#padre Antonio Luigi Piccolo
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Santa Brigida di Svezia
650 anni dalla morte di Santa Brigida di Svezia: i cavalieri e le dame dell’Ordine Militare incontrano il nuovo Rettore Generale dei Leonardini CITTÀ METROPOLITANA DI NAPOLI – Nella chiesa barocca di Santa Brigida, per commemorare la compatrona d’Europa, è giunto da Roma, ad un anno dalla sua elezione, il Rettore Generale dei Leonardini, padre Antonio Luigi Piccolo, originario di Gallipoli. Nella…
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#Napoli#Ordine Militare di Santa Brigida#padre Antonio Luigi Piccolo#Rettore Generale dei Leonardini#santa Brigida#Svezia
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Il grande scalone illuminato di Belgirate 2023
Tornano le luci e i colori sullo scalone di Belgirate! Belgirate è un delizioso e storico borgo sul Lago Maggiore tra Arona e Stresa. Ville e dimore storiche, dove si è fatta la storia, vera. Personaggi storici, nobili, politici, filosofi, pittori, scrittori e romanzieri di ogni epoca sono passati da qui e da qui hanno preso anche spunto per le loro opere come Stendhal, Manzoni, Fogazzaro, Hemingway. Una delle più belle, particolari e romantiche chiese del lago, come quella dedicata a Santa Maria. Un lungolago piacevole, che offre uno sguardo privilegiato sul lago e che potrebbe veramente raccontare tante storie e che è stato fonte d’ispirazione per tanti. Uno dei posti più particolari di Belgirate è il lungo, ampio scalone che affianca la chiesa e porta nella parte più alta del borgo. Posto lungo la strada statale del Sempione è quasi nascosto alla prima occhiata, spesso sfugge a chi passa di fretta. In realtà è uno dei punti più interessanti e caratteristici del borgo. Lo scalone prende il nome dai Fratelli Cairoli, belgiratesi per ramo materno. E a Belgirate troviamo la seicentesca Villa Cairoli, costruita dai Bono, ricca famiglia belgiratese. Famiglia che diede i natali al Conte Benedetto Bono, primo commissario della Repubblica Cisalpina. Padre di Adelaide, madre proprio dei fratelli Cairoli, protagonisti del Risorgimento. Una dimora che ospitò tra gli altri, anche Garibaldi e molti altri personaggi della vita politica e culturale dell’800. Martedì 29 agosto alle 20.00, si terrà il tradizionale appuntamento con l��accensione dello scalone Cairoli, testimonianza di fede e poesia, con la scenografia creata da centinaia di lumini colorati. L’evento è in concomitanza con i festeggiamenti della Madonna Addolorata, uno dei simboli della cittadina sulla riva piemontese del Verbano. La processione della Madonna Addolorata, protettrice di Belgirate, ha una storia con radice lontane. Risale infatti a circa 300 anni fa, poi venne sospesa durante la seconda guerra mondiale e, dal secondo dopoguerra, si tiene l’ultima domenica di agosto. La chiesa parrocchiale di Belgirate, edificata verso l’anno Mille, sorgeva su un piccolo poggio ed era dedicata alla Purificazione di Maria. Il 1 novembre 1610 Carlo Borromeo fu proclamato santo e a Belgirate nel 1611 iniziarono i lavori per un oratorio in suo onore. Nel 1618 venne completata la cappella maggiore, come ricorda un quadro votivo del 1683 eseguito per ricordare la fine della pestilenza del 1631. Pochi decenni dopo l’oratorio di San Carlo, fu la nuova chiesa parrocchiale, poiché gli abitanti trovavano poca adatta la vecchia per la vita religiosa della comunità. L’arciprete Giuseppe Colombari nel 1715, fece scolpire la statua lignea della Vergine Addolorata come in segno di devozione per la miseria che affliggeva il paese e nel 1753 quattro grandi tele di Giovanni Battista Calzia con episodi della vita di San Giuseppe vennero collocate sulle pareti del presbiterio. Nel 1795 l’oratorio divenne la chiesa parrocchiale e prese il titolo di Purificazione di Maria Vergine e San Carlo. Un grande organo della ditta Bossi di Bergamo, che venne donato dal belgiratese Giuseppe Antonio Conelli, fu installato nel 1846. Nel 1853 il decoratore Carlo De Pedrini, realizzò, per conto di Elena Conelli, la doratura del pulpito e quella della statua dell’Addolorata. Nel 1904 il pittore torinese Luigi Morgari lavorò agli affreschi della chiesa, mentre il decoratore Luigi Secchi realizzò gli stucchi sulle lesene, sui cornicioni, sugli archi e nelle volte delle cappelle, e le cornici che inquadrano gli affreschi. Nel 1940, con arciprete don Francesco Ferri, venne collocato nella chiesa un nuovo portale in serizzo, dono delle benefattrici Valentina Tosi e Giovannina Prini Rossi e nel timpano una grande lapide con la dedicazione a Maria Vergine. Il 22 giugno 1997, furono collocati e benedetti gli amboni e un nuovo altare comunitario in legno di noce realizzati da don Giovanni Cavagna. L’idea di illuminare completamente lo scalone Cairoli, uno dei luoghi più noti della cittadina lacustre, nasce una trentina di anni fa, quando si ponevano dei lumini per le vie del borgo e proprio anche sullo scalone stesso, per la festa grande di Belgirate, quella della Madonna Addolorata, con la relativa processione. E solo da una decina di anni però che l’illuminazione dello scalone Cairoli è diventata sempre più imponente, bella e scenografia con addirittura una serie di disegni, diversi ogni anno, che raccontano il legame di Belgirate con la Madonna Addolorata e la forte fede di questi luoghi sul Lago Maggiore e nel Piemonte. Uno spettacolo davvero particolare, affascinante, con i lumini di vari colori che creano disegni, è una magia che si rinnova sempre diversa ogni anno. E che colpiscono in particolare i turisti che da ogni parte del mondo arrivano a Belgirate. Read the full article
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Festa dei Candelieri: Sassari pronta per una nuova edizione storica
Festa dei Candelieri: Sassari pronta per una nuova edizione storica. Tutti i particolari sono stati presentati durante una conferenza stampa a cui hanno partecipato il sindaco Nanni Campus, l’assessora alla Cultura Laura Useri, monsignor Antonio Tamponi, il padre Salvatore Sanna Guardiano del Convento di Santa Maria in Betlem, Fabio Madau per l'Intergremio e il presidente del Consiglio Maurilio Murru . Quella del 2023 sarà una Discesa particolare e unica nel suo genere: infatti quest’anno il voto non sarà sciolto all’interno della chiesa come di consueto, ma all’esterno, in piazza Santa Maria. Questa scelta si è resa neceeventissaria a seguito degli importanti lavori di consolidamento e restauro che stanno interessando da diversi mesi la chiesa. Dai documenti in possesso dell’Archivio storico comunale, parrebbe che sia la prima volta che il voto è sciolto in questo modo. Durante il periodo del colera, infatti, la Discesa fu sospesa, così come durante le due Guerre mondiali. Per garantire la sicurezza dei portatori, dei gremianti e adeguati spazi per la sosta dei ceri l’area di piazza santa Maria sarà transennata dall’incrocio con via dei Gremi fino all’incrocio con via Padre Zirano. Saranno fruibili i passaggi sui due marciapiedi sia a destra e sia a sinistra della strada. La Faradda, come di consueto, sarà preceduta da iniziative che animano la città dall’inizio di agosto con i caratteristici suoni dei tamburi e con le agili danze dei portatori. Il programma: A segnare l’inizio degli eventi che porteranno poi alla tradizionale Discesa saranno come di consueto i Piccoli Candelieri, con i loro colori, il loro entusiasmo, la loro allegria e gioia. Sabato 5 agosto, dalle 18, lungo il consueto percorso da porta sant'Antonio fino alla piazza della chiesa di santa Maria di Betlem, i Piccoli Candelieri apriranno le danze che porteranno alla grande giornata del 14. L'iniziativa è organizzata dall’Intergremio Città di Sassari in collaborazione con il Comune di Sassari ed è dedicata ai giovanissimi aspiranti portatori e tamburini. Oltre 200 tra bambine e bambini (il più piccolo ha appena 4 anni) si divertiranno sfilando e ballando con i loro 16 mini ceri al ritmo dei tamburi, proprio come fanno gli adulti il 14 agosto. Giovedì 10 dalle 17 si prosegue con la sfilata dei Candelieri Medi, da largo Cavallotti fino a piazza Santa Maria. Venerdì 11 agosto la banda musicale Luigi Canepa si esibirà alle 21 in piazza Santa Caterina con il “Concerto per i Candelieri”. Domenica 13, alle 20, nella stessa piazza, ritorna la cerimonia di premiazione del Candeliere d'Oro, d'Argento e d'Oro speciale, uno dei momenti più emozionanti tra quelli che accompagnano la città al 14 agosto. Sino alle 12 di mercoledì 9 agosto 2023 si potranno presentare le domande agli uffici del Settore Cultura del Comune di Sassari, in largo Infermeria San Pietro oppure tramite e-mail all’indirizzo di posta elettronica [email protected]. La serata sarà allietata dagli intermezzi musicali a cura dell’associazione Insieme Vocale Nova Euphonia, con il trio le Reinas. Il 14 agosto la festa dei Candelieri inizierà, come da tradizione, con la vestizione dei ceri votivi che avviene secondo un preciso rituale, nella sede del gremio o in casa dell’obriere di Candeliere, il gremiante che ha l’onore e l’onere della responsabilità del cero votivo. Dalle 9 sarà possibile visitare le sedi, facilmente riconoscibili dagli stendardi posti all'ingresso della stessa, che raffigurano il candeliere di riferimento, e indicate nella brochure prodotta dal Comune. I vari gremi possono contare sulle sedi che sono state loro assegnate dall’Amministrazione comunale in comodato, tutte all’interno del centro storico, pertanto i riti della vestizione dei Candelieri si svolgeranno tutti all’interno della città murata. Si caratterizzano per vicinanza reciproca e per precisi requisiti di dimensione, accessibilità dalla strada e per la presenza nelle immediate vicinanze di piazze o slarghi, dove poter appunto “vestire il cero” ma anche assaporare la vita della comunità gremiale e celebrare le feste patronali. Un punto di partenza fondamentale per la realizzazione del museo diffuso dei gremi nel cuore del centro storico, obiettivo dell’Amministrazione comunale. Alle 10 il sindaco accoglierà, a Palazzo Ducale, il gremio dei Massai per ricevere la bandiera dell’antico gremio in cambio del Gonfalone della città. Accompagnato dalla banda, il corteo si dirigerà a Palazzo di Città dove al piano superiore, nella sala di rappresentanza, quella che anticamente ospitava il primo cittadino, si terrà la vestizione della bandiera da parte del gremio. Subito dopo i Massai la esporranno dal balcone del Palazzo. Alle 18 da piazza Castello, partirà la lunga processione della Discesa dei Candelieri, che, a notte inoltrata, terminerà in piazza santa Maria di Betlem, dove sarà sciolto il voto alla Madonna. A Palazzo di Città, ci sarà il tradizionale brindisi a zent'anni, tra il sindaco Nanni Campus e il gremio dei Massai, a cui parteciperanno anche l'arcivescovo monsignor Gian Franco Saba, padre Salvatore Guardiano del Convento di Santa Maria in Betlem e gli ex sindaci della città. I ceri partiranno da piazza Castello nel seguente ordine: Braccianti, Autoferrotranvieri, Macellai, Fabbri, Piccapietre, Viandanti, Contadini, Falegnami, Ortolani, Calzolai, Muratori, Sarti, Massai. La sicurezza dei partecipanti e del pubblico sarà garantita da apposito piano di sicurezza predisposto dall’Amministrazione comunale. Ritiro bandierine: Dal 10 agosto, dal martedì al sabato dalle 10 alle 14 e dalle 15 alle 19 e la domenica dalle 10 alle 14, nell’Infopoint mobile del Comune di Sassari in piazza d’Italia i cittadini residenti in corso Vittorio Emanuele II possono ritirare le bandierine da esporre dai giorni precedenti la Discesa. Le bandierine, messe a disposizione dall’Amministrazione comunale, dovranno essere restituite all’Infopoint entro il 4 settembre. Per maggiori informazioni è possibile inviare una e-mail all’indirizzo [email protected] La promozione: Per promuovere la Festa dei Candelieri sono stati previsti 20mila pieghevoli, distribuiti in città nei siti della rete culturale Thàmus, negli esercizi commerciali e uffici cittadini e nei maggiori centri dell’isola. I pieghevoli, oltre alla descrizione della Festa, offrono le indicazioni utili per accedere ai punti di informazione turistica, l’area riservata alle persone con disabilità e le zone destinate alle emergenze sanitarie. Inoltre, uno spazio della brochure è dedicato al percorso della vestizione. Il materiale pubblicitario sarà distribuito anche nell'Infopoint del Comune in piazza d’Italia e che in occasione dei Candelieri sarà aperto domenica 13 agosto e lunedì 14 agosto dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 19. Nell’infopoint sarà possibile interagire con le opere di realtà aumentata del progetto “Aumenta i Candelieri”, realizzato in collaborazione con l’associazione Landworks e grazie al finanziamento della Fondazione di Sardegna. La Discesa è promossa in ambito internazionale attraverso una mirata campagna di sponsorizzazione sui social media, rivolta alle destinazioni collegate con l’Aeroporto di Alghero, che ha come obiettivo il potenziamento della visibilità di Sassari attraverso la diffusione degli eventi culturali di interesse turistico, la Cavalcata Sarda e i Candelieri. A livello regionale e nazionale invece sono stati previsti banner web e pagine pubblicitarie con l’immagine istituzionale sul quotidiano nazionale più diffuso, il Corriere della Sera, e su diversi settimanali. Sarà assicurata la pubblicità sui maggiori quotidiani regionali. In città e nelle destinazioni turistiche dell'isola sono stati affissi manifesti 6x3 e 70x100. Inoltre materiale informativo sui Candelieri e sugli eventi correlati sarà a disposizione nella galleria commerciale Porte di Sassari. Questo è reso possibile grazie agli spazi offerti gratuitamente dalla Società Nhood, che permette così all’Amministrazione di raggiungere sempre più persone con le attività di comunicazione. Qui sassaresi, così come abitanti delle zone vicine e turisti, potranno trovare il materiale informativo non soltanto sulla Faradda, ma anche sul cartellone di Sassari Estate e sui monumenti visitabili nel territorio. Al fine di raggiungere un pubblico internazionale, il sito internet candelierisassari.it è disponibile anche in inglese, francese, spagnolo e tedesco. Cittadini e turisti, inoltre, potranno condividere le loro immagini dei Candelieri su Instagram con l'hashtag #turismosassari #candelieri23 e taggando la pagina evento di Facebook I Candelieri - Comune di Sassari (https://www.facebook.com/icandelieri/). Contest fotografico: Ad agosto altre iniziative, organizzate da realtà del territorio con il patrocinio del Comune, accompagneranno cittadini e turisti fino alla Faradda. Dal 5 agosto sarà possibile partecipare al contest fotografico su Instagram “I Candelieri: le foto più belle 2023”. L’iniziativa mira a valorizzare le migliori produzioni fotografiche digitali, realizzate durante la Discesa e gli eventi collaterali in programma dal 5 al 14 agosto, e che saranno condivise sul social network Instagram. Gli autori delle tre foto più belle, selezionate da una giuria interna, vinceranno biglietti omaggio e una visita guidata personalizzata ai siti della rete culturale del Comune di Sassari Thàmus. Le immagini saranno inoltre pubblicate sui canali social Instagram e Facebook “Comune di Sassari” e “Turismo Sassari” @turismosassari e @comunedisassari Per partecipare è necessario caricare le foto entro martedì 16 agosto, utilizzando gli hashtag #candelieri23 e #turismosassari. Il regolamento completo è disponibile sul sito www.turismosassari.it. La Discesa dei Candelieri è iscritta dal 2020 nel registro dei Grandi Eventi Identitari (GEI) istituito dall'Assessorato del Turismo, Artigianato e Commercio della Regione Sardegna. La manifestazione, insieme alla Cavalcata Sarda, è stata individuata dalla Regione per l'antica tradizione, per la diffusione territoriale, per la reputazione internazionale, per il costante sostegno finanziario e per il ritorno in termini economici, di immagine e di presenze turistiche.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Un ‘mostro’ di bravura: Ugo Tognazzi
Il 27 ottobre di 30 anni fa ci lasciava un attore che, insieme a Gassman, Sordi e Manfredi è considerato uno dei ‘mostri‘ del cinema italiano, Ugo Tognazzi.
Attore a trecentosessanta gradi, comico, drammatico, televisivo e di teatro, ha svolto i ruoli più disparati: omosessuale (la trilogia de Il vizietto), seduttore (La voglia matta), giudice integerrimo (In nome del popolo italiano), produttore cinematografico, ricco industriale (La califfa, con Romy Schneider), piccolo imbroglione (La donna scimmia, Telefoni bianchi, Il gatto), clochard, marito fedele e infedele, commissario, investigatore, pugile suonato, operaio, papa, cardinale, nobile spiantato, dando voce (e che voce!) all’Italia del primo dopoguerra e del boom economico con le ‘commedie all’italiana’ in coppia con l’impagabile Vianello e con Totò fino al momento della feroce autoanalisi (Ferreri, Bertolucci, Scola, Pasolini) e alla sublime ironia di Amici miei (“Che cos’è il Genio? È fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione”). Ha saputo descrivere l’Italia del secondo conflitto mondiale come fanatico fascista (Il federale) e come uomo comune che spera nel cambiamento promesso da Mussolini, ma che durante La marcia su Roma scorge, tappa dopo tappa, il vero volto del fascismo e lo abbandona.
L’esordio come attore comico ebbe la sua consacrazione in televisione dopo l’incontro con Raimondo Vianello, con il quale formò una coppia perfetta, piacevolmente sbrigliata nel varietà Rai Un due tre (1954-59), in cui i due goliardi tracciavano la parodia delle trasmissioni, di interesse soprattutto eno-gastronomico, di Mario Soldati che, in giro per l’Italia, intervistava la gente comune (come Viaggio nella valle del Po). Per la serie “quando ridere faceva ridere”, vi consigliamo vivamente questo sketch recitato in dialetto toscano.
youtube
Dopo sei anni di inarrestabile successo, nel 1959 la trasmissione fu interrotta dalla censura, che non gradì una battuta a proposito del Presidente Gronchi che la sera prima era caduto da una sedia alla Prima della Scala: Tognazzi cade dalla sedia e Vianello lo apostrofa “Ma chi ti credi di essere?”. L’episodio è raccontato in un’intervista dai due protagonisti e forse non fu del tutto una disavventura per Tognazzi che trovò nel cinema un più ampio sfogo ai suoi innumerevoli talenti artistici.
Semplicemente eccezionali le sue interpretazioni drammatiche, spesso di un cinismo davvero disarmante, come Io la conoscevo bene (con cui vinse un Nastro d’argento) di Antonio Pietrangeli, con una Stefania Sandrelli protagonista di straordinaria bravura; Il commissario Pepe e La terrazza di Scola; Nell’anno del Signore di Luigi Magni; In nome del popolo italiano di Dino Risi; Romanzo popolare di Monicelli; L’ingorgo di Comencini; I giorni del commissario Ambrosio di Corbucci.
Una menzione a parte merita il rapporto con Marco Ferreri, grande amico e regista di alcuni dei suoi film più importanti: La donna scimmia, La grande abbuffata, L’ape regina, Non toccare la donna bianca, L’harem, Marcia nuziale, Il professore (da Controsesso), L’udienza.
Un paio di curiosità: esistono due versioni di La donna scimmia con finali diversi, uno drammatico e uno con lieto fine. Tognazzi compare anche (si tratta di un vero e proprio cameo) nel finale de L’uomo dei cinque palloni (episodio del film Oggi, domani, dopodomani), in un ruolo di grande impatto. Il figlio Ricky, che nel 1961 aveva 6 anni, ebbe a dichiarare che alla prima de Il federale (di Luciano Salce, il film che ha decretato la vera svolta della sua carriera) pianse perché in una scena vide suo padre picchiato dai partigiani del CLN.
Attore versatile, decisamente anticonvenzionale, coraggioso, trasgressivo e provocatorio, ha interpretato ruoli ‘estremi’ (Il petomane, Splendori e miserie di Madame Royale, l’indimenticabile generale di Signore e signori, buonanotte) e scandalosi, ma capace di trasmetterli al pubblico con grande disinvoltura, signorilità e sapiente autoironia. Ha lavorato con tutti i più grandi registi, attribuendo a ogni ruolo un tocco di unicità: si può davvero dire che certe parti avrebbe pottuto interpretarle solo lui…
Non trascurabile anche la sua attività come regista: Sissignore, con Gastone Moschin, Il fischio al naso tratto da un racconto di Buzzati, Cattivi pensieri, con la bellissima Edwige Fenech, I viaggiatori della sera, con Ornella Vanoni, e lo sceneggiato televisivo FBI - Francesco Bertolazzi Investigatore.
Dei circa 158 film interpretati sicuramente ce n’è qualcuno che vi è sfuggito, che merita di essere visto e che potrete scovare nelle nostre biblioteche! Per esempio, sapevate che ha recitato in Barbarella, con Jane Fonda, in La bambolona, tratto dal romanzo di Alba de Céspedes, in L’udienza, con Enzo Jannacci, ne Il maestro e Margherita, da Bulgakov, nel bellissimo L’immorale di Pietro Germi, in La proprietà non è più un furto di Elio Petri, in Venga a prendere in caffè da noi (di Lattuada), da Piero Chiara?
Vi lasciamo con le sue stesse parole: “L’ottimista è un uomo che, senza una lira in tasca, ordina ostriche nella speranza di poterle pagare con la perla trovata”. Sembra proprio di vedere il Conte Mascetti!
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Ho controllato il New York Times. Ho controllato il Telegraph. Ho controllato Le Monde. Ho controllato la BBC. Ho confrontato le proposte delle migliori case editrici italiane. Ho setacciato mezzo internet per poter stilare una lista al contempo più completa e più varia possibile.
E, alla fine, ce l'ho fatta.
Clicca su "Continua a leggere" per scoprire l'elenco completo dei duecento libri da leggere prima di morire!
I DUECENTO LIBRI DA LEGGERE PRIMA DI MORIRE: L'ELENCO
(IN ORDINE ALFABETICO)
1984 – George Orwell
1Q84 – Haruki Murakami
A Christmas Carol – Charles Dickens
A ciascuno il suo – Leonardo Sciascia
A Fine Balance – Rohinton Mistry
A me le guardie! – Terry Pratchett
A sangue freddo – Truman Capote
Alice nel Paese delle Meraviglie – Lewis Carroll
Alla ricerca del tempo perduto – Marcel Proust
Altri libertini – Pier Vittorio Tondelli
Amabili resti – Alice Sebold
Amore e Psiche – Apuleio
Anna dai capelli rossi – Lucy Maud Montgomery
Anna Karenina – Lev Tolstoj
Artemis Fowl – Eoin Colfer
Ayla figlia della Terra – Jean Auel
Bar sport – Stefano Benni
Black Beauty: autobiografia di un cavallo – Anna Sewell
Bleak House – Charles Dickens
Brideshead Revisited – Evelyn Waugh
Buchi nel deserto – Louis Sachar
Buona apocalisse a tutti! – Terry Pratchett and Neil Gaiman
Caino e Abele – Jeffrey Archer
Canto di Natale – Charles Dickens
Casa Desolata – Charles Dickens
Cent'anni di solitudine – Gabriel García Márquez
Charlotte's Web – EB White
Cime tempestose – Emily Brontë
Comma 22 – Joseph Heller
Cristo si è fermato ad Eboli – Carlo Levi
Cuore – Edmondo de Amicis
Cuore di tenebra – Joseph Conrad
David Copperfield – Charles Dickens
Delitto e castigo – Fëdor Dostoevskij
Diario – Anne Frank
Dieci piccoli indiani – Agatha Christie
Dio di illusioni – Donna Tartt
Don Chisciotte della Mancia – Miguel de Cervantes
Dracula – Bram Stoker
Dune – Frank Herbert
Emma – Jane Austen
Fahrenheit 451 – Ray Bradbury
Favole al telefono – Gianni Rodari
Finzioni – Borges
Frankenstein – Mary Shelley
Furore – John Steinbeck
Gente di Dublino – James Joyce
Germinale – Emile Zola
Gita al faro – Virginia Woolf
Gli indifferenti – Alberto Moravia
Gormenghast – Mervyn Peake
Grandi speranze – Charles Dickens
Guerra e pace – Lev Tolstoj
Guida galattica per autostoppisti – Douglas Adams
Harry Potter – J. K. Rowling
Ho un castello nel cuore – Dodie Smith
I Buddenbrook – Thomas Mann
I cercatori di conchiglie – Rosamunde Pilcher
I Dolori del Giovane Werther – J. W. Goethe
I figli della mezzanotte – Salman Rushdie
I fiori del male – Charles Baudelaire
I fratelli Karamazov – Fedor Dostoevskij
I Malavoglia – Giovanni Verga
I Miserabili – Victor Hugo
I pilastri della terra – Ken Follett
I Promessi Sposi – Alessandro Manzoni
I Tre Moschettieri – Alexandre Dumas
Il barone rampante – Italo Calvino
Il bianco e il nero – Malorie Blackman
Il buio oltre la siepe – Harper Lee
Il Cacciatore di Aquiloni – Khaled Hosseini
Il canto del cielo – Sebastian Faulks
Il Codice da Vinci – Dan Brown
Il Colore Viola – Alice Walker
Il Commissario Maigret – George Simenon
Il Conte di Monte Cristo – Alexandre Dumas
Il diario di Bridget Jones – Helen Fielding
Il Dio delle piccole cose – Arundhati Roy
Il dottor Jekyll e Mr. Hyde – Robert Louis Stevenson
Il dottor Zivago – Boris Pasternak
Il fu Mattia Pascal – Luigi Pirandello
Il Gattopardo – Giuseppe Tomasi di Lampedusa
Il giardino dei Finzi-Contini – Giorgio Bassani
Il giardino segreto – Frances Hodgson Burnett
Il giornalino di Gian Burrasca – Vamba
Il giovane Holden – J. D. Salinger
Il grande Gatsby – Francis Scott Fitzgerald
Il leone, la strega e l'armadio – C. S. Lewis
Il maestro e Margherita – Bulgakov
Il mago – John Fowles
Il Mandolino del Capitano Corelli – Louis De Berniere
Il mondo nuovo – Aldous Huxley
Il Nome della Rosa – Umberto Eco
Il Padrino – Mario Puzo
Il paradiso degli orchi – Daniel Pennac
Il passaggio segreto – Enid Blyton
Il Piccolo Principe – Antoine De Saint-Exupery
Il potere e la glori – Graham Greene
Il Processo – Franz Kafka
Il Profeta – Kahlil Gibran
Il profumo – Patrick Süskind
Il ragazzo giusto – Vikram Seth
Il ritratto di Dorian Gray – Oscar Wilde
Il Rosso e il Nero – Stendhal
Il signore degli anelli – J. R. R. Tolkien
Il signore della magia – Raymond E. Feist
Il signore delle mosche – William Golding
Il vecchio e il mare – Ernest Hemingway
Il velo dipinto – W. Somerset Maughan
Il vento tra i salici – Kenneth Grahame
In culo al mondo – Antonio Lobo Antunes
Io, robot – Isaac Asimov
Jane Eyre – Charlotte Brontë
Katherine – Anya Seton
Kitchen – Banana Yoshimoto
La casa degli spiriti – Isabel Allende
La ciociara – Alberto Moravia
La collina dei conigli – Richard Adams
La coscienza di Zeno – Italo Svevo
La Divina Commedia – Dante Alighieri
La donna in bianco – Wilkie Collins
La fabbrica di cioccolato – Roald Dahl
La famiglia Winshow – Johnathan Coe
La fattoria degli animali – George Orwell
La fattoria delle magre consolazioni – Stella Gibbons
La fiera delle vanità – William Makepeace Thackeray
La lettera scarlatta – Nathaniel Hawthorne
La luna e i falò – Cesare Pavese
La Storia – Elsa Morante
La trilogia della città di K – Agosta Kristof
La verità sul caso Harry Quebert – Joel Dicker
La versione di Barney – Mordecai Richler
L'alchimista – Paulo Coelho
L'amore ai tempi del colera – Gabriel García Márquez
L'arte della guerra – Sun Tzu
L'arte di essere felici – Arthur Schopenhauer
Le affinità elettive – Goethe
Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie – Lewis Carroll
Le Avventure di Pinocchio – Collodi
Le Avventure di Sherlock Holmes – Sir Arthur Conan Doyle
Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco – George R. R. Martin
Le notti bianche – Fedor Dostoevski
L'eleganza del riccio – Muriel Barbery
Lessico Familiare – Natalia Ginzburg
Lettera a un bambino mai nato – Oriana Fallaci
L'insostenibile leggerezza dell'essere – Milan Kundera
L'isola del tesoro – Robert Louis Stevenson
Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte – Mark Haddon
Lolita – Vladimir Nabokov
L'ombra del vento – Carlos Ruiz Zafon
L'ombra dello scorpione – Stephen King
L'opera completa di Shakespeare
Madame Bovary – Gustave Flaubert
Mattatoio n. 5 – Kurt Vonnegut
Memorie di Adriano – Marguerite Yourcenar
Memorie di una geisha – Arthur Golden
Middlemarch – George Eliot
Moby Dick – Herman Melville
Morty l'apprendista – Terry Pratchett
Niente di nuovo sul fronte occidentale – Remarque
Night watch – Terry Pratchett
Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino – Christiane F.
Non ora, non qui – Erri De Luca
Norwegian Wood – Haruki Murakami
Notes From A Small Island – Bill Bryson
Oceano mare – Alessandro Baricco
Odissea – Omero
Oliver Twist – Charles Dickens
Opinioni di un clown – Heinrich Boll
Orgoglio e pregiudizio – Jane Austen
Pastorale americana – Philip Roth
Persuasione – Jane Austen
Piccole donne – Louisa May Alcott
Possession – AS Byatt
Preghiera per un amico – John Irving
Quel che resta del giorno – Kazuo Ishiguro
Queste oscure materie – Philip Pulman
Racconto di due città – Charles Dickens
Rebecca, la prima moglie – Daphne du Maurier
Ritorno a Brideshead – Evelyn Waugh
Se questo è un uomo – Primo Levi
Shining – Stephen King
Siddharta – Hermann Hesse
Sostiene Pereira – Tabucchi
Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare – Luis Sepulveda
Suite francese – Irene Nemirovsky
Sulla strada – Jack Kerouac
Tess dei d'Urbervilles – Thomas Hardy
The Faraway Tree Collection – Enid Blyton
The Wasp Factory – Iain Banks
Tre Uomini in Barca – Jerome K. Jerome
Uccelli di rovo – Colleen McCullough
Ulisse – James Joyce
Un Uomo – Oriana Fallaci
Una città come Alice – Nevil Shute
Uomini e topi – John Steinbeck
Via col vento – Margaret Mitchell
Via dalla pazza folla – Thomas Hardy
Vita di Pi – Yann Martel
Winnie the Pooh – AA Milne
Mi sembra strano che autori come Baudelaire, Wilde o Shakespeare siano stati citati un'unica volta, così come il Diario di Anna Frank o Ulisse di Joyce - che per carità possono piacere o non piacere, ma sono comunque importanti dal punto di vista storico il primo ed il padre del modernismo inglese il secondo - mentre Harry Potter o Il Signore degli Anelli erano presenti in tutte le liste - anche qui, importantissimi per la storia del fantasy e perfino rivoluzionari, ma paragonarli a Shakespeare?
E voi, cosa ne pensate? Siete d'accordo, anche parzialmente, o ci sono grandi assenti? Fatemelo sapere nei reblog :)
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Nei giorni scorsi ho portato al Sindaco di Compiani @francesco_mariani_17 la vicinanza di tutti i Sindaci della Provincia di Parma in occasione della commemorazione della strage di Strela e Cereseto. Un plauso alla comunità che con le scuole ha prodotto un docufilm sull’episodio. Drammatica la similitudine tra i fatti ricordati e ciò che si vive ogni giorno in Europa e in tanti paesi del mondo. I reparti nazifascisti in rastrellamento, nel corso dell’operazione Wallenstein, raggiunsero il paese di Strela. Inizialmente il loro atteggiamento sembrava voler tranquillizzare i suoi abitanti. Era solo un’illusione. Il 19 luglio scattò la decisione di compiere una strage: le case vennero svuotate e in parte incendiate, mentre diciassette civili vennero fatti allineare lungo il muro del piccolo cimitero e fucilati. Le vittime: Prevosto don Alessandro Sozzi (Compiano, 58 anni), padre missionario Umberto Bracchi (Borgotaro, 47 anni), Luigi Adetti (Compiano, 28 anni), Pietro Bracchi (Borgotaro, 41 anni), Pio Camisa (Compiano, 43 anni), Sergio Capitelli (Compiano, 20 anni), Giuseppe Dallafiora (Compiano, 33 anni), Rodolfo Dallara (Compiano 54 anni), Enrico Delgrosso (Compiano, 16 anni), Giuseppe Feci (Compiano, 52 anni), Luigi Franchi (Compiano, 39 anni), Paolo Franchi (Compiano, 45 anni), Antonio Gazzoli (Compiano, 40 anni), Luigi Gonzaga (Compiano, 42 anni), Mauro Mezzetta (Compiano, 17 anni), Giovanni Tamiri (Compiano, 32 anni), Luigi Vincastri (Borgotaro, 57 anni). L’azione militare prosegue per tutta l’alta valle del Taro e del Ceno, investendo villaggi e paesi. I reparti nazifascisti giungono a Cereseto il 20 luglio e incendiano il paese. Gli uomini catturati e incolonnati vengono condotti verso la deportazione. Per ragioni rimaste sconosciute, lungo il tragitto tre di loro vengono fucilati ed abbandonati lungo la strada. Le vittime: Giovanni Rapetti (52 anni), Pio Rapetti (41 anni), Eliseo Gonzaga (37 anni). #strage #nazisti #fascismo #strela #cereseto #compiano (presso Compiano, Italy) https://www.instagram.com/p/CgUvg_bt7o8/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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10 mar 2021 20:21
QUANDO LA STAMPA UCCIDE - GIANCARLO LEONE RACCONTA IL LINCIAGGIO DEL PADRE GIOVANNI E LE SUE DIMISSIONI DA CAPO DELLO STATO: “L’INCHIESTA DELL'''ESPRESSO" SULLO SCANDALO LOCKHEED FU UNA CAMPAGNA DIFFAMATORIA. CAMILLA CEDERNA DOVETTE AMMETTERE CHE LE SUE FONTI ERANO DEVIATE E NON CHIESE MAI SCUSA” - “VILIPESO SENZA MOTIVO. L'UNICA COSA CHE LA CEDERNA RIUSCÌ A DIRE CHE SI ERA ISPIRATA ALLE…” - ''QUELLA CAMPAGNA STAMPA EBBE DEGLI EFFETTI DEVASTANTI SU MIO PADRE…''
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Giovanni Terzi per "Libero quotidiano"
Ho il ricordo netto di mio padre, Antonio Terzi direttore di Gente negli anni Settanta, che raccontava sgomento, in famiglia, quello che stava accadendo al nostro Presidente della Repubblica Giovanni Leone. Leone venne vilipeso e fatto oggetto di attacchi personali da Camilla Cederna insieme al gruppo dell' Espresso; mio padre non li amava particolarmente.
Già qualche anno prima, sempre Camilla Cederna, aveva attaccato Luigi Calabresi, il commissario della polizia ucciso a Milano in via Cherubini davanti a casa, e subito dopo toccò al Presidente "galantuomo", così era solito chiamarlo mio padre.
«Vi ho rovinato, dovete perdonarmi». Con queste parole inizia a raccontarmi Giancarlo Leone, figlio dell' ex Presidente, per rappresentare lo stato d' animo del padre in quegli anni.
Giancarlo Leone, giornalista professionista dal 1977 già direttore di Rai 1 oltre che, dal 2006 al 2011 vice direttore generale del servizio pubblico radiotelevisivo italiano, ricorda con emozione quegli anni in cui il linciaggio del padre avveniva quotidianamente sulla stampa italiana.
«Avevo in quegli anni il doppio ruolo di figlio e di giornalista. Ero il corrispondente a Roma del giornale Il Piccolo di Trieste e vivevo nella sala stampa San Silvestro dove, naturalmente, arrivavano tutte le veline dal Parlamento».
E come fu questo doppio ruolo?
«Doloroso. Mio padre soffriva profondamente, si sentiva responsabile nei nostri confronti ed iniziò ad avere una grande depressione che ha sempre cercato di mascherare. Però quella campagna stampa ebbe degli effetti sia psichici che fisici devastanti su di lui».
E lei insieme alla sua famiglia cosa cercavate di fare?
«Tutti noi avevamo un compito prioritario, far sentire a mio padre il nostro amore e la nostra presenza; vede quello che accadde fu devastante per tanti motivi ...».
Mi dica ...
«Prima di tutto era falso. In secondo luogo non apparteneva al modo di essere di mio padre che non era un uomo cinico capace, come fecero in seguito Pertini e Cossiga, di usare la comunicazione in modo diverso, meno istituzionale. Mio padre, come si direbbe oggi, era un tecnico ...».
Pensare che il Presidente Giovanni Leone fosse stato un tecnico e non un politico fa riflettere. Perché dice questo?
«Non ha mai fatto parte organica dell' establishment politico. È stato Presidente della Camera e poi Presidente del Consiglio, prima di essere eletto a capo dello Stato; mio padre ha sempre servito le istituzioni e non i partiti».
Effettivamente il professor Giovanni Leone è sempre stato un giurista esterno alla partitocrazia ed estraneo ai "giochi conciliari" di quel periodo del compromesso storico. Non gli venne, proprio per questo, mai perdonato di essere stato votato, come Presidente della Repubblica, da una maggioranza che conteneva anche l' allora MSI. Così partì la macchina del fango. Un po' come adesso?
«In realtà è profondamente diverso. Nel caso di mio padre la "macchina del fango" partì con una tenaglia giornalistico-politico. Mio padre non ebbe mai a che fare con la magistratura come spesso accade, invece, ai giorni nostri. Il tutto nacque negli anni Settanta e riguardava la fornitura degli aerei Lockheed in Italia all' aeronautica militare. Lo scandalo della corruzione politico-militare della Lockheed si trasformò in un processo al sistema di governo che dal dopoguerra aveva come principale riferimento la DC».
In cui naturalmente suo padre nulla c' entrava ...
«Nella maniera più assoluta. C' era un furore ideologico che divenne sempre più massiccio fino a che mio padre non si dimise, unico Presidente della Repubblica ad averlo fatto. Rimane a me impresso nella memoria il discorso che mio padre fece il giorno delle dimissioni "Sono certo che la verità finirà pei illuminare presente e passato e sconfessare un metodo che, se mettesse radici, diventerebbe strumento fin troppo comodo per determinare la sorte degli uomini e le vicende della politica. A voi ed al nostro Paese auguro progresso e giustizia nel vivere civile"».
Ma oltre a questo passo del discorso che è stato premonitore su un metodo politico per distruggere un avversario, la delazione, c' è ne è un altro che personalmente mi ha molto colpito ed è quando suo padre disse: "Credo tuttavia che oggi abbia io il dovere di dirvi - e voi, come cittadini italiani, abbiate il diritto di essere da me rassicurati - che per sei anni e mezzo avete avuto come presidente della Repubblica un uomo onesto, che ritiene d' aver servito il Paese con correttezza costituzionale e dignità morale". Suo padre era davvero preoccupato di non essere degno di rappresentare lo Stato italiano?
«Mio padre nel 1947 fu un giovane costituente; ossia diede il suo contributo al nascere della Carta costituzionale firmata da Enrico De Nicola ed è a quella carta che si ispirò quotidianamente in ogni suo comportamento».
Voi faceste causa al gruppo Espresso?
«Noi figli sì. La cosiddetta "inchiesta dell' Espresso", non fu altro che una campagna diffamatoria conclusasi con il riconoscimento dell' estrema correttezza istituzionale di mio padre. Camilla Cederna dovette ammettere che le sue fonti non erano provate e soprattutto erano deviate».
La Cederna chiese scusa ?
«Mai».
Perché secondo lei ?
«Non lo so. L' unica cosa che riuscì a dire che si era ispirata alle agenzie di stampa OP di Mino Pecorelli che, all' epoca, riusciva a fare uscire notizie assolutamente inventate come quella che mio fratello andava a caccia in elicottero».
Suo padre però fu completamente riabilitato?
«Questo sì. Però mi creda che dalle dimissioni mio padre non fu più lo stesso. Anche dopo i festeggiamenti dei suoi novant' anni a Palazzo Giustiniani in sala Zuccari nel 2008, davanti al Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e alle più alte cariche istituzionali, alla fine tornò profondo il suo dolore».
In quella occasione però a restituire "l' onore" al Presidente Leone furono anche Marco Pannella ed Emma Bonino che, come loro stessi hanno riconosciuto, avevano approvato, sbagliando, le critiche e le polemiche nei confronti di suo padre. Non bastò?
«Purtroppo no. Anche Francesco De Martino con un messaggio sottolineò la correttezza di ogni attività istituzionale di mio padre e come fossero infondate le accuse mosse nei suoi confronti. Purtroppo il danno era già stato fatto: irreparabile».
Lei ha sofferto per tutto questo?
«La sofferenza era legata al martirio vissuto da mio papà».
Lei nella sua carriera si è occupato sia di informazione, da giornalista, che di comunicazione, anche come dirigente Rai. Come è cambiato il servizio pubblico negli ultimi anni?
«È cambiata la comunicazione completamente. Il web ed i social hanno disintermediato il processo delle notizie dando grande democraticità da una parte ma volgarizzando e semplificando il linguaggio dall’altra. La vera scommessa sarà proprio nel fatto di riuscire a ricostruire qualità nella informazione anche sul web».
Come secondo lei ?
«Un riferimento deve essere il New York Times che è riuscito a trasformarsi sul web. L’informazione deve tornare ad essere una impresa con dei costi perché di qualità».
E la Rai?
«Io credo che se si riuscirà a costruire una fondazione, purtroppo mancata dal governo Renzi, con personalità di altissimo livello capaci di individuare il perimetro dell’offerta ebbene questo consentirebbe alla Rai di mantenere una posizione centrale nel panorama televisivo multimediale».
In tutto questo racconto della sua vita che importanza ha avuto sua madre?
«Mia madre, che oggi ha novantatré anni, è stata il baricentro di tutto. La sua moralità ha generato in me un rapporto altissimo con le donne. Posso dire che prima di trovare una persona che potesse essere all’altezza per fare con me una famiglia ho impiegato cinquant’anni. Ma il tempo mi sta dando ragione visto che siamo ancora felici insieme».
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Melissano e la statua di Sant’Antonio di Padova
La tela seicentesca che diede origine al culto di S.Antonio di Padova a Melissano
Per i trecento anni della statua di Sant’Antonio di Padova venerata nella chiesa parrocchiale di Melissano
di Fernando Scozzi
La statua di Sant’Antonio di Padova, venerata nella chiesa parrocchiale di Melissano, compie 300 anni. Non è una ricorrenza di secondaria importanza perchè nel difficile lavoro di ricostruzione delle vicende religiose e sociali della comunità melissanese anche l’immagine del Santo Patrono ha la sua rilevanza. Il simulacro, infatti, testimonia la generosità del vescovo di Nardò, Mons. Antonio Sanfelice e la devozione dei melissanesi per Sant’Antonio di Padova il cui patrocinio non trae origine da avvenimenti straordinari, ma da un dipinto del Santo che i De Franchis, feudatari di Melissano, donarono alla nuova chiesa parrocchiale nei primi anni del XVII secolo. (1)
Melissano, la facciata dell’antica chiesa parrocchiale di S. Antonio (sec. XVII) (foto Fernando Scozzi)
Fin da quel periodo, quindi, Sant’Antonio di Padova divenne il Santo di riferimento del piccolo paese, anche se il primo documento che ne attesta il patronato risale al secolo successivo. Dalla relazione della visita pastorale del 11 maggio 1719 apprendiamo, infatti, che il vescovo Sanfelice, accompagnato dal parroco, Don Ottavio Piamonte, visitò la chiesa parrocchiale intitolata a Sant’ Antonio di Padova, confessore e patrono principale di Melissano; visitò gli altari del Rosario e del Protettore, ma la non la statua del Santo, dal momento che la parrocchia era così povera da esserne sprovvista.
Mons. Antonio Sanfelice che commissionò la statua di Sant’Antonio di Padova per la chiesa parrocchiale di Melissano (da fondazioneterradotranto.it)
L’anno successivo, lo stesso presule visitò nuovamente la chiesa, la torre campanaria, il sepolcro dei defunti, le suppellettili sacre e la nuova statua di Sant’Antonio di Padova con sacra reliquia, circostanza riportata nella relazione della visita pastorale ..… visitavit novam statuam Santi Antonii de Padua cum sacra reliquia. Nessun dubbio, quindi, riguardo alla datazione del simulacro che fu intagliato fra il 1719 ed il 1720. E’ molto probabile che fu lo stesso Sanfelice a commissionare la statua, dopo aver constatato, nel corso della prima visita pastorale, che la parrocchia ne era priva. Il vescovo si rivolse, quasi certamente, al “maestro di legname” Giovanni Antonio Colicci (attivo a Napoli negli anni fra il 1692 ed il 1740) che in quello stesso periodo scolpiva le statue dell’Assunta per la cattedrale di Nardò e del San Filippo Neri per il seminario della medesima città, mentre per la parrocchiale di Lequile firmava il mezzobusto ligneo del Santo dei miracoli (2).
Quest’ultimo è simile alla statua di Sant’Antonio venerata nella chiesa di Melissano (occhi grandi, viso ovale, panneggio della tunica che cade sul basamento) il che ne avvalora l’attribuzione all’artista napoletano. Il Santo è raffigurato insieme a Gesù Bambino che, con una mano benedice e con l’altra indica il volto di Sant’Antonio come ad esortare i fedeli ad imitarne le virtù. Completano l’immagine il giglio ed il libro simboli, rispettivamente, di purezza e di ispirazione alla Sacra Scrittura.
Melissano, anni Sessanta del secolo scorso – La statua di Sant’Antonio addobbata con gli ori offerti per grazia ricevuta
Nel 1788 si rese necessario l’ampliamento dell’antica chiesa parrocchiale al cui interno fu edificato un artistico altare del Protettore che, con le sue linee settecentesche, caratterizza il sacro edificio. Qui, sulla controfacciata, si nota un’effigie di Sant’Antonio di Padova che, a detta dei più anziani, fu impressa sulla parete dalla scarica di un fulmine durante l’infuriare di un temporale. Certo è che il dipinto risale ai primi anni del secolo scorso, ma non è escluso che sia stato eseguito su una preesistente immagine del Santo.
Dagli atti del Comune di Taviano (cui Melissano fu aggregata agli inizi del XIX secolo) risulta che nel 1812 il Municipio stanziava otto ducati per solennizzare la festa patronale che, fin da quel periodo, prevedeva due appuntamenti annuali: il 13 giugno (festa liturgica) e la prima domenica di settembre (festa solenne). In questa occasione, fin dal 1877, fu istituita una fiera a supporto di un’economia agricola in forte espansione che aveva fatto della viticoltura il punto di svolta per lo sviluppo socio-economico della comunità melissanese. E proprio negli ultimi decenni del XIX secolo, con le risorse finanziarie provenienti dalla commercio del vino, si edificava la nuova chiesa parrocchiale che, in continuazione ideale con l’antica matrice, fu aperta al culto nel 1902 e dedicata al Protettore e alla Madonna del Rosario, titolare della parrocchia.
La statua di Sant’Antonio, quindi, passò dall’antico al nuovo tempio e continuò ad essere accompagnata nelle tre processioni annuali, parte integrante dei festeggiamenti svolti secondo un programma che, per molti aspetti, è stato seguito fino allo scorso anno: concerti di bande musicali, illuminazione delle principali vie del paese, messa solenne con panegirico e conclusione della festa con lo spettacolo di fuochi pirotecnici. (3)
Nel 1910 il simulacro fu impreziosito (per devozione di Fortunato Caputo) da un medaglione d’argento, mentre Francesca Panico donò la corona lignea dorata sotto la quale viene esposta ancora oggi la statua del Santo. Successivamente, il parroco Don Salvatore Tundo, pubblicò un libro in versi sulla vita di Sant’Antonio (4) mentre i coniugi Giuseppe e Antonia Musio fecero dipingere il maestoso altare del Protettore dove campeggia un’immagine del Santo (risalente al 1902) pregevole opera del pittore leccese Luigi Scorrano. Nel 1931, fu realizzato un ciclo di dipinti che raffigura gli episodi più significativi della vita del Santo dei miracoli (il transito, la gloria, la distribuzione del pane ai poveri) mentre la devozione popolare si manifestava con i numerosi monili offerti al Protettore per grazia ricevuta (esposti sull’immagine in occasione delle processioni) con la capillare diffusione del nome del Santo fra i melissanesi, le edicole sacre, le immagini fra le mura domestiche.
L’ultimo restauro della statua, il tredicesimo, risale al 2008. I lavori, affidati ad un’impresa specializzata, sotto la sorveglianza della Soprintendenza dei Beni Culturali di Lecce, ne hanno confermato la datazione, visto che la reliquia del Santo, posta nell’incavo centrale dell’immagine è autenticata dal sigillo di Mons. Antonio Sanfelice. E’emerso, inoltre, che il simulacro, di pregevole fattura, “è costituito dall’assemblaggio di tre pezzi di legno tenero tenuti insieme da un sistema di chiodi passanti che ne assicura la tenuta”. (5)
La statua, secondo gli addetti ai lavori, è stata riportata al suo stato originario; ma, nonostante gli interrogativi suscitati da un intervento così radicale, rimane un elemento di identificazione della Comunità melissanese affidatasi nel corso dei secoli a Sant’Antonio di Padova, uno dei Santi più amati dalla cristianità.
Melissano, chiesa parrocchiale – La statua del Santo dopo il restauro del 2008 (foto R. Lanza)
Note
I De Franchis, marchesi di Taviano ed utili signori di Melissano, erano così devoti a Sant’Antonio di Padova da far costruire e dedicare nel 1643 al Santo dei miracoli il convento dei francescani riformati di Taviano.
Maura Sorrone https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/12/26/giovanni-antonio-colicci maestro-di-legname/
“La Gazzetta del Mezzogiorno” riporta il programma della festa del 1951: “Hanno avuto inizio i festeggiamenti in onore del Patrono S. Antonio di Padova. Il Comitato ha preparato il seguente vasto ed interessante programma. Nelle ore pomeridiane di sabato 1 settembre e in quelle antimeridiane di domenica, la statua del Santo sarà portata processionalmente per le vie del paese. Una solenne messa in musica sarà celebrata nella parrocchia a termine della processione di domenica 2 settembre, messa che sarà eseguita dall’orchestra lirico-sinfonica “Città di Taranto”. Terrà il panegirico il Prof. Padre Gerardo Miccioli dei Frati Minori. Per l’occasione sono stati ingaggiati l’orchestra lirico-sinfonica “Città di Taranto” e il concerto musicale di Corigliano d’Otranto rispettivamente diretti dal Maestro Dino Milella e dal Maestro Marcianò. L’addobbo sarà curato dalla locale ditta Fratelli Parisi e vi saranno batterie di fuochi artificiali. Come per tradizione la fiera del bestiame e merci avrà luogo domenica 2 settembre”. Dalla fine degli anni Settanta, al tradizionale programma è stato aggiunto uno spettacolo di musica leggera con l’ingaggio di cantanti anche di fama nazionale. Invece, la processione che si svolgeva nel giorno della festa solenne è stata soppressa con il conseguente impoverimento dei festeggiamenti religiosi, ora limitati alla sera della vigilia. Ma, in generale, sono cambiate le motivazioni alla base delle feste patronali. Per quanto riguarda Melissano in particolare, la festa solenne che fino a pochi anni fa segnava l’inizio della vendemmia e quindi il rientro in paese dei melissanesi residenti nella abitazioni estive, è diventata (per l’abbandono dell’attività agricola e per il cambiamento climatico) un appuntamento da passare al mare ed a cui partecipare, tutt’al più, nelle ore serali.
Arc. Salvatore Tundo, S. Antonio, Carra, 1936. Così esordiva Don Salvatore nella sua pubblicazione: “Fortunata sei tu Melissano/d’aver scelto a celeste Patrono/ chi di gemme ha cosparso il suo trono/ed è ricco i tutti i tesor. I tuoi padri da Fede guidati/quando assursero a libera vita/ al Rosario cercarono aita/ad Antonio fidarono i cuor”.
Don Giuliano Santantonio , “Sant’Antonio … ritrovato”, in “Il Carrubo”, a. 1, n. 3, giugno 2008.
#Antonio Sanfelice#Fernando Scozzi#Giovanni Antonio Colicci#Luigi Scorrano#Melissano#statuaria lignea#Arte e Artisti di Terra d'Otranto#Spigolature Salentine
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Si sta avvicinando la fine del mese. Se per molti è tempo di rientro dalle vacanze, di cartellini da timbrare, uffici da rivedere, negozi da riaprire, c'è chi si augura di continuare a farlo. Perché non ha fatto altro durante l'estate. per fortuna. Mi piace davvero il mio lavoro. i primi giorni ero convinto fosse una ferrea direttiva aziendale: chi fosse stato sorpreso a incrociare un collega o una persona qualsiasi all'interno dell'azienda, e non avesse salutato sorridendo, sarebbe stato ricoperto di pece e piume. Poi ho visto essere una cosa sentita e normale. Facciamo un lavoro strano, ripetitivo e con un livello di specializzazione di poco superiore allo sbucciatore di banane o ad un tecnico riparatore di Betamax, possiamo abbrutirci o fregarcene e sentirci tutti amici. La seconda che hai detto. È bello arrivare e sentirsi salutare, chiedere come stai e correre il rischio di rispondere, contraddicendo chi canta non sia previsto. Se non ti hanno salutato, tornano e lo fanno. Lo fanno chiamandoti per nome. Con la voce di chi vorrebbe anche bere una cosa insieme. Ho 47 anni. In questa ditta, persone della mia età stanno in magazzino o calzano le Hogan, non stanno ai tavoli della bassa manovalanza. Sono un'eccezione. Grazie a Gundam, ma è una storia ormai vecchia. Questa volta non devo nemmeno essere per forza il giullare, il posto è meravigliosamente occupato da un ragazzo a metà tra Grignani sobrio e Antonacci ubriaco, io posso intervenire coi miei tempi e portare a casa il risultato. Con calma. Come detto prima. L'età media è intorno ai trent'anni. Ricordo i tempi in cui i trentenni tornavano dopo aver girato l'Europa e l'America ed erano stanchi, avevano voglia quindi di fermarsi, posando giacca e cappello. Quando ero piccolo, i trentenni erano la forza trainante del paese, le energie giovani, spesso sfruttate dai vecchi babbioni, ma portatori di idee nuove. Mi guardo intorno ora, in questa giornata strana di fine mese. Antonio, che dice di essere diventato uomo dopo aver visto Malena, pizzetto pigro e capelli corti tagliati da solo, mangia da un portapranzo che ha visto tre guerre mondiali, la prima combattuta con ossa e bastoni. È al secondo rinnovo di un mese, ha lavorato in questa ditta anche otto mesi fa, in questo intervallo ha spaccato legna con un cugino, passato per l'inevitabile call center che non l'ha pagato e provato a vedere Folletto. Vive con i genitori ed è fidanzato da quattro anni con una supplente di cinque anni più grande. "Se ogni tanto me fa da mamma, ce po' stà, no?" Chiara, capelli corti e ciuffo biondastro. Ha un sorriso capace di abbattere missili nordcoreani al volo ma, per qualche motivo comprensibile solo a lei, quando lo fa esplodere lo nasconde con la mano. È magra e mangia spesso frutta, che offre a tutti anche se poca. Anche lei con il contratto in scadenza tra pochi giorni, anche lei ha lavorato per questa ditta da settembre a dicembre dello scorso anno. A gennaio era stata chiamata da Parma per un contratto di sei mesi, arrivata lì, il contratto è stato trasformato in un mese solo. "Ormai ero lì, che dovevo fare?" Armi, bagagli, speranze di aver trovato finalmente almeno sei mesi al sole. Sei mesi. Una felicità insperata. Per sei mesi. Lo raccontava senza emozione apparente, non era nemmeno incazzata. Succede. Succederà. Roberta, i primi giorni mi chiedevo come mai una ragazza così carina si truccasse tanto. Poi l'ho vista arrivare ogni giorno con dei colori diversi, sfumature in più punti, il viso si sfina, mette in risalto gli occhi o li delinea, le guance sembrano diminuire di volume per poi riprendere la pienezza. Ha come salvaschermo del telefonino una sua foto col ragazzo mentre si baciano, si sono conosciuti in questa azienda, tra un turno e l'altro. La chiamano tutti e a tutti risponde. Ha fatto l'estetista, ovviamente, manicure, tolettatrice, ha preso gli immancabili vaffanculo chiedendo al telefono chi fosse il titolare delle utenze, il padre è carburatorista. Purtroppo, di quelli che non hanno saputo prevedere l'avanzata dell'elettronica. Guido è gay. Probabilmente ha saltato qualche lezione di "Coming out per tutti" visto che non fa altro che ripeterlo. Il primo giorno di lavoro si è presentato a un collega. "Ciao, io sono Guido e sono gay" L'altro, senza fare una piega. "Ciao, io mi chiamo Luigi e sono del Milan" "Non mi pare siano due cose posizionabili allo stesso livello" "Hai mai provato a essere milanista a Fiano Romano? Fidati, non hai idea di cosa significhi essere ghettizzato". Lavoriamo con lui da quasi un mese e nessuno indossa ancora boa di struzzo, creato la playlist "Barbra meet Raffaella" nell'Ipod o contagiato con delle onde gay la propria famiglia, trasformandola. Sospetto sia così anche nel resto del mondo, nonostante quanto leggo ogni giorno su facebook. È un novellino, come me, anche lui al primo turno di lavoro qui. Ha fatto l'archivista, lavorato in nero per un geometra, in nero per un magazzino e in nerissimo per un giornale web. È uno dei pochi laureati. Due volte. "Una è in sociologia però, facciamo che non conta" Giuseppe è un vitello con quattro punti di barba in faccia, incapace di parlare con la voce sotto al livello di una sirena antiaerea, sfoggia una calata paesana meravigliosa. Vive a casa della ragazza, stanno insieme da tre anni e aiutano i nonni (casa è la loro) con i campi coltivati. Per due settimane si è trasformato in una assurda versione di un Bubba viterbese, solo con i pomodori al posto dei gamberi. "Ahò, ne sò venuti fòra n'silos, che faccio, l'ho da buttà?" Gratinati, a pezzetti nel sugo, fatti a pappa, con le patate e tagliati in insalata. Tre giorni fa si è presentato con due teglie di pomodori col riso e costretto tutti a finirli. "Fateme riportà a casa le teglie piene e la mi' regazza prima me mena a me e poi ve mena a voi perché nun ve so' piaciuti, e visto che a me nun me piace da famme menà, meno io a voi così poi lei nun mena a me che... cazzo te ridi che me sò 'mpicciato? Oh, e si nun me volevo impiccià studiavo da spicciatore" Stamattina parlavamo di cinema, raccontavo di come Giorgiana avesse confuso Il Signore Degli Anelli con L'Impero Colpisce Ancora. Lui si batte una manona sulla fronte e sentenzia: "Zitto, l'altro giorno nun me veniva er nome de la nonna de Pierino in Pierino Torna a Scuola, cazzo, ce credi che st'ignoranti nun ce ne stava uno che lo sapeva?" Ivan ha quattro dita nella mano sinistra. Segheria. Michela, allergica alla polvere, ha lavorato tre mesi al chiuso di un archivio comunale. Paolo è calabrese. Tre mesi fa ha lavorato in Toscana, prima ancora è stato in Abruzzo a spostare pietre rinunciando a un contratto di meravigliosi quattro mesi a 700 euro al mese. "Forse erano pure netti, ma chissenefrega". In caso di mancato rinnovo, forse in Veneto. Silvia è la bellezza delle lame al mattino. Gli occhi sfidano pericolosi ma le mani tradiscono una dolcezza che forse non sa nemmeno di avere. Parla muovendole in voli incomprensibili, disegna con le dita codici di geometrie esistenziali. Lei, come tutti, tocca le persone. Nessuno ha paura di avvicinarsi tanto da arrivare a toccare. In questo piccolo mondo, finalmente torniamo padroni di tutti i nostri sensi. Ho 47 anni, dicevo. Due figlie, due mutui, due gatte. Mi trovo a fare da padre scemo a una trentina di trentenni che sembrano usciti da una versione off italiana di Saranno Famosi. Li sento non azzardare a fare un discorso che vada oltre un limite temporale di trenta giorni, nessuno ha mai parlato di ferie, di montagna o di mare. Solo di speranze. E tutte giravano intorno al lavoro. Farei. Non farò. Madri e padri che li aspettano all'uscita, quando hai una sola macchina in casa devi per forza organizzarti. Si preparano il pranzo da soli stando attenti a cosa mangiano. Sentire non una, nemmeno due o tre ma quattro volte da quattro persone diverse, dire al telefono "In qualche modo ne veniamo fuori, dai". Quanta energia state mandando sprecata. Sapete quale sarà stata la causa principale, in caso di mancato rinnovo del contratto? Essere stati tanto bravi da aver finito in un mese, il lavoro per cui ne erano stati preventivati di più. E lo sapevano TUTTI. Avrebbero potuto rallentare. Lavorare con meno intensità. Cosa avrebbero perso? Cosa avrebbero rischiato? Nulla. Potevano cullarsi o adagiarsi, lavorare a metà potenza o fermarsi nel momento in cui si fossero resi conto di stare quasi per finire. Nessuno lo ha fatto. "Se lavori, lo fai per bene". Avete cancellato una generazione per avere una statistica. Doveva essere una ribellione, invece avete voluto solo esibirla. Choosy sto cazzo. Possiate voi vivere per sempre.
(via Servitevi da Soli)
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Il grande scalone illuminato di Belgirate 2023
Tornano le luci e i colori sullo scalone di Belgirate! Belgirate è un delizioso e storico borgo sul Lago Maggiore tra Arona e Stresa. Ville e dimore storiche, dove si è fatta la storia, vera. Personaggi storici, nobili, politici, filosofi, pittori, scrittori e romanzieri di ogni epoca sono passati da qui e da qui hanno preso anche spunto per le loro opere come Stendhal, Manzoni, Fogazzaro, Hemingway. Una delle più belle, particolari e romantiche chiese del lago, come quella dedicata a Santa Maria. Un lungolago piacevole, che offre uno sguardo privilegiato sul lago e che potrebbe veramente raccontare tante storie e che è stato fonte d’ispirazione per tanti. Uno dei posti più particolari di Belgirate è il lungo, ampio scalone che affianca la chiesa e porta nella parte più alta del borgo. Posto lungo la strada statale del Sempione è quasi nascosto alla prima occhiata, spesso sfugge a chi passa di fretta. In realtà è uno dei punti più interessanti e caratteristici del borgo. Lo scalone prende il nome dai Fratelli Cairoli, belgiratesi per ramo materno. E a Belgirate troviamo la seicentesca Villa Cairoli, costruita dai Bono, ricca famiglia belgiratese. Famiglia che diede i natali al Conte Benedetto Bono, primo commissario della Repubblica Cisalpina. Padre di Adelaide, madre proprio dei fratelli Cairoli, protagonisti del Risorgimento. Una dimora che ospitò tra gli altri, anche Garibaldi e molti altri personaggi della vita politica e culturale dell’800. Martedì 29 agosto alle 20.00, si terrà il tradizionale appuntamento con l’accensione dello scalone Cairoli, testimonianza di fede e poesia, con la scenografia creata da centinaia di lumini colorati. L’evento è in concomitanza con i festeggiamenti della Madonna Addolorata, uno dei simboli della cittadina sulla riva piemontese del Verbano. La processione della Madonna Addolorata, protettrice di Belgirate, ha una storia con radice lontane. Risale infatti a circa 300 anni fa, poi venne sospesa durante la seconda guerra mondiale e, dal secondo dopoguerra, si tiene l’ultima domenica di agosto. La chiesa parrocchiale di Belgirate, edificata verso l’anno Mille, sorgeva su un piccolo poggio ed era dedicata alla Purificazione di Maria. Il 1 novembre 1610 Carlo Borromeo fu proclamato santo e a Belgirate nel 1611 iniziarono i lavori per un oratorio in suo onore. Nel 1618 venne completata la cappella maggiore, come ricorda un quadro votivo del 1683 eseguito per ricordare la fine della pestilenza del 1631. Pochi decenni dopo l’oratorio di San Carlo, fu la nuova chiesa parrocchiale, poiché gli abitanti trovavano poca adatta la vecchia per la vita religiosa della comunità. L’arciprete Giuseppe Colombari nel 1715, fece scolpire la statua lignea della Vergine Addolorata come in segno di devozione per la miseria che affliggeva il paese e nel 1753 quattro grandi tele di Giovanni Battista Calzia con episodi della vita di San Giuseppe vennero collocate sulle pareti del presbiterio. Nel 1795 l’oratorio divenne la chiesa parrocchiale e prese il titolo di Purificazione di Maria Vergine e San Carlo. Un grande organo della ditta Bossi di Bergamo, che venne donato dal belgiratese Giuseppe Antonio Conelli, fu installato nel 1846. Nel 1853 il decoratore Carlo De Pedrini, realizzò, per conto di Elena Conelli, la doratura del pulpito e quella della statua dell’Addolorata. Nel 1904 il pittore torinese Luigi Morgari lavorò agli affreschi della chiesa, mentre il decoratore Luigi Secchi realizzò gli stucchi sulle lesene, sui cornicioni, sugli archi e nelle volte delle cappelle, e le cornici che inquadrano gli affreschi. Nel 1940, con arciprete don Francesco Ferri, venne collocato nella chiesa un nuovo portale in serizzo, dono delle benefattrici Valentina Tosi e Giovannina Prini Rossi e nel timpano una grande lapide con la dedicazione a Maria Vergine. Il 22 giugno 1997, furono collocati e benedetti gli amboni e un nuovo altare comunitario in legno di noce realizzati da don Giovanni Cavagna. L’idea di illuminare completamente lo scalone Cairoli, uno dei luoghi più noti della cittadina lacustre, nasce una trentina di anni fa, quando si ponevano dei lumini per le vie del borgo e proprio anche sullo scalone stesso, per la festa grande di Belgirate, quella della Madonna Addolorata, con la relativa processione. E solo da una decina di anni però che l’illuminazione dello scalone Cairoli è diventata sempre più imponente, bella e scenografia con addirittura una serie di disegni, diversi ogni anno, che raccontano il legame di Belgirate con la Madonna Addolorata e la forte fede di questi luoghi sul Lago Maggiore e nel Piemonte. Uno spettacolo davvero particolare, affascinante, con i lumini di vari colori che creano disegni, è una magia che si rinnova sempre diversa ogni anno. E che colpiscono in particolare i turisti che da ogni parte del mondo arrivano a Belgirate. Read the full article
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NAPOLI. SEQUESTRATI A MARIGLIANELLA ALCUNI TERRENI DELLA FAMIGLIA DI MAIO USATI COME DEPOSITI DI RIFIUTI INERTI.
NAPOLI. SEQUESTRATI A MARIGLIANELLA ALCUNI TERRENI DELLA FAMIGLIA DI MAIO USATI COME DEPOSITI DI RIFIUTI INERTI.
Luigi Di Maio, o meglio la sua famiglia, ancora la centro della cronaca dopo che gli agenti della Polizia Municipale hanno effettuato alcune verifiche sui terreni del padre del vice premier Luigi Di Maio nel piccolo comune dell’hinterland napoletano,Mariglianella.
Le verifiche e il sequestro di alcune aree del terreno del padre Antonio Di Maio.
La Polizia Municipale di Mariglianella,…
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Di luogo in luogo, ogni domenica il nostro autore ci accompagna a visitare le delizie borboniche: oggi è la volta della sontuosa e sfortunata Villa d’Elbeouf di Portici
di Lucio Sandon
Da una guida turistica del ‘700:
Granatello: ameno casale dipendente dal borgo di Portici, in riva al mare, poco più di tre miglia a scirocco da Napoli. Quivi stanno deliziosi casini di campagna, tra i quali uno fattovi edificare dal principe di Lorena, Emanuele d’Elbeuf, che in tale occasione scoprì la sepolta città d’Ercolana. Passeggiata incantevole, la quale può farsi in meno di due ore in vettura da Napoli: vi è un luogo amenissimo, quasi lingua di molo, ove si può passeggiare, o far colazione sul mare. Pochi passi discosto vi è un luogo detto le Mortelle, ove esiste un piccolo tratto di parterra naturale, nel quale uno può sdrajarsi a piacere, o farvi una ricreazione qualora si amino tali campestri delizie.
C’est au prince D’Elbeuf qu’on doit les premières fouilles qui conduisirent à la découverte d’Herculanum. Ce prince faisait bâtir une maison de plaisance sur le bord de la mer, à Portici. Instruit que des habitans de Resine, en voulant creuser un puits leurs frais, avaient trouvé quelques fragmens de beaux marbres; le prince, qui en cherchait pour faire faire du stuc, ordonna qu’on creusât ce même puits jusqu’à fleur d’eau. A peine avait on fouillé le terrain latéralement, qu’on trouva quelques belles statues, et plus loin un grand nombre de colonnes, quelques unes d’albâtre fleuri, mais la plupart de jaune antique, appartenant à un temple. Naples était alors sous la domination autrichienne; le viceroi forma des prétentions sur les statues; elles furent envoyées à Vienne, et données au prince Eugène de Savoie.
Al principe D’Elbeuf dobbiamo i primi scavi che hanno portato alla scoperta di Ercolano. Questo principe stava costruendo una casa per suo piacere sul bordo del mare, a Portici.
Avendo saputo che alcuni abitanti di Resina, volendo scavare un pozzo per i propri interessi, avevano trovato alcuni frammenti di bei marmi, il principe, che stava cercandone per fare lo stucco, ordinò di scavare fino a fior d’acqua. Dove il campo era stato scavato lateralmente vennero trovate delle belle statue, e inoltre un gran numero di colonne, alcune di alabastro fiorito, ma la maggior parte di color giallo antico, appartenente a un tempio. Napoli era all’epoca sotto il dominio austriaco. Il viceré D’Elboeuf fece delle pretese sulle statue, che furono mandate a Vienna e date al principe Eugenio di Savoia.
Emmanuel Maurice duca d’Elbeouf, Barone di Routot e di Quatremarre e principe di Lorena, vantava come progenitore addirittura l’imperatore Carlo V. Nel 1706 al servizio dell’imperatore d’Austria Giuseppe I, venne nominato luogotenente generale della cavalleria tedesca e inviato a Napoli come vicerè, ma questa condotta contrariò molto Luigi XIV, il quale lo fece processare per diserzione in contumacia, e condannare all’impiccagione in effigie.
Per nulla impressionato, nel 1711 il principe commissionò all’architetto Ferdinando Sanfelice che aveva appena terminato il duomo di Amalfi, la costruzione di una residenza privata sul bordo del mare di Portici: fu la prima e sicuramente la più sfarzosa delle centoventuno ville vesuviane del Miglio d’Oro.
La villa sorse immersa nella vegetazione che allora fioriva rigogliosa in quel luogo, “Tra il rosso splendente del magma del Vesuvio e l’azzurro rasserenante del cielo e del mare del più bel golfo del mondo“, mentre i giardini erano alimentati da un complesso acquedotto che attingeva le acque dai primi contrafforti degli Appennini.
Questo acquedotto, detto Reale, passava a monte di San Giorgio a Cremano ed è indicato in una incisione del 1793 del geografo ufficiale del regno, il veneto Giovanni Antonio Rizzi Zannoni. Per costruire il palazzo di oltre quattromila metri quadri coperti fu necessario livellare il piano scosceso formato dalle lave delle eruzioni vesuviane del 1631 e 1633. Scavando fossati e accumulando scorie e terreno, si formò una grande piattaforma ove sorsero l’edificio e un esteso bosco, piantumato di specie rare, provenienti anche da paesi lontani.
Lo storico dell’epoca Diego Rapolla così descrive la villa:
Le stanze erano alte e sfogate, i loggiati stupendamente magnifici, i vani amplissimi e le porte simili a quelli dei castelli. Le suppellettili erano fastosissime e la copia dei marmi, dei bronzi e delle armature era così profusa che non esiste in tutto il contorno in sulla spiaggia un palazzo principesco (e ve n’erano parecchi) che con esso potesse in ricchezza e in delizia e lusso rivaleggiare. La villa mostra due simmetrici portali in marmo e piperno ai quali si accede da una trionfale scalea a doppia rampa, collegata ad una terrazza panoramica sul golfo di Napoli e le isole.
I frati Alcantariti del vicino convento di san Pasquale, avevano ordinato di ricavare un pozzo per l’acqua nel proprio giardino, e durante i lavori di scavo era stato trovato un edificio di marmo. Di questo ritrovamento venne a conoscenza il duca d’Elboeuf, il quale acquistò il pozzo con il terreno, e per circa nove mesi intraprese una personale campagna di scavo attraverso cunicoli, asportando statue, marmi di rivestimento, colonne, iscrizioni e bronzi.
Quanto siano stati dannosi questi scavi e quale depauperamento abbiano arrecato al patrimonio archeologico, ognuno può ben immaginare. Il principe aveva individuato in questo luogo, per lui di conquista, il punto di ingresso a una miniera dalla quale poter estrarre la preziosa merce. Molte delle opere d’arte sottratte da Ercolano presero la strada di Vienna, direttamente a casa del cugino carnale di D’Elboeuf, Eugenio di Savoia.
Le prime a partire furono tre statue in marmo, la Grande Ercolanese e le due Piccole Ercolanesi. Morto Eugenio di Savoia, le tre statue vennero trasportate presso la corte di Augusto III di Sassonia, re di Polonia e padre di Maria Amalia, la consorte di Carlo di Borbone, e ora sono custodite nell’Albertinum Museum di Dresda.
Ma fu questo come un barlume del giorno che cominciò a spuntare il 1711, quando il Principe d’Elbeuf saputo che nello scavarsi un pozzo sopra Ercolano si erano rinvenuti alcuni frammenti di marmo, ordinò che si continuasse quello scavo sotto la direzione dell’architetto Giuseppe Stendardo, il quale discoprì un tempio rotondo periptero sostenuto esternamente da 24 colonne di alabastro fiorito, e nell’interno della cella da altrettante colonne dello stesso marmo tutto ornato di statue, fra le quali una di Ercole, e l’altra creduta di Cleopatra, le quali statue furono dal Principe d’Elbeuf mandate in Vienna a presentarne il Principe Eugenio di Savoia. E questi scavi con tanta felicità cominciati, furono interrotti, nè prima ripresi del 12 novembre 1738, per ordine del re Carlo III, che dallo stesso punto partiti da dove sotto il Principe d’Elbeuf eransi cominciati incontraronsi nel teatro d’Ercolano, nel foro ed in tanti altri pubblici e privati edifizii. E dobbiamo al grande animo di quel Monarca, tanto alle belle arti magnifico, l’aver aperto sì luminosa strada ai suoi Augusti Successori onde mostrare al mondo in queste città dissotterrate il più bello copioso e rilevante spettacolo che vantar possa l’Archeologia.
(Da Real Museo Borbonico – Antonio Niccolini – 1831)
Nel 1713, il principe si innamorò di Marie Therese Stramboni figlia unica di Jean Vincent Stramboni, e la sposò senza chiedere il permesso al suo re. Di questo il sovrano fu molto irritato tanto che l’imperatore richiamò immediatamente a Vienna l’incauto principe, mentre la sposa venne spedita in convento.
Il 9 luglio 1716 la villa venne ceduta da D’Elboeuf per 11.000 ducati a Don Giacinto Falletti Arcadi, marchese di Bossia e duca di Cannalonga. Nel 1742 gli eredi del Falletti vendettero la villa a re Carlo di Borbone, unitamente a 177 busti di marmo e un gran numero di colonne, statue e marmi antichi provenienti dagli scavi di Ercolano.
La residenza doveva servire come dipendenza marittima del vicino Palazzo Reale: in sostanza era la capanna sulla spiaggia della villa al mare. I Borbone arricchirono il palazzo con lussuose sale da pranzo, alcove, e vari saloni per le feste e i banchetti.
Il giardino venne riunito con il bosco delle Delizie, la grande riserva di caccia del Palazzo Reale di Portici: per accedere direttamente a Villa d’Elboeuf, venne costruito un viale, che dalla reggia attraversava tutto il parco.
Il re aveva acquistato la villa sia per stupire illustri ospiti con le sue meraviglie, che per potersi divertire nella pesca, e infatti ancora fino a pochi anni fa, si potevano ancora vedere sulla spiaggia dei canali che convogliavano le acque marine per alimentare piccole peschiere scavate nella lava vesuviana: le Regie Peschiere del Granatello
«Quivi rinchiusi, i pesci d’ogni forma e colore, tutti vaghi e sorprendenti, molto più squisiti in questo mare di Portici nel quale alimentansi pesci di così delicato sapore da esser detti per antonomasia “pesci del Granatello”.» Nel 1744 venne realizzato anche il porto del Granatello.
Al lato opposto delle peschiere resistono alle ingiurie del tempo e degli uomini, i resti dei cosiddetti Bagni della Regina, unico esemplare di architettura balneare stile impero, eredità del Decennio francese: una costruzione a due piani a forma di ferro di cavallo che accoglie un porticciolo. Venne fatta aggiungere alla villa nel 1813 per volontà di Carolina Bonaparte, moglie di Gioacchino Murat, durante il periodo della sua reggenza, e consiste in una serie di cabine disposte radialmente, affacciate su una balconata e contornate da un alto muro. Qui le donne della corte potevano prendere i bagni di mare al riparo di sguardi indiscreti.
Dopo oltre due secoli di splendore, la prima e la più sfarzosa delle ville vesuviane è andata in rovina: ai Savoia le case sul mare non interessavano.
La villa venne messa all’asta e acquistata dalla famiglia Bruno. Poi, dopo essere stata divisa in diecine di appartamenti, subì in breve sequenza, diversi vandalismi, ristrutturazioni folli, terremoti, occupazioni abusive, l’impianto di un ristorante anch’esso abusivo ma con il nome del nobile francese, crolli e apparizioni di fantasmi, che ne decretarono il rovinoso declino e l’abbandono.
La realizzazione della prima linea ferroviaria italiana sul retro del palazzo nel 1839, ha probabilmente la responsabilità dell’inizio del declino, culminato con il crollo nel 2014 di una parte dell’edificio sui binari, dove attualmente viaggiano moltissimi convogli ogni giorno.
Qualche tempo dopo, la villa è stata acquistata da una cordata di imprenditori privati. I nuovi proprietari dovranno garantire un restauro totale dello stabile, in coordinamento coi tecnici della Soprintendenza.
Al Genio del Luogo ed alle Ninfe abitatrici dell’amena spiaggia!
Per poter ritirarsi e vivere giorni lieti e tranquilli ed a prender vero diletto sia dagli onesti riposi sia dagli studi in compagnia degli amici, Emmanuele Maurizio di Lorena Duca di Elboeuf, fatto spianare il suolo e piantarvi alberi e condurvi acque potabili, questo quieto recesso si preparò.
Lungi ne ite, o cure moleste della rumorosa città.
(Epigrafe murata all’inizio del 1700 sulla facciata del palazzo D’Elboeuf, ora scomparsa)
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Lo scrittore Lucio Sandon è nato a Padova nel 1956. Trasferitosi a Napoli da bambino, si è laureato in Medicina Veterinaria alla Federico II, aprendo poi una sua clinica per piccoli animali alle falde del Vesuvio.
Notevole è il suo penultimo romanzo, “La Macchina Anatomica”, Graus Editore, un thriller ambientato a Portici, vincitore di “Viaggio Libero” 2019. Ha già pubblicato il romanzo “Il Trentottesimo Elefante”; due raccolte di racconti con protagonisti cani e gatti: “Animal Garden” e “Vesuvio Felix”, e una raccolta di racconti comici: “Il Libro del Bestiario veterinario”. Il racconto “Cuore di figlio”, tratto dal suo ultimo romanzo “Cuore di ragno”, ha ottenuto il riconoscimento della Giuria intitolato a “Marcello Ilardi” al Premio Nazionale di Narrativa Velletri Libris 2019. Il romanzo “Cuore di ragno” è risultato vincitore ex-aequo al Premio Nazionale Letterario Città di Grosseto “Cuori sui generis” 2019.
Sempre nel 2019, il racconto “Nome e Cognome: Ponzio Pilato” ha meritatola Segnalazione Speciale della Giuria nella sezione Racconti storici al Premio Letterario Nazionale Città di Ascoli Piceno, mentre il racconto “Cuore di ragno” ha ricevuto la Menzione di Merito nella sezione Racconto breve al Premio Letterario Internazionale Voci – Città di Roma. Inoltre, il racconto “Interrogazione di Storia” è risultato vincitore per la Sezione Narrativa/Autori al Premio Letizia Isaia 2109.
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Il giornalismo più utile
La mia passione per i giornali ed il giornalismo iniziò presto.
A casa mio padre comprava costantemente un quotidiano. Fin dalla mia infanzia.
Al liceo, poi, un’illuminata docente di Lettere, volle introdurre nel programma curricolare almeno un’ora alla settimana di giornalismo: capirlo, analizzarlo, magari farlo.
Utilizzammo un testo che conservo gelosamente: Informazione e quotidiani (a cura di Vittorio Russo e Biagio Scognamiglio, Liguori Editore), il quale divenne per me una sorta di bibbia, miracolosamente valida anche ai nostri giorni.
Lo riprendo spesso dai miei scaffali, perché raccoglie esempi mirabili di giornalismi, di sintassi, di riflessioni. Oltre a dimostrarci come il tempo cambia le persone. (Alberoni scriveva cose interessantissime e molto progressiste nel 1978, per esempio.)
Grazie a questo libro ho capito che non si può fare giornalismo se non si capisce di sociologia (oltre - e soprattutto - a padroneggiare grammatica, lessico e sintassi), perché l’economia, la politica, ma anche la cultura sono prodotti dell’umanità, delle comunità/società di uomini.
Grazie all’amato manuale di giornalismo degli anni Ottanta, ho imparato a destrutturare un testo per inferire l’autore, come pure il lettore di riferimento. Grazie a questo libro ho imparato che oggigiorno troppi giornalisti scrivono peggio di come mangiano, manchevoli di basi culturali, oltre che di morale, se non quella del marketing e del marketting©.
Ho provato, durante sei ricchi incontri al Convitto Nazionale “Pietro Colletta” di Avellino, nell’ambito di un progetto educativo, a trasmettere la mia esperienza e le mie conoscenze in materia ad una ventina di ragazzi curiosi di sapere cosa in realtà ci sia dentro e dietro una pagina di giornale, on line o cartaceo, quotidiano o periodico.
Abbiamo avuto numerosi momenti di dibattito e confronto, durante i quali è stato innaffiato il seme del dubbio, prezioso strumento di ogni uomo alla ricerca del Vero, attività preziosa in tempi di massificazione e depauperamento cognitivo, per un’umanità sempre meno interessata ad istanze culturali, individuali e collettive.
Abbiamo visitato la redazione di Orticalab e siamo stati felici, a nostra volta, di ospitare il Direttore Marco Staglianò, e il suo Vice, Luigi “Giggino” Salvati.
I ragazzi hanno voluto raccontare e/o commentare questa loro esperienza. Ho raccolto, qui di seguito, una sintesi di alcuni loro pensieri, come contenuti negli elaborati finali.
Grazie a tutti voi ragazzi - la cui intelligenza e applicazione cognitiva mi fanno ben sperare per un futuro migliore - e grazie al vostro tutor, il Prof. Rino Caruso, persona entusiasta ed innamorato della sua missione educatrice.
“A sorprendermi è stata la dose di umiltà che Marco [Staglianò] ha mostrato nel rispondere a noi ragazzi curiosi. Rispetto e condivido appieno il suo parere e credo che oggi siano pochi a rimanere seri nel proprio mestiere, restando con i piedi per terra. In un mondo in cui si dà spazio alla fama, alla gloria, ci si vende per denaro e si fa di questo una ragione di vita, risaltano le persone come il Direttore Staglianò, capo di una testata per cui uomini e donne lavorano con dedizione e passione, credendo fortemente nel ruolo dell'informazione e dell'educazione. Gente così non dovrebbe passare inosservata nella società. Questo mio parere comprende tutti quegli individui che svolgono dei compiti essenziali per la società, ma che desiderano fare dell'umiltà un precetto di vita e preferiscono restare ignoti ai molti, pur fornendo un contributo silenzioso ed essenziale a tutti.” Luis Davide Gentile
“La nostra lunga intervista al Direttore Staglianò si è conclusa con alcune riflessioni e soprattutto con il regalo di qualche consiglio per noi studenti. Ciò che mi ha colpito di più è il fatto che secondo Marco sono più importanti cento punti interrogativi che uno esclamativo a testimonianza che non vi è una soluzione facile a problemi difficili e che attraverso le domande che ci poniamo riusciremo a risolvere il problema, per scalare la vetta della Verità, certamente affaticati, ma molto più felici. Infine, ricorderò a lungo questa giornata per una preziosa raccomandazione del direttore, e cioè di essere sempre noi stessi andando oltre i pregiudizi . Sarà esattamente così che imposterò la mia vita per realizzare i miei sogni e, chissà, magari proprio quello di diventare un giornalista professionista!” Ciro Picone
“Per concludere, abbiamo romanticamente parlato del rapporto che intercorre tra il mondo del giornalismo e quello della scuola e come questo si è evoluto nel tempo. Al giorno d’oggi, questo sembra essersi notevolmente indebolito a causa delle strategie di marketing, sempre più diffuse tra gli istituti i quali, attraverso le loro offerte formative sempre più accattivanti, si propongono di dare (quasi di vendere) certezze, invece di coltivare la “cultura del dubbio”, ovverosia di insegnare ai ragazzi come porre e porsi domande al fine di indagare la realtà che li circonda. Secondo Marco Staglianò, la scuola, a questo proposito, potrebbe trasformare il giornalismo in una risorsa educativa tramite l’organizzazione di attività come quella cui abbiamo preso parte noi in questo anno scolastico. È stato un vero e proprio assaggio della vita lavorativa in una redazione, un’occasione che si conferma preziosa anche se abbiamo ancora molto da imparare e anche se, ad oggi, non sappiamo ancora se il nostro destino è quello di diventare dei giornalisti professionisti. Per adesso, ciò che conta è divertirsi e arricchirsi grazie ad iniziative come questa, per lo svolgimento della quale ringrazio, in particolare, la nostra esperta Marika Borrelli e il nostro professore-tutor Pellegrino Caruso che ci hanno seguiti per tutta la durata del PON e, naturalmente, la redazione di Orticalab.” Alessia Ruta
“[Marco Staglianò] ci ha detto anche che per problemi complessi non esiste una soluzione semplice e se tra tanti punti interrogativi dovessimo riuscire a trovare anche solo un punto esclamativo, non si tratterebbe della soluzione ai nostri quesiti. Avere tante domande, tanti dubbi e una buona dose di curiosità sono elementi alla base della comunicazione e alla base di un dialogo: infatti, se uno solo di questi elementi dovesse mancare, di conseguenza inizierebbero a sparire tutti gli altri, fino al silenzio tombale. Ci ha anche raccontato di aver deciso di fondare un giornale online per far sì che le notizie arrivino in minor tempo a più persone, nonché più adatte - per modalità e contenuti - target di età differenti. Ha concluso con una frase che ho apprezzato moltissimo: “Se avete delle scarpe viola e vi piacciono, indossatele, anche se il vostro compagno di banco, insieme a tutti gli altri avrà da ridire. Non abbiate paura, siate sempre voi stessi.” ” Giusy Altavilla
“Ciò che ci ha colpito di più è stata la disponibilità e l'apertura del Direttore nei nostri confronti, dandoci consigli, offrendoci riflessioni e punti di vista. Queste, a nostro avviso, sono opportunità che solo pochi possono cogliere, esperienze che segnano lasciandoci con importanti insegnamenti. Ringraziamo il professore Caruso e la nostra esperta, Marika Borrelli, per aver fatto sì che noi giovani redattori potessimo conoscere più cose sul mondo dei giornalisti, andando oltre ad una semplice lezione in aula. Ringraziamo la redazione di Orticalab per averci dato la possibilità di realizzare questo piccolo nostro desiderio.” Chiara e Benedetta Rosanova Un ringraziamento particolare a Sissi Menna per il montaggio della videoclip in collaborazione con i suoi compagni di corso (oltre ai sopra citati: Benedetta Malanga, Giuseppe Aliberti, Rosalba Ciampi, Emanuele Colantuono, Giulia Cuomo, Francesca De Benedictis, Aurora De Giorgio, Camilla Giannitti, Filomena Iasuozzo, Micaela Pennacchio, Antonio Sementa, Marco Simonetti, Carolina Tommasone), nonché per la collezione delle domande rivolte dai ragazzi al Direttore Staglianò.
Spero di incontrare ancora lungo la mia strada ragazzi partecipi come voi.
#Convitto Colletta Avellino#Il Peggio Deve Ancora Arrivare#i libri di Marika#giornalismo#scuola#PON 2018-2019
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3 APR 2020 18:51
FURIA SELVAGGIA SULLA BASILICATA - GENTE CHE MUORE ASPETTANDO I TAMPONI, ASSESSORI CHE MINIMIZZANO: IL DISASTRO DELLA REGIONE - L’ULTIMO CASO, QUELLO CHE RIGUARDA LA MORTE DEL GIORNALISTA ANTONIO NICASTRO, GRIDA VENDETTA. PER DUE SETTIMANE AVEVA IMPLORATO UN TAMPONE, SUPPORTATO DALLA MOGLIE E DAL FIGLIO VALERIO. “STIAMO IMPAZZENDO”....
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Selvaggia Lucarelli per tpi.it
“Il paziente uno in Basilicata? Se ne sta tranquillamente a casa a mangiarsi il suo piatto di pastasciutta con la mamma. Sdrammatizziamo”. Diceva così, il 3 marzo, ai giornalisti l’assessore alla Sanità della Regione Basilicata, Rocco Luigi Leone.
Neanche un mese dopo, i lucani che non mangeranno mai più pastasciutta sono 11. E sono morti che pesano, perché in quello che sta accadendo in Basilicata si fatica a trovare un senso. La regione, infatti, per sua fortuna sembra essere abbastanza lontana dai numeri riscontrati in altri territori: 256 casi di positività in tutto, 2427 tamponi analizzati, di cui 2179 risultati negativi. I pazienti ricoverati negli ospedali lucani (ospedale San Carlo e ospedale Madonna delle Grazie) sono 57, di cui 19 in terapia Intensiva. Posti in terapia intensiva che sono 64, con la possibilità di diventare 90 nel caso in cui il virus si diffonda.
Alla luce di questi dati, l’assessore Leone, che ai microfoni sembra sempre una specie di senatore Razzi in salsa lucana, aveva ulteriormente rassicurato i cittadini: “Per la terapia intensiva siamo addirittura più abbondanti del sistema sanitario nazionale, non serviranno, state tranquilli!”. “Noi i focolai li isoliamo bene. Quindi facciamo più tamponi di quanti ne servirebbero!”. “Ai diecimila test ordinati, che avevo annunciato nei giorni scorsi, ne abbiamo aggiunti altri diecimila!”. “Questa è solo un’influenza!”. “Sono numeri che non ci devono spaventare perché siamo attrezzati per sconfiggere questa epidemia!”.
In effetti, aveva ragione: non erano i numeri a dover spaventare i lucani, ma la gestione di quei numeri da parte della sanità lucana. Una sanità con una vita devastata dal virus della politica, ora alle prese con un virus di altro tipo. Quasi un ceppo a parte, verrebbe da dire, quello lucano. Così a parte che nonostante i numeri contenuti, come dicevamo, la gente sta morendo mentre aspetta un tampone.
L’ultimo caso, quello che riguarda la morte del giornalista Antonio Nicastro, grida vendetta. Potentino, il sessantasettenne Nicastro era un personaggio molto amato nella sua città. Si era ammalato il 5 marzo. Aveva la febbre e una tosse persistente che non passava. Il 13 marzo era stato al Pronto soccorso del San Carlo, ma lo avevano rimandato a casa, prescrivendo un antibiotico. Per due settimane aveva implorato un tampone, supportato dalla moglie e dal figlio Valerio. “Stiamo impazzendo” aveva scritto Valerio su fb.
“Ore 12. Anche oggi la sanità lucana dei sta prendendo gioco di me”, aveva postato lo stesso Antonio sui social. A quel punto erano andati a fargli il tampone, la cui risposta è arrivata 48 ore dopo, mentre le condizioni di Antonio si aggravavano sempre più. Il 22 marzo, era stato dunque ricoverato. A leggere il referto del San Carlo, colpiscono aggettivi e avverbi scelti con cura: “E’ arrivato al San Carlo in condizioni gravi ma non critiche”. “Gli indici di infiammazione elevati inducevano a eseguire TEMPESTIVAMENTE (entro meno di 1 ora) HRCT polmonare”. “Si iniziava PRONTAMENTE la terapia”. A venti giorni dai primi sintomi e a 9 dalla visita al pronto soccorso, una tempestività commovente. E in effetti le sue condizioni erano così poco critiche, che già il giorno dopo il povero Antonio era intubato, in rianimazione.
E la sua morte, avvenuta 10 giorni dopo, viene spiegata così: “L’esito infausto nonostante la messa in atto di tutte le linee di approccio terapeutico è purtroppo paradigmatico del processo di tumultuosa inarrestabile e in molti casi imprevedibile e solo parzialmente conosciuta evoluzione del quadro clinico. Sentite condoglianze”. Quindi la linea di approccio terapeutico, in Basilicata, prevede che nel pieno di una pandemia un paziente con febbre, tosse, malessere generale da settimane debba implorare un tampone su Facebook e giunga in ospedale quando ormai ha un piede nella fossa. Ma come, Leone non diceva che era un’influenza e che si finiva a mangiare tutti pastasciutta?
Interessante anche il documento diffuso dall’Asp regionale: “Quand’anche non ricorressero tutti i criteri previsti per la candidabilità all’esecuzione del tampone, il giorno 20 IN TERMINI PRUDENZIALI l’Asp ha disposto l’effettuazione del tampone”. In pratica gli hanno fatto un favore, a fargli ‘sto tampone. Se non glielo avessero fatto in effetti avrebbe potuto provvedere il figlio a intubarlo con la pompa del giardino, magari. Il 30 marzo, due giorni prima della morte di Antonio, il presidente della regione Basilicata Bardi aveva dichiarato: “Se ci sono stati così tanti casi denunciati di malasanità ho dato disposizione di un’immediata immagine interna. (…) Il commissario per l’emergenza Covid c’è già e sono io”.
In pratica, Bardi dovrebbe indagare su se stesso. E sarebbe un’interessante presa di coscienza, bisogna ammetterlo. Un altro uomo di soli 58 anni era morto pochi giorni fa sempre al San Carlo dopo che per 10 giorni aveva chiesto il tampone, con la febbre a 39 e “le dita viola”, come raccontato dalla moglie.
Nel frattempo l’assessore del piccolo comune di Irsina, Anna Maria Amenta, su Fb scrive “A una settimana dall’ordinanza regionale che ci ha dichiarati zona rossa, siamo in attesa del risultato dei tamponi fatti ieri pomeriggio, un po’ pochi per una comunità dichiarata zona rossa. Se siamo zona rossa che si aumenti il numero dei tamponi”. Quindi chi sta male non viene curato se non quando le sue condizioni sono disperate e lo si lascia a casa, in compenso si chiude un intero comune senza neppure sapere quante siano le persone contagiate in quel comune. Il piano d’emergenza di Bardi, applicato che so, in Veneto, avrebbe mietuto più vittime della seconda guerra mondiale.
Ma il meglio deve ancora venire. L’assessore alla sanità Leone, intervistato da Giusi Cavallo di Basilicata24 ha dichiarato: “I medici di famiglia hanno ceduto le armi. Non ha funzionato il sistema di monitoraggio del territorio da parte dei medici di medicina generale. Dicono che mancano i dispositivi di protezione personale, ma noi li abbiamo distribuiti, li abbiamo mandati nelle sedi opportune dove loro devono avere la compiacenza di andare a ritirarli”. E poi altre dichiarazioni quali: “I medici di medicina generale non leggono le brochure, tornate fare i medici, tornate a occuparvi della salute dei cittadini!”. L’ordine dei medici di Potenza, tramite il presidente Rocco Paternò, ha risposto: “Sono dichiarazioni beffarde e irrispettose per la categoria. C’è stata scarsa o nulla dotazione delle protezioni per i medici, la classe medica non merita questo. Ci sono contagi tra medici di base e ospedalieri”.
Insomma, la colpa per l’assessore alla sanità Leone è dei medici che sono un po’ codardi, un po’ svogliati, troppo poco desiderosi di andarsene a farsi contagiare porta a porta. “Dobbiamo aspettare che mio padre muoia per capire chi deve prendersi la responsabilità di dirci cosa abbia?”, aveva scritto Valerio, il figlio di Antonio, il 20 marzo.
E alla luce dei rimpalli di responsabilità a cui si sta assistendo, forse era stata una previsione perfino ottimistica. Quasi quanto quel “Coronavairus? E’ solo un’influenza stagionale”, pronunciato dall’assessore Leone nell’aula comunale il 27 febbraio.
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Un inedito di Giuseppe Sarno: san Giuseppe con Gesù Bambino presso la chiesa teresiana di Gallipoli
di Antonio Faita
Nell’ambito delle arti figurative e, in particolare, di quelle che si svilupparono meravigliosamente fra il XVII ed il XVIII secolo nel Regno di Napoli, la scultura lignea è sempre stata considerata a torto come arte minore[1]. A lungo trascurata rispetto alla pittura e alla scultura su marmo, in questi ultimi anni è divenuta oggetto di maggiore attenzione da parte degli studiosi, sviluppando, in maniera esponenziale, un nuovo filone di ricerca rivolto allo studio della scultura lignea napoletana[2] nell’acquisita consapevolezza che si tratti di uno dei principali fenomeni storico-artistici dell’intero Meridione in Età Moderna.
A seguito della mia pubblicazione dedicata agli scultori Francesco e Giuseppe Verzella e alla loro bottega[3], è mio intento fornire un piccolo contributo in argomento, segnalando nelle pagine che seguono, un’opera inedita di un poco noto scultore napoletano, Giuseppe Sarno.
Meno nota, o quantomeno poco conosciuta dagli storici d’arte, è la statua di san Giuseppe con Gesù Bambino ubicata nella sacrestia della chiesa di santa Teresa in Gallipoli e per questo, poco visibile dalla gente. Sul lato corto della base pentagonale, cui poggia il simulacro, vi è apposta la firma e la data «Giuseppe Sarno Scultore Napoli 1797».
L’accento plastico delle figure è caratterizzato dall’incedere del santo e dalla distribuzione dei drappi, ricordando soluzioni adottate nel linguaggio pittorico di Francesco De Mura, tra dolcezza rococò e splendore neoclassico[4].
Proprio in questo linguaggio sono ispirate le sculture di Giuseppe Sarno, realizzandone diverse per le chiese di Napoli e nel Regno di Napoli, e qui egli fu attivo dal 1764 ai primi dell’Ottocento (1820, santa Sofia, Santuario omonimo ubicato in Poderia, frazione di Celle di Bulgheria, SA).
Le fonti ottocentesche, dal Filangieri al Perrone, lo menzionano come modellatore di animali e pastori in terracotta, di cui alcuni firmati[5], per la produzione presepiale che con l’avvento di Carlo di Borbone, a Napoli trovò terreno fertile, vedendo impegnati una numerosa schiera di artisti[6] delle varie arti. L’esiguo numero di opere datate non consente di stabilire con molta precisione quando iniziò a plasmare figure in terracotta, ma è certo che tale interesse ebbe a seguire quello per le sculture lignee[7].
E proprio in una fonte ottocentesca il Sarno viene citato per la prima volta a Gallipoli. Pietro Muisen (1811-1880), valtellinese di origine, e trasferitosi a Gallipoli, per motivi di lavoro, fu autore del libro “Gallipoli e i suoi dintorni”, pubblicato nel 1870. Il Muisen, nel descrivere la ‘Congregazione del SS. Crocifisso’, così scrive: «In questa chiesa si ammirano pure due eccellenti scolture in legno, nelle statue di S. Michele Arcangelo e della Vergine Addolorata, lavoro dello scultore mastro Sarno Napoletano»[8]. Il Muisen non riporta il nome, come neanche l’anno della loro realizzazione.
Consultando l’archivio storico della confraternita del SS. Crocifisso, e precisamente il ‘Domenicale 1794-1826’, si evince che nel 1796, in occasione della festività di san Michele Arcangelo, loro protettore, viene portata in processione per le vie della città la statua di san Michele[9]; il Venerdì Santo, del successivo anno, si fece la processione penitenziale per i Sepolcri, portando ‘La nuova Statua Maria Addolorata venuta da Napoli’[10]. Come si può notare il nome del Sarno non compare sulle pagine del ‘Domenicale’. Si può ipotizzare che sia stata una dimenticanza del segretario verbalizzante oppure il passare del tempo abbia fatto affievolire la firma sulle basi dei rispettivi simulacri, fino a scomparire del tutto o, ancora, il nome dell’artista sia stato riferito da qualche anziano confratello al Muisen, durante la sua visita all’oratorio confraternale.
Fatto sta, che dagli interventi di restauro, eseguiti in questi ultimi anni, non è emersa nessuna scritta dai vari strati pittorici rimossi. Se così fosse, perché il Muisen si limita a riportare solo il cognome? In ambito storiografico, emergono alcuni nomi, come: Ignazio Sarno, allievo dello scultore Pietro Patalano, che a dire, da Borrelli, forse padre del nostro Giuseppe[11]; Luigi Sarno, il cui nome si evince, attraverso la firma segnata a tergo della pettiglia di un ritratto di uomo[12]; Giovanni Sarno, citato dal Mancini[13]. Tornando al simulacro di san Giuseppe e alla sua venerazione presso la chiesa delle suore teresiane, è bene ricordare che, il culto del santo nel Carmelo entra già dalle origini dell’Ordine. La devozione a san Giuseppe, a livello personale e locale, si viveva fin dalla venuta dei carmelitani in Europa, anche se la festa del santo Patriarca, a livello di Ordine, non appare sino alla seconda metà del XV secolo[14].
Tale devozione nel Carmelo teresiano, va essenzialmente unita a santa Teresa. È uno dei legati più ricchi e caratteristici che la Santa lasciò ai suoi figli. Non si comprende il Carmelo teresiano senza san Giuseppe, senza l’esperienza giuseppina della Santa. Per la Santa Madre, i conventi che fonda, a immagine del primo (Avila 1562), sono ‘case’ di san Giuseppe. Per questo procura che la maggior parte di essi porti il nome e titolo di san Giuseppe. Dei diciassette, fondati dalla Santa, undici stanno sotto il titolo di san Giuseppe. Se non tutte le fondazioni della Santa Madre portano quel titolo, non ce n’è nessuna dove non ci sia un’immagine del Santo che presieda e protegga la comunità. È un’ulteriore manifestazione, più della sua devozione ed esperienza giuseppina, il diffondere nei conventi le immagini del santo, la maggior parte delle quali ancora si conserva. È da notare, a questo riguardo, il dato che portava con sé in tutte le fondazioni, una statua di san Giuseppe, che riceveva il titolo di “Patrocinio di san Giuseppe”.
Quarto, in Puglia, dopo quello di Lecce (1620), Bari (1630) e Brindisi (1672)[15], il monastero di Gallipoli, sotto il titolo dei SS. Nomi di Gesù, Maria e Giuseppe, fu terminato il 23 aprile 1690, contestualmente alla chiesa intitolata alla santa di Avila, per devozione e volontà di mons. Antonio Perez de la Lastra,[16] vescovo di Gallipoli. Secondo quanto si può presumere, il culto di san Giuseppe fu introdotto nel monastero gallipolino, seguendo l’esempio e la dottrina della santa Madre Teresa, che lo venerava con affetto speciale. Alcune sorelle scelsero, da religiose professe, il nome del santo[17] e tutte si affidarono, con la preghiera, alla sua intercessione invocandolo quale provvido protettore della chiesa e dell’Ordine. Introdussero la celebrazione del «Patrocinio di san Giuseppe», una particolare festa concessa ai Carmelitani da Papa Innocenzo XI, il 6 aprile 1680.
Presso l’Archivio Storico della Curia Vescovile di Gallipoli, in alcuni registri degli introiti ed esiti a partire dal 1798, vi è traccia delle spese sostenute dalle sorelle per la festività del «Patrocinio di san Giuseppe»[18]. In particolar modo, nella minuta degli esiti del 1799 si rileva una cospicua spesa di ducati 29 e 55 carlini per la buona riuscita della festa[19]. Nell’anno successivo si aggiunse alla spesa del Patrocinio anche quella per l’acquisto di «Due aste nuove alla Bara di S. Giuseppe», corrispondente alla cifra di carlini 30[20]. Questo dato importante ci fa dedurre che la statua di san Giuseppe, dopo qualche anno del suo arrivo da Napoli, veniva portata in processione.
Tale festività è attestata in tutte le annate dei libri dei conti fino al biennio 1811/12, a parte un vuoto dal 1808/09 al 1810/11, in quanto mancanti[21].
Nel 1836 ne fa cenno anche Bartolomeo Ravenna: «Vi si celebrano annualmente le festività di Santa Teresa, del Carmine, e del Patrocinio di San Giuseppe»[22].
Custodito in una teca di legno e vetro, il simulacro è intagliato a tutto tondo con grande perizia e tecnica. Il Sarno, nel rispetto della tradizione iconografica, lo rappresenta in una postura classica, di mezza età, con un folto casco di capelli, la barba ricciuta e la fronte corrugata. Il santo indossa una tunica con bavero di colore marrone; è avvolto in un manto ocra e denso di pieghe che avvolge il corpo per poi girare dietro, cadendo sulla base, come sostegno del simulacro stesso. Giuseppe tiene fortemente tra le braccia il bambino Gesù, parzialmente coperto da un panno decorato a racemi vegetali su una pellicola pittorica di colore verde chiaro. Il Bambinello protende il braccio destro con la manina aperta delicatamente verso il mento del santo, invece il sinistro, sospeso, crea una perfetta simmetria con gli arti inferiori.
La tensione naturalistica del Sarno si è concentrata sui gesti e sull’espressione, in particolare nello sguardo intenso del Santo che non osserva il Bambinello ma, perso nel vuoto e con la bocca semiaperta, è in procinto di parlare. Nel complesso la scultura è caratterizzata da un vigoroso plasticismo ed evidente gusto per le ricche forme corpose. L’inedito san Giuseppe (firmato e datato), fino a pochi anni fa completamente ignorato dalla storiografia, dipende da uno schema d’imitazione intimamente assimilato dalle opere di Giuseppe Picano, al quale il Sarno si ispirava, attingendo dal repertorio tradizionale innervando quelle che erano le antiche forme.
Le conformità stilistiche di san Giuseppe con le altre opere note dell’artista in vari centri della Campania, Puglia, Calabria e oltre, fino alla Spagna (soltanto recentemente si è venuti a conoscenza dell’esistenza di un bellissimo san Michele Arcangelo firmato e datato 1775, presso il monastero di santa Clara di Hellín (Murcia), la cui scoperta si deve alla studiosa Isabella Di Liddo [23]), appaiono evidenti, specie nella resa del panneggio, nello studio dell’anatomia e nel movimento delle figure.
Il poco conosciuto Giuseppe Sarno doveva risultare, nel suo tempo, un maestro molto celebre, come risulta dalle numerose commissioni documentate e dalle tante opere a lui attribuite[24]. Ancora scarne sono le notizie e le citazioni biografiche per delineare un profilo e inquadrare la sua formazione e lo sviluppo della sua bottega[25]. Sulla scorta, di queste osservazioni e del san Giuseppe, opera ‘certa’, di Giuseppe Sarno, credo si debba ora procedere a un esame delle due statue del san Michele Arcangelo e della Madonna Addolorata, argomento di discussione per gli studiosi di storia locale, riguardo la loro autenticità: il raffinato intaglio del san Michele e la dolcezza della Vergine; lo studio meticoloso delle forme; l’attenzione scrupolosa alle giuste proporzioni fra le diverse parti del corpo; il vario atteggiarsi degli aspetti esteriori che assecondano l’espressione dei sentimenti rappresentati; la posizione delle mani; lo studio delle dita affusolate e bene intonate alla figura nell’insieme, per la similitudine con le altre opere, datate e documentate, si può determinare l’autenticità prima e la paternità poi, al ‘nostro’ Giuseppe Sarno.
La presenza di queste opere dell’artista a Gallipoli, considerato uno dei più sensibili interpreti delle moderne istanze rococò alla fine del XVIII secolo, stanno a testimoniare rapporti intensi tra lo scultore e la committenza gallipolina. A rendere ancora più significativa la circostanza è la restituzione al pubblico del san Giuseppe, opera importante, riemersa dall’oblio, che va ad arricchire quell’immenso patrimonio artistico di Gallipoli e ad aggiungersi, insieme al san Michele Arcangelo e alla Madonna Addolorata, a quelle opere del Sarno finora sconosciute dalla bibliografia.
Note
[1] U. Di Furia, Il “San Francesco Saverio” di Bernardo Valentinoa Calvello: Opera ineditadi un poco noto scultore napoletano, in Basilicata Regione Notizie, n. 119-120, Anno 2008, p. 217.
[2] G. Borrelli, Sculture in legno di età barocca in Basilicata, Napoli, Ed. Paparo, 2005; Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e Spagna, catalogo della mostra, a cura di R. Casciaro e A. Cassiano, Roma, Ed. De Luca, 2007; I. Di Liddo, La circolazione della scultura lignea barocca nel Mediterraneo. Napoli, la Puglia e la Spagna. Una indagine comparata sul ruolo delle botteghe: Nicola Salzillo, Roma, Ed. De Luca, 2008; Sculture in legno in Calabria dal Medioevo al Settecento, catalogo della mostra, a cura di P. Leone de Castris, Napoli, Ed. Paparo, 2009.
[3] A. Faita, Gli scultori Verzella tra Puglia e Campania. Committenza e devozione, Galatina. Ed. Congedo, 2015.
[4] Cfr. G. Filangieri, Indice degli artefici delle arti maggiori e minori, la più parte ignoti o poco noti, sì napoletani e siciliani, sì delle altre regioni d’Italia o starnieri, che operano tra noi, con notizia delle loro opere e del tempo del loro esercizio da studi e nuovi documenti, vol.II, Napoli, p.426.
[5] G Borrelli, Il presepe napoletano, Napoli, Ed. De Luca-D’Agostino, 1970, p. 236.
[6] F. Mancini, Il Presepe napoletano nella collezione Eugenio Catello, Napoli, Ed. Sadea/Sansoni, 1967, s.n.
[7] G. Borrelli, op. cit., p. 107.
[8] bcg, p.muisen, Gallipoli e i suoi dintorni, Gallipoli, Tipografia municipale, 1870, p. 108; il nome del Sarno è citato da mons. Gaetano Muller nella visita pastorale effettuata all’oratorio confraternale il 7 luglio 1905, in adg, Visita pastorale di Mons. . Muller, Gen. 1903 – Lugl. 1907, p.319.
[9] acssg, Domenicale 1794-1826, Anno 1796 «8 detto [Maggio] giorno di Domenica dedicato alla festività del Glorioso S. Michele Arcangelo nostro Protettore si celebrò in detta nostra Congregazione la sua festa con pompa si celebrarono varie messe, e col Padre si cantò la messa con assistenza de ministri, e dopo si portò processionalmente alla Città la Statua di S. Michele. La tassa là fatta il Primo assistente Nicola Fontana ed il 2° assistente Domenico Pisanello», s.n.
[10] Ibdem, Anno 1797 «14 detto [Aprile] Venerdì Santo Radunati la matina li fratelli si fece la processione di penitenza per li Sepolcri, a Cappuccini portando La nuova Statua Maria Addolorata venuta da Napoli e dopo sene andarono in santa Pace», s.n.; g. f. mosco, Gallipoli – Venerdì Santo. Moviola per una processione, Tuglie, Tip. 5EMME, 2003, p. 14.
[11] G Borrelli, op. cit., p. 56.
[12] Ibidem, p.100; a. di lustro, Gli scultori Gaetano e Pietro Patalano, in La Rassegna d’Ischia, n. 9/1987, s.n.
[13] F. Mancini, op. cit., s.n.; m. liaci, Simulacri sacri. Statue in legno e cartapestadel territorio C.R.S.E.C. di Ugento, a cura di Regina Poso, Taviano, GRAFEMA, 2000, pp.198-201.
[14] l. di San Gioacchino, Il culto di San Giuseppe e l’Ordine del Carmelo, Barcellona, 1905, c. 2, p. 48.
[15] C. Casole, Il Monastero delle Carmelitane scalze di Gallipoli, Manduria (TA), Tip. Tiemme, 1992, p. 63.
[16] Ibidem, p. 66.
[17] La prima fu proprio la cofondatrice e prima Maestra delle novizie, suor Maria di san Giuseppe, al secolo, Anna Maria Chirlingort, professata nel 1693.
[18] Acvg, Documentazione recuperata dal Nucleo Polizia Tributaria di Lecce, Carpetta n.1: Libro di introito ed esito del monastero di Santa Teresa per l’annata 1798-1799. Purtroppo non si dispone di altri documenti di introito ed esito antecedenti al 1798. Come ne anche presso l’archivio del monastero delle carmelitane.
[19] Ibidem, Patrocinio di S. Giuseppe: «Al Sigr. Chiriatti per la musica d.6; Panegirico d.2:50; Al Capitolo per l’assistenza d.7:50; Ai chierici, e Ministro della messa cantata c.80; facchino per i mantici, e sedie c.35; Al Fochista per mortaretti e Batterie d.9:50; Trombetta e due tamburri d. 1:90; Apparatura di chiesa d.1» tot. d.29:55
[20] Adg, Carpetta n.1: Libro di introito ed esito del monastero di Santa Teresa per l’annata 1799-1800. Minuta di spese.
[21] Ibidem, 1800/01, 1801/02, 1802/03, 1803/04, 1804/05, 1805/06, 1806/07, 1807/08, 1811/12.
[22] Cfr., B. Ravenna, Memorie istoriche della fedelissima città di Gallipoli, presso Raffaele Miranda, Napoli 1836, p. 385.
[23] I. Di Liddo, op. cit., p. 240.
[24] Cfr., E. Valcaccia, i Tesori Sacri di Castellammare di Stabia. La scultura del Settecento e dell’Ottocento, Castellammare di Stabia (NA), Ed. Longobardi, 2016, p. 48.
[25] Ibidem, p. 49.
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