rimpinzato con le cose più buone, dai pizzoccheri allo stufato al dolce, vino e caffè, facendomi sentire a casa, io, che a casa difficilmente mi sento mai perchè ormai è sparsa in tanti pezzettini. Sempre con il sorriso, sempre con gioia, sempre davvero sinceramente felici che io andassi lì, in quella casetta sul bordo della montagna che sembra una cartolina, a raccontare dei miei viaggi e ad ascoltare le loro vite, belle e semplici così.
Ieri sono andata a pranzo a casa loro per l’ultima volta, ho portato i fiori e il vino, ho mangiato la polenta e lo stufato di cervo, i broccoli, l’insalata, le pere cotte con il cioccolato e il gelato alla vaniglia, e anche il caffè. Ma soprattutto, ho ricevuto degli abbracci talmente calorosi da farmi rendere conto che ero mesi senza ricevere un abbraccio così: un abbraccio da mamma, da nonna, da zia e da sorella, da “torna quando vuoi, noi ti aspettiamo”. Ho ricambiato con tutta me stessa, con quella leggera malinconia nel cuore di quando si è consapevoli di lasciare qualcosa di speciale, lassù, nelle montagne, e non avere idea se mai si riuscirà nel tornare a riprenderlo.
Casa in fondo è questo, nulla di più.
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A casa con Hammershøi
Ordrupgaard Charlottenlund 4 Marzo - 7 Agosto 2016
Il nome "Hammershøi" è indissolubilmente legato a Strandgade 30, l'appartamento a Christianshavn dove l'artista visse con sua moglie dal 1898 al 1909 e dove si sviluppò nel magistrale pittore di interni che conosciamo oggi.
La mostra offre un'opportunità unica per esplorare l'ambiente in cui sono state create alcune delle opere più famose della storia dell'arte danese.
A Christianshavn, Vilhelm Hammershøi ha scelto di vivere con pareti bianchissime, legno chiaro e alcuni mobili di pregio, in silenziosa protesta contro il sovraffollato stile vittoriano. Qui ha vissuto e dipinto. Non aveva uno studio ma lavorava a casa, dove la luce dell'appartamento, le sue linee e gli interni erano per lui un'ispirazione - anzi, quasi un'ossessione. Di volta in volta ha raffigurato le finestre e le porte bianche mentre sedie, tavoli e sua moglie Ida, con le spalle girate, fungevano anche da motivi.
Sebbene Hammershøi abbia dipinto la sua casa, i suoi dipinti, contrariamente alla tendenza del tempo, non trattavano delle gioie della vita domestica. Al contrario, le sottili sfumature di grigio evocano spazi enigmatici dove prevalgono solitudine e vuoto. Il tempo si ferma e si apre un altro mondo, quasi irreale.
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RISING UPSIDE DOWN 2/3
[FIC] RISING UPSIDE DOWN: metà [2/3] he tian x mo guan shan - autore: @agapaic tags/note: angst, linguaggio scurrile, allusioni sessuali, baci non consensuali; inspirato da “Rising Upside Down” dei SYML, da quest'opera d'arte commissionata a @robnemmon, e da una conversazione con @19daysruinedmylife. trama: Jian Yi scompare il secondo giorno di liceo. Come farà He Tian a dire a Guan Shan che sta partendo anche lui? links: parte uno | leggi su ao3 (in inglese)
Non essere come me, ragazzo. Non diventare come me. Non ti innamorare. Guan Shan si era accigliato a quell'ultima frase, perplesso, non capendo. La mamma? aveva chiesto. La mamma ti ha fatto finire qui? E suo padre aveva riso, triste e lento. Aveva scosso la testa. Nah, ragazzo. Nah, tua madre è… Sii buono con lei. Prenditi cura di lei per me. Ma non ti innamorare. Ti distruggeranno se lo farai.
Due anni. Il secondo anno di superiori, e il quinto errore di Guan Shan in molti mesi. L'ora di punta, la metropolitana era insostenibile, Guan Shan aveva la maglia dell'uniforme scolastica incollata alla schiena. Prese una boccata d'aria e, ributtandola fuori mentre la folla scorreva, si bloccò, ebbe una visuale diretta ed improvvisa del fondo del vagone. I suoi occhi ingoiarono quella visione in un sol boccone: una testa scura. Spalle larghe. Quel modo arrogante di stare appoggiato contro le porte della carrozza del treno, giacca di pelle, zaino appeso su una spalla. Auricolari.
Guan Shan non ricordava di essersi alzato dal sedile. La borsa gli stava già sbattendo contro le scapole mentre si faceva largo fra lo sciame di ragazzi in uniforme scolastica e uomini e donne in abiti da ufficio, valigette e zaini a sbarrargli la strada, il manubrio di una bicicletta a urtargli lo stinco, una valigia da mettere via dai piedi. Troppo presto, il treno stava già ondeggiando, un oscillare di corpi, e le porte ancora aperte. Una voce monotona agli altoparlanti. Guan Shan si guardò intorno frenetico. Era la sua—? Non era la sua fermata. Ne mancavano tre. Si girò a guardare. Stavano andando via. Scivolando attraverso le porte, una cornice scura che conduceva giù alla piattaforma metropolitana. Guan Shan doveva scendere. Si fece strada col cuore in gola, raggiungendo la piattaforma appena in tempo prima che le porte si chiudessero e che il treno scivolasse via, giù per la galleria. Distratto, si rese conto che sarebbe tornato in ritardo a casa quella sera— e avrebbe dovuto inventare una qualche scusa che avrebbe acceso una luce di preoccupazione negli occhi di sua madre, una debole fiamma che a causa sua non si sarebbe mai estinta completamente. Era consapevole della propria pelle, improvvisamente febbrile e pesante sulle ossa, una specie di divisa troppo stretta, fuori luogo. I suoi piedi lo portarono giù sulla piattaforma, su per la stretta rampa di scale e fuori nella strada cotta dal sole, inciampava sui suoi stessi passi mentre la sua testa si muoveva irregolarmente. Guan Shan li vide di nuovo, camminavano veloci ed erano a miglia di distanza. Iniziò a correre. Resistette alle parole che gli lanciavano contro mentre proseguiva, sbandando, ricevendo spintoni per i quali una volta avrebbe litigato, senza scuse sulle labbra—e poi furono a distanza ravvicinata, e Guan Shan tirò una mano avanti, afferrò un pugno di cuoio PVC, osservò quel corpo girarsi e— Non era lui. Gli occhi erano più chiari. La pelle troppo pallida. La bocca sbagliata. Il naso lungo, quella mascella sulla quale Guan Shan aveva fatto scorrere le dita insicure, la gola sulla quale Guan Shan aveva premuto la bocca mille volte due estati fa e— Non era lui. "Che cazzo, amico?" disse il ragazzo, togliendosi un auricolare. La sua voce non era profonda e graffiata dal fumo. Non c'era nessuno sguardo di pigra derisione. O di divertita superiorità. Nessuna scintilla di quella tenerezza che Guan Shan sapeva essere solo per lui. Solo irritazione. Uno sguardo sconosciuto. Erano estranei l'uno all'altro. "Pensavo che��� pensavo fossi qualcun altro," biascicò Guan Shan. E poi, visto che doveva, "Scusa, ho... ho... sbagliato." "Come vuoi," sputò fuori il ragazzo, scrollandosi dalla stretta di Guan Shan. Guan Shan lasciò andare la giacca, indietreggiò mentre quello si sistemava e si rimetteva l'auricolare con sguardo torvo, e ricominciava a camminare per la strada. Guan Shan stette fermo in piedi, le mani molli ai suoi fianchi, il traffico di fine giornata e i pedoni che sciamavano intorno a lui. Si accorse solo ora che aveva la stessa altezza del ragazzo, mentre He Tian era più alto; He Tian non si sarebbe mai tagliato i capelli in quel modo. He Tian non avrebbe mai preso la metro se non quando era con Guan Shan. E He Tian avrebbe dovuto avere diciassette anni ormai, quasi diciotto. Più alto, robusto. Più grande. I lineamenti più seri. Impossibile da immaginare, per due ragioni: impossibile che He Tian possa esserlo di più rispetto a quell'ultima notte—insegne al neon e l'alba rosa e gli uccelli che cinguettavano alle 5 del mattino, i capelli scompigliati e gli occhiali coi bordi spessi e neri. Quel sorriso. Impossibile che Guan Shan possa aver confuso un qualche sconosciuto— che non reggeva il paragone in nessun modo— per lui. Guan Shan si fece scorrere le mani tra i capelli, tagliati corti, come sempre. Cacciò fuori dai polmoni un rapido sospiro. Due anni. Ed era ancora disperato. Sperava ancora. Fottuto idiota.
A: Zhan Zhengxi | Inviato alle 18:54 credevo di averlo visto per strada 5 volta in 5mesi..
Da: Zhan Zhengxi | Ricevuto alle 18:55 Neanche io ho smesso di farlo. Non so se sia meglio o peggio il fatto che non ci sono molti ragazzi biondi in Cina...
A: Zhan Zhengxi | Inviato alle 18:57 meglio xk nn ti succede così spesso peggio xk la probabilità che sia jy e' 10volte più alta(o più bassa?) Da: Zhan Zhengxi | Ricevuto alle 19:30 Forse. Da: Zhan Zhengxi | Ricevuto alle 03:21 Domanda: se He Tian tornasse adesso, e si presentasse alla tua porta, lo lasceresti entrare di nuovo? Senza fare domande?
A: Zhan Zhengxi | Inviato alle 03:42 quando se n è andato ha detto che sapeva che l avrei aspettato snz nemmeno chiedermelo - sia che me l'avesse detto o no
Da: Zhan Zhengxi | Ricevuto alle 03:45 … E' un si'?
To: Zhan Zhengxi | Sent 03:50 risposta: tu checazzo ne dici?
Ti distruggeranno se lo farai. Loro. Non una persona. Non un gruppo o un'organizzazione. Non era di questo che parlava il padre di Guan Shan. Anni di ricerche e risultati internet e ritagli di giornali avevano detto a Guan Shan che potevano esserci dei ‘loro’, una qualche gang illegale con una brutta reputazione. Uomini con le piastrine al collo e fin troppi tatuaggi e i denti macchiati di tabacco. Doveva ricordarsi che c'era un motivo se suo padre era andato in prigione. Ma quelli, non importa chi fossero—o in che modo avessero rovinato suo padre—non erano i "loro" di cui il padre di Guan Shan parlava da dietro lo schermo delle visite. La plastica era graffiata e incrinata e macchiata di impronte oleose. Il padre di Guan Shan teneva in mano la cornetta di un telefono sudicio, stretto in una presa dalle nocche bianche. Un mese dentro e suo padre già sembrava più vecchio, rughe sul suo volto, i capelli corti a spazzola, sulla sua guancia un taglio mezzo guarito che si sarebbe cicatrizzato. Non era mai stato un tipo filosofico. Non usava più parole di quante gliene servissero, le usava come una risorsa finita e come se non avesse abbastanza soldi per comprarne di più. Dava valore al silenzio, e al duro lavoro, e a quel genere di determinazione affilata, pungente. Guan Shan sapeva com'era quella determinazione—ne aveva preso la forma, ci era cresciuto dentro, era stata la sua casa prima di ogni altra casa. Di ogni altra persona. La porta di camera sua era aperta, bloccava il solito percorso che i suoi pensieri avrebbero imboccato, la luce entrava dalla fessura. L'ombra di sua madre ostacolò la luce che veniva dal corridoio. "Dormi?" sussurrò. Guan Shan premette la guancia più a fondo nel cuscino, e si strinse le spalle nelle lenzuola. "Non ci riesco," disse, la voce roca. Lei si chiuse la porta alle spalle. Cadde di nuovo il buio, la luce della Xbox lampeggiava, il cellualre si illuminava a scatti per i messaggi dei gruppi che stava ignorando, inviati da persone di cui non gli importava, che parlavano di cose di cui non gliene fotteva un cazzo. L'insegna di Billboard splendeva dietro il velo sottile della sua tenda. Un'altra notte di buio-non-proprio-buio. He Tian aveva le imposte completamente oscuranti nel suo appartamento. Guan Shan non avrebbe voluto dormire in nessun posto se non lì; l'ultima notte non interrotta dalla luce o dall'elettricità era stata quando c'era ancora lui. Si ricordava di essersi svegliato nel nulla, essere andato a tentoni per trovare l'interruttore, aver sbattuto le palpebre per guardare He Tian nella fioca luce della lampada. Lui era seduto con la schiena contro il muro—niente testeira—con una sigaretta accesa e un sorriso oscuro, a petto nudo, mentre Guan Shan dormiva sul suo lato, quello che di solito era lasciato vuoto. "Non dormi?" aveva chiesto. "Mi conosci." Sì, Guan Shan lo conosceva. Lo aveva guardato con la vista appannata, la sigaretta spenta, entrando e uscendo dal dormiveglia, finché qualche movimento di He Tian non lo aveva svegliato del tutto. "Andiamo," aveva detto He Tian. "Ho bisogno di camminare." Uno sguardo all'orologio. Un grugnito. "Merda, sono le quattro del mattino." "Andiamo." Andarono. Ora, le ciabatte di sua madre strisciavano piano sul pavimento di legno duro. Il letto affondò leggermente sotto il loro peso. Riusciva a sentire il suo profumo, leggero e floreale, e il sottostante odore di disinfettante dell'ospedale. "Okay?" disse lei, piano. "Nervoso per domani?" L'inizio del suo terzo e ultimo anno di scuola superiore. Se n'era dimenticato. "Hngh." "Convincente," osservò lei. Non disse niente. Lo sgaurdo di lei era pesante, e Guan Shan si sentiva scosso da esso. Lui conosceva bene i suoi silenzi—incerti e pesanti con una specie di energia nervosa. Così abituata alla calma del marito. Così abituata all'irascibiltà di Guan Shan, ai suoi modi bruschi. Una rabbia che era come mettere una mano su un fornello acceso. "Non è colpa tua", borbottò. "Cosa c'è che non va?" mormorò lei, una mano sulla sua spalla. "Sai che di solito non te lo chiederei." Se la scrollò di dosso. "Non c'è niente." "Non mi piace quando mi dici bugie." Guan Shan disse, "Non mi piace quando ti preoccupi per me." "Ci tengo a te e ti voglio bene. Se non mi preoccupo io per te, chi lo farà?" "Porca puttana," borbottò, tirando via le lenzuola, mettendosi seduto fino ad abbracciarsi le ginocchia. C'era un'aria soffocante in camera sua, l'estate premeva di nuovo sulla città, niente aria condizionata nel loro piccolo appartamento. Troppo caldo per questo tipo di discorsi. Troppo simile a quella notte in cui He Tian era andato via, alcuni ricordi infiniti in replay—calore sulle spalle nude di Guan Shan, un braccio pesante come coperta, il silenzio delle strade, elettricità carica e ronzante nei cavi della tensione. Guan Shan fece scorrere una mano tra i capelli. Stavano crescendo, ma non erano ancora abbastanza da riempirsene un pugno. Non abbastanza da pungere. "Shan Shan—" "Ho detto che sto bene, Mamma. Possiamo solo–non." Disse, "Ti prego." La schiena di sua madre era diritta. Teneva le mani chiuse in grembo, lo sguardo fisso sulla porta. "C'era un periodo," disse, "alla fine della scuola media. Le cose sembravano essere diverse per te. Migliori. Da quando tuo padre—" "Non parlare di lui. Non farlo e basta." Lei continuò: "Quando se ne andò, pensavo che fosse quello. Eri così infelice e arrabbiato e, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a capire dove avevo sbagliato." Guan Shan raccolse le lenzuola nei pugni, le unghie mangiucchiate delle mani premevano sui palmi. Odiava quando sua madre parlava in quel modo—autocritica e piena di dubbi, pensieri detti ad alta voce. Cazzo, non riusciva a vedere che lei non c'entrava niente in tutto questo? "In niente," borbottò. Il cuore gli batteva forte nel petto. Se lo sentiva in gola. "A meno che non pensi che sia io a essere sbagliato." "Mai." "Allora—" "Eri migliorato, Shan Shan. Eri felice. Pensavo che forse era l'età. Che avevi avuto tempo a sufficienza. Che i tuoi amici ti avessero fatto uscire dal guscio in cui ti eri chiuso. E poi è iniziata la scuola superiore, e fino a ora sei stato... sei stato..." "Cosa," disse Guan Shan. "Cosa sono stato." "Quel ragazzo—She Li—ti sta dando di nuovo fastidio?" Guan Shan le lanciò un'occhiata. "Non c'entra niente—" "Mi ricordo quando He Tian veniva e—" "Non parlare di lui, Mamma—" Lei si alzò in piedi, una silhouette scura nella sua stanza. Sentiva il suo sguardo su di lui, preoccupato e confuso e arrabbiato. Perché quella rabbia non era mai stata di suo padre, e non era mai stata interamente sua. Se Guan Shan era un falò, sua madre era stata quella che aveva appiccato il fuoco. "Non parlare di tuo padre," declamò lei. "Non parlare di He Tian. C'è qualcuno di cui posso parlare? Posso parlare almeno con te?" La faccia di Guan Shan andò in frantumi. "E perché vorresti parlare con me? Sono una tale delusione per te." "Del—" Prese un respiro, lo fece fischiare tra i denti. "Perché dici una cosa del genere? Ti rendi conto di quanto sia doloroso per me sentirti dire così?" D'un tratto, si prese la testa tra le mani, le spalle piccole, arrotondate e curve. I secondi passavano, fermi e silenziosi. Era opprimente. Guan Shan voleva uscire; voleva che lei se ne andasse. Forse era così che si sentiva He Tian, irritabile e insonne e sempre sveglio. Andiamo, diceva. Una mano in fuori, palmo verso l'alto, pronta per essere presa da quella di Guan Shan. Perché non poteva essere lì ad offrirgliela, adesso? Perché cazzo non gli stava proponendo di scappare ora che Guan Shan ne aveva bisogno? "Non mangi," sussurrò sua madre. "A malapena dormi. Non venirmi a raccontare che hai gli occhi rossi perché fumi, perché so che non lo sopporti, e a volte sei proprio come lui, quindi lo so se hai pianto." Guan Shan serrò la mascella. Se nominava papà ancora una volta... "Ci provo," sputò fuori. "Cazzo, ti giuro che ci provo—" "Cos'è successo?" chiese. Si buttò come se non riuscisse a trattenersi. Come se Guan Shan le avesse concesso un'opportunità e se lei non l'avesse presa ora, non avrebbe mai più potuto. "Dimmi solo cos'è successo." Sentiva qualcosa che gli si chiudeva addosso. "Non lo so, non riesco a spiegare, solo—" "Solo cosa?" Guan Shan si premette le dita sulle tempie che pulsavano. "Solo che lui—lui mi manca, Mamma," sputò fuori. "Cazzo, la odio questa cosa ma mi manca e—" "Chi? Chi ti—" "He Tian. E'—Mamma, mi manca He Tian." Riusciava a sentire la sua confusione. Non aveva idea di cosa lei si aspettasse. Quale nome pensava che avrebbe tirato fuori, dato che non passava tempo con gli amici dalle scuole medie. Dato che vedeva Zhan Zhengxi solo un paio di volte a scuola. Vedeva She Li dove la gente non andava a guardare. Non aveva idea di cosa le frullasse in testa, a sentirgli dire quelle parole, a sentirlo parlare con una sincerità che gli dava la sensazione di essere stato scuoiato, la carne e i muscoli lasciati nudi e la pelle arrotolata. Tutto rosa e crudo. Non doveva essere già guarito ormai? "He Tian?" disse lei, dopo un momento. "Ma pensavo che—sapevo che eravate amici una volta ma tu a malapena—pensavo lo conoscessi a pena." "No, lo conosco. Lo conosco, Mamma." Merda. "Pensavo di conoscerlo, Io—" "Capisco." "Cazzo non riesco a—inziare a spiegare—" "Non ce n'è bisogno," disse, e Guan Shan la guardò. "Ho capito." "No, non hai capito—" Non puoi. "Invece sì, davvero," lo interruppe. "Come potresti—" "Perché lui parlava con me. Quando era qui. Di te. Mi faceva così tante domande su di te. Su tuo padre. Su di me." Il suo sguardo si ammorbidì. "A volte," disse dolcemente, "ci sono dei bigliettini sotto la porta. Tu dormi o sei fuori casa. Arrivano poco prima che inizi il mio turno." Guan Shan era immobile. "Cosa dicono?" "Non importa. Ma a volte ci sono soldi." "Soldi," disse Guan Shan. Piatto. "Sul mio conto. Ho provato a tracciare il trasferimento. Ma la banca ha detto che viene dall'estero e..." I suoi occhi si illuminarono. "Noi sappiamo chi è, Guan Shan." "Bruciali." Lei lo guardò, sorpresa. "Brucia—" "Ritira i soldi e bruciali," disse freddamente, e poi, il volto in frantumi, sputando: "Non ci serve la sua carità. Non ci serve niente da lui. Lui se n'è andato." Sua madre disse, "Lui ti ha lasciato." Guan Shan si sentì immobile a quelle parole—pensieri in replay, compagnia fissa degli ultimi due anni, ora detti dalla bocca di qualcun altro, la bocca di sua madre—e nel frattempo qualcosa si spezzava dentro di lui, il suo corpo una gabbia sulla quale la parte nascosta di se stesso poteva gettarsi contro fino a bucarsi i polmoni con le costole scheggiate. "Mi ha lasciato," le fece eco, un assenso monotono. Non voglio prendermi in giro, diceva. So quanto valgo. "Avevate litigato?" chiese sua madre. Si stava muovendo di nuovo, risistemsandosi su letto nello spazio che aveva lasciato prima. Non fissava la porta sta volta: si era girata fino a che non si erano trovati faccia a faccia. Guan Shan si sdraiò di nuovo, una mano sull'addome, e il suo sguardo vagava per il soffitto basso di camera sua. "Un'altro motivo. Non me l'ha detto. Cose di famiglia." Sua madre disse, "Quindi ha lasciato tutto. E non voleva farlo." "Chissà," borbottò Guan Shan. "Forse era esattamente ciò che voleva. Forse era tutta una scusa così poteva semplicemente andare a scoparsi altra gente." Fece scorrere le unghie sul lenzuolo. "Le persone sono creative quando vogliono rompere con qualcuno e non sanno come fare, no? Dicono che devono traferirsi. Che hanno degli impegni. Ma sono sempre e comunque minchiate." Un'occhiata a sua madre, e lei aveva la fronte aggrottata. Non, realizzò lui, per ciò che aveva detto—ciò che aveva ammesso. Lei lo sapeva? "Lui non sembrava il tipo." Le sue parole erano sincere e aperte e scelte con cura. "E vuole prendersi cura di te nell'unico modo che conosce. Coi soldi." "Sì, è questo il tipo di ragazzo che mi piace." disse secco Guan Shan. "Uno che tira i soldi ai problemi che non vale la pena risolvere." "Credo sappiamo entrambi che ci sono altre ragioni dietro le azioni di He Tian." Guan Shan chiuse gli occhi. Sua madre gli stava dando una strigliata; c'era una punta di rimprovero nella sua voce. Gli era... mancato tutto questo. "Mamma, cosa devo fare?" chiese lui. "Come faccio a fermare i sentimenti? Quanto ci vuole?" Silenzio. Deglutì, inclinò la testa, aprì gli occhi. Lei lo stava guardando dritto negli occhi, aspettava come se sapesse che lui le avrebbe fatto quella domanda, se si era giocata bene le sue carte, come se stesse arrivando proprio dove sperava. Sei una scacchiera, gli aveva detto una volta. Aveva sedici anni. Erano andati fuori a cena; Guan Shan si era alzato in piedi ed era andato su tutte le furie. Qualche stupida lite, le ferite ancora aperte: He Tian; sua madre che riapriva quelle vecchie: suo padre. Lo aveva trovato due strade più giù sulla panchina imbrattata di un parco, le scarpe da ginnastica che scavavano sempre più a fondo nella ghiaia a ogni calcio carico di nervoso. Perché sono sempre così fottutamente difficile da interpretare? aveva chiesto, preparandosi a un altro scoppio. Riusciva già a sentirlo dentro di sè, come una supernova. No, aveva detto lei. Perché ho bisogno di precederti di cinque mosse, così quando faccio la mia, è una mossa importante. Così posso attraversarti. Abbattere le tue barriere una a una finchè non mi ascolti. O finchè non decidi di voler essere sincero con me e dirmi cosa c'è davvero che non va. Guan Shan aveva detto, Cazzo se sembra stancante. Sua madre aveva fatto spallucce. Sul suo viso un sorriso ironico, come quelle che spesso faceva anche lui: qualche segreto silenzioso. Qualcosa di divertente per la quale solo loro potevano ridere. E' un processo, aveva detto. E sono sempre più veloce a capire che mossa fare. Lo avvertiva in lei adesso: il sollievo nel riconoscere di aver fatto le mosse giuste. Immaginava di essere una porta con dieci lucchetti, ognuno dei quali voleva una chiave diversa, e che bisognava aprire con una sequenza precisa. He Tian era semplice: apri una porta e passaci dritto attraverso. Ti prendevi ciò che ti veniva dato. "Ci vuole quanto ci vuole," disse ora. "A volte non finisce mai. A volte non... finisci mai di aspettare davvero, o di pensare. Ma diventa più facile. Un po' più leggero." "No, voglio solo che se ne vada," disse Guan Shan. Voleva una cosa permanente. Una cosa irreversibile. La gardò sistemarsi una ciocca di capelli dietro l'orecchio, un gesto femminile e calmo. A volte si dimenticava di quanto fosse ancora giovane. Troppo giovane per avere un figlio. Troppo giovane per essersi sposata. Troppo giovane, cazzo, per essere lasciata da sola. Lei sospirò e disse, "E' facile tagliarsi un braccio? O strapparsi un polmone? Questa è una parte di te. Non funziona in quel modo. Se vuoi tagliarti via una cicatrice, avrai solo una cicatrice più grande." Fece una pausa. "Puoi farci un tatuaggio sopra, o farla diventare qualcos'altro. Ma ciò non cambia il tessuto che c'è sotto." "Non era questo che volevo sentire." Un semplice, "Sono tua madre. Sono qui a dirti ciò che devi sentire, non ciò che vuoi sentirti dire." Lui si strofinò la faccia, sentendo la stanchezza negli occhi. Gli facevano male i denti. Si sentiva la gola asciutta e impolverata. Voleva dormire, e continuare a dormire, fino ad alzarsi un giorno e scoprire che gli era passato tutto. Ma sapeva cosa gli avrebbe risposto lei: il tempo rimanda soltanto l'inevitabile. I suoi problemi sarebbero stati ancora lì quando si sarebbe svegliato. "Quindi... niente," dedusse. "Continuo a vivere così." "A piccoli passi," disse lei. "Gioca a basket. Passa tempo con me come facevamo una volta. Pensa alla scuola. Se ti capita di pensare a lui, fallo e basta. Non provare a respingerlo." Guan Shan si raggomitolò su un fianco, premendo la guancia sul cuscino. Con voce cauta, chiese, "Era così quando è stato di Papà?" Lei restò in silenzio per un po'. Iniziò a chiedersi se fosse stato meglio non chiedere. Ma sapeva che le piaceva parlare di papà, a volte solo come un problema più che come una persona. Sapeva che lei avrebbe apprezzato il suo tentativo. Infine: "Da un lato era peggio, perché sapevo dove stava andando, e per quanto tempo. Dall'altro, meglio, per lo stesso motivo." "Pensi che io sia un idiota? Perché sono giovane. Perché non so davvero cosa significa perdere qualcuno e—" "Non penso che tu sia un idiota," disse lei piano. Gli posò una mano sulla spalla. "Va tutto bene se ti senti così. Un giorno magari ti guarderai indietro e ti chiederai come diamine hanno fatto le cose ad andare in questo modo. Ma questo non lo rende sbagliato. E poi sei mio figlio, e non ho cresciuto un idiota." "Dillo ai miei professori," borbottò lui. Lei soffocò una risata. Gli diede una pacca. "I tuoi voti possono essere giustificati. Per adesso, non per sempre, Mo Guan Shan." "Volevo renderti fiera di me," le disse. Non sapeva perché stava dicendo quelle cose. L'indomani quella bolla di sincerità si sarebbe dissipata, e lui avrebbe spazzato i resti imbarazzanti di quel palloncino scoppiato. "Dopo Papà, mi sono detto: questa è la mia chance di dar prova di me stesso. Di fare quello che lui non è riuscito a fare. Sto sfanculando tutto." "Perché stai cercando di rendere fiera me," disse lei. "Quando io voglio che tu sia fiero di te stesso." "E' di questo che parli sempre coi tuoi pazienti? Quella cosa dell'autostima?" Gli sorrise. "Una cosa del genere." "Ma ti ascoltano mai? Fanno ciò che dici?" "A volte," disse. Strizzò un occhio. "Se sanno cos'è bene per loro."
La città era diversa di notte. Gli angoli delle strade cambiavano, assumevano forme diverse. Le luci erano più accese e la loro tonalità era vivida e ricca. Le auto si muovevano di nascosto e si appostavano nelle strade; le ombre si allungavano languide. Il parcheggio in cui She Li gli aveva detto di incontrarsi era lo stesso: niente romanticherie per quello. La città era diversa di notte, ma le notti erano tutte uguali. Quando Guan Shan arrivò, She Li era seduto sullo schienale di una panchina, i piedi piantati sul sedile. Era vestito di nero, i capelli argentati catturavano la luce arancione del lampione, gli anelli lucicavano. La sua piastrina penzolava piano intorno al suo collo. Un ragazzo alto col cappuccio alzato stava in piedi di fronte a She Li, le mani in tasca, le spalle curve. Si dondolava sui talloni mentre parlavano, a voce troppo bassa perché Guan Shan sentisse. Per essere qualcuno che non conosceva She Li, o uno di quelli che lui si teneva intorno, sembravano entrambi rilassati; magari erano amici. Ma She Li non aveva amici, e Guan Shan sapeva che era più pericoloso che mai quando era a suo agio. Guan Shan aspettò un momento, appoggiato all'arco in ferro battuto che stava all'entrata del parco. Non lo avevano visto, ma non ci volle molto tempo prima che gli occhi di She Li scattassero verso di lui quando si avvicinò. La bocca di She Li si mosse, mormorò qualcosa. Il ragazzo che era con lui si girò, il cappuccio gli faceva ombra sul viso. Guan Shan si sentì vacillare. Dietro lo sconosciuto, She Li alzò un braccio. Hey, amico. Guan Shan iniziò a camminare e il ragazzo fece lo stesso, passi fermi che lui era consapevole sarebbero sembrati troppo cauti, come se avesse voluto muoversi con la schiena contro il muro. Qualche altro passo e si sarebbe scontrati. Quattro, tre, due— Il ragazzo girò a destra. Urtando leggermente la spalla di Guan Shan. Lui vide solo un'ombra, colse un aroma familiare che non riuscì a collocare, e un secondo dopo l'aveva già perso. Guan Shan non si fermò, nè guardò indietro. Si sentiva un peso in fondo allo stomaco. Quando si fermò di fronte a She Li, She Li disse, "Mi eviti dal diploma." "Chi era quello?" Un lampo di denti bianchi, aperti in un sorriso. "Un vecchio amico. Manda i suoi saluti." Guan Shan si fece scorrere le nocche sulla linea della mascella, la barba corta gli graffaiva la pelle. "Sì, sembrava molto gentile." "E' il suo giorno libero," rispose She Li, facendo spallucce. "Probabilmente ha visto qualcosa che non si aspettava di vedere. Non fare caso a lui." Guan Shan lo guardò nel modo in cui si guarda un serpente che sta per attaccare. Sarebbe stato alla giugulare? Guan Shan si ricordava quel sorriso. No, probabilmente la femorale. She Li aveva questa cosa per i dettagli. Un'attitudine all'intrattenimento. Guan Shan si ricordava di aver apprezzato quel lato di lui una volta—forse persino ammirato. She Li vedeva le cose come lui non le vedeva. E poi, dopo un pezzo, Guan Shan aveva realizzato che tutti vedevano le cose come lui non le vedeva, e che nessuno vedeva le cose come le vedeva lui, perché anche lui era diverso. Infine venne la realizzazione: il tipo di unicità di She Li non era una cosa che andava ammirata. "Mi hai evitato per tutto questo tempo," disse di nuovo She Li. "Ho avuto degli impegni," borbottò Guan Shan. Si infilò le mani in tasca. "Ho un lavoro. Sai com'è." She Li lo considerò un attimo. "Lo stai ancora aspettando, non è vero?" "Ah?" "Non fare il finto tonto. Non ti si addice. Sai di che parlo." Guan Shan guardò da un'altra parte. Non significava che aveva voglia di parlarne. Aveva scelta con She Li? Una volta pensava di no. E poi era arrivato He Tian ed aveva costruito per lui una strada con i pugni e con i tagli sulle mani e con le lame alla gola. Il problema era che avere qualcuno a combattere le sue battaglie, per Guan Shan significava sentirsi vulnerabile nel momento stesso in cui quel qualcuno andava via; non si era costruito quelle difese da solo. Guan Shan era rimasto solo coi pedoni sulla sua scacchiera. Una torre, se era fortunato. "Sono stato... poco bene," disse Guan Shan. "Sono stato inutile per te." "Inutile?" ripetè She Li. "Colpo basso. Non sono autorizzato a vedere i miei amici se non voglio qualcosa da loro?" Guan Shan, silenzioso, gli rivolse uno sguardo piatto. Dopo un momento, She Li rise. "Ha senso," disse, gli occhi stranamente brillanti. "Non farò il finto tonto neanche io. Non mi si addice, ne sono sicuro." "Certo," disse Guan Shan. Si diede un'occhiata in giro: il gruppo di ragazzi sull'orlo del prato, i cellulari illuminati, il fumo delle sigarette che volava in alto; gente che andava a correre a notte tarda che si asciugava il sudore dalla fronte col braccio; il muoversi lento delle macchine che attraversavano i cancelli del parcheggio. Non vedeva nessuno dei soliti amici di She Li. Si chiese da dove li stessero guardando. "Se sapevi che ero—se sapevi che non ero in giro, perché hai comunque voluto me?" "Tutti hanno un'utilità, Guan Shan." "Vuoi dire tutti hanno qualcosa che puoi sfruttare." She Li rise di nuovo. "Cazzo, qualcuno è acidello stasera, non è vero?" "Sono stanco. Inizio presto. Non voglio stare qui." Il divertimento svanì. "Sì, d'accordo, non sprechiamo il nostro tempo." She Li si alzò dalla panchina, un movimento fin troppo fluido, e fece un passo avanti. Era una prova del suo istinto, della sua volontà, di non rispondere con un passo indietro. "Che stai facendo?" borbottò Guan Shan. La faccia di She Li era a un centimetro dalla sua. "Tu che dici?" rispose She Li. Fece scorrere l'indice e il pollice sull'orlo della maglia di Guan Shan. "Mi sei mancato." L'espressione di Guan Shan tramutò. Si morse l'interno della guancia. "Non fare questi giochetti del cazzo con me." She Li gli diede un'occhiata, le palpebre socchiuse, occhi d'ambra vorticavano dietro ciglia scure. "Io non ti sono mancato?" disse. "Com'erano le cose tra di noi?" "Com'erano?" disse Guan Shan. "Quando mi hai conciato per le feste e mi hai quasi fatto espellere? Quel genere di cose?" "Cristo, sei acido stasera," lo punzecchiò She Li. "Scrollati le ragnatele, Guan Shan. Perché disturbarsi a rispolverare il passato quando possiamo avere il presente?" Guan Shan fece andare lo sguardo in giro per il viso di She Li, più affilato e forte di com'era una volta. Non era niente male. Lo sapevano entrambi. Ma Guan Shan non stava avendo a che fare con una faccia: stava avendo a che fare con una mente, e aveva bisogno di qualcosa di più superficiale. Qualcosa di più aperto, e reale. Qualcosa di tangibile. Aveva bisogno di occhi più scuri e sorrisi lenti e desiderio semplice e pesante tra di essi. Era quasi divertente il fatto che ormai riuscisse ad associare He Tian a qualcosa come la certezza. Come la sicurezza. "Io non ti piaccio," disse Guan Shan. "Sappiamo entrambi che hai un debole per i biondini con la pelle chiara." She Li storse le labbra. Qualcosa gli brillò negli occhi. Territorio pericoloso, pensò Guan Shan. E poi: non me ne fotte un cazzo. "Una botta te la darei lo stesso," disse She Li. "Ti piacerebbe comunque." "No, non è vero." She Li face un "hmm" compiaciuto. "Vuoi mettere in pratica questa teoria?" "Non è una cazzo di teoria," disse Guan Shan a denti stretti. She Li sospirò. Dopo un minuto, si allontanò, e ci fu spazio per respirare. Come se l'aria fosse diventata un po' più pulita con la distanza, meno propensa ad agitarsi nella gola di Guan Shan e soffocarlo. "Bene," disse She Li. "Ma sappi che se vuoi, posso darti ciò che ti serve." "Non lo voglio. E non so cosa chiederesti in cambio." "Per una volta: nulla. Un favore per un amico in difficoltà." Guan Shan considerò le sue parole per un breve attimo. Se diceva sì, per quanto tempo quella trattazione sarebbe rimasta un semplice favore? Quanto tempo, dopo che Guan Shan si fosse pulito tra le cosce e She Li avesse bevuto la vodka del minibar, ci sarebbe voluto perché She Li menzionasse il resto dei termini e condizioni d'uso? Quelli che non avrebbe mai menzionato, dicendo solo che Guan Shan avrebbe dovuto saperli a prescindere? "No," disse Guan Shan, preparandosi ad andarsene. "Non mi serve niente. Tutto qui? Perché ho delle cazzo di cose da fare." "Quasi," disse She Li, avvicinandosi—e poi la sua bocca si abbattè su quella di Guan Shan come il morso di una vipera. Fu veloce e brutale, una lingua avvolta alla sua, un sapore pungente in bocca, qualcosa di metallico, dita fredde tra le ciocche corte dei suoi capelli, invadenti e sporche e dolorose—e poi Guan Shan stava barcollando all'indietro, una mano premuta sulla bocca in difesa, ferito. "Tu cazzo," stridette. "Tu fottuto—Tu figlio di puttana, tu—" La voce gli tremava troppo; doveva fermarsi. Quella violazione era troppo familiare. Niente e tutto era uguale. Gli bruciavano gli occhi. Il sangue gli martellava sotto la pelle. She Li lo guardava. Guan Shan gli voleva rompere i denti. "Oh, scusa. Dimenticavo che non ti piace quando ti fanno così." "Vai a fare in culo." Non avrebbe retto più di qualche pugno, lo sapeva. Quella rabbia non lo aveva mai portato molto lontano. She Li aveva sicuramente dei coltelli da qualche parte. She Li disse, "Te l'ho già chiesto." mise il broncio. "Due volte in una sola sera è un po' da disperati, anche per me." Guan Shan lo fissava, a occhi spalancati. Non si era tolto la mano dalla bocca. Sentiva il sapore del sangue, pungente e metallico. E' mio o suo? E poi: Qual è la differenza? Non se ne accorse quando She Li se ne andò. Vagamente, sentì la stretta della sua spalla, gli anelli premere sulla sua pelle, il corpo ormai freddo nonostante il calore della notte. Le sue labbra, asciutte e spaccate, non le sentiva sue. Aveva le dita bagnate quando le tirò via dalla bocca, gli occhi pizzicavano, il sale scorreva sulla pelle spaccata delle sue labbra. Proprio come suo padre. Prese dei respiri lenti, si strinse la pelle dei fianchi come se fosse stato lasciato senza fiato da un pugno nella pancia. La sensazione era la stessa: una disperata boccata d'aria nei polmoni, dolore affilato nell'inspirare, un dolore lento che iniziava a sbocciare. Era solo un cazzo di bacio, pensò, una parte razionale della sua mente che cercava di gridargli di mantenere la fottuta calma. Ma neanche. Sai cosa vuol dire essere baciati davvero. E poi un'esplosione: ricordi che strisciavano tra i muri del suo cervello, sparati come proiettili, baci rubati agli angoli della sua bocca, labbra piene e gonfie tra le sue, un naso che scava tra le giunture del suo bacino, alito caldo di sigaretta sul collo, una lingua che brucia sul polso. Si ricordava ogni tocco trascinato attraverso la sua pelle come edera rampicante, come glicine, come il rotolare lento di una nuvola carica di tempesta. Sapeva cosa voleva dire essere baciati davvero. Quella realizzazione disperata lo attraversò da capo a piedi, immobile, appuntita e tremenda, nauseante: se ci fosse stato He Tian al posto di She Li, contro la sua volontà per la seconda volta, un replay del loro primo bacio rovinato, Guan Shan sapeva che lo avrebbe lasciato fare.
#finalmente l'ho pubblicata#ci ho messo una vita#scusate#tianshan#angst#moguanshan#mgs#mo guan shan#hetian#he tian#ht#sheli#she li#19 giorni#19 days#19 giorni ita#19 tian#old xian#he tian x mo guan shan#ship#she li x mo gian shan#otp#notp
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Decorazioni di Natale chic e handmade
Quest'anno vi propongo delle idee molto carine per un Natale chic e completamente handmade. Preparare gli addobbi e la casa per la festa più bella dell'anno è sicuramente molto divertente e creativo, ma richiede del tempo in più, rispetto ai normali impegni giornalieri. Vi propongo delle idee che ho trovato in rete che spero vi possano essere utili. Innanzitutto per quest'anno lasciate in cantina l'albero finto e scegli un'alternativa green, che rispecchi il tuo stile di vita, ed i tuoi gusti. A volte possono bastare dei vecchi ritagli di stoffa e dello spago per creare un meraviglioso albero di Natale. Le stoffe ed i colori le scegli tu, se preferisci i toni del rosso (colore tipico del periodo natalizio) oppure un total white molto chic. Si possono utilizzare anche delle sagome di legno (idea facile e d'effetto): ti basterà appendere gli addobbi, sulla sagoma di legno colorata o non, e abbellirle con una ghirlanda di rami di pino e il tuo albero sarà davvero indimenticabile. Per gli addobbi di casa in style natural e nelle cromie del bianco e del beige tanto care allo stile shabby chic. Oltre all'albero, una ghirlanda da appendere alla parete ovviamente declinata nei toni del beige. Aggiungi delle pigne, colorate o naturali, o rametti secchi sbiancati dal sole, da abbinare a bacche bianche, come quelle del vischio o magari a bellissimi fiori di ortensia secchi. Non c'è Natale senza delle candele accese per creare l'atmosfera, magari su un bel vassoio da colorare.
Credits: http://vitthusmedvitaknutar.blogspot.it/ E poi gli addobbi per l'albero di natale, semplici ed eleganti. Bastano delle palline di polistirolo comprate nei negozi per la casa e delle lucine a led dalla tonalità bianca e calda ed il gioco è fatto. Nastri di seta o dello semplice spago per appendere gli addobbi all'albero, tutto rigorosamente ton sur ton. Via libera ai rami di pino da appendere un po' ovunque su scale, porte, armadi, librerie. ecc. L'importante, per mantenere l'atmosfera che siano naturali, magari con una spruzzata di colore bianco.
Credit: Alicewcollection Spero di esservi stata utile, o semplicemente di avervi dato qualche idea per rendere la vostra casa ancora più bella ed elegante con questi decori che vi ho suggerito. Alla prossima con altre idee per il Natale. Read the full article
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Ti sveglia piano, ti accompagna dal giorno alla notte: apri gli occhi, è l'amore a privarti del sonno. E lui è come un ventaglio che fa fresco, petali che si dischiudono e sbocciano, nell'intensità della vita: piangi per quanto è bella, per quanto la ami. Hai imparato tante cose, e una di queste è che l'amore è una rivoluzione che parte dagli occhi: si illuminano quando guardi la persona che ami, il cuore batte forte e lo senti, ma sai quando lo provi? Quando ti si chiudono le porte in faccia e allora ti sforzi e trovi i tuoi passi, trovi la tua strada e lo avverti nel vento che di botto ti scosta i capelli e gentilmente te lo fa vedere, quindi corri per sbranartelo e impari a sbranarlo quando sei da solo. Perché sei caduto così tante volte che, sei stanco di trovare mani che non assomigliano alle tue e che per appigliarsi e appigliarsi ti graffiano e lasciano un segno: alcune volte per stare meglio devi lasciare andare con tutto te stesso la vecchia immagine di te e di chi ti sta a cuore, scoprirai che è l'amore ad averti cambiato, ma non per lui, non per lei, per te stesso. E ti accorgerai, che non ti aspetta, che corre veloce, che molti di noi ne hanno paura, molti di noi lo fuggono per paura degli occhi dolci che si sciolgono, di capirlo ascoltando canzoni. Molti di noi dicono che è come una nevicata su dolci e bianche margherite: è pesante, è opprimente, è qualcosa che ti ruba le gambe, le mani e ti fa scarabbocchiare tramite carboncini e carezze, è qualcosa che lascia un vuoto, pesante come singhiozzi e solitudine ma, al tempo stesso, è qualcosa di tangibile, dove metti tutto te stesso e allora scopri che il tuo cuore e il tuo corpo danzando al chiaro di luna, come soldatini di legno, l'amore e la vita è in caricamento in corso secondo questa, è quella rarità che si concedono i fiori prima di diventare tali: semi spaccati. Per farti capire sono quel girasole che cerca la sua luce e non la luce, ma posso averla? O sarò spenta dal mondo come mozziconi di sigaretta? L'amore, saprò mai cos'è l'amore anche se lo cerco dentro me? Ho così tanta rabbia per i tempi andati da voler sia sbattere porte in faccia a chi non mi capisce, che sbuffare e sollevare un ciuffo bruno perché non posso fare niente con gli altri e la persona che sono, però so che l'amore ti rende migliore, ti rende una persona nuova, una persona che si ama e si fa il regalo di scoprire la vita, si fa il regalo di restare viva, e dio, vorrei fosse facile ma non lo è così tanto da voler dispensare parole, pareri, consigli, abbracci, affetto, disegnare quello che il mondo porta dentro. Scegliere l'amore, tu creatura che puoi vivere fallo, per me, scegli l'amore ogni volta che non ti scelgono, scegli l'amore ogni volta che sbagli e ti odi o ti incolpi, quando qualcosa va storto scegli l'amore, quando il mondo ti fa meravigliare scegli l'amore per essere amore, se avessi potuto avrei scelto l'amore, ma continua a sceglierlo, e ben presto sarai ciò che cerchi intensamente, specie se leggi le mie parole, sarai amore, come lo sono io per le carezze e le mani strette di mia nonna nei giorni di pioggia e ora sono tua. -Tua, Jetaime
Old but gold
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Selene
Si avvicina, velocemente e sine requie. La pazienza dell'uomo nel saper attendere è magnifica. Affronta la paura senza che nessuno gli insegni a farlo, affronta il mondo da solo. Completamente devastato da quello che è stato, e da quello che sa che sarà. Non si interessa. Ha uno scopo, ha una missione, ha un suo fine e un suo profondo obbiettivo da raggiungere.
L'aria fuori dalla finestra è fredda. I vetri sono tutti appannati e si notano vecchi scarabocchi fatti con le dita. Eolo sferza le foglie gonfie facendo agitare i rami degli alberi come marionette impazzite. Il sospiro gelido sogghigna beffardo e si insinua nelle giunture meccaniche delle finestre e della porta. Urla e il suo lamento riecheggia in tutta la casa smuovendo il fuoco che nel camino soffre ed impreca cercando di sopravvivere, di rimanere acceso, di rimanere utile. Nell'aria stantia pesante ed opacizzata dalla fuliggine, la cenere volteggia nell'aria con eleganza andando a creare dei piccoli vortici vicino agli angoli della spessa porte di legno grezzo. Lo scrosciare dello scarico del WC è ovattato dalla porta e dalle pareti spesse in mattoni e tufo che assorbono quasi completamente i suoni rendendo la casa completamente insonorizzata. Il tempo questa mattina è scandito da Tea for the Tillerman che suona indisturbato nel soggiorno donando alla casa una sfumatura fatata. Dal bagno accompagnata da una scia di vapore denso e candido ve ne esce un'apparizione divina. Una giovane nuda. Il freddo degli spifferi combatte contro il tepore emanato dal fuoco che è più vivido e le fiamme sono sempre più alte con le lingue che si intrecciano e i minuscoli lapilli che fluttuano su per la canna fumaria. E' una bellezza rara. I suoi occhi sono zaffiri e la bocca è carnosa e sanguigna.
Da tanto tempo, per alcuni troppo, Selene vive sola, è una ragazza forte, autonoma, piena di aspirazioni e di brio. Una volta da piccola aveva provato a scappare di casa, sentiva la voglia di libertà scorrergli nelle vene, nelle piccole vene blu che ancora oggi disegnano complesse geometrie sui polsi candidi e sul collo morbido e profumato. Aveva organizzato la fuga con delle sue amichette che abitavano nello stesso palazzo. Si erano date appuntamento, le fuggiasche, nel cortile sotto casa tutte armate di fiducia in loro stesse e lo stesso zaino che usavano per andare a scuola ogni mattino stracolmo di oggetti trafugati per casa. Appena fuori dal quartiere la nostalgia di casa, gli affetti familiari, la paura sopraggiungono assieme alla brezza fresca. Erano piccole, erano inermi, erano smarrite dentro alle loro illusioni e al loro desideri. Selene no, era serena, nel suo zaino aveva solo delle coperte spiegazzate che aveva preso dal suo lettino e il suo coniglietto peluche pronto a tutto per proteggerla. Continuò ancora per un po' da sola ma poi più per la solitudine e per la delusione dell'essere stata abbandonata che per la paura e lo sconforto la forzarono a tornare indietro. Quando torno in casa sua mamma non si era accorta di nulla e sebbene Selene gli mostrò il suo zaino e gli rivelò quello che aveva tentato sua mamma rise. Un sentimento di incomprensione e di debolezza la pervase. Notandolo la mamma la prese, la poggiò delicatamente sulle sue ginocchia e la strinse forte forte sussurrandogli all'orecchio sinistro "tanto ti avrei trovato, ovunque tu fossi andata" dandogli poi un bacio sulla fronte con le labbra calde.
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Lunghi capelli corvini ora si adagiano soffici e gonfi sui seni alti e sodi che per gli spiffferi erano turgidi e la pelle d'oca. Ogni suo passo è delicato, è leggero. Il tepore della doccia calda giunge fino alla punta dei piedi facendo sì che sul parquet si formi per pochi istanti l'impronta vaporosa del suo trentanove.
Da piccola voleva essere un animale, ad essere pignoli una volpe, vedeva nel loro modo di vivere qualcosa di puro ed affascinante forse la basicità o forse la semplicità, crescendo ovviamente però tutto questo rimase solo un sogno puerile. Nei suoi gesti si nota tutto il fascino e l'eleganza catturato dall'ammirazione per la nobile famiglia dei felini. Le sue unghie curate ed affilate sono sempre smaltate di colori scuri e il trucco pesante sugli occhi lacera ogni singolo, sventurato pensiero che si annida nella tua mente. Aveva dei turbamenti più che problemi con suo padre. Una specie di amore-odio che la spingeva a volerlo odiare con tutte le sue forze, forse senza un reale motivo. In camera sua c'era un vecchio letto matrimoniale con un'alta spalliera in ferro battuto che riprendeva le decorazioni dello stile liberty. Sopra alle lenzuola bianche vi erano disposti ordinatamente i vestiti per la giornata. Un corpetto nero che spinge e imprigiona i seni donandogli maggiore volume. Dai lati del ventre salivano dei ricami in cotone lucido, sempre nero, che ritraevano i gambi e il fiore di una rosa che si intreccia su se stessa. Sopra al corpetto una semplice e pulita magliettina a maniche lunghe, di trama sottile, con un ampio scollo che permetteva al petto di sporgere e respirare. Un gonna corta e delle calze scure andavano a fondersi con scarpe col tacco e una prorompente zeppa. Le scarpe erano decorate e rifinite nei minimi dettagli. Vi era ritratta anche su di esse l'immagine di una rosa, questa volta colorata, con un bel verde scuro per lo stelo e un rosso purpureo per il fiore. Prima di indossare la gonna Selene fu costretta a sbatterla per togliere i peli neri che Circe, la sua gatta, gli aveva lasciato in un riposino interrotto appena ha sentito la porta della doccia aprirsi. Circa era di razza certosina, il gatto delle streghe, quello che se ti attraversa la strada inizi a maledirlo in tutte le lingue senza una ragione precisa. Si aiutavano e si davano conforto a vicenda queste due ragazze. Era da quando era piccola che Selene voleva essere una strega e Circe le serviva per illudersi un po' e anche il nome, ovviamente, non era dato a caso. Considerava Circe, la strega, la maga di Ulisse, un modello. Una donna capace di piegare ogni uomo al suo volere, al suo piacere. Vedeva in lei un bagliore di purezza e veridicità nella suo modo di trasformare l'uomo in ciò che era realmente, un maiale. Solo Ulisse riuscì ad evitare la triste sorte e lei era in cerca del suo Odisseo. Un uomo a cui donarsi completamente, mente e corpo, a cui donare tutte le sue cure, che la sapesse catturare fisicamente ma soprattutto mentalmente. Voleva qualcuno che le scopasse la testa. Voleva che ad ogni parola gli provocasse un orgasmo intellettivo, un rilascio continuo e costante di endorfine, e in cuor suo sperava di averlo trovato. Era piuttosto tardi e doveva sbrigarsi ad uscire per andare a lavorare. Chiavi, sigarette, accendino, chiavi della macchina, cellulare, riempire la ciotola di Circe, spegnere la luce, chiudere la porta a chiave. Parcheggiata davanti casa era lì ad aspettarla una vecchia automobile degli anni '50 che ogni mattina ed ogni notte faceva fatica a partire per via dell'umidità e del freddo ed ad ogni giro di chiave era come se qualcuno la avesse accoltellata alla schiena per i lamenti macabri che mandava. Però Selene c'era affezionata a quell'auto. Era stata di suo nonno e al momento della morte oltre alla piccola casa gli aveva lasciato anche la macchina perché: "Il primo passo per essere donna è essere indipendenti." e il primo passo per essere indipendenti significava avere una macchina con cui muoversi autonomamente e un'abitazione dove vivere. Il negozio non distava moltissimo da casa, appena dieci minuti se non c'era molto traffico altrimenti poteva arrivare anche a una mezz'ora. Fortunatamente non era una di quelle mattina, probabilmente perché era sabato e la scuola del quartiere era chiusa e i genitori non dovevano svegliarsi all'alba per accompagnare i figli a scuola. Una nebbia finissima, più una foschia aleggiava nell'aria dando alla città un'atmosfera un po' spettrale che le ricordava l'ambientazione del libro che stava leggendo e che la aspettava tutte le sere alla sua sinistra sul comodino. Era un libro da centomilioni di pagine, uno di quei libri che comprati in stock sono convinto è possibile costruirci un grattacielo. Un grattacielo di carta e colla vinilica. Era ambientato in un epoca differente dalla nostra da una parte antica, da una parte futuristica. Non sanno più cosa inventarsi.
La saracinesca si alza con dei cigolii e il solito pensiero di tutte le mattine salta in mente e Selene "devo oliarla a questa dannata saracinesca, il rumore mi distrugge le tempie tutte le volte" ma ovviamente non lo aveva ancora mai fatto. Svuotate le tasche sul bancone il prossimo passo era il quadro generale per accendere tutte le luci, lampadine, faretti, neon del negozio. Selene gestiva per lo più da sola un piccolo negozio di fumetti, modellismo e abiti alternative. Aveva molto seguito nella sua città e lei era contenta di ciò. Era sempre stata la sua passione oltre a quella della lettura, del disegno e del buon sesso. Spesso alcuni amici e amiche passavano a salutarla e se c'erano molti clienti si fermavano un po' di più per darle una mano. Lei era buona e gentile con tutti, difficilmente perdeva la calma, difficilmente si arrabbiava. Le piaceva definirsi una persona celebrale, una di quelle che ama con la testa tanto per capirsi. Io non c'ho mai creduto, le ho sempre detto che quello era il suo scudo, era la sua armatura. Lei distoglieva lo sguardo e rispondeva neutra "se lo dici tu..."
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Perché sei arrabbiata? Perché te la prendi con te stessa? Perché ti dai la colpa? Perché rifletti troppo? Perché scrivi? E poi che scrivi? E perché lo scrivi? Sai perché lo scrivo? E perché leggo? Perché non riesco a smettere di leggere? Non mi fa pensare, a niente. Non ci penso, sto bene così. Come se domani finisse il mondo, Come se domani non ci fosse più nessuno qui e io dovessi lasciare chissà quale testamento importante. E, si, ci ho messo pure tanto cuore, quello sempre. Ma la rabbia, soprattutto. Non ho mai odiato nessuno, mai, mai, nemmeno per un millesimo di secondo. Eppure quando c'eravamo quasi, quando si creava la situazione sentivo l'impellente bisogno di scarabocchiare i foglietti di bucarli con forza finché non perforavo 3 4 cinque pagine insieme. Perché così mi sentivo: Un foglio perforato senza motivo. Sentivo le voci della rabbia e delle persone cattive. Mi avvolgevo nel silenzio e le mie labbra si serravano, mute. Mute. Nemmeno un sospiro, niente. Io tentavo ma niente. Una volta ho aspettato quindici minuti prima di fiatare con una persona. Quindici. Minuti. In quindici minuti avevo analizzato qualsiasi cosa: occhi, labbra, mani, capelli, movimenti, vestiti, libri, zaini. Percorrevo quel filo di Arianna che mi avrebbe condotto a una porta. Si, una porta. La apri o non la apri? Dipende. A volte scordavo la chiave, è facile scordarsi la chiave di un portone mai visto prima. A volte spingevo forte, dai lividi alle braccia e entravo dentro. Che trovavi? Un bel cazzo di niente. Come sempre. Tanti fogliettini a mo' di post It che avevano perso la colla per essere appiccicati da qualche parte. Su alcuni c'erano scritti dei pensieri e Delle cose e io venivo risucchiata da essi perché come ho detto mi perdo nel leggere le cose. Anche le scritte in tedesco - che capisco bene ma non riesco a masticarlo altrettanto bene - Delle porte del cesso dell'autogrill di Milano, quelle che ti dicono che devi pagare 0,50 cent per pisciare. Si, mi perdo a leggere anche quello. Però le parole sui post It non li leggevo, non ci riuscivo, era troppo poco nitido e misterioso ma qualcosa mi attirava pesantemente. Ed è lì, dopo quindici minuti e mezzo, che dalla mia bocca uscì un miserissimo 'Ciao', perché 15 minuti prima ero a Narnia. Per quei fottuti post it, non avrei mai saputo cosa ci fossero ma quel sorriso all'ingiù parlava chiaro, sapeva di felicità. Non era sempre così. A volte quella porta si bloccava e io avevo perso le chiavi, un po' come Monsters&co dove per aprirla la porta c'era bisogno di quella minuscola scaglia di legno. Un niente che era tutto. Apriva la porta. Si, la apriva. Ecco io non ce l'avevo. Allora rimanevo lì in silenzio, cacciavo i miei foglietti del cazzo, e li iniziavo a bucare. Ad ogni fitta allo stomaco un buco. Ad ogni coltellata un altro buco. Poi ci scrivevo quello che sentivo dentro. - Ho sempre fatto così, dai banchi di scuola agli appunti dell'università. Le canzoni, i momenti, i ricordi, le cose. Ho scritto cose sui banchi dell'università. Chissà chi le ha lette. - Mi liberavo di tutta la rabbia, dell'angoscia, dell'amarezza. Scrivevo le pagine piene di cazzate che non avrebbe letto nessuno, e poi nella realtà non lo direbbe nessuno che dietro due paia di occhi marroni c'è un universo parallelo, peggio di Mordor, peggio di Narnia. Era il sottosopra di stranger Things. Era losco e oscuro e un mostro mi rincorreva, e ogni volta che tornavo nella realtà c'era sempre un pezzo di me che era rimasto sotto. Per esempio ora, sono le 2,09 e questo post è lunghissimo. Una volta ho scritto un brano e ho vinto il primo premio. Era per mia nonna, morta un mese prima. Lei diceva che avevo talento e sarei arrivata lontano. Si è fermata ai miei 18. Niente più. Buio totale. Ecco, io, drogata dei dettagli. Nonno, mai conosciuto. Morto il 16 aprile 1969. Papà, 8 anni. Non ha idea nemmeno di che faccia avesse, quasi. 16 aprile 1996. Io. Dopo 16 anni da mio fratello, dopo svariati casini. Dovevo morire. Anche io il 16 aprile sarei dovuta morire. Non mangiavo. Stavo visibilmente male. E invece no, ho superato la notte, così dicevano i medici, e sono qui a rompere il cazzo alla gente con una cicatrice da operazione al cervello in fronte dove non mi crescono più i capelli. 16 aprile. I dettagli, capite? Per me sono una droga. Non è stalking. Mi piace vedere il modo in cui la gente posa le mani sui libri mentre gli occhi attenti sintetizzano tonnellate di parole. Mi piace vedere il modo in cui gli occhi parlano a modo loro, senza troppe parole e preavvisi. Mi piace sentire il rumore del respiro quando due anime si abbracciano per la prima volta dopo mesi. Ecco perché scrivo. Perché chi non scrive non ha nulla da dire. Da raccontare, da immaginare. Un giorno qualcuno mi dirà : smettila, basta, smettila. Ma è così parte di me, che non potrei smettere mai. Diglielo tu a Murakami di rimangiarsi tutto Norwegian Wood e Kafka sulla spiaggia. I dettagli, sono quelli che mi fanno scrivere. Quelli che mi fanno sentire il bisogno di tenerli stretti,qui, i pensieri. Su queste pagine bianche, vergini, senza macchie. Senza cose. Senza le persone che mi giudicano troppo male Senza incoerenza Senza nomi. Così come quando si sporcano le lenzuola, Si sporcano i pensieri, Tra le lenzuola, prima di dormire. Alle 2:35. Un soffio di vento leggero tra le lenzuola e la finestra aperta. Sogni trasformati in segreti Che solo tu e quel pezzo di lenzuolo saprete. Parole mai scritte Per sempre perse Profumo di serenità, La pace. ❤🍃
Rob
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𝙄𝙙𝙚𝙚 𝙙𝙞 𝙖𝙧𝙧𝙚𝙙𝙖𝙢𝙚𝙣𝙩𝙤: 𝙘𝙤𝙢𝙚 𝙞𝙣𝙩𝙚𝙜𝙧𝙖𝙧𝙚 𝙞𝙡 𝙗𝙡𝙪 𝙙𝙚𝙣𝙞𝙢. Pubblicato da Digital Cays. May 15, 2017. La moda ha il potere di influenzare e ispirare il nostro stile di vita. Questo è particolarmente vero se pensiamo ai jeans, un must di qualsiasi guardaroba ormai da quasi 70 anni, il cui tipico colore, il blu denim, sta ora pian piano entrando anche nelle nostre case. 𝘐𝘭 𝘣𝘭𝘶 𝘴𝘶 𝘮𝘪𝘴𝘶𝘳𝘢 𝘱𝘦𝘳 𝘷𝘰𝘪. ◂ Questo trend nasce in particolare dalla combinazione di varie cromie, che mescolano i toni marini e del blu navy in modo da integrarsi al meglio nei vostri interni. Potete dunque scegliere di aggiungere un tocco bohémien, con cuscini in blu denim decorati con perline o disegni realizzati con la tecnica di tintura a riserva. In alternativa, c’è sempre lo 'hygge' scandinavo, stile che potete integrare, per esempio, con cuscini intrecciati di un profondo azzurro oceano. Le vernici opache disponibili in queste tonalità sono talmente tante, che potete persino pensare di aggiungere in casa un’intera parete color denim, che funga da delicato sfondo ad arredi in legno, in pelle o a materiali industriali in cemento. 𝘚𝘰𝘨𝘨𝘪𝘰𝘳𝘯𝘰. ◂ Sperimentate in soggiorno i toni del blu denim, integrando singoli accenti freddi e pezzi unici: pensate ad esempio a cuscini spaiati, tappeti in pile arruffato e originali vasi in ceramica. Le sfumature navy ben si coniugano con i toni del porpora e del verde scuro, ricreando così gamma di colori elegante e regale, soprattutto se li abbinate a cuscini in velluto o seta, che aggiungono una texture in più alle vostre superfici opache. Quando arriva l’estate, poi, il turchese chiaro e l’azzurro regaleranno un tocco di luce e di freschezza ai vostri interni. 𝘊𝘢𝘮𝘦𝘳𝘢 𝘥𝘢 𝘭𝘦𝘵𝘵𝘰. ◂ Trattandosi di una delle stanze più private della casa, la camera da letto è il luogo ideale per giocare con i colori e aggiungere il vostro tocco personale agli arredi. Tende lunghe in blu denim conferiscono un senso di sfarzo e grandezza alle vostre porte-finestre e fungono anche da oscuranti per tutti quelli che hanno il sonno leggero. Abbinateci un copriletto dello stesso colore e optate per pareti pastello, bianche o grigie, così da mantenere un’atmosfera luminosa e spaziosa. 𝘊𝘶𝘤𝘪𝘯𝘢. ◂ Dare un tocco di blu denim alle vostre stoviglie, alle tazze e agli oggetti in vetro è un ottimo modo per ricreare nella vostra cucina un’atmosfera cromatica dal gusto mediterraneo. Selezionate una gamma di sfumature diverse, dall'acquamarina fino ai toni dell'azzurro oceano; potete persino pensare a dei flut con tocchi di blu alla base. 𝘉𝘢𝘨𝘯𝘰. ◂ I toni freddi del blu funzionano bene anche in bagno: accogliete perciò il trend denim con piastrelle, oggetti ornamentali e piccoli tocchi qua e là, come un portaspazzolino di questo colore. Se avete un bagno più grande, potete persino prevedere delle pareti a vista che consentano di interrompere la monocromia prevalente – provate per esempio a dipingere le pareti più piccole di un blu cobalto scuro, lasciando le altre in bianco. 𝘓���𝘢𝘣𝘣𝘪𝘯𝘢𝘮𝘦𝘯𝘵𝘰 𝘱𝘦𝘳𝘧𝘦𝘵𝘵𝘰 𝘱𝘦𝘳 𝘪 𝘷𝘰𝘴𝘵𝘳𝘪 𝘪𝘯𝘵𝘦𝘳𝘯𝘪. ◂ Sono lontani i giorni in cui il ruvido tessuto blu noto come denim veniva associato soltanto ai cowboy della Hollywood degli anni '30. Oggi il blu denim è uno dei trend cromatici più richiesti, che potrete integrare nel vostro arredamento già durante la stagione primaverile ed estiva. Combinato con i toni del terracotta e con piante verde acceso, i toni del blu denim offrono un contrasto fresco, unito a un tocco di relax. ━━━━━━━━━━━━━━━━━━━━ • CAYS si tinge di blu denim perchè l'estate è alle porte! Visitate il nostro sito oppure venite a trovarci in studio per ulteriori consigli e modifiche che più si adattano al vostro stile. •
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Poggiai le chiavi sul mobiletto all'ingresso e passai con indifferenza d'innanzi allo specchio. Mi sedetti sul divano per togliere le scarpe; la casa aveva ancora l'odore di quando l'avevo lasciata la mattina. Odore di caffè, di sole appena sveglio, di mancanze sofferenti e assenze. Erano circa le 18:40 ed il sole stava andando ritirandosi dietro al mare che riuscivo a vedere dalla finestra della cucina, un dipinto visto dall'interno. La casa iniziò a colorarsi di un arancione molto dolce, alla radio stavano dando un pezzo al pianoforte e mi affrettai ad alzare il volume. Le porte erano di un legno bianco, molto delicato, le mensole inondate di libri di diverso genere e grandezza, il giradischi messo a prendere la polvere e la tv che in alcune notti restava accesa a tenermi compagnia. Il divano messo al centro del salone con dei grossi cuscini che cadevano sempre a terra, sul tappeto comprato ad un mercato in Marocco. Bevvi l'ultima goccia di caffè e mi distesi sul tappeto portandomi dietro la testa un enorme cuscino, lasciai che le mani così distrutte accarezzassero e coprissero il mio volto stanco. Chiesi al sole che con calma proseguiva la strada per tornare a casa, di cosa ne sarebbe stato della mia vita, di tutti quei libri che avevo promesso a me stessa di scrivere e che poi sono rimasti solo pagine bianche, vuote, un po' come me. "E di tutti i libri che non ho ancora letto?" Appoggiai le mani sul davanzale e lasciai che i capelli mossi e lunghi mi coprissero metà viso per non mostrare del tutto la mia disperazione; chi trova la chiave di questo mondo, ha finito di vivere in quello vero, chi inizia a scrivere poi non la smette più, è perso in quel mare di parole che non lo faranno mai più tornare a riva. Come se qualcosa, improvvisamente, smettesse di funzionare all'interno, come se la testa per il mondo reale si guastasse per sempre. Nei libri si perde sempre una parte di se stessi, e dimmi sole, io mi ritroverò mai? Abbandonata dalla realtà, con questo mondo fin troppo grande per una persona sola come me, cosa ne sarà di tutte le parole che non ho detto e delle frasi che non ho ancora scritto? Loro devono leggerle, devono capire. Mi feci un thè caldo e mi distesi sul divano, "tutta questa vita", "quanta solitudine" sentii sussurrare le pareti della mia casa, e quanto avevano ragione. E tutti i libri che non ho ancora scritto, cosa ne sarà di tutte quelle parole frettolose di venir fuori ma lasciate a marcire in testa? Non si può lasciare così una vita. "C'è chi con più facilità ha lasciato persone" il sole avrebbe illuminato ancora per poco la mia casa, "è un'altra questione, e poi lo fa solo chi non ha il coraggio di rischiare, codardi" "cosa?" "Lasciare le persone, codardi. Ma lasciare la vita, è diverso, non puoi tornare indietro, non puoi inviarle un messaggio con scritto che ti dispiace e vorresti tornare da lei. Non fa sconti a nessuno, lei corre, se tu riesci a starle al passo sei dentro, altrimenti devi far attenzione a non scivolare via, lentamente. Devi fare attenzione a riuscire a lasciare qualche segno, un'impronta, qualcosa che le ricordi che tu ci sei stato, hai vissuto con lei, e le hai lavato i panni sporchi, codarda, anche la vita. Uno fa di tutto per lei e lei che fa? Ti manda al diavolo." "Oh su, su bambina mia. La vita è codarda sí, ma se scegli di andare lo sei di più tu" l'ultimo raggio di sole scomparve dentro al divano verde smeraldo, accanto ai miei piedi nudi. Restai a fissare il soffitto, poi mi coprii con una coperta e chiusi gli occhi. Sparí anche il bagliore del sole dietro l'acqua, ed i colori del tramonto divennero blu notte, la casa si spense. "Sarò anche una codarda, ma almeno non ho abbandonato nessuna persona" Mi dissolsi assieme alle sfumature del tramonto, "io li scriverò tutti quei libri."
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Simpatico entrare a casa delle persone per il festival dei calzini. Una sala con le porte di legno bianche, un focolare soffuso tenuto in vita dal respiro di un mucchietto di ragazzi, ed ecco che Clifden 2008 prende vita.
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Take care of you
“Namjoon non è delicato. Le sue mani sono troppo grandi e poco precise. Il lavoro le ha logorate molto tempo fa e la pelle scura è ruvida al tatto. Namjoon sa di non essere delicato, eppure prova a fare del suo meglio. Se la giornata è particolarmente buona, allora ci riesce anche. Se non lo è, Namjoon cerca di esserlo almeno con le parole. Le sussurra dolcemente, una dietro l'altra, lentamente, per paura di disturbare Yoongi lì seduto di fronte a lui. Namjoon può vederne solo la schiena ma sa che lo hyung ha gli occhi chiusi. Namjoon sussurra ma in realtà vorrebbe urlare come quando si chiude nello sgabuzzino dedicato al personale della stazione di servizio in cui lavora. Davanti allo specchio sputa parole dure invece di impiegare la pausa pranzo mangiando. Il suo rap è sempre veloce, sempre così carico d'ira. Il suo rap è fuoco, lo stesso fuoco della sigaretta che ha spento prima che Yoongi rientrasse a casa. Non che Yoongi non sappia che Namjoon fumi. L'odore del suo piccolo segreto impregna la scadente carta da parati del loro monolocale in tutti i suoi punti. Ha impregnato tutti tessuti con cui veniva a contatto e ogni lembo di pelle disponibile. Ha sporcato i loro polmoni e ha appesantito i loro petti. E' un accordo implicito che nessuno dei due dica niente. E niente Namjoon dice mentre lascia scivolare l'ennesimo batuffolo di cotone sulla pelle ferita di Yoongi. Con un amaro sorriso sulle labbra, Namjoon pensa che siano molti gli accordi impliciti fra loro due.
Un accordo implicito non è il lavoro di Yoongi, però. Il più grande ha colpito Namjoon con la notizia come avrebbe potuto fare con un pugno in faccia. Namjoon si ricorda di esserne rimasto stordito per qualche minuto, seduto sull'unica sedia attorno al tavolo che i due possiedono. Namjoon non sa perché sia lì, nessuno dei due lo utilizza. Anche perché i pasti caldi da metterci sopra sono rari. Rare sono anche le parole di Yoongi riguardo al suo lavoro. Il più piccolo però se le ricorda tutte, dalle più dolorose alle bugie. Si è sempre attaccato a quelle poche informazioni che ha raccolto nell'ultimo anno per immaginare come Yoongi possa sentirsi. E per ricordarsi che deve provare -ancora e ancora- a uscire da quella situazione. Così mentre l'altro si prepara per incontrare un cliente quella sera per un'altra nottata fuori e Namjoon lo guarda steso dal loro letto, la frase di Yoongi -l'inizio di tutto- gli torna in mente. Forse perché il più basso indossava la stessa giacca in pelle -fa troppo freddo fuori per indossare una giacca del genere- anche quella sera. Di questa, Namjoon ricorda le buste piene di cibo di scarsa qualità che l'altro stringeva tra le mani bianche -cibo che non vedeva da giorni- e il freddo che aveva sentito fin dentro le ossa. Forse anche più in profondità. Un brivido lo attraversa anche ora. Yoongi ha aperto la porta e la finestra spalancata fa corrente. Yoongi lo saluta con un “non aspettarmi sveglio” ma Namjoon sente altre parole. “Un tizio mi ha dato 300,000 won per succhiargli il cazzo stasera. Ha detto che me ne può dare il doppio domani se sono bravo. Ho accettato.”
Yoongi è bellissimo. Lo è sempre stato agli occhi di Namjoon. Soprattutto quando entrambi stavano piegati ore e ore sulla tastiera di un computer, gomito contro gomito, a lavorare sull'ennesimo beat. L'entusiasmo che riempiva gli occhi di Yoongi lo rendeva affascinante e al più piccolo non interessava che la stanza in cui erano chiusi da ore non avesse un buon odore. L'importante per il Namjoon di sei anni prima era riuscire a soddisfare la sua voglia di fare musica e quella del suo hyung. Yoongi è ancora bellissimo, pensa Namjoon. Ha gettato le chiavi della macchina sul tavolino e sta fissando Yoongi dormire sul loro letto. Sono le tre di pomeriggio e Namjoon ha ancora addosso la divisa da lavoro. Non perde tempo a cambiarsi nello spogliatoio perché ha fretta di arrivare a casa e accertarsi che Yoongi stia bene dopo la nottata passata in strada. Per quanto stupido sia il suo pensiero. Yoongi non sta bene. Yoongi vende il suo corpo ogni notte per permettere a Namjoon di tenere in affitto lo studio di registrazione. Yoongi non sta bene perché ha smesso di sperare per se stesso e ora spera solo per Namjoon. Il più piccolo sospira e si avvicina al corpo dell'altro ragazzo, senza toccarlo. Yoongi paradossalmente non glielo permette. Non da quando sono troppe le mani che lo fanno. “Yoongi, svegliati. Dobbiamo farci una doccia”. Dopo un paio di tentativi, il più grande sbatte le palpebre due volte. Le lunghe ciglia incantano ancora Namjoon come facevano da ragazzino. “Sei tornato” dice semplicemente Yoongi. Namjoon vorrebbe rispondere “dove dovrei tornare se non ho che te?” ma si sta già dirigendo verso la doccia. Si spoglia con calma senza sapere se l'altro lo stia guardando o meno. Da quanto tempo è che non si guardano davvero? Quando Yoongi si unisce a lui sotto il getto d'acqua calda, il più grande appoggia la sua fronte sulla schiena dell'altro rimanendo immobile e lo usa come sostegno. Allora Namjoon risponde. “Torno sempre, hyung”. Allora Namjoon lo guarda. Sì, Yoongi è ancora bellissimo.
Alcune sere le gambe di Yoongi tremano. Il ragazzo si muove per il monolocale senza sosta e nervoso. Guarda l'orologio ogni cinque minuti sperando che l'ora arrivi ma anche che il tempo non scorra più. Namjoon sa che quello che l'altro deve incontrare non è un cliente qualunque. Non ne conosce l'identità ovviamente ma deve essere uno di quelli. Yoongi gli ha raccontato che ci sono volte in cui il suo lavoro non si limita solamente ad andare a letto con uomini o donne che hanno il doppio della sua età, a volte anche il triplo. A volte Yoongi accompagna persone importanti in luoghi eleganti che camuffano le atrocità e le perversione che avvengono dietro alle porte in legno antico e finitamente decorate. Namjoon sa che è una di quelle sere. Namjoon sa che domani mattina Yoongi sarà ridotto ad un corpo vuoto, ferito, dolorante. Stasera è una serata importante per il più piccolo. Ha ottenuto un po' di spazio in un locale nella periferia della città e si esibirà con un paio dei suoi pezzi più apprezzati nella scena. Recentemente Namjoon non se la cava male e il suo nome sta risvegliando l'interesse della gente. Namjoon aspetta solo che risvegli quello della gente giusta. L'eccitazione per la serata svanisce man mano che osserva Yoongi e scema man mano che le spalle del suo hyung si fanno più rigide. Rabbrividisce ogni volta che l'altro si guarda nello specchio accertandosi che l'eye-liner che si è messo non sia sbavato, che i suoi capelli tinti di rosso siano a loro posto, che tutto sia perfetto. “Sembri una rosa” si lascia sfuggire Namjoon e Yoongi si ferma guardandolo confuso. “Con quei capelli” chiarisce il più piccolo indicando la propria testa come a sostenere la sua tesi. Yoongi non risponde ma l'altro è abituato ai suoi silenzi. Namjoon si avvicina a passi lenti per dargli la possibilità di sfuggire al suo tocco. Ma lo hyung resta fermo dov'è e sembra osservarlo. Namjoon alza la mano e gli tocca una ciocca cremisi. Le dita però si ribellano ingorde e scendono sullo zigomo pallido del più grande. Non si fermano, sembra una corsa contro il tempo. Lo sguardo di Yoongi ne è l'orologio, il battito del cuore di Namjoon è la scansione dei secondi che passano. Namjoon accarezza, Yoongi sospira. “Sei una bellissima rosa” ribadisce il più piccolo con un sussurro. Il pollice di Namjoon si sofferma sul labbro inferiore dell'altro. La mente è fissa su quante volte l'ha visto spaccato. 'Ma le rose hanno le spine. E quando ti pungono te le fai scivolare di mano' pensa Namjoon. Chiude gli occhi per un secondo. Quando li riapre è già tutto finito. “Buona fortuna per stasera, Joonie” è l'ultima cosa che gli dice Yoongi mentre a Namjoon già manca la sua bocca calda a contatto con la pelle delle sue dita. 'Anche a te, hyung. Anche a te'.
Yoongi è delicato. Le sue mani sono piccole e ferme. Il lavoro che fa gli impone di prendersene cura e la pelle pallida è morbida al tatto. Yoongi sa di essere delicato, eppure prova a fare del suo meglio per essere forte. Se la nottata è particolarmente buona, allora ci riesce anche. Se non lo è, Yoongi cerca di esserlo almeno nei suoi silenzi. Li impone, uno dietro l'altro, pretendendo che si rispettino per paura -dicendo qualcosa, dicendo la verità- di ferire Namjoon seduto lì dietro di lui. Yoongi non può vederlo ma sa che il più piccolo ha gli occhi bene aperti e concentrati. Yoongi sta zitto ma in realtà vorrebbe urlare come quando si chiude nel bagno del solito squallido hotel ad ore e soffoca le urla in un asciugamano lurido. Davanti allo specchio sussurra una preghiera invece di andarsene subito a casa appena il suo cliente lascia la sua paga tra le lenzuola. La sua preghiera è un sussurro, sempre così carica di dolore. La sua preghiera è consumata, come lo è la foto di loro due -felici, così felici- che Yoongi tiene nel portafoglio. Non che Namjoon non sappia che Yoongi la conservi. Il ricordo del suo piccolo segreto rivive tra le pareti del loro piccolo monolocale. L'hanno rimesso in atto nella loro mente un milione di volte. Ha tormentato i loro cuori e ha appesantito i loro petti. E' un accordo implicito che nessuno dei due dica niente. E niente Yoongi dice mentre si lascia scivolare l'ennesimo batuffolo di cotone sulla pelle ferita. Con un amaro sorriso sulle labbra, Yoongi pensa che sì sono decisamente molti gli accordi impliciti fra loro due.” -LL (Questa storia è stata postata anche sul mio vecchio account EFP.)
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