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#poesia e altre storie
occhietti · 1 month
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Non c’è un solo romanzo d’amore esistente al mondo che possa insegnarti ad amare.
L’ars amandi non è un poema didattico.
Un libro, una poesia possono aprirti a nuove idee, possono farti intraprendere cammini che non avresti mai osato affrontare, spalancarti orizzonti sconosciuti.
Ma non chiedere ai libri una risposta alla domanda di Auden, «per cortesia, ditemi cos’è l’amore», perché non sono in grado di dartela.
Ogni singola storia d’amore, vissuta o inventata, riesce ad essere unica e diversa e irripetibile rispetto ai miliardi di altre storie già accadute, che accadono, che accadranno.
Insomma, l’amore non s’impara né teoricamente né andando a bottega da altri. S’impara amando, vale a dire perdendosi.
- Andrea Camilleri
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lunamarish · 3 months
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Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo.
Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi geni ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi.
Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento.
Ma tu – ora mi ricordo – non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi, e in date ore vaga la poesia congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene.
Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre delle città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola.
Ma tu – adesso mi ricordo – mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient’altro.
Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne.
Tu diresti “Che bello!”. Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora. Ma tu – ora che ci penso – tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno.
E non diresti “Che bello! “, ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici. Vorrei pure – lasciami dire – vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sé una specie di musica.
Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu – lo capisco bene – invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni.
Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda.
Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare – ti prometto – gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina.
E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo. Ma tu – adesso ci penso – sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
Dino Buzzati
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canesenzafissadimora · 3 months
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Non c’è un solo romanzo d’amore esistente al mondo che possa insegnarti ad amare. L’ars amandi non è un poema didattico. Un libro, una poesia possono aprirti a nuove idee, possono farti intraprendere cammini che non avresti mai osato affrontare, spalancarti orizzonti sconosciuti. Ma non chiedere ai libri una risposta alla domanda di Auden, «per cortesia, ditemi cos’è l’amore», perché non sono in grado di dartela. Ogni singola storia d’amore, vissuta o inventata, riesce a essere unica e diversa e irripetibile rispetto ai miliardi di altre storie già accadute, che accadono, che accadranno.
Insomma, l’amore non s’impara né teoricamente né andando a bottega d’altri. S’impara amando, vale a dire perdendosi.
Andrea Camilleri
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swingtoscano · 9 months
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Vorrei che tu venissi da me una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi, per la prima volta pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento. Ma tu – ora mi ricordo – non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi; e in date ore vaga la poesia, congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre della città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola. Ma tu – adesso mi ricordo – mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrare la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti d’essere stanca; solo questo e nient’altro.
Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dai prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne. Tu diresti “Che bello!” Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora.
Ma tu – ora che ci penso – tu ti guarderesti intorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata ad esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti “Che bello!”, ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici.
Vorrei pure – lasciami dire – vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di se una specie di musica. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu – lo capisco bene – invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. E’ inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare – ti prometto – gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo e donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo.
Ma tu – adesso ci penso – sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso tra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
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ypsilonzeta1 · 1 year
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Essendo povera,
non butto niente,
cose che potrebbero venirmi utili,
ho un archivio,
molti cassetti,
ordinati per argomento,
forse dovrei fare alfabetico:
garantire la consultabilità.
Dice a che ti servono i romanzi.
Dice che te ne fai della poesia.
E le storie finite male,
quelle sono solo una spesa,
gl’intestardimenti, le leggerezze,
le dimenticanze, la tigna,
quando invece di prendere il battello
prendemmo il pullman,
perdemmo un giorno
e le balene non le vedemmo,
le storie dei pazienti,
le storie dei sopravvissuti,
le storie degli amici
la storia del tizio che suona leva calcistica del 58 sulla metro b
la nevrosi dell’impiegata alla posta,
l’indiano coi fazzolettini al semaforo di svolta a U,
che un giorno mi chiese una ricetta per l’antinfiammatorio,
la gelataia che sembra una maitresse,
la dirimpettaia che le sue raccomandate le ritiro io
e mi regala la cioccolata,
la professoressa col minuscolo bassotto feroce,
l’amico che da specializzando era magro e aveva una testa così di capelli neri ricci,
tanti anni fa.
Tengo quello che mi succede, mi porto dietro ogni filo di relazione,
ho una cassetta degli attrezzi in testa
una Santa Barbara di strumenti disparati, assurdi, apparentemente ciarpame,
mi servono per rispondere,
uso le narrazioni per altre narrazioni antalgiche
tesso le parole per dare senso, per toccare, per fare sesso con l’anima
e poi mi nascondo dalla paura
non so di che,
non posso sapere tutto,
e perciò trattengo i segni degli altri
me ne tatuo i neuroni
anche la voce di chiunque incrociato al supermercato.
Ogni accadimento avrà la sua collocazione
e sarà debitamente riutilizzato.
Lascerò un hangar di sguardi mai eliminati
nella delirante fantasia
che illuminino la città
anche dopo che sarò morta.
Anna Segre
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theladyorlando · 1 year
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Coins for the Eyes
Qualche anno fa ho scoperto questo signore con un nome da bambino e la voce di uno che ha vissuto cento anni. In effetti a vederlo sembra un po' un ragazzino, Johnny Flynn, invece è padre di tre figli, ed è anche padre di una quantità di innumerevoli altre cose di cui si fa davvero fatica a tenere il conto -ecco il perché di quella voce, mi dico. È una di quelle persone che stimo e invidio allo stesso tempo: una di quelle persone a cui vorrei somigliare almeno un po', perché gli scappano proprio dalle mani le parole, le immagini, i suoni, quasi fossero funghi, direbbero gli inglesi, quasi fossero fiori, viene da dire a me. Gli invidio la sua creatività incontenibile, che non ha voglia né tempo di fare i conti con le mode, con le tendenze, con le influenze del momento: traboccante. Non ha molto senso cercare di metterlo sotto l'etichetta di uno stile: folk? pop? country? anacronismo? basta ascoltarlo, ed eccolo lì, Johnny Flynn è semplicemente impegnato in un instancabile sforzo di chiarezza. Lo sento distintamente mentre canta, sta cercando qualcosa, e per farlo non scenderà a compromessi con nessun algoritmo: "come and search, for we will search", e chi mi ama mi segua. "The Wild Hunt", una delle sue ultime canzoni, sembra un manifesto di questo sforzo cui sempre tende la sua voce: il suo timbro inconfondibile è urlato e intimo allo stesso tempo. Ma c'è un'altra sua canzone che si è fatta strada più silenziosamente fin dentro alle mie giornate, fingendosi cosa da poco: dietro al suo disimpegnato ritmo in tre quarti, "Coins for the Eyes" è un segnale preciso, mi indica la direzione esatta di quella caccia folle che Johnny Flynn urla altrove di non riuscire a smettere, che lo insegue anzi, che lo schiaccia. Lui qui invece lo dice misurato e con garbo, che è a caccia del padre, è a caccia dei padri. E se non è questa la caccia che sta dietro ad ogni poesia, ad ogni romanzo che a uno viene voglia di leggere, ad ogni canzone che ti chiama per nome, allora qual è? Questo è il più grande sforzo di chiarezza che si possa onestamente fare, secondo me: cercare un padre. Scavare per trovare navi salpate, villaggi abbandonati, porti sepolti: diari, libri, ricordi. Scavare per trovare un disegno per terra, scavare per un motivo. We dig for pattern, read the rune. Quando ascolto la voce di Johnny Flynn mi ricordo, mi impongo ancora una volta che in questo io ci devo credere: che quando si interrogano, si ascoltano, si auscultano gli oggetti che altri, prima di noi, hanno lasciato cadere apposta per la strada -monete per gli occhi, chiavi per le porte- si raccoglie un testimone e ci si trasforma, quasi senza che uno se ne possa accorgere, in predecessori. Insomma, noi siamo i padri, e allo stesso tempo senza padri noi non siamo niente.
We dig for the gods that leave no bones
For a ship that sailed in the sunken sea
The vessel lost in the sky and the stones
The famine road and the merchants keep.
Come and search for we will search
And looking for a scarred land
Turn the soil, weave the dream
Thread the river, ring the sand
And dig for us whose stories lie
With buried pasts and futures won
And dig for us as we have done
To lay the dead out in the sun
To lay us dead out in the sun.
Coins for the eyes and keys for the door
Fortress, grave goods, chambered tombs
Abandoned villages, rumors of war
We dig for pattern, read the rune.
And so a clue to who we are
And where we were and why we will
Inheritors of knowledge now
And ancestors to those who still might
Dig for us whose stories lie
With buried pasts and futures won
And dig for us as we have done
To lay the dead out in the sun
To lay us dead out in the sun.
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scorcidipoesia · 2 years
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C’è bisogno di bellezza, di bagliori e luci, di dipinti e poesia. C’è bisogno di parole che accarezzino i cuori inariditi, di quadri che abbraccino gli occhi e si svelino in ogni dettaglio come a spogliarsi di misteri e segreti, storie che scaldano il cuore. C’è bisogno di profumi antichi, di focolari, di pane fatto in casa, di ulivi coraggiosi, di mandorli che fioriscano a primavera e di musiche che abbraccino l’anima per lavarla delle brutture che ci circondano.
C’è bisogno di sorrisi accennati, di delicatezza, di parole sussurrate, di spiragli ed emozioni , di ingenuità e innocenza. Il disincanto ha perso, sconfitto dalla realtà. C’è bisogno di te, del tuo incedere inesorabile nel bosco della mia anima, dove i miei agrumeti sono carichi di frutti per te, dove il mio giardino sfiora le stagioni senza sentire calore o gelo , dove il tempo mi vince e io non so morire.
C’è bisogno di te, di quello che sai fare fiorire e rimestare, quasi la mia anima avesse questa sete sconosciuta. C’è bisogno di te, non posso sentire altri suoni o voci, non posso accostarmi ad altre porte e provare a bussare ora che conosco il forziere prezioso della tua anima che mi si svela piano, ora che lotto con il tempo che ci porta via, ora che tu mi sveli questo mondo azzurro sopra di me, tutto respira, tutto fluisce e anche io sono tornata a pulsare di dolore, di paura, di attesa, di amore.
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...meraviglioso...poliedrico e postmoderno...forse il più affascinante dei libri di Calvino...Un libro infinito composto di una serie di incipit di romanzi messi insieme come perle in un filo da una storia che fa da cornice. Opera magistrale di Calvino che dimostra di trovarsi a suo agio in tutti i generi narrativi e di essere in grado di rapire il lettore con i più disparati modi di usare le parole. Continua fonte di ispirazione e di immaginazione. Il modo di conversare con il lettore, consigliandogli le posizioni da assumere prima di accingersi alla lettura rende l'autore vivo, vicino a te che leggi, come un fuoco che ti scalda, come un nonno che accarezza il nipote...Come in un gioco di specchi, la storia inizia, si incrocia con altre storie, fino a far perdere il lettore, che si trova invischiato esattamente come il protagonista del libro..e il lettore si confonde...è la sua storia? E' la storia del protagonista? Ma il protagonista chi è?...Da leggere per stupirsi... #ravenna #booklovers #instabook #igersravenna #instaravenna #ig_books #consiglidilettura #librerieaperte #poesia #alekospanagulis #italocalvino (presso Libreria ScattiSparsi Ravenna) https://www.instagram.com/p/CqKTAsgodVb/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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susieporta · 2 years
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Mi diceva Umberto ieri sera:
non scrivere per un anno, sparisci.
Ma ora penso: si sparisce lo stesso,
sentivo un silenzio enorme
quando sono andato a dormire.
Non taceva solo il paese,
tacevano tutti, li sentivo uno per uno
tutti gli esseri umani nel loro non parlare.
Dunque, non c'è nessun bisogno di sparire,
ieri sera erano finiti i
baci, le stelle
erano lontanissime, il buio
non aveva nessun segreto da confessare.
E pure adesso è tutto mestamente prevedibile,
se mangi troppi zuccheri ti svegli nella notte,
il sonno finisce come altre volte,
sai bene che ti sei scordato
i tuoi buoni propositi, non riesci a stare bene,
forse stare bene renderebbe ancora più spietato
il silenzio che ti è venuto intorno,
non lo ha deciso nessuno, non ci sono nemici,
non è una congiura, è che la tua vita nel mondo
adesso ha preso questa forma: qualcuno
ancora risponde, ma tu senti silenzio,
ieri sera sentivi il grande fallimento dei paesi,
vedevi un raduno d'ombre inerti
in quel passeggiare, sentivi un senso
di storie vuote.
Forse non è il non dire la soluzione,
ma un dire innocentissimo, privo di attese,
un dire che apre tutti i suoi rami
e fa fiorire nel silenzio
il profumo di qualcosa che c'è ancora.
Se questa è una notte
in cui tutte le solitudini sono vere,
la poesia dice che perdersi
non è l'unica stella,
che arrendersi alla frantumazione
non è l'unica piazza in cui conversare.
C'è, ci sarà un modo di ritrovarsi.
La poesia è un luogo di raduno
per chi ancora vuole lottare,
radunarsi per spartire
gli ultimi furori dell'essere,
i più intimi, quelli ancora non consumati.
Non si tratta di essere il capitano di nessuno,
non si tratta di marciare,
è un raduno che avviene sul filo teso
delle anime. Qualcuno, da qualche parte,
si farà luce con queste parole.
C'è chi sa conoscere la nostra inquietudine,
c'è ancora chi può amarla.
Franco Arminio
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carmenvicinanza · 18 days
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Meggie Royer
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Meggie Royer, scrittrice, poeta e artista multimediale statunitense, nelle sue opere, tocca temi forti come la violenza di genere e la malattia mentale.
Nata il 16 settembre 1994, ha una laurea in psicologia e un Master in assistenza sociale presso l’Università del Michigan.
Sopravvissuta a violenza domestica, la scrittura l’ha aiutata ad affrontare e gestire il trauma.
Sin da giovanissima, ha collaborato con diverse associazioni impegnate nel contrasto alla violenza di genere.
La sua prima raccolta di poesie Survival Songs è stata finalista al Goodreads Best Poetry Book 2013.
Ha una tecnica di scrittura che combina elementi fantasy o inventati con fatti o storie vere.
Ha fondato e dirige Persephone’s Daughters, una rivista digitale letteraria e artistica dedicata alle sopravvissute agli abusi.
Vincitrice di diversi premi letterari, è stata più volte nominata per il Pushcart Prize ed è stata finalista al Princemere Poetry Prize 2019.
La sua poesia è stata pubblicata su Plain China: National Anthology of the Best Undergraduate Writing, The Rumpus, The Minnesota Review, Tinderbox Poetry Journal e altre riviste.
Le sue opere sono state esposte in diversi ambiti tra cui l’Octagon Center for the Arts nello Iowa e il Centro per la prevenzione e la sensibilizzazione sulle aggressioni sessuali dell’Università del Michigan, nell’aprile 2022.
I suoi libri, casi editoriali negli Stati Uniti, non sono ancora stati tradotti in italiano.
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unfilodaria · 2 months
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Ho sempre scritto, dai tempi del liceo, per lo più boiate, anche in versi. Provavo a tenere un diario ma puntualmente mi stancavo, finendo con l’abbandonarli. Francesco, il mio amico, il mio compagno di banco, mi scriveva le recensioni, stroncandomi sul nascere qualsiasi velleità artistica e prendendomi sonoramente per il culo. Poi scrivevo lettere (ai tempi mica c’era internet, Facebook, Tumblr). Lettere chilometriche per quelle che mi avevano infiammato il cuore e che puntualmente non me la davano. Sono stato ragazzo dal sospiro facile, dai desideri intensi mai soddisfatti, dall’occhio languido che si accontentava di ammazzarsi di seghe e assumere il ruolo di migliore amico, confidente, spalla su cui piangere amori altrui. Così l’ho conosciuta, così mi ha intrappolato, così mi sono drogato di lei. Parlava, parlava, nervosamente, piangeva, sospirava ora per quello ora per quell’altro e non ero mai io. E io intanto ci morivo dietro. Mi consumavo, questa volta non di seghe, ma di desiderio. Ero inspiegabilmente e inevitabilmente attratto da lei, occhi enormi, capelli folti, un po’ ranocchietta ma corpo irrimediabilmente di donna. C’ho scritto pure un fumetto che forse ha ancora lei. Una storia esistenzialista-drammatica-adolescenziale… “Storia di io” ecco, mi sono ricordato anche il titolo. Molto profetico su quello che è stata la mia vita dopo per lei: io una falena che finiva col bruciarsi le ali intorno alla luce della sua candela.
Comunque dicevo ho sempre scritto, anche quando dopo anni lei era sparita totalmente dai miei radar. Altra vita, altre storie. Piccoli racconti. Pensieri del momento. Poi ho conosciuto quella che sarebbe stata mia moglie. Non ho scritto più. Non c’era poesia, non c’era amore (questo l’ho capito solo dopo) preso come era dal metter su famiglia, studiare (mi sono laureato tardissimo) ma soprattutto lavorare. Lavoro da 39 anni, da quando è morto mio padre ed io stavo per compiere 20 anni. Una vita ribaltata, totalmente ribaltata. Non avevo più tempo per me: esisteva la famiglia, una moglie problematica (si me le vado a cercare con il lanternino), il lavoro in affanno e odiato (non era il mio mondo non è il mio mondo ma questa è tutta un’altra storia), dopo 9 anni di fidanzamento e 4 di matrimonio, una figlia, la mia adorata figlia. Dopo la sua nascita tutto ha iniziato a scricchiolare, io andavo avanti con la testa, pensavo al futuro, volevo costruire qualcosa per me e la famiglia, e la mia ex sempre più indietro. Ci siamo persi di vista pur stando sotto il medesimo tetto. Avevamo “il morto in casa”, la nostra relazione era defunta, il tanfo si avvertiva distintamente. Io lo avvertivo tutti i giorni, stavo male, mentre la mia ex non lo avvertiva o faceva finta di. Ho cominciato a star male per davvero . Ho ricominciato a scrivere. Dovevo buttare fuori, creare, inventare. Una mia prima psicologa (un tentativo fallimentare di tre sedute) mi incoraggiò a continuare a scrivere “é terapeutico, ti aiuterà”. Non ho più smesso ma mai con l’intenzione di diventare scrittore. So misurarmi la palla: non ho talento, perché so solo scrivere di quel che conosco e che sto imparando a conoscere, cioè me.
Il resto lo scrivo un’altra volta. Ora sono stanco.
Notte
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lunamarish · 1 year
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Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. "Ti ricordi?" ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento. Ma tu - ora mi ricordo - non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da pioggia sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei "Ti ricordi?", ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi; e in date ore vaga la poesia, congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre della città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola. Ma tu - adesso mi ricordo - mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient’altro.
Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne. Tu diresti "Che bello". Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora. Ma tu - ora che ci penso - tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti "Che bello!", ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici.
Vorrei pure - lasciami dire - vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sè una specie di musica. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu - lo capisco bene - invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo.
È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare - ti prometto - gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo.
Ma tu - adesso ci penso - sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
Dino Buzzati
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canesenzafissadimora · 2 months
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Non c’è un solo romanzo d’amore esistente al mondo che possa insegnarti ad amare. L’ars amandi non è un poema didattico. Un libro, una poesia possono aprirti a nuove idee, possono farti intraprendere cammini che non avresti mai osato affrontare, spalancarti orizzonti sconosciuti. Ma non chiedere ai libri una risposta alla domanda di Auden, «per cortesia, ditemi cos’è l’amore», perché non sono in grado di dartela. Ogni singola storia d’amore, vissuta o inventata, riesce ad essere unica e diversa e irripetibile rispetto ai miliardi di altre storie già accadute, che accadono, che accadranno. Insomma, l’amore non s’impara né teoricamente né andando a bottega da altri. S’impara amando, vale a dire perdendosi.
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antennaweb · 3 months
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gaiainthejourney · 5 months
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Immaginazione e fantasia
L'immaginazione è una delle facoltà più importanti che l'essere umano possegga, poiché permette di trascendere i limiti dello spazio e del tempo e di vivere innumerevoli altre vite. L'immaginazione è quell'attività della mente che sospende temporaneamente i bivi dell'esistenza, è il collo sul quale la testa si protende per scorgere visioni di strade ancora non intraprese, di strade abbandonate e di strade lontane che mai avremmo potuto o potremo raggiungere.
Spesso essa viene confusa con la fantasia, ma sono due cose ben diverse ed essere saggi significa imparare a distinguere l'una dall'altra. Nella fantasia c'è sempre l'eco di un desiderio o di una paura recondita, è fatta di piacere e dolore, è la materia di cui sono fatti i romanzi e le storie. L'immaginazione è una questione di percezione ed essa è meglio esprimibile attraverso la poesia, l'arte o la scienza.
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daimonclub · 6 months
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Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno
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Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, un post letterario che riprende alcuni brani di questo testo umoristico di Giulio Cesare Croce con una piccola introduzione e una breve biografia dell'autore. Quando frequentavo le scuole medie, nel 1973, nella nostra antologia - LA LETTURA. ANTOLOGIA CON LETTURE EPICHE di Italo Calvino e Giambattista Salinari, Zanichelli Editore, un libro bello corposo per ogni annualità, oltre all'epica, alle poesie e a vari testi letterari di autori classici vi erano anche testi più umoristici, tratti da opere di scrittori di assoluta genialità. Tra questi vi erano brani tratti dal Bertoldo di Croce che, con i testi del Don Chisciotte di Cervantes, erano tra i miei preferiti; non a caso molti anni anni dopo la mia tesi di laurea si occupò proprio del fenomeno umoristico. A distanza di 50 anni, e dopo aver sofferto parecchio durante la mia complicata esistenza, a soli pochi mesi dalla morte di mia madre, dedico questo post a Bertoldo e al suo autore, memore dei miei anni più spensierati, quando dopo delle intese giornate scolastiche ritornavo a casa e potevo beneficiare della presenza dei miei genitori, di una realtà che non ritornerà mai più. Restano solo i ricordi, la nostalgia, la meloanconia, la sofferenza e la lieve funzione terapeutica della letteratura. Giulio Cesare Croce è stato uno scrittore e drammaturgo italiano del XVI secolo, noto principalmente per essere l'autore della popolare opera comica "Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno", la cui trama ruota attorno alle avventure di due contadini, Bertoldo e Bertoldino, e del loro amico Cacasenno. Figlio di fabbri e fabbro a sua volta, morto il padre, lo zio continuò a cercare di dargli una cultura. Non ebbe mai mecenati particolari, e lasciò gradualmente la professione di famiglia per fare il cantastorie. Acquisì fama raccontando le sue storie per corti, fiere, mercati e case patrizie. Si accompagnava con un violino. L'enorme sua produzione letteraria deriva da una autoproduzione delle stampe dei suoi spettacoli. Ebbe due mogli e 14 figli e morì in povertà. L'opera di Croce è caratterizzata da un umorismo vivace, un linguaggio colloquiale e una satira sociale che prende di mira le convenzioni e le ipocrisie del suo tempo. "Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno" è diventato un classico della letteratura comica italiana e ha avuto una grande influenza sulla tradizione del teatro popolare. Una forma scritta precedente come fonte fu il medievale Dialogus Salomonis et Marcolphi. Oltre a "Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno", e ad un romanzo successivo sempre dello stesso filone, Croce scrisse anche altre opere, tra cui commedie, numerosi libretti brevi in prosa e poesia, che abbracciano vari generi letterari della tradizione popolare e raccolte di novelle.
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Giulio Cesare Croce L'autore riprese temi popolari del passato, come la storia di Bertoldo, ambientandola alla corte di re Alboino a Verona e a Pavia. Nella sua versione più organica, rese la storia meno licenziosa e attenuò la rivalsa popolare verso i potenti. Aggiunse un seguito riguardante il figlio di Bertoldo, chiamato Bertoldino, e successivamente un altro seguito elaborato da Adriano Banchieri, chiamato Novella di Cacasenno. Questi racconti furono poi adattati in tre film, nel 1936, nel 1954 e l'ultimo del 1984, diretto dal grande Mario Monicelli, con Ugo Tognazzi e Alberto Sordi. In Bertoldo, l'autore confessò forse le sue aspirazioni personali, rappresentando il rozzo villano come un autodidatta desideroso di fortuna e mecenati. La sua produzione letteraria contribuì significativamente allo sviluppo della commedia dell'arte italiana e alla diffusione della cultura popolare nel XVI secolo, diventando così uno dei precursori della commedia italiana, apprezzata ancora anche oggi. I suoi scritti inoltre contribuirono anche alla grande letteratura carnevalesca, un importante filone identificato per la prima volta da Michail Bachtin, che tra i suoi esponenti conta tra gli altri Luciano di Samosata, Rabelais, Miguel de Cervantes e Dostoevskij. Le sottilissime astuzie di Bertoldo. Nel tempo che il Re Alboino, Re dei Longobardi si era insignorito quasi di tutta Italia, tenendo il seggio reggale nella bella città di Verona, capitò nella sua corte un villano, chiamato per nome Bertoldo, il qual era uomo difforme e di bruttissimo aspetto; ma dove mancava la formosità della persona, suppliva la vivacità dell'ingegno: onde era molto arguto e pronto nelle risposte, e oltre l'acutezza dell'ingegno, anco era astuto, malizioso e tristo di natura. E la statura sua era tale, come qui si descrive. Fattezze di Bertoldo. Prima, era costui picciolo di persona, il suo capo era grosso e tondo come un pallone, la fronte crespa e rugosa, gli occhi rossi come di fuoco, le ciglia lunghe e aspre come setole di porco, l'orecchie asinine, la bocca grande e alquanto storta, con il labro di sotto pendente a guisa di cavallo, la barba folta sotto il mento e cadente come quella del becco, il naso adunco e righignato all'insù, con le nari larghissime; i denti in fuori come il cinghiale, con tre overo quattro gosci sotto la gola, i quali, mentre che esso parlava, parevano tanti pignattoni che bollessero; aveva le gambe caprine, a guisa di satiro, i piedi lunghi e larghi e tutto il corpo peloso; le sue calze erano di grosso bigio, e tutte rappezzate sulle ginocchia, le scarpe alte e ornate di grossi tacconi. Insomma costui era tutto il roverso di Narciso. Audacia di Bertoldo. Passò dunque Bertoldo per mezzo a tutti quei signori e baroni, ch'erano innanzi al Re, senza cavarsi il cappello né fare atto alcuno di riverenza e andò di posta a sedere appresso il Re, il quale, come quello che era benigno di natura e che ancora si dilettava di facezie, s'immaginò che costui fosse qualche stravagante umore, essendo che la natura suole spesse volte infondere in simili corpi mostruosi certe doti particolari che a tutti non è così larga donatrice; onde, senza punto alterarsi, lo cominciò piacevolmente ad interrogare, dicendo: Ragionamento fra il Re e Bertoldo. Re. Chi sei tu, quando nascesti e di che parte sei? Bertoldo. Io son uomo, nacqui quando mia madre mi fece e il mio paese è in questo mondo. Re. Chi sono gli ascendenti e descendenti tuoi? Bertoldo. I fagiuoli, i quali bollendo al fuoco vanno ascendendo e descendendo su e giù per la pignatta. Re. Hai tu padre, madre, fratelli e sorelle? Bertoldo. Ho padre, madre, fratelli e sorelle, ma sono tutti morti. Re. Come gli hai tu, se sono tutti morti? Bertoldo. Quando mi partii da casa io gli lasciai che tutti dormivano e per questo io dico a te che tutti sono morti; perché, da uno che dorme ad uno che sia morto io faccio poca differenza, essendo che il sonno si chiama fratello della morte. Re. Qual è la più veloce cosa che sia? Bertoldo. Il pensiero. Re. Qual è il miglior vino che sia? Bertoldo. Quello che si beve a casa d'altri. Re. Qual è quel mare che non s'empie mai? Bertoldo. L'ingordigia dell'uomo avaro. Re. Qual è la più brutta cosa che sia in un giovane? Bertoldo. La disubbidienza. Re. Qual è la più brutta cosa che sia in un vecchio? Bertoldo. La lascivia. Re. Qual è la più brutta cosa che sia in un mercante? Bertoldo. La bugia. Re. Qual è quella gatta che dinanzi ti lecca e di dietro ti sgraffa? Bertoldo. La puttana. Re. Qual è il più gran fuoco che sia in casa? Bertoldo. La mala lingua del servitore. Re. Qual è il più gran pazzo che sia? Bertoldo. Colui che si tiene il più savio. Re. Quali sono le infermità incurabili? Bertoldo. La pazzia, il cancaro e i debiti. Re. Qual è quel figlio ch'abbrugia la lingua a sua madre? Bertoldo. Lo stuppino della lucerna. Re. Come faresti a portarmi dell'acqua in un crivello e non la spandere? Bertoldo. Aspettarei il tempo del ghiaccio, e poi te la porterei. Re. Quali sono quelle cose che l'uomo le cerca e non le vorria trovare? Bertoldo. I pedocchi nella camicia, i calcagni rotti e il necessario brutto. Re. Come faresti a pigliar un lepre senza cane? Bertoldo. Aspettarei che fosse cotto e poi lo pigliarei. Re. Tu hai un buon cervello, s'ei si vedesse. Bertoldo. E tu saresti un bell'umore, se non rangiasti. Re. Orsù, addimandami ciò che vuoi, ch'io son qui pronto per darti tutto quello che tu mi chiederai. Bertoldo. Chi non ha del suo non può darne ad altri. Re. Perché non ti poss'io dare tutto quello che tu brami? Bertoldo. Io vado cercando felicità, e tu non l'hai; e però non puoi darla a me. Re. Non son io dunque felice, sedendo sopra questo alto seggio, come io faccio? Bertoldo. Colui che più in alto siede, sta più in pericolo di cadere al basso e precipitarsi. Re. Mira quanti signori e baroni mi stanno attorno per ubidirmi e onorarmi. Bertoldo. Anco i formiconi stanno attorno al sorbo e gli rodono la scorza. Re. Io splendo in questa corte come propriamente splende il sole fra le minute stelle. Bertoldo. Tu dici la verità, ma io ne veggio molte oscurate dall'adulazione. Re. Orsù, vuoi tu diventare uomo di corte? Bertoldo. Non deve cercar di legarsi colui che si trova in libertà. Re. Chi t'ha mosso dunque a venir qua? Bertoldo. Il creder io che un re fosse più grande di statura degli altri uomini dieci o dodeci piedi, e che esso avanzasse sopra tutti come avanzano i campanili sopra tutte le case; ma io veggio che tu sei un uomo ordinario come gli altri, se ben sei re. Re. Son ordinario di statura sì, ma di potenza e di ricchezza avanzo sopra gli altri, non solo dieci piedi ma cento e mille braccia. Ma chi t'induce a fare questi ragionamenti? Bertoldo. L'asino del tuo fattore. Re. Che cosa ha da fare l'asino del mio fattore con la grandezza della mia corte? Bertoldo. Prima che fosti tu, né manco la tua corte, l'asino aveva raggiato quattro mill'anni innanzi. Re. Ah, ah, ah! Oh sì che questa è da ridere. Bertoldo. Le risa abbondano sempre nella bocca de' pazzi. Re. Tu sei un malizioso villano. Bertoldo. La mia natura dà così. Re. Orsù, io ti comando che or ora tu ti debbi partire dalla presenza mia, se non io ti farò cacciare via con tuo danno e vergogna. Bertoldo. Io anderò, ma avvertisci che le mosche hanno questa natura, che se bene sono cacciate via, ritornano ancora: però se tu mi farai cacciar via, io tornerò di nuovo ad insidiarti. Re. Or va'; e se non torni a me come fanno le mosche, io ti farò battere via il capo.
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Bertoldo e il suo asino Astuzia di Bertoldo. Partissi dunque Bertoldo, e andatosene a casa e pigliato uno asino vecchio, ch'egli aveva, tutto scorticato sulla schiena e sui fianchi e mezo mangiato dalle mosche, e montatovi sopra, tornò di nuovo alla corte del Re accompagnato da un milione di mosche e di tafani che tutti insieme facevano un nuvolo grande, sì che a pena si vedeva, e gionto avanti al Re, disse: Bertoldo. Eccomi, o Re, tornato a te. Re. Non ti diss'io che, se tu non tornavi a me come mosca, ch'io ti farei gettar via il capo dal busto? Bertoldo. Le mosche non vanno elleno sopra le carogne? Re. Sì, vanno. Bertoldo. Or eccomi tornato sopra una carogna scorticata e tutta carica di mosche, come tu vedi, che quasi l'hanno mangiata tutta e me insieme ancora: onde mi tengo aver servato quel tanto che io di far promisi. Re. Tu sei un grand'uomo. Or va, ch'io ti perdono, e voi menatelo a mangiare. Bertoldo. Non mangia colui che ancora non ha finito l'opera. Re. Perché, hai tu forse altro da dire? Bertoldo. Io non ho ancora incominciato. Re. Orsù, manda via quella carogna, e tu ritirati alquanto da banda perché io veggio venire in qua due donne che devono forse voler audienza da me; e come io le avrò ispedite, tornaremo di nuovo a ragionare insieme. Bertoldo. Io mi ritiro, ma guarda a dare la sentenza giusta. Astuzia sottilissima di Bertoldo, per non essere percosso dalle guardie. Quando Bertoldo vidde che in modo alcuno non la poteva fuggire, ricorse all'usato giudicio e, volto alla Regina disse: “Poi ch'io veggio chiaramente che pur tu vuoi ch'io sia bastonato, fammi questa grazia: ti prego in cortesia, che la domanda è onesta e la puoi fare, in ogni modo a te non importa pur ch'io sia bastonato, di' a questi tuoi che mi vengono accompagnare, che dicano alle guardie che portino rispetto al capo e che elle menino poi il resto alla peggio”. La Regina, non intendendo la metafora, comandò a coloro che dicessero alle guardie che portassero rispetto al capo e che poi menassero il resto alla peggio che sapevano; e così costoro, con Bertoldo innanzi, s'inviarono verso le guardie, le quali aveano di già i legni in mano per servirlo della buona fatta; onde Bertoldo incominciò a caminare innanzi agli altri di buon passo, sì che era discosto da loro un buon tratto di mano. Quando coloro che l'accompagnavano viddero le guardie all'ordine per far il fatto ed essendo omai Bertoldo arrivato da quelle, cominciarono da discosto a gridare che portassero rispetto al capo e che poi menassero il resto alla peggio, che così aveva ordinato la Regina. I servi sono bastonati in cambio di Bertoldo. Le guardie, vedendo Bertoldo innanzi agli altri, pensando che esso fusse il capo di tutti, lo lasciarono passare senza fargli offesa alcuna, e quando giunsero i servi gli cominciarono a tempestare di maniera con quei bastoni che gli ruppero le braccia e la testa, e in somma non vi fu membro né osso che non avesse la sua ricercata di bastone. sì tutti pesti e fracassati tornarono alla Regina, la quale, avendo udito che Bertoldo con tale astuzia s'era salvato e aveva fatto bastonare i servi in suo luoco, arse verso di lui di doppio sdegno e giurò di volersene vendicare, ma per allora celò lo sdegno che ella avea, aspettando nuova occasione; facendo in tanto medicare i servi, i quali, come vi dissi, erano stati acconci per le feste, come si suol dire. Bertoldo sta nel forno e la Regina il fa cercar per tutto. Dopo che l'infelice sbirro fu mandato a bere, si fece gran diligenza per trovar Bertoldo, ma per le pedate volte alla roversa non poteva(si) comprendere ch'ei fosse uscito fuori di corte, e la Regina lo fece cercar per tutto con animo risoluto di farlo impiccare, parendogli pur grave la beffa della veste e dello sbirro. Bertoldo viene scoperto nel forno da una vecchia, e si divulga per tutto la Regina esser nel forno. Stava dunque il misero Bertoldo in quel forno e udiva il tutto e cominciò a temere molto della morte e si pentì d'esser mai andato in quella corte e non ardiva d'uscire fuori per non essere preso, sapendo che la Regina gli aveva mal animo adosso; e ora tanto più avendogli fatto la burla dello sbirro e della veste, dubitava ch'ella non lo facesse impiccare. Ma avendo indosso quella veste, ch'era lunga, né avendola tirata ben dentro del forno tutta, essendone restata fuori un lembo, volse la sua mala sorte ch'ivi venne a passare una vecchia appresso al detto forno, e conosciuto l'orlo della veste, che pendeva fuori, che quella era una delle vesti della Regina, si pensò che la Regina fusse rinchiusa nel detto forno; onde andò in un tratto da una sua vicina e gli disse che la Regina era in quel forno. Andò colei seco e, guardando nel forno, vidde la detta veste, e, conoscendola, lo disse ad un'altra, quell'altra ad un'altra e così di mano in mano a tale che non fu meza mattina che per tutta la città andò la nuova che la Regina era in un forno dietro le mura della città. Il Re dubita che Bertoldo non abbi portato la Regina in quel forno, e va a chiarirsi del fatto. Udendo il Re simil fatto, dubitò che Bertoldo avesse portato la Regina in quel forno, perché lo conosceva tanto tristo che credeva ch'ei potesse fare ogni cosa, e le strattagemme del passato maggiormente gli crescevano il sospetto; onde subito andò alla camera della Regina e la trovò ch'ella era tutta arrabbiata; e inteso da lei la beffa della veste, si fece condurre a quel forno e guardando in esso vidde costui nel detto avviluppato nella veste della Regina, e tosto lo fece tirar fuori, minacciandolo della morte; e così fu spogliato della veste il povero villano e restò con gli suoi strazzi intorno; e tra che esso era brutto di natura e avendosi tutto tinto il mostaccio nel detto forno, pareva proprio un diavolo infernale. Bertoldo è tirato fuori del forno e il Re sdegnato dice: Re. Pur ti ci ho colto, villan ribaldo, ma a questa volta non scamperai del certo, se non sei il gran diavolo. Bertoldo. Chi non vi è non vi entri, e chi v'è non si penti. Re. Chi fa quello che non deve, gli avviene quello che non crede. Bertoldo. Chi non vi va non vi casca, e chi vi casca non si leva netto. Re. Chi ride il venere, piange la domenica. Bertoldo. Dispicca l'appiccato, egli appiccherà poi te. Re. Fra carne e unghia, nissun non vi pungia. Bertoldo. Chi è in difetto, è in sospetto. Re. La lingua non ha osso e fa rompere il dosso. Bertoldo. La verità vuol star di sopra. Re. Ancor del ver si tace qualche volta. Bertoldo. Non bisogna fare, chi non vuol che si dica. Re. Chi si veste di quel d'altri, presto si spoglia. Bertoldo. Meglio è dar la lana, che la pecora. Re. Peccato vecchio, penitenza nuova. Bertoldo. Pissa chiaro, indorme al medico. Re. Il menar delle mani dispiace fino ai pedocchi. Bertoldo. E il menar de' piedi dispiace a chi è tratto giù dalle forche. Re. Fra un poco tu sarai uno di quelli. Bertoldo. Inanzi orbo, che indovino. Re. Orsù, lasciamo andare le dispute da un lato. Olà, cavaliero di giustizia, e voi altri ministri, pigliate costui e menatelo or ora a impendere a un arbore, né si dia orecchie alle sue parole perché costui è un villano tristo e scelerato che ha il diavolo nell'ampolla e un giorno sarebbe buono per rovinare il mio stato. Su, presto, conducetelo via, né si tardi più. Bertoldo. Cosa fatta in fretta non fu mai buona. Re. Troppo grave è stato l'oltraggio che tu hai fatto alla Regina. Bertoldo. Chi ha manco ragione, grida più forte. Lasciami almeno dire il fatto mio. Re. Alle tre si fa cavallo e tu glien'hai fatte più di quattro, che gli sono state di troppo affronto. Va' pur via. Bertoldo. Per aver detto la verità ho da patir la morte? Read the full article
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