#ora gli lascio il terzo dito
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DUE ORE
acquari72
LA PRIMA ORA
Entro in casa di corsa senza accendere le luci e lascio la porta chiudersi dietro di me.
Scalcio via le scarpe con il tacco 12 nel corridoio.
Dio che sollievo!
In ufficio le devo portare per forza per far bella figura con il mio tallier ed essendo alta solo 1.60m, in qualche modo devo valorizzarmi.
Appoggio borsa giacca sul divano.
La luce dei lampioni esterni è abbastanza da farmi girare tranquilla in casa senza accendere le luci.
Mi dirigo in camera spogliandomi lungo il corridoio della camicia rimanendo in reggiseno di pizzo nero.
La leggera brezza che gira in casa mi fa drizzare i capezzoli che quasi spuntano dalla stoffa leggera.
Stiracchio le braccia verso l'alto e in modo lascivo lascio scivolare le mani dal collo fino ad afferrare i seni e palparli stringendo i capezzoli.
Chiudo gli occhi e ripenso a lui..
Uhhmm!!
Oggi era fantastico con un completo Armani blu scuro, camicia celeste chiaro e cravatta blu ....
Appena i suoi occhi neri mi hanno fissato ho sentito uno spasmo nel basso ventre.
L' ho visto fare avanti e indietro dall'ufficio tutta mattina fermandosi spesso da me per questioni di lavoro, ed era sempre la stessa storia.
È da tre anni che sbavo per lui, e mi tratta sempre con garbo e cortesia.
Allora di pranzo abbiamo fatto arrivare degli spuntini dal bar e seduti sul divano del suo ufficio abbiamo mangiato con gli altri colleghi definendo gli ultimi preparativi per il viaggio di lavoro a Londra.
Ero seduta di fianco a lui le nostre cosce si toccavano e io andavo a fuoco!
Ai loro discorsi annuivo, o rispondevo a monosillabi, perché la mia attenzione era tutta concentrata sui suoi movimenti.
Alle sue mani con dita lunghe e affusolate e unghie ben curate, che afferravano il tramezzino e lo portavano alla bocca.
Bocca con labbra rosee, leggermente sottili con denti dritti che splendevano quando sorrideva.
E quanto spuntava la lingua che le leccava per togliere qualche briciola rimasta su di esse, gli spasmi al basso ventre erano sempre più fitti, e le mutandine sempre più bagnate.
Prima della fine della pausa pranzo sono corsa in bagno non resistevo più.
Dopo essermi assicurata che non ci fosse nessuno, mi sono infilata in un cubicolo ho messo un piede sul water, in modo da avere le gambe aperte alzando la gonna, e con la mano destra ho spostando gli slip di lato e mi sono accarezzata la passerina, facendo scivolare il medio per tutta la lunghezza delle labbra.
Dire che si bagno' subito era riduttivo. Ero un lago pronto a trabordare e inondare tutto quello che incontrava. Gli accostai anche l'anulare ed insieme allargarono le grandi labbra. L'aria fredda mi fece rabbrividire di piacere, chiudendo gli occhi e immaginando le sue mani, li infilai dentro iniziando a muoverle su e giù e poi in circolo.
Più le muovevo, piu pensavo a lui, le sue lunghe dita dentro. E la febbre del piacere saliva.
Ma non erano abbastanza, la mia mano non riusciva a colmare il vuoto che sentivo dentro, avevo voglia... avevo smania ... di essere riempita da un cazzo.
E non uno qualsiasi, il suo!!
Volevo lui.
Nella foga di raggiungere il piacere sbottonai la camicetta e con l'altra mano mi palpai i seni strizzandoli con foga e brutalità.
Avevo voglia.
Muovendo la mano più veloce, infilai un terzo dito, che non fece nessuna fatica ad entrare, a cosce aperte i miei umori gocciolavano senza ritegno.
Ed eccola, finalmente l'onda del piacere si stava avvicinando.
Un gemito forte uscì dalle mie labbra, che subito coprii con la mano con cui accarezzavo il seno, per paura di essere sentita.
La mano tra le gambe continuava il suo lavoro.
Avanti...
Indietro...
Di lato ....
In circolo...
Il pollice che strofinava il nocciolo duro sulla punta... e il piacere... cresceva.... cresceva.... e finalmente esplose sulla mia mano, lasciandomi appagata ma non del tutto soddisfatta!
Quando ho riaperto gli occhi mi sono ricordata di dove ero e dopo essermi ripulita e sistemata sono uscita a testa bassa dal bagno, con la paura che sul mio volto potesse leggersi quello che avevo fatto.
Ma il non vedere mi è stato fatale.
Infatti con la mia goffaggine sono andata a sbattere contro un muro duro, e due braccia robuste hanno impedito che cadessi.
Alzai gli occhi e mi ritrovai a fissarmi in due occhi neri senza fine.
Si avvicinò al mio collo e annusandomi mi disse alzando un angolo della bocca con un ghigno.
- Lo senti anche tu questo odore!- per poi girarsi lasciandomi lì tutta paonazza.
Sono rimasta imbambolata per qualche minuto per poi scappare in ufficio e cercare nella borsa il mio profumo e spruzzarmelo, pensando che è assurdo che abbia sentito l' odore del mio miele.
E adesso eccomi qui in casa da sola a ripensare a lui.. e la voglia mi riassale. Ma stavolta farò le cose per bene, doccia e poi a letto con il mio amico che non mi delude mai.
Abbasso la cerniera della gonna e mi gelo sul posto.
Due braccia robuste mi stringono, una al fianco,e l'altra mi tappa la bocca prima che possa urlare dalla paura.
Sbarro gli occhi.
E adesso!
L'uomo mi stringe a se e noto che porta pantaloni ruvidi che graffiato la pelle delicata delle gambe.
- Shhh!! Se non urli ti trattero' bene.., altrimenti dovrò passare alle maniere forti!- Mi sussurra all'orecchio mentre continuo a muovermi per sfuggire alla sua presa. E per farmi vedere che non scherza, serra di più la mano che ha sulla mia bocca per poi infilare l'altra nella sua tasca, e mistrarmi un coltello a serramanico che apre, per poi lentamente far scivolare la lama lungo la guancia e poi sul collo, fino ad arrivare alla parte alta del seno.
- mhhh..... sono fortunato cosa abbiamo qui?- e così dicendo fa passare la lama tra i seni e con uno scatto secco lo taglia in mezzo per liberarli.
Essi ballonzolano per la gravità e fa passare la lama di piatto sui capezzoli turgidi che si irrigidiscono di più al contatto con il freddo del metallo. Sgrano gli occhi ancora di più, per la paura che voglia tagliarmi...
- Allora starai buona!- Mi chiede. Sussurrando.
Faccio segno affermativo con la testa. Ci tengo troppo a non farmi male.
- Bene! Vedi di non fare scherzi o te la farò pagare!- Così dicendo mi toglie la mano dalla bocca per poi farla scendere dalla gola sulla spalla, lungo il braccio e poi risalire dalla vita, sulla pancia e fermarsi sul seno destro che palpa con dovizia. Afferra i capezzoli e li tira, li torce con le dita. Si spinge addosso a me e sento la sua erezione trafiggermi la schiena.
Sarà alto almeno venti cm più di me. Un colosso, a giudicare anche dai muscoli delle braccia che mi tengono ferma.
Lui continua a muovere la sua mano sui seni, mentre con l'altra continua la discesa.
Con un piede mi fa divaricare le gambe per poi infilare il coltello sotto l'orlo della gonna, tenderla e tagliare proprio nel centro dal basso verso l'alto.
Ho un singulto di paura ma nell'aria non si sente nient'altro che il rumore della stoffa che si lacera.
Si ferma proprio davanti alla mia passerina, sale sulla pancia e lo piega in avanti. Trattengo il respiro e tiro indietro lo stomaco per non toccare la lama. Lui se ne accorge e fa un sibilo di piacere per poi strattonarlo forte e tagliare anche la parte alta della gonna, che come uno straccio cade per terra lasciandomi in autoreggenti e tanga di pizzo.
- uhmmm!! Vedo che sei preparata per me! Adoro le autoreggenti.. - Sibila facendo scendere la mano libera lungo le cosce. Prima di lato e poi accarezzandomi di dietro e salire fin sulla natica lasciata scoperta dal mini tanga. Li accarezza a piene mani prima uno e poi l'altro.
Quella calda carezza mi fa venire i brividi. Non usa i guanti quindi posso sentire il calore delle sue mani. Bollenti.
Un brivido di piacere e non di fastidio mi attraversa il corpo. E un sussulto mi fa quasi cadere in avanti quando schiaffeggia le natiche. Una ... due ... tre ... volte ed inizio ad ansimare. Mentre alterna schiaffi con carezze.
Quattro... cinque... sei...
Va avanti così per non so quanto tempo, tanto che il mio corpo si eccita ed inizio a bagnare gli slip con i miei umori...
All'ennesimo colpo un gemito esce dalle mie labbra.
- uhmmm!! Bene vedo che ti piace il trattamento!- Mi dice facendo scivolare la mano in avanti. Tra le gambe. - Oh! Si ... senti qua .... sei un lago...uhmmm ... ancora un po' e squirti... Allora sei proprio una gran maiala!- continua insinuando due dita nella figa zuppa di umori.
- oddio!- gemo quando spinge le sue lunghe dita dentro di me e la tiene li ferme, muovendo solo i polpastrelli e accarezzando le pareti interne del sesso.
Un piacere travolgente mi assale, come la smania di muovermi su quella mano. E così faccio.
- Si brava muoviti tu... che dopo ti tocca il mio grosso cazzo!- dice con voce graffiante. E nel mentre fa scorrere il coltello sul fianco con la lama piatta, per poi infilarlo nello slip e tagliare i pezzi laterali, prima uno e poi l'altro lasciandomi così coperta solo dalle autoreggenti. Il freddo della lama mi ha fatto fermare e irriggidire.
Sfila violentemente le dita da dentro, e nell'aria si sente come lo stappo di una bottiglia.
- che buon sapore che hai!- esclama dopo essersi leccato le dita. - Ma adesso basta scherzare .... portami in camera tua!.- comanda a voce dura spingendomi in avanti con una manata alla schiena.
- Forza cammina... ho il cazzo che mi scoppia e i pantaloni mi stanno stretti.. e tu dovrai soddisfarmi.- dice continuando a spintonarmi.
Entriamo in camera. C'è ancora il letto disfatta perché stamani non sono riuscita a rifarlo che ero in ritardo.
- ah!! Vedo che l'ordine non è il tuo forte e vedo che sai come divertiti..- sghignazza notando il mio sex toys dimenticato sul comodino con la botiglietta di olio di fianco.
- scommetto che stanotte ti sei divertita... dimmi .... eri da sola?-
- Da sola... Non c'è nessuno... - balbetto diventando tutta rossa per l'imbarazzo.
- tra poco scoprirai cosa si prova ad avere un vero cazzo di carne ardente nella figa...... saprò io come farti godere!- Mi dice leccandomi dal mento alla guancia.
La saliva calda, un brivido di apprensione mista a piacere mi serpeggia nel ventre, al pensiero di tutte le cose licenziose che le sue parole hanno scatenato nella mia testa.
Mi spinge sul letto, di fa cadere con il sedere sul materasso e le gambe che sfiorano il pavimento. Si allunga su di me e con una cravatta che tira fuori dalla tasca della felpa,mi lega le mani sopra la testa. Il mio busto spinge in avanti i seni con i capezzoli che svettano come due ciliegie mature, pronte da mordere.
Finalmente riesco a vederlo in faccia. Ha un passamontagna nero sul viso con dei fori per gli occhi e la bocca.
Spalle grandi coperte da una felpa grigia con la zip e, come supponevo, indossa dei pantaloni della tuta anch'essi grigi.
Abbasso lo sguardo sul suo inguine e noto un'erezione enorme che tende la stoffa dei pantaloni come una tenda. Spalanco la bocca per la sorpresa. Da come si era premuto addosso me, pensavo che fosse di medie dimensioni, ma mi sbagliavo è grosso forse più del mio toys! La gola mi si secca, per poi sentire, subito dopo, l'acquolina con la bavetta a lato delle mie labbra,al pensiero del piacere che saprà darmi. Inghiotto senza farmi notare.
Lo guardo muoversi e allungarsi sul comodino per posarvi, con mio enorme sollievo il coltello che teneva in mano.
Legata e nuda ho poche possibilità di scappare. E poi il mio corpo si sta eccitando per la situazione in cui mi trovo.
Torna a concentrare l'attenzione su di me e sovrastandomi con la sua altezza mi fissa.
Allunga le braccia e con furia afferra le mie cosce con le dita che sembrano artigli e me le spalanca. Nella stanza si sente il fruscio dello sfregare della pelle sulle lenzuola, seguito dal suo gemito alla vista della mia passera.
- Ohhh!! Mamma!! Sei proprio il mio tipo di figa.... brava! ... proprio come piace a me... un ciuffetto rasato a triangolo sul monte di venere, con la punta rivolta alla tua entrata che non vedo l'ora di saggiare, e il resto completamente depilato. Così quando ti lecchero' a dovere non avrò peli ad imbrattarmi la bocca.- Dice con voce roca e spostando le mani verso l'interno cosce, per poi arpionare le grandi labbra ed allargare il più possibile la mia entrata per paradiso.
Mi sento esposta, ma anche emozionata, questa sua irruenza mi fa desiderare cose sempre piu sporche, e sento il mio miele iniziare a scendere..
- A vedere come luccichi sembra che il mio comportamento ti stia smuovendo dentro. Bene vediamo come migliorare!- e così dicendo continua a tenermi aperta ed abbassa la testa per avvicinarsi al mio anfranto.
Quando sento la sua lingua leccarmi l'entrata, gemo di sorpresa per il piacere provato ed è in questo momento, che mi rendo conto di essere completamente fottuta!.
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LEGAMI
La stoffa cede al terzo colpo. Lo strappo è molle ed estenuante.
Ti guardo stupita, gli occhi in fiamme.
Apro la bocca e rimane così, priva di suono.
"Giochiamo?" avevi detto.
Giochiamo.
Non era proprio questo che intendevo
Il mio slip è candido trofeo tra le tue dita, adesso.
Lo porti alle narici e ne aspiri l'umidore, ti strofini il tessuto sulle labbra, senza smettere di fissarmi. Diabolico.
"Adesso sistemiamo anche l'altra mano, mia cara"
Prima che tu riesca a prenderla, ti affondo le unghie nella guancia e un rivolo rossastro si fa strada sulla pelle.
Porti un dito sul varco sottile. Guardi un istante il sangue vivido che lo ricopre. Lo lecchi, sorridi nuovamente.
"Cattiva bambina, molto cattiva"
Un lampo di vittoria crudele mi colora le pupille.
Ti avvicini nuovamente, più cauto stavolta.
Tento di sferrare un nuovo attacco ma precedi il mio intento: mi afferri il polso e in un istante lo inchiodi alla sbarra in ottone, coi brandelli dello slip.
"Fa' la brava, abbiamo quasi finito"
Braccia e gambe divaricate. Annodate agli angoli del calorifero. Lo specchio rimanda l'immagine di una X palpitante e balorda. Sono io?
Sosti immobile al lato della tua opera incompiuta. Non sei soddisfatto.
Mi osservi con cura, la stanghetta degli occhiali sospesa tra le labbra, meditando sul da farsi. Quando poggi gli occhiali sul comodino capisco che hai deciso, te lo leggo nelle fessure luccicanti che accerchiano il naso regolare. L'attesa mi eccita dilatandomi ogni poro e annebbiandomi la testa.
Intingi un dito nella pittura umana che ti ho fatto versare, disegni due cerchi rossi attorno ai capezzoli.
Lo sfregio mi rende furiosa, il corpo reagisce strattonandosi, vorrei rimuovere i legacci e fare nuovo scempio di te con le unghie affilate.
Ma il dito è fresco pennello, i capezzoli si inturgidiscono all'istante. Ne prendi uno tra il pollice e l'indice. Lo avviti, lo temperi come l'ultima delle tue matite. Lo sollevi verso l'alto e lo lasci ricadere senza troppa grazia incurante delle mie proteste. Piuttosto flebili.
Avvolgi l'altro con la bocca calda: lo succhi, con cura, metodico. Ti stacchi di colpo e soffi sulla chiazza umida, un brivido s'inerpica per la mia schiena.
"Il gioco ti piace, mia cara?"
Nuda. Annodata a un calorifero bollente. Di fronte alla finestra di un ufficio brulicante di manichini annoiati.
Piace si.
Il buio ed una tenda proteggono da occhi estranei la densa viscosità che scorre nella nostra stanza dei giochi.
Giro appena lo sguardo sugli esseri intenti in altre manovre: fotocopie, telefoni, pc, tuttoè lontano anni luce dal senso che si consuma qui, a pochi respiri di distanza.
Torno a te.
Sei tu il fulcro della mia attenzione in questo macroscopico istante: torpido ti spogli, con maestria, come se non avessi fatto altro nella vita. Scivola la cravatta, si dilegua la camicia. La luce scura che intravedo nelle pupille mentre sfili la cintura in pelle quasi mi spaventa. Ignorare le intenzioni altrui è cosa nuova, mi rende elettrica. Il tuo corpo lucido riaffiora dalla pozza dei vestiti d'ordinanza, quelli da uomo distinto, e mi dedica una decisa erezione. D'improvviso l'impotenza della mia prigionia mi fiacca, sono preda braccata dalle mie stesse voglie: slegami, prego. Devo morderti quel centimetro quadrato alla base della nuca, ne ho bisogno: sentirne la consistenza, il sapore. Dolce. Salato? Aiutami, prego.
Ancora più lento ti avvicini, mi esplode il cuore e scandisce il percorso inarrestabile del mio languore: sgorga sotto lo sterno e mi riaffiora tra le gambe strabordando ogni argine.
Scivoli nello spazio che mi divide dalla finestra, e mi stringi da dietro. Ogni centimetro della tua carne aderisce alla mia, ogni incavo della mia forma si riempie della tua presenza, siamo un unico grumo indefinito al centro dell'inutile universo che ci ignora.
Metallo rovente preme le mie natiche, terribile agonia, farei qualsiasi cosa per potermi muovere adesso.
Mi sciogli dall'abbraccio senza preavviso, e il freddo della brusca assenza della tua carne è pugno nello stomaco. Ho il sangue al cervello quando i tuoi occhi eccitati mi sono di fronte. Mi tendo come un arco, la carne dei polsi sfrigola sotto i legacci, ma brucia meno della voglia della tua bocca. Me ne approprio, con violenza. La lingua ti aggancia, ti riavvicini finalmente. Esploro le storture dei tuoi denti, indugio, delicata, poi no, con forza. Ti lascio e poi ti mordo, lambisco le gengive, succhio le tue labbra, a turno, sotto, sopra, assaggio la tua saliva fin quando il mio sapore si mescola al tuo.
Aspiro il tuo odore di bimbo perverso, mi sciolgo al vapore lieve del tuo sudore. Mi accordo alla profondità del tuo respiro.
"Slegami" ti supplico.
Mi ignori. Ti odio . Mi odio, per avertelo chiesto. Afferri il volto con delicatezza, lo tieni ben fermo di fronte al tuo. Vuoi che ti guardi mentre la mano scivola lenta lungo i nervi doloranti del collo, sul fianco abbronzato. Devia improvvisa al ginocchio, si allarga, risale la morbidezza dell'interno coscia lasciando lividi indelebili che domani conterò. Si sofferma in un punto esatto. La curva in cui la consistenza vellutata dell'arto cede spazio ad altri luoghi.
Ho il pube rasato da poco. Non era per te, ma adesso lo è. Le tenebre te lo avevano nascosto, e la sorpresa ti si stampa sulla faccia annientando il sorriso sfrontato.
Tratteggi numeri primi immaginari sulla pelle liscia e rigonfia del mio sesso, ma il respiro corto ti tradisce dandomi l'illusione di essere padrona del gioco.
Un dito guizza nella mia morbida ferita, strappandomi un gridolino soffocato. Lo rigiri a fondo, gli imprimi una pressione che mi stringe il cervello in una bolla incandescente. In un attimo sono lava tra le tue mani, tremo per lo sforzo di non piegare le ginocchia prive di volontà, potresti chiedermi qualunque cosa, ora, e la sapresti. Per fortuna non lo fai. Una mano tra le cosce ed ecco la fine della guerra, signori e signore! Arma biologica sublime.
Una lacrima scende giù dall'angolo del mio occhio destro. Non è dolore, è rabbia per la sconfitta imminente.
Lasci il volto imprigionato
"Smettila." dici
Abbasso lo sguardo per l'imbarazzo.
Sciogli i lacci, prendi i polsi tra le tue mani e li baci a lungo, lì, dove la pelle è rigonfia e dolente. Poggi le labbra sugli occhi liquidi, uno ad uno. Con la lingua morbida rimuovi le tracce del mio orgoglio violato, e mi tieni così, stretta, avvinghiata.
Ti ho impietosito, infine. Hai frainteso l'orgoglio del guerriero oltraggiato e concedi una tregua. Da brava amazzone approfitto del vantaggio concesso meditando la punizione che ti spetta.
Mi accingo all'azione.
Invece no. Non l'hai bevuta.
Mi sollevi di peso.
Mi sbatti sugli elementi del termosifone divaricandomi a forza le gambe. La sorpresa mi immobilizza facendomi gemere di piacere. Non sento la pelle ustionarsi all'alta temperatura, non c'è un briciolo, di me, che non reclami quello che sta per compiersi in quel preciso spazio, qualunque, qualunque cosa sia. Mi entri dentro furioso, le mani annodate alle tende, vibrando una prima scudisciata incandescente. Chiudo gli occhi all'istante, mi aggrappo alle tue spalle temendo che tu decida di andar via. Non andar via. Perdo ulteriore percezione di me: non so come accada, mi rivolti come un guanto ed ora ti sono di schiena, la faccia all'ufficio di fronte, ad angolo retto sul davanzale su cui faccio leva con le braccia tentando di non smuovere la tenda che ci nasconde. Sono una straccio informe e palpitante, una leonessa che agogna la monta del suo capobranco. Sento le mani forzare l’ingresso del mio corpo, con precisione chirurgica, e in un istante mi squarci aggrappandoti ai seni. E' di dolore, stavolta, che gemo. E piacere. La pressione comprime muscoli celati e le fitte si propagano concentriche nella mia testa fino al punto del non ritorno. Non basta a impietosirti.
Neanche lo vorrei.
Continua.
Prego.
Continua.
Di fronte un omino stempiato si avvicina al vetro. Rivolge uno sguardo distratto nella nostra direzione soffiando sul caffè.
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[4 maggio; Seul.]
Seduto all'imponente pianoforte situato nella biblioteca, Dae-Hyun suonava alla luce calda della lampada che illuminava il legno lucido dello strumento. Dall'ampia vetrata non entrava che una luce soffusa: le nuvole coprivano il cielo, la pioggia colpiva, fitta, il prato e la strada. La sua testa era un turbine di pensieri: la ACC non aveva raggiunto la quota necessaria di denaro e quei soldi erano necessari, al più presto; suo nonno pareva determinato a essere mediatore di un ricongiungimento familiare che l'avvocato Song non aveva mai desiderato - testimonianza di questo era il fatto che proprio in quel momento stesse seduto sulla poltrona di quella stanza ad osservare le mani affusolate del nipote scorrere sui tasti d'avorio, intonando la famosa Gymnopedie di Erik Satie.
«Non credevo esercitassi ancora questa tecnica.» disse, interrompendo la melodia.
L'avvocato scosse le spalle.
«Poco e male. Il violino è il mio strumento, solitamente lascio il pianoforte ad Haneul.»
«E perché non ti stai dedicando al tuo Amati?»
«Ho bisogno di pensare. Quando le mie mani toccano quel legno, mi annullo in esso. Oggi non posso permettermelo.» il suo tono era freddo, ma i suoi occhi erano colmi di una malinconia insolita. Il suo cuore era pesante.
«Cosa ti affligge, Dae-Hyun?»
«In questo istante? Il tuo terzo grado. O forse il tuo tentativo costante di farmi, per così dire, riconciliare con una donna con cui non ho mai condiviso nulla.» il tono divenne sprezzante, ma le sue mani non tradirono mai la dolcezza e la malinconia della melodia; una perfetta rappresentazione della sua mente.
«Eri molto legato a lei.»
«Non lo posso sapere.»
«É così.»
«Eppure mi ha abbandonato.»
«É complicato.»
«Non-»
Stava per rispondere, stava per alzare la voce, quando il suo cellulare - posto accanto a lui sullo sgabello - iniziò a vibrare. Una chiamata da un numero sconosciuto.
Fu rapido nell'abbandonare il pianoforte e lasciar scorrere il dito sullo schermo.
«Pronto?»
«Song Dae-Hyun?»
«Sì, con chi parlo?»
Chiuse gli occhi quando seppe. Quando un certo Dottor Park gli disse che sua moglie era stata colpita in un'incidente d'auto e che si trovava lì. La mano dell'avvocato Song andó a tenersi alla tastiera del pianoforte, come per sorreggersi. Il cuore gli si strinse in una morsa letale, il respiro gli mancò e le parole gli si spezzarono in gola.
«É…Mi perdoni, è in pericolo?»
«Non è in pericolo di vita. Appena arriva le diremo i dettagli.»
«Arrivo subito.»
Interruppe la chiamata e guardò suo nonno in volto. Il suo tono era un ringhio, sentiva gli occhi sgranati - che trasudavano una rabbia spietata - pungere come trafitti da mille spilli, il cuore pareva essere caduto in quel baratro vuoto che era ora il suo petto.
«Ti conviene che la tua amata signora Park non abbia nulla a che fare con l'incidente che mia moglie ha appena subito; che non le sia torto un capello, nonno. Non uno solo. Tenetela fuori.»
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“Bisogna essere devoti al sesso”: quando Susan Sontag (troppo intelligente per noi poveri europei) sfotteva la “postura aristocratica” di Cioran
È uscita una biografia mastodontica di Susan Sontag, che da noi ha goduto il plauso degli intelligenti che leggevano Barthes e approfondivano il tema “cinema & sguardo fotografico”. Naturalmente la Sontag era più di questo, non era incasellabile in uno schedario ideologico, era troppo avanti rispetto ai suoi lettori italiani tra anni Settanta e Ottanta. La biografia Sontag: Her Life and Work di Benjamin Moser è lì a provarlo. Vista in una vetrina fa spavento: sembra una cassa mortuaria tirata a lucido con un viso ammaliante incorniciato da folta criniera. Sotto, se vai a grattare, trovi una donna corrosa dalla sua intelligenza. Troppo intellettuale. Anche per gli standard europei.
*
Sull’ultimo numero del New Yorker trovate un articolo lunghetto dedicato a Susan Sontag. Il pezzo annuncia l’uscita di un terzo diario di Susan che percorre tutti gli anni Ottanta. Dopodiché l’articolessa si diffonde a parlare della prima biografia ufficiale, uscita adesso grazie a Moser, a 15 anni dalla morte. Ma le acque non si sono ancora calmate, il pettegolezzo sciabola e infesta. Siamo alla spremitura delle fonti, alla vendemmia delle carte cadute dalla scrivania dell’autore.
*
Mettendo da parte le considerazioni su cultura & politica di Sontag, rimarranno più a lungo i diari privati che il lettore italiano ha a disposizione grazie a Nottetempo. Qui in fondo leggete una scelta dal secondo volume, metà anni Sessanta. Molto sesso, poca carne, moltissima letteratura.
*
Traduco dal New Yorker una nota diaristica rivelatrice: “Quante volte ho detto in giro che Pearl Kazin era la fidanzata principale di Dylan Thomas? Che Norman Mailer fa orgie? Che Matthiessen [scrittore] era queer. Tutto pubblico, per esserne certi, ma chi diavolo sono io per andare a spiattellare le abitudini sessuali altrui? Quante volte mi sono criticata con rabbia per questo: denigrare gli altri per i fatti sessuali è poco meno offensivo che vantare conoscenze altolocate, quando invece non ne abbiamo. Cosa che ho fatto l’anno scorso ai danni di Allen Ginsberg mentre scrivevo Commentary” (febbraio 1960). Si vede che i diari di Sontag sono tutto cervello, lontanissimi dai diari lerci stile Goncourt. Sontag era e rimase un’intellettuale. Tentava di descrivere il brivido della carne passando in punta di piedi sul dorso della natura.
*
Considerazione a margine. Sontag fece scalpore perché dopo essersi sposata nel 1950 a diciassette anni e aver avuto un figlio cambiò dottrina e praticò e visse il lesbismo. Ecco una nota inedita di Sontag tratta dalla biografia: “Si stava nel letto, i primi mesi del matrimonio, facendo l’amore quattro o cinque volte al giorno e nelle pause parlavamo, parlavamo senza fine di arte, politica, religione, morale”. Una tremenda affinità intellettuale. Tenere presente che il marito aveva ventinove anni e insegnava sociologia all’università di Chicago e Sontag ne era assistente. Il matrimonio durò otto anni, se può interessare. Se qualcosa venne fuori, oltre a un figlio, fu la pubblicazione su Freud che valse gloria al marito. Ma, sogghigna il biografo, era farina di altro sacco…
*
L’articolo del New Yorker punta il dito contro la Sontag, nel classico modo della rivista puritana che, per additare il colpevole sulla base di una divina folgorazione, lancia il sasso nello stagno, vedendo poi come si muovono gli altri quando le acque creano le piccole onde dell’ingiuria morale. Ancora oggi, a distanza di quarant’anni, le sue perfomance intellettuali appaiono ardite. In particolare, il suo saggio su Cioran è visto nell’articolessa come “un pezzo che fece sbiancare ogni lettore di lingua inglese, a parte dieci o venti persone”. In realtà la Sontag individuava con forza le origini conservatrici di Cioran. Ecco un estratto: “Può essere rilevante ricordare che Cioran nacque nel 1911 in Romania. In teoria tutti questi celebri intellettuali espatriati come lui sono stati apolitici o decisamente reazionari. Il suo unico libro, oltre alle cinque raccolte di saggi, è un’edizione di Joseph de Maistre pubblicata nel 1957. Scrisse un’introduzione e presentò alcuni passi di quel libro. Ma non ha sviluppato nulla di simile a una teologia esplicita per la contro-rivoluzione al modo di de Maistre (in fondo Cioran la vede proprio come lui). Come Donoso Cortés e (più vicino a noi) Eric Voegelin, Cioran possiede quel che possiamo descrivere qui come sensibilità cattolica destrorsa. L’abito mentale di fomentare le rivoluzioni contro l’ordine sociale stabilito in nome di giustizia e eguaglianza lui lo bolla come fanatismo infantile. Come un vetusto cardinale che guardasse le attività di una setta di rozzi millennial”. Non male, la signora…
*
Proprio vero: il saggio di Sontag rischia di perdersi nelle biblioteche italiane. È stato tradotto per Mondadori e inserito insieme a un altro paio di testi in Stili di volontà radicale. Siccome però il testo è del 1999 e su Amazon viaggia a prezzi d’asta, ve ne ripropongo il finale poderoso, da pensatrice muscolare: “Mentre Cioran ci mostra la sua visione politica, per quanto implicitamente, in quasi tutti i saggi, il suo approccio alla fine non gronda di pietà religiosa. Molto c’è di politico, simpatie morali comuni con la sensibilità cattolica destrorsa – Cioran medesimo, lo ribadisco, è tutto paradossi di teologia atea. Sostiene che la fede da sola non risolve un bel nulla. Forse quel che lo trattiene dall’abbracciare (in via secolare) una specie di teologia cattolica è il fatto che lui capisce fin troppo bene – e condivide – i presupposti dei pensatori romantici”.
“In quanto critico della sinistra, Cioran fa un’analisi lievemente snob del fatto che ‘la ribellione gode di un privilegio indiscusso tra noi’ e non dimentica che ‘quasi tutte le nostre scoperte sono state arrecate da violenze, esacerbazione della nostra stabilità’. Perciò, nei saggi trovi implicazioni degne di un conservatore, con un trattamento risentito, tipico degli sradicati – ma devi cercare l’attitudine positiva e l’ironia verso la ribellione, come in Pensare contro se stessi – un saggio che conclude con un ammonimento. ‘Poiché l’Assoluto corrisponde al significato che non siamo stati abili a coltivare, arrendiamoci a tutti i ribelli. Finiranno per volgersi contro se stessi, contro di noi’”.
Finale palpabile del saggio: “Tutto ciò rende la posizione di Cioran poco conservatrice. Invero, nel senso moderno della parola, sopra tutto e tutti, è una postura aristocratica”.
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Tornando all’articolessa, per concludere. C’è tutta una serie di considerazioni malevole: come quella che Sontag pur amando le donne andava a letto con il suo editore, il quale oggi è ricco di aneddoti sugli alberghi degli incontri e non tralascia nulla nelle interviste raccolte nella biografia.
E poi, per ogni schiaffo una carezza: la biografia riporta alcuni ‘pregevoli’ ricordi di Sigrid Nunez che all’epoca aveva 23 anni ed era fidanzata con il figlio di Susan, David, 25 anni: i due convivevano sotto lo stesso tetto con la mamma di lui. Guardate che bozzetto raccontato dalla Nunez: “David prese la macchina e ricordo che andammo in giro, io lui Susan e Brodsky, la macchina piena di fumo e la voce di Joseph – profonda, un rombo, e tante risate divertenti e agitate”.
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L’articolo del New Yorker si chiude salomonicamente copiando questa nota di diario del 1973: “Nella vita, non voglio mi si riduca al mio lavoro. Nel mio lavoro, non voglio essere ridotta alla mia vita. – Il mio lavoro è troppo austero. – La mia vita è un aneddoto brutale”.
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Le note che leggete ora sono di una donna che aveva superato il giro di boa dei trenta. Si direbbe?
Andrea Bianchi
***
Susan Sontag, La coscienza imbrigliata al corpo. Diari e taccuini 1964-80
24/8/1964
La bella monotonia della grande arte – Stendhal, Bach. (Ma non Shakespeare)
La sensazione dell’inevitabilità di uno stile – la sensazione che l’artista non avesse alternative, perché totalmente incentrato nel proprio stile.
Confrontare Flaubert e Joyce (voulu, costruito, intricato) con Laclos e Radiguet.
L’arte più grande sembra una secrezione, non una costruzione.
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1/11/64
Avevo paura di mia madre, una paura fisica. Non paura della sua rabbia, o paura che lei riducesse lo scarso nutrimento emotivo che mi forniva, ma paura di lei. Mi schiaffeggiava in faccia – perché le rispondevo, la contraddicevo. L’ho sempre giustificata. Non mi sono mai permessa la rabbia, l’indignazione.
Se non posso giudicare il mondo, devo giudicare me stessa. Sto imparando a giudicare il mondo.
Da scrittrice tollero l’errore, la prestazione insufficiente, il fallimento. (…) è proprio questo l’atteggiamento che non riesco ad assumere rispetto al sesso. Non ho fiducia che alcune volte (senza bisogno di forzare) il sesso funzionerà.
Nel sesso vorrei, come per la scrittura, essere veicolo, mezzo, strumento di una forza che è al di là di me. Vorrei farmi ‘usare’ dal sesso, fidandomene. Abbandono verso se stessi, verso la vita. Una preghiera. Che così sia, qualunque cosa sia. Mi lascio andare.
Bisogna essere devoti al sesso. Così non si avrebbe l’ardire di essere ansiosi. L’ansia non si rivelerebbe per quello che è – grettezza spirituale, meschinità, piccolezza.
Consultare: Levy Strauss sul Natale, Proust su Flaubert, la nuova rivista Hermes di Eliade, Butor su Rothko, qualunque traduzione inglese di Louis-René des Forets.
Fantascienza – mitologia popolare per l’immaginazione negativa contemporanea sull’impersonale.
Creature extraterrestri = la cosa, ciò che assume il controllo.
Saggio: stile, silenzio, ripetizione.
Raffronto tra Klee e Valery. Teoria + arte. (…)
Pornografia. John Wilmot, John Cleland, Lawrence Sterne, John Wilkes e Robert Burns poeti e scrittori erano tutti affiliati a società segrete erotiche. Wilkes ai Monaci di Medmenham, Burns alle Muse di Caledonia.
XVIII secolo nessun senso di colpa, ateismo, opere più filosofiche, polemiche.
XIX secolo senso di colpa, orrore. Orrore di Stendhal giovane per le prostitute.(…)
Andrea de Nerciat raggiunse il grado di colonnello. Due opere filosofiche:
Le diable au corps il sesso mai condannato, sempre piacevole, molta satira sociale.
Les Aphrodites una società segreta sessuale.
Susan Sontag
*traduzione di Paolo Dilonardo per Nottetempo
L'articolo “Bisogna essere devoti al sesso”: quando Susan Sontag (troppo intelligente per noi poveri europei) sfotteva la “postura aristocratica” di Cioran proviene da Pangea.
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L’ascensore
di Altramira
Venere e il sole
Uscita dall’auto, raccolgo tutte le mie cose, le cartelline rigonfie di documenti, la borsa e le chiavi dell’ufficio che ho sbattuto sul sedile anteriore vicino al posto di guida. Il cellulare squilla.
Maledizione dove diavolo è, penso, mentre mi affretto a cercarlo, facendo scivolare fogli stampati da dentro una cartellina di plastica trasparente. Maledizione ancora. Impreco, come solo una donna che cerca di tenere in mano ciò che non potrà mai starci, sa fare.
I fogli ormai sono in caduta libera e se ne vanno a spasso per l’auto, mentre tento di rimanere in bilico sui tacchi da dieci centimetri che ho deciso di indossare quella mattina e mentre il vestito attillato e corto di maglina di cotone decide di salire, proprio mentre dietro di me sta passando qualcuno.
Impreco ancora.
Impreco contro di me e la mia mania di vestirmi sexy-elegante quando ho appuntamenti importanti con dei clienti. Potevo mettere un paio di pantaloni mi dico, irritata con me stessa. Il telefono smette di squillare esattamente nel momento in cui riesco a localizzarlo, in fondo alla borsa, sotto uno strato archeologico di cose inutili. Decido di spegnerlo, perché sono sicura che suonerà ancora proprio nel bel mezzo della riunione.
Raccolgo i fogli uno per uno, e li rimetto nella cartellina trasparente e la ficco dentro un’altra, provvista, questa, di alette ed elastico. Le cartelle sono parecchie e le tengo con il braccio destro contro il mio tronco, ci appoggio sopra le chiavi dell’ufficio, non so perché, visto che qua non mi serviranno. Anche il cellulare finisce sopra le cartelle in un equilibrio precario. Invece la borsa va sulla spalla destra, ripiena di altri documenti, che potrebbero scivolare fuori in ogni momento. La cosa difficile è staccare le chiavi dell’auto dal quadro per chiuderla, ma alla fine riesco a fare tutto senza far cadere altre cose, ma infuriandomi perché sento la stoffa del vestito salire sulle gambe. Mi avvio e sono all’interno del grattacielo, ho un appuntamento al trentesimo piano.
L’atrio è affollato, mi avvio verso gli ascensori, ma guardandomi intorno non capisco quale lettera dell’alfabeto ferma al piano dove devo andare io. Chiedo in portineria e mi indicano l’ascensore giusto.
Una folla davanti le porte. Quando queste si aprono, una folla uguale a quella in attesa lascia l’ascensore e io mi chiedo come diavolo facevano a starci dentro tutti quanti. Sono incastrata tra le persone, faccia alla porta. Non mi capacito di come abbiano potuto mettere un’ascensore così lenta in un grattacielo, già mi sto rompendo. Qualcosa tocca il mio sedere. Lo sfiora. È una mano, lo capisco. Non riesco neanche a voltarmi per capire chi è. Un alito caldo sul collo è più vicino di altri.
Una voce di donna. “Lasciaci fare e non ti voltare.” Non so perché ma quella voce mi mette addosso dei brividi che vorrei non avere. Sento la stoffa alzata e una mano che delicatamente accarezza le mie cosce, sento le unghie che sfiorano leggermente la pelle. Ma che cosa voleva dire con ‘lasciaci?’. Le sue dita accarezzano la stoffa sottile del perizoma bianco. Ho un sussulto. Un dito solitario insiste ad accarezzarmi, ora più audacemente. Struscia. Comprendo d’un tratto la situazione.
Mi sto eccitando e sono su un’ascensore piena di persone, dovrò levarla quella mano da sotto il mio vestito, non posso lasciare che mi faccia questo, soprattutto qui, in mezzo a tutti. Invece la lascio fare, come la sua voce mi ha detto. Lascio che due dita accarezzino ora il pizzo.
Un’altra mano. Questa è di un uomo, la riconosco da come mi tocca la natica e la spreme. Lei a sinistra e lui a destra, aprono la via e la mano di lui la percorre dritta fino alla rosellina che adesso è esposta, non più celata dalla carne delle natiche. Il pollice di lui preme. La mia reazione stupisca anche me, spingo e lascio che entri. Lei s’infila sotto le mutandine e raggiunge il mio sesso che ormai segue i miei istinti. Lui si muove dentro. Lei accarezza, cerca il clitoride e comincia un gioco di tocchi e carezze. Un’unghia sembra essere divenuto il suo strumento preferito di tortura e piacere.
Lui esce, ma solo per sostituire il pollice con due dita, che affondano dentro di me, non in maniera forte, ma decisa, fino in fondo.
Mi vergogno di ciò che sta accadendo. Sento le vampate che salgono al volto e il mio sguardo è fisso sopra le porte dell’ascensore, dove un display indica a quale piano si trova. Siamo solo al terzo, è passato solo un attimo, ma a me sembra già un’eternità. Con la coda dell’occhio scruto le persone attorno a me, sono tutti intenti a fare qualcosa: chi manda sms, chi sembra assorto nei propri pensieri, molti semplicemente sono occupati a fissare il display, come me, oppure le porte dell’ascensore. Le due dita si muovono e l’unghia della tortura gioca avidamente.
Il piacere sale fino alla gola, ma devo trattenerlo lì, non posso permettermi di lasciarmi andare dentro quest’ascensore. Non qui, penso. Sento che i capezzoli stanno premendo contro il reggiseno e vogliono uscire, così come i seni, ma: non qui, mi ripeto. Mi sento languire in un lago, sento che se loro continueranno finirò col farlo, avrò un orgasmo in ascensore. Non riesco neanche a fermarli, è una situazione dalla quale non so come uscire o, probabilmente, non ne voglio uscire. Il display segna il venticinquesimo piano. Le dita affondano ancora, penetrano in fondo.
Lei si prende gioco di me, polpastrelli che prendono il mio piacere tra di essi e lo conducono dove vogliono loro. Mi rendo conto di essere sudata e il display segna il numero ventotto. Le mani, le loro mani, quelle non impegnate, fanno scendere il mio perizoma sulle cosce. È questione di secondi e sento un rumore di forbici: le mutandine cadono a terra. Piano trentesimo. “Esci senza voltarti. Domattina qui alla stessa ora. Ascensore D.”
Esco dall’ascensore. Sconvolta dall’accaduto. Sono eccitata, sudata, tremante e senza mutande. Un bel modo per iniziare una riunione con dei clienti.
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AXIS SAGITTALE MAXIMUS
Ho cinque anni e un giorno.
Cazzeggio al primo sole di aprile nel cortile del palazzo mentre mamma al terzo piano srotola metri di lenzuola a fiorellini bianchi e blu. Azzurri? D'accordo.
La mia vita è tutta qui, tra i petali della margherita che ho appena fatto mia. Nessuna altra cosa, in questo preciso istante, riuscirebbe a procacciarmi lo stesso quantitativo di trepidante felicità della corolla candida che sto per spennare.
No lo schiocco di un bacio di mamma.
No un cucchiaino di nutella sulle mie giovani papille.
Neanche le onde violente che mi rubano l'aria e mi procurano i primi orgasmi nei bollenti pomeriggi di agosto.
Sorrido, la vita altrettanto, e mi dirigo serena verso la pietra abituale.
Nella mia fetta segreta di mondo disabitata da ogni paura.
Lì tra poco siederò.
Un freddo piacevole attraverserà la stoffa delle mie mutandine preferite, quelle coi gatti blu. Azzurri, d'accordo.
Ma è un attimo. Quello dopo sono tutt'uno con la materia basaltica, e affronto la grande missione della giornata, l'ultima prima che La voce imperiosa mi ricongiunga al focolare che mi addomestica.
In lontananza un gregge di cinquenni pascola in attesa del richiamo serale, e mi ignora, almeno quanto faccio io.
Giocano a nascondino tra i fili d'erba, cavalcano puledri di coccinelle e azzoppano cavallette bibliche.
Si divertono con innocente crudeltà. Almeno quanto faccio io.
Guardo la mia margherita sacrificale pronta al rito del m'ama non m'ama: entrambe ne ignoriamo il senso, ma è così che va il mondo, e non sarò certo io a cambiarlo, non il giorno dopo aver raggiunto i miei cinque dico cinque anni.
"Che fai?" chiede alle spalle la voce conosciuta.
La morte è in agguato anche se ti senti in paradiso, anche se hai cinque anni e un giorno.
Anche se ti rigiri l'ambito tesoro tra le mani.
"Niente" rispondo.
E i miei occhi già perlustrano vie di improbabile fuga. Sparano Led luminosi per richiamare l'attenzione di qualche infante passante. Inviano segnali telepatici sui balconi deserti della palazzina in cerca di adulti accorti. E' l'ora di cena che mi frega.
"Bugiarda! Dammi quel fiore."
digrigna la morte vestita da cinquenne con involucro da dodicenne.
Ecco sapevo.
Sarà oggi.
Mi si piazza di fronte col sorriso malevolo dondolandosi sulle gambe nervose. Fa sempre così quando mi odia. Quando si diverte a piegarmi con la sua spropositata corpulenza. Quando mi obbliga a cedere perché non voglio morire sennò mamma piange.
Ma oggi è diverso, ho cinque anni e un giorno, non dimentichiamolo.
"No, prenditene un altro"
Spalanca gli occhi iniettati di rabbia e mi afferra la mano esile che si allarga per il dolore.
"Invece mi dai quello"
Con l'altra tenaglia mi stringe il collo ancora dolente dall'ultima volta, le dita grassocce premono: una, due, cinque. Si, ci sono tutte, come l'ultima volta. E guadagnano terreno tra i miei tendini, li inducono a flettersi rovinosamente.
"Ho detto nooo".
E non importa che il fiore non so più nemmeno dove sia. Adesso basta. Piangerai mamma, scusami tanto. Doveva pur finire questa storia.
Sfumano lievi i contorni del mio paradiso, il sole si spegne, gli uccelli zittiscono, l'odore allegro di frittata scoppiettante abbandona le mie narici: è così, allora? Sarà oggi?
Riemergo dal buio all'improvviso e bevo gran sorsate d'aria. Buona l'aria, non me n'ero mai accorta.
Non sarà oggi, dunque.
Il mio orco ha il braccio ricurvo a forza dietro la schiena e piagnucola come nemmeno io tre giorni fa, quando di anni ne avevo ancora quattro.
Insieme al braccio, dietro di lui, c'è Uno che gli parla ad un orecchio.
Non riesco a guardarlo bene in faccia. Marosi di capelli color pece gli confiscano lo sguardo: intuisco solo un viso magro e neanche troppo benevolo.
Ora me lo ricordo. Alto e secco com'è. Vive nel quartiere opposto, tra case grigie e impopolari, dove se non stai attento ti pungi con aghi velenosi e muori. Dove tutti urlano e non nella stessa lingua. Stanne alla larga, dice mamma, altrimenti vedi. Vedo cosa?
Si, è lui. Bazzica la pasticceria dove compriamo i dolci la domenica, di ritorno dalla messa galera. Dove ho scelto la torta per il mio compleanno, con Aurora che danza nel bosco. Me l'ha portata lui, a pensarci bene proprio. Solo ieri ho aperto io la porta e lui era lì, più buio e stropicciato del solito, con la mia principessa in mano. Mamma l'ha presa senza farlo entrare, e ha richiuso con lui ancora davanti. E' il segno, il trattamento riservato agli indesiderabili. Son stata zitta e buona. Non posso far domande che non si possono fare. Codice interno.
Uno lascia il braccio all'orco che rotola via urlando vendetta. Si gira verso me che ancora annaspo, si avvicina.
Non sorride, non parla, non niente.
Abbastanza da lasciarmi temere che la mia giornata non sia finita qui, che la morte possa avere anche altri involucri, dopotutto.
Ma non mi muovo: se deve essere, sia oggi. Scusa mamma, ma è uno di quei giorni che. Sai com'è.
Uno si china e delicato me la porge
"Buon compleanno" dice.
La margherita è ancora intatta.
Gli anni sono sedici, oggi.
Mi affanno a risalire la strada semideserta verso il liceo per signorine che ospita le mie albe sonnolente, sono una macchia bianca e blu che scivola rapida.
Blu, ho detto? Lo ripeto.
Ho perso il treno, il che vuol dire ritardo, vuol dire nota sul diario, vuol dire addio bella giornata.
Mangio l'asfalto azzardando pronostici sulla punizione che mia madre si divertirà ad infliggermi. Probabilmente sarà la festa di domani. Che dopodomani dovrò farmi raccontare perché ovviamente non potrò andarci.
Questi allegri pensieri si dipanano sotto la fronte sudata mentre in divisa come un fiero soldatino arranco in salita senza le mie cinguettanti amiche del mattino.
Uno è fermo all'inizio del mio stretto marciapiede, appoggiato al lampione con la gamba ripiegata. Aspira la sigaretta con forza e mi fissa con l'aria strafottente di sempre. Io vado a scuola, lui va in giro con un furgone squassato a consegnare diosaccosa.
E diosaccosa combina tutto il resto del giorno: si narra che il suo gruppo di sballati si diverta a boicottare di ogni. C'è andata di mezzo la pasticceria dei suoi, l'hanno chiusa, dopo l'ennesimo assalto di fascisti teppistelli. Dicono sia un mezzo anarchico, uno sgangherato sociale, un aggressivo latente. Uno che se lo trovi di notte in un vicolo meglio girare i tacchi senza contare fino a due.
Io non dico niente, ma la sua faccia mi indispone, il modo in cui mi guarda mi indispone. Come osa?
Mi ha salvata una volta, vabbè chi dice no, ma tutte le altre fa come se la mia vita gli appartenesse, com'è che dice la leggenda? Che se uno ti salva sei suo per sempre ecc ecc? Leggenda, appunto. Falsa. Frottola. Fantastica. Roba di effe fedigrafe.
Pochi metri ancora ci dividono.
Uno continua a fissarmi attraverso i diabolici capelli, mi resta poco per elaborare il da farsi. Proprio oggi che sono umidiccia e accaldata, devo anche avere una faccia tremenda, poco cazzuta.
Potrei cambiare strada. E proclamare la mia sconfitta? Non se ne parla proprio, no.
Mi bardo di sfacciata indifferenza, si, questo va bene: zitto cuore, non tradirmi proprio adesso o me la paghi.
Perché, si, ecco, l'ho sognato, questa notte.
Che facevamo l'amore: un'onda lenta, estenuante, una risacca che indolente si è trascinata fino al mattino lasciando in bellavista ciottoli di mani, pelle e lingue dorate di sabbia.
Svegliarmi e appurare la realtà è stato un pugno in faccia. Un baratro immondo. Lo odio più di sempre, stamattina.
Mezzo metro ancora tra il suo sorriso storto e il mio sguardo fosco.
Si stacca dal lampione e in un balzo il mezzo metro non c'è più.
I suoi occhi sono brace, come le mie guance. Con un dito sfiora la pelle candida che fuoriesce dal mio scollo a V .
" Non dovresti prendere freddo"
mi dice in un soffio
Furia e piacere mi smuovono lo stomaco, quando delicato mi porge una margherita
"Buon compleanno" dice.
E' già buio pesto. L'attesa mi congela, l'auto non è proprio il posto esatto in cui consumare ore di tempo perso. L'auto non è davvero il posto adatto a consumare alcunché, non la mia, almeno. Ma, a bisogno, anche la mia può andare.
Mi manca l'aria e cominciano a formicolarmi i piedi. Bene.
Accendo la radio.
La tipa dice che le sono nell'anima e lì mi lascia per sempre. Dice.
Spengo la radio.
Finalmente ti vedo uscire dalla fortezza scura. O meglio, vedo uscire la sagoma dei tuoi capelli, che adesso sono mediamente corti, da brava persona, e hanno preso il posto della nuvola nera in cui svettavi secoli fa. Trafelato ti catapulti sull'auto. Che ha preso il posto del furgone in cui ordivi trame benigne secoli fa.
Lascio che un paio d'auto s'immettano nel nostro asse vitale, l'ora è tarda e non c'è traffico a rendere difficoltoso il mio…il mio…pedinamento, ecco. L'ho detto.
Non ho mai voluto sapere dove abiti. Precauzione di cui mi dovresti ringraziare. Forse.
Appena fuori città, mi hai sempre detto, e in effetti è così. Il tragitto è breve. Me l'avevi detto, ma in effetti dici un sacco di cose. Ne dico anch'io.
Mi accosto e lascio che l'oscurità m'inghiottisca, mentre con lo sguardo vedo l'auto risalire il vialetto fino ad una grande casa.
Le luci al piano terra sono accese. Certo, immaginavo.
Non riesco più a distinguerti. Ma l'eco della portiera prima, e del portone dopo, mi fanno realizzare che hai raggiunto la meta serale.
Pregusto il distendersi dei tuoi muscoli intorpiditi, il cedere benevolo dei sensi al tepore risanante del tuo nido. Bello.
A volte mi sembra di avere un programma che scarica files direttamente dalla tua testa.
A volte, non capisco dove finisco io e cominci tu.
Esco dall'auto nel momento esatto in cui goccioloni freddi decidono di venire giù. Tipico, non mi sorprende mica.
Mi addentro nel vialetto, lascio che la quasi notte lambisca la pelle dolente, che l'acqua mi avvolga come in ere lontane che devono esserci state, anche per me.
Il terreno è appena fangoso, molle abbastanza da sprofondarci con scarpe che non torneranno mai come prima. E la luce della prima luna è fievole, non mi aiuta ad evitare lo sterminio delle zucchine di cui vai tanto orgoglioso. Perdono.
Cerco adesso di stare più attenta, ma anche le nuvole non sono dalla mia, dalla tua, dalla nostra, e offuscano il raggio lunare gia fioco.
E infatti: ti ho appena ucciso l'insalata, quella a cui mi hai raccontato aver dedicato la stessa cura riservata a tuo figlio, e il pensiero di quel che sono, una sporca assassina di vegetali, un'infame nemica della biosfera, lo confesso, mi rattrista. Scusami ancora. Ma non poteva essere che oggi, è proprio uno di quei giorni che. Sai com'è.
Raggiungo una finestra nuotando nel diluvio universale, e lì mi pianto. Non prima di aver sbattuto il ginocchio su una casetta di legno verde: un gatto decisamente grasso si affaccia appena, mi lancia uno sguardo di sufficienza e infastidito si raggomitola nella sua reggia. Lui.
Finalmente mi decido. Adesso guardo. Devo, guardare.
Credo sia la cucina, si, lo è.
Attorno al tavolo riconosco fisionomie nuove che in realtà conosco da sempre.
Tuo figlio ti siede su una gamba, col braccio si è impossessato delle tue spalle e non pare intenzionato a cederti ad altri. Sembra un tipo deciso, ha lineamenti fieri e gentili che strazieranno molti cuori, credimi.
Li ha presi da tua moglie. Molto bella, per la sua età.
Lei è vestita con cura, deve essere uno dei tuoi abiti preferiti, quello. Lo intuisco dalla vanità sottile con cui ti versa da bere: ti sfila davanti felina, compiaciuta, sa che tu sai che lei sa.
Quella dev'essere tua madre. O tua suocera. O entrambe. La stanza è piuttosto affollata, e tu chiacchieri amabilmente con tutti. Sorridi, raggiante. Il maglioncino giallo smorto ti illumina il volto che mi dedicavi rude, secoli fa.
Qualcuno ti piazza in mano un gran coltello, è l'unico istante in cui non sembri a tuo agio.
Canzone d'ordinanza, soffio di candeline: siamo al taglio della torta. Braci e abbracci, gran file di denti. Foto, per sventare il rimorso di non avere catturato i ricordi preziosi.
Sono felice di quello che vedo, cosa credi? Felice, giuro.
Degli equilibri imperfetti che a fatica ci ricamiamo addosso nel nostro impreciso e doloroso vagare.
Ecco cosa siamo: scimmie che si spulciano a vicenda, ci avevi mai pensato?
L'acqua che ho sul viso è solo pioggia. E' lieve malinconia.
Una vita sola non basta a nessuno, lo sappiamo entrambi, e forse noi siamo prenotati per la prossima. Forse.
Hai una margherita sul parabrezza.
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