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La magia nella Terra dei Caldei
Come abbiamo visto in un precedente articolo nell’antico Egitto la magia appare strettamente collegata ad una forma di religione essa stessa magica. Ma esiste un’altra culla della magia oltre l’Egitto ovvero la “Terra dei Caldei”. Con questa espressione intendiamo riferirci a tutta la zona mesopotamica comprendendovi quindi l’antica Persia dominata dalla figura di Zoroastro sapiente sacerdote soprattutto mago. Si è parlato spesso di un’origine persiana della magia. D’altra parte la stessa parola “mago” viene dall’antico persiano “magarian” attraverso il greco magoi parola che indicava un gruppo di sacerdoti zoroastriani sebbene Erodoto li definisca più genericamente una tribù della Media. Ora nell’antica Persia la magia appare più vicina alla sapienza intendendo con tale parola quella che oggi noi chiamiamo scienza e alla filosofia. Infatti maghi erano presso i persiani gli studiosi gli astronomi i sapienti. Inoltre maghi erano coloro che giunsero in Palestina dal lontano Oriente per salutare la nascita di Gesù Cristo annunciato come Salvatore. Essi giunsero in Palestina grazie alla rivelazione di un’insolita costellazione forti dunque di una sicura competenza astronomica e astrologica. L’osservazione dei fenomeni astronomici a cui spesso si collegava la pratica della divinazione doveva senza dubbio essere uno dei compiti o delle caratteristiche dei maghi Caldei. Ai loro occhi la divinazione non poteva mai essere opera di spiriti ingannatori come afferma la raccolta di trattati magici-teurgici “De mysteriis” attribuita a Giambico. Giambico afferma che era opinione dei maghi Caldei che tutti gli dei erano dispensatori soltanto di beni che essi avevano relazione solamente con gli uomini buoni e stavano insieme con quegli uomini che erano stati purificati dall’arte sacerdotale. Inoltre era opinione dei maghi Caldei che il semplice apparire degli dei il loro semplice manifestarsi era tale da allontanare il male e il demoniaco che pertanto non potevano turbare i teurgi. Infatti nel caso dei maghi Caldei si trattava più di teurgia che di magia. Dobbiamo dire che esiste una distinzione importante tra magia e teurgia dal momento che mentre la magia si propone di compiere opere precise azioni concrete con l’evocazione delle divinità la teurgia ha tutt’altro scopo. Infatti essa aveva come scopo soltanto quello di stabilire un contatto con la divinità senza nessuna applicazione pratica senza nessuna azione concreta. Giambico affermava che ai teurgi nessun’ostacolo veniva posto dagli spiriti cattivi e pertanto nessuna difficoltà impediva loro di ottenere i beni dell’anima. Di conseguenza l’azione teurgica dell’invocazione non somigliava a nessuna delle azioni propriamente umane dal momento che nelle azioni teurgiche l’invocante e l’invocato sono uniti da un legame di simpatia cosmica originaria. In ultima analisi si trattava dunque per il teurgo di iscriversi nell’ordine universale dominato dalla simpatia cosmica.
Per dirla in altro modo il teurgo doveva inserirsi ed agire conformemente a quell’ordine universale caratterizzato dalla simpatia cosmica. Secondo i maghi Caldei così avveniva anche per i sacrifici la cui vera causa andava ricercata nell’intima relazione nel rapporto che univa il teurgo alla divinità chiamata in causa. Se dalla Persia ci volgiamo verso quella che più propriamente può essere definita “Terra dei Caldei” ovvero Babilonia vi troviamo un documento prezioso della nostra analisi della magia. Tale documento è il poema di Gilgamesh nel quale si riflette la società assiro babilonese ricco a quel tempo di circa 2000 anni di storia. Vogliamo soltanto ricordare che questa grandissima civiltà scomparve verso il 1600 a.C. in seguito all’entrata in scena di altre popolazioni orientali. La società assiro babilonese era una società nella quale lo scriba era quasi sempre anche esorcista medico astronomo nonché una persona cui veniva affidato il culto delle divinità. Nel poema di Gilgamesh ritroviamo dunque le pratiche complesse e variegate, le conoscenze, i riti magico religiosi ovvero tutto quanto poteva servire alla costruzione di una via utile a sconfiggere l’incombente e terrificante volto della morte. L’eroe del poema è Gilgamesh, re di Uruk. Egli è un autentico mago ed è qualcosa di più di un semplice mago poiché è per due terzi dio e per un terzo soltanto uomo. Gilgamesh è abile in ogni cosa, conoscitore dell’universo ed inoltre ha esperienza di tutto e possiede il dono della preveggenza. Infatti per ben due volte prevede in sogno l’arrivo a Uruk di Enkidu, uno strano essere creato dagli dei per essergli d’aiuto. Di conseguenza Gilgamesh fa dunque esperienza anche della oniromanzia (divinazione mediante il sogno) il più antico sistema divinatorio noto in Mesopotamia. Forte della sua natura più che umana egli osa sfidare Hubaba essere anch’egli semidivino posto a guardia della Foresta dei Cedri dal capo del Pantheon babilonese: Enlil. Creatura mostruosa dal corpo umano ma con artigli di leone e un’orribile testa dai lunghi capelli Hubaba ha il compito di sorvegliare la foresta protetta dal dio Wer ed è stato dotato per questo di straordinari poteri magici. Gilgamesh si rivolge a sua volta a una divinità il proprio dio protettore il dio Sole dio della saggezza e preveggenza e ne invoca l’aiuto mediante pratiche magiche. L’”assistente” di Gilgamesh Enkidu predispone il luogo per il rituale magico: un cerchio magico creato con la farina al cui interno l’eroe deve addormentarsi al riparo da influenze negative aspettando la rivelazione onirica del proprio destino. Come si può dedurre dall’uso del cerchio magico in un rituale divinatorio le pratiche magico teurgiche degli antichi babilonesi sono forse le prime a servirsi di riti strumenti che si ritroveranno poi nel corso dei secoli nelle pratiche magiche. Per fare un esempio tali modalità proprie dei riti magici di tutti i tempi sono il cerchio magico, la bacchetta e il rituale compiuto per analogia. Si tratta di pratiche magiche basate sempre sul principio di simpatia tra l’alto e il basso: quel che avveniva nel cielo tra gli dei si rifletteva agli occhi dei sacerdoti maghi babilonesi in quello che avveniva sulla terra. Allo stesso modo quello che avveniva tra gli uomini così come i gesti compiuti sulla terra si ripercuotevano in cielo. Non a caso gli astronomi Caldei sono stati probabilmente i primi a studiare i fenomeni celesti e a dividere il cielo in zone per trarne presagi, quello che ora noi chiamiamo oroscopi. Ma tutti i rituali, le pratiche magiche e divinatorie, il giusto rapporto intrattenuto con gli dei non valevano a liberare gli uomini dal timore della morte. Ed è proprio nella speranza di conquistare l’immortalità che Gilgamesh compie le sue più eroiche imprese partendo alla ricerca del solo uomo che aveva scoperto il segreto dell’immortalità, ovvero Uta -Napishtim invano dissuaso dalla ninfa Siduri che gli parla della impossibilità della sua impresa Gilgamesh supera ostacoli indescrivibili misteriosi sempre di natura iniziatica. Ma quando riesce infine a incontrare Uta-Napishtim l’ultimo rito iniziatico che gli viene imposto si rivelerà per lui insuperabile. Dall’uomo immortale Gilgamesh non riceve il dono dell’immortalità ma ottiene un grande insegnamento:” non dovrà mai dimenticare di essere un privilegiato in quanto la sua funzione di re lo eleva al disopra degli altri uomini.” Ma proprio accettando il fatto di essere mortale gli permetterà di esaltare la sua funzione di sovrano. Alla fine Gilgamesh rinuncia al suo tentativo di conquistare l’immortalità ed accetta l’insegnamento dell’uomo immortale e ne fa tesoro. Mago e sovrano Gilgamesh dovrà assecondare sino in fondo la propria funzione regale accettando la propria natura di essere mortale senza scorgervi una condizione limitante. In ultima analisi Gilgamesh comprende che non è in verità per lui alcun limite alla capacità di interagire con le forze del cosmo. Come ricorda James Frazer gli antichi re erano anche comunemente sacerdoti. Anzi nelle società primitive il re è assai spesso non solo un sacerdote ma anche un mago. Prof. Giovanni Pellegrino Read the full article
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