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“Come la cerva anela ai corsi d’acqua”, il nuovo libro di Valerio Vecchi
Valerio Vecchi, autore e conduttore tv, torna sul panorama editoriale dal 20 dicembre con il suo terzo libro dal titolo “Come la cerva anela ai corsi d’acqua” per Amazon Indipendent Publishing, disponibile anche in versione kindle.
Valerio Vecchi, autore e conduttore tv, torna sul panorama editoriale dal 20 dicembre con il suo terzo libro dal titolo “Come la cerva anela ai corsi d’acqua” per Amazon Indipendent Publishing, disponibile anche in versione kindle. Dopo le opere letterarie “La spettacolare storia di Ebenizer” (2018) e “Il sorriso degli elefanti (2021), Vecchi si propone ora con un libro incentrato sulle…
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LA CONCEZIONE DEL PECCATO SULLA SOCIETÀ ATTUALE31 dicembre 2017
Nella società attuale la concezione del peccato è un tema non conosciuto e per niente tenuto in considerazione e questo lo si può spiegare in termini che essendo “il peccato in relazione tra il Creatore e la creatura e nell’ordine del creato costituisce l’opera di salvezza”, dato che la società non cerca le cose spirituali, non cammina nei sentieri di giustizia e di rettitudine del Signore, non conosce l’opera di salvezza perché vive separata dal proprio Creatore, nella non conoscenza della sua Persona, della sua Parola e del suo messaggio biblico di conseguenza non è cosciente dello stato di peccato nella quale versa e non riesce a comprendere e a concepire il peccato in questi termini. Inoltre l’estensione del peccato possiede un senso geografico in quanto tutti gli uomini hanno peccato e sono peccatori, questo aspetto viene registrato con sistematica regolarità dalla Scrittura (Salmi 14:1,3 “«Al maestro del coro. Di Davide» Lo stolto ha detto nel suo cuore: «Non c’è DIO». Sono corrotti, fanno cose abominevoli; non c’è alcuno che faccia il bene. L’Eterno guarda dal cielo sui figli degli uomini per vedere se vi sia qualcuno che abbia intendimento, che cerchi DIO. Si sono tutti sviati, si sono tutti corrotti; non c’è alcuno che faccia il bene, neppure uno; Salmi 143:2 “E non entrare in giudizio col tuo servo, perché nessun vivente sarà trovato giusto davanti a te”; Ecclesiaste 7:20 “ Non c’è infatti alcun uomo giusto sulla terra, che faccia il bene e non pecchi”; Isaia 53:6 “ Noi tutti come pecore eravamo erranti, ognuno di noi seguiva la propria via, e l’Eterno ha fatto ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti”; Romani 3:10 “ Come sta scritto: «Non c’è alcun giusto, neppure uno”; Atti 17:26 “Or egli ha tratto da uno solo tutte le stirpi degli uomini, perché abitassero sopra tutta la faccia della terra, avendo determinato le epoche prestabilite e i confini della loro abitazione”). Il peccato è una condizione universale e il giudizio divino non conosce attenuanti: “Nessuno può sussistere davanti alla santità di Dio perché tutti gli uomini sono indegni, nemmeno uno è stato trovato giusto”.
Il peccato domina la società attuale nel suo modo di vivere, di pensare e di agire infatti dalle continue notizie di attualità possiamo comprendere come il mondo giace nelle mani del maligno che impedisce alle persone di realizzare l’obiettivo dello scopo per il quale sono stati creati tenendoli prigionieri in una condizione di “cecità” e li fa vivere nello stato di degrado più assoluto. Oggi la meta che prevale nella società e nella maggioranza delle persone è l’arrivismo e il dio denaro entrambi aspetti in netta contradizione con le cose spirituali e che nascono dalla schiavitù della volontà di riconoscere la rottura intenzionale della comunione con Dio. Con queste attitudini la società attuale sceglie di camminare secondo le proprie vie (Isaia 53:6 “Noi tutti come pecore eravamo erranti, ognuno di noi seguiva la propria via, e l’Eterno ha fatto ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti”) che la portano a deviare dalla via dritta abbandonando il proprio Creatore con il risultato inevitabile che si perde e vive in uno stato di penosa incertezza oltre allo stato di smarrimento totale e di tenebre questo fenomeno fa dell’uomo un estraneo al suo luogo ontologico, un essere senza mete corrette, un essere abbandonato (Geremia 31:22 “Fino a quando andrai vagando, o figlia ribelle? Poiché l’Eterno crea una cosa nuova sulla terra: la donna che corteggia l’uomo”). Questo quadro della situazione evidenzia come il peccato è caratterizzato dalla debolezza
umana, ha colpito l’originale integrità e impregna tutto l’essere dell’uomo rendendolo cieco (Giovanni capitolo 9,1,3 “Mentre passava, vide un uomo che era cieco fin dalla nascita. E i suoi discepoli lo interrogarono, dicendo: «Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Gesù rispose: «Né lui né i suoi genitori hanno peccato, ma ciò è accaduto, affinché siano manifestate in lui le opere di Dio”) e portandolo verso la morte (Efesini 2:1 “Egli ha vivificato anche voi, che eravate morti nei falli e nei peccati”).
Il tema del peccato sulla società attuale simbolizza l’erranza, la malattia, l’idolatria e l’impurità e fa passare a quello del soffio. C’è l’idea del nulla e della vanità, infatti “tutte le genti sono come nulla per Lui, sono meno che nulla e vanità” (Isaia 40:17 “Tutte le nazioni sono come un nulla davanti a lui e sono da lui ritenute un nulla e vanità”). Con l’attuale stile di vita gli uomini lasciano libertà alla “concupiscenza” e attribuiscono a Dio l’intenzione di limitare la propria libertà. Quando si riflette su se stessi e sulla realtà che ci circonda, ci si rende conto che c’è una sfasatura tra ciò che esiste e ciò che si suppone che dovrebbe essere dunque il tema del peccato e della perdizione dell’uomo davanti a Dio non appartiene alla natura umana ma è posteriore e va collocato all’origine della storia anche se non va confuso con le origini in quanto tali. Il peccato si presenta ancora oggi sull’attuale società come una drammatica turbativa nella relazione fra Creatore e creatura ed è avvertita in misura più o meno profonda da ognuno qualunque sia il suo retroterra culturale.
La spiegazione di questa frattura è spiegata dalla rivelazione biblica che la colloca in una drammatica narrativa al punto che Dio stesso si deve fare carico della sua soluzione.
Dio ci ha provveduto un “Mediatore” come soluzione, per appartare il suo popolo ma dato che la società attuale, così come quella storica, non lo riconosce il problema del “peccato” permane e domina così come anche le sue conseguenze (Galati 3:19,20 “Perché dunque fu data la legge? Essa fu aggiunta a causa delle trasgressioni, finché fosse venuta la discendenza a cui era stata fatta la promessa; essa fu promulgata dagli angeli per mano di un mediatore. Or il mediatore non è mediatore di una sola parte, ma Dio è uno“; 1 Timoteo 2:5 “Vi è infatti un solo Dio, ed anche un solo mediatore tra Dio e gli uomini: Cristo Gesù uomo”; Ebrei 8:6 “Ma ora Cristo ha ottenuto un ministero tanto piú eccellente in quanto egli è mediatore di un patto migliore, fondato su migliori promesse”; Ebrei 9:15 “E perciò egli è il mediatore del nuovo patto affinché, essendo intervenuta la morte per il riscatto dalle trasgressioni commesse sotto il primo patto, i chiamati ricevano la promessa dell’eterna eredità”; Ebrei 12:24 “E a Gesù, il mediatore del nuovo patto, e al sangue dell’aspersione, che dice cose migliori di quello di Abele”).
Luisa Lanzarotta | Notiziecristiane.com
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“È la natura contraddittoria, multiforme di Davide ad affascinare. Io ho dato voce alle sue donne”. Dialogo con Michael Arditti
Diciamo: per toponomastica e autobiografia. Fin da bambino mi affascina la storia di Davide, divinando un destino non mio in quei libri, ascritti a Samuele, pieni di promesse e di massacri. Il re Davide, da cui proviene per discendenza il Nazareno, è colto, sempre, in una solitudine solare: è uno e moltiplicato, possiede identità d’angelo e di belva, multipla, è inafferrabile. Davide, intendo, porta la luce e la separazione: è l’ultimo dei figli di Iesse, “il più piccolo”, l’unico che non è convocato al cospetto del profeta Samuele. A Saul, Davide sottrae l’affetto fino all’acme della gelosia; soprattutto, gli leva l’amore dei figli, Mical – che “s’invaghi di Davide” e ne diventerà sposa – e Gionata, legato a lui da inesorabile patto d’amicizia. Davide soffia Betsabea al lecito marito, Uria, ottimo tra i guerrieri; non riesce a tenere unita la sua famiglia, fitti di figli ribelli e accecati dal desiderio di sesso e di potere – o di giustizia che sfocia in scisma, Salomone. La vicenda di Davide è sancita dalla cetra, con cui incanta Saul – ma il salterio redige la divisione nel cuore dell’uomo e l’inquietudine armata di Dio – e dalla fionda, con cui ammazza Golia, campione dei Filistei. I grandi pittori del primo Seicento, da Tanzio da Varallo a Guido Reni, da Caravaggio a Domenico Fetti e Orazio Gentileschi mostrano il ragazzo con una spada troppo grande, pare Excalibur, che mozza la testa al gigante: ennesima separazione. Davide ama, disperatamente – il suo pianto è analogo alle tavole dei comandamenti, su di esso stringe l’alleanza con Dio – e sempre separando. Infine, diviso dal resto della famiglia, vecchio, separato dal proprio corpo – “non riusciva a riscaldarsi” – Davide si unisce ad Abisag, “la Sunammita”, giovane e “straordinariamente bella” – unità che sa di infinita distanza. La storia di Davide, credo, è talmente corrosiva da bucare il viso a qualsiasi romanziere. In pochi hanno affrontato la storia biblica: ricordo il Davide di Carlo Coccioli (Rusconi, 1976) e Betsabea (Iperborea, 1988) di Torgny Lindgren, ad esempio. Così, sfogliando lo “Spectator” esulto leggendo una recensione di Peter Stanford che esalta The Anointed (“L’Unto”) un romanzo che narra la storia di Davide attraverso tre narratori diversi, le sue mogli, Mical, Abigail, Betsabea. Il recensore si profonde in caldi elogi nei riguardi del romanziere, Michael Arditti, “acclamato dalla critica, ma che preferisce pubblicare con piccoli editori: una voce insolita, che merita un pubblico più vasto”. Mi incuriosisco. Arditti, in verità, ha scritto tanto – anche per il teatro e la BBC – e la sua bibliografia conta romanzi di successo come Jubilate, The Enemy of Good (che mandò in estro Philip Pullman), Easter, The Celibate. Cinque anni fa, per dire, lo “Spectator” gli ha dedicato un pezzone – firma Lucy Beresford – con titolo roboante Michael Arditti is the Graham Greene of our time, il “TLS” ha prodotto un aureo servizio al suo libro precedente, Of Man and Angels, dal titolo Sodom and the Torah. Insomma, come se con una selce tormentassi i fantasmi di una genealogia fittizia, decido di intervistare Arditti, uno che non ha timore di investigare Dio e il trauma. (d.b.)
Come è nata l’idea di un romanzo sul re Davide attraverso gli sguardi delle sue donne? Che fonti storiche – o letterarie – ha usato?
Sono sempre stato affascinato dalla figura di Davide. Nella Bibbia, è più menzionato lui di chiunque altro insieme a Gesù. È un personaggio che conquista, è ricco di contraddizioni. Uno dei modi per narrare queste contraddizioni è sondarle da diverse prospettive, e le prospettive che ho scelto sono quelle delle sue tre mogli: Mical, Abigail, Betsabea. Tutte e tre sono state cruciali nella vita di Davide eppure di loro la Bibbia dice ben poco. La maggior parte delle persone conosce forse soltanto Betsabea, per la reputazione di donna ‘sexy’. Dai patriarchi ai profeti, l’Antico Testamento descrive sostanzialmente le gesta degli uomini. Con alcune notevoli eccezioni, le donne, se menzionate, sono o malvagie seduttrici, come Dalila, Jezebel, Athalia, e la madre di tutte loro, Eva, oppure sono matriarche generose come Sara, Rachele, Anna. Nella vita di Davide ci sono molte donne. Ho voluto dar loro voce. L’unica fonte storica che ho usato è stata la Bibbia. Ho consultato diversi studi per conoscere i diversi aspetti della vita in Israele nel X secolo prima di Cristo. Ma in sostanza, ho usato i libri di Samuele. Come specifico nella nota che apre il romanzo: riscrivendo la storia di re Davide e ponendo in primo piano le tre donne a lui più vicine, ho aderito con rigore alla sequenza di eventi narrati nei libri di Samuele. Ciò non toglie che mi sia sentito libero di aggiungere dei personaggi o di evidenziarne altri, di interpretare alcuni incidenti e di risolvere certe incongruenze, traducendo un antico mito in una storia contemporanea.
Traditore e assassino, poeta e spietato, unto di Dio e seduttore… Davide è un uomo pieno di contrasti. Qual è l’episodio che più di altri ne risolve la natura?
Non esiste un singolo episodio: è la sua natura multiforme ad affascinarci. Davide è il giovane pastore che, armato soltanto di fionda sconfigge il campione dei Filistei, Golia, e guida gli eserciti di Saul, e il traditore che non solo si ribella al re, ma si allea con i Filistei organizzando razzie nel territorio di Giudea. È detto che scrisse i Salmi, alcune tra le più belle poesie liturgiche al mondo, e che fondò la città santa di Gerusalemme, eppure Dio lo considerò un peccatore troppo grande per affidargli la costruzione del Tempio. Ha sconfitto i nemici di Israele, ha fortificato i suoi confini, ma non è stato in grado di controllare i figli, non ha impedito che uno di loro violentasse la sorellastra e che un altro guidasse una rivolta contro di lui.
Micheal Arditti è stato definito dallo Spectator “il Graham Greene del nostro tempo”
Doni un aggettivo per descrivere le peculiarità delle tre donne protagoniste del suo romanzo. Quale di queste, in fondo, la affascina di più?
Non credo si possa descrivere con un aggettivo nessuna di queste donne; sarebbe impossibile fare altrimenti con qualsiasi personaggio interessante della letteratura. Gli unici personaggi risolti in un unico aggettivo sono quelli che appaiono nelle scene di folla. Mical, la prima moglie, passa dall’essere una ragazza ingenua, incantata dallo splendore e dalla bellezza di Davide, a una vecchia ferita, amareggiata, senza figli. Abigail, la seconda moglie, è più anziana, consapevole e leale, pronta a perdonare i difetti di Davide. Betsabea deve usare la propria intelligenza per sopravvivere in un mondo di uomini, per salvarsi e per tutelare la successione del figlio, Salomone. Se costretto, trovo Mical la donna più affascinante, se non altro perché il suo viaggio, come quello di Davide, si estende lungo l’arco di tutto il libro.
Nei suoi romanzi torna spesso, in modi diversi, a Dio, come se Dio fosse il tema ineluttabile per uno scrittore: è così? La Bibbia è ancora il ‘grande codice’ per un romanziere?
Dio è un tema ineluttabile per me – non mi pare sia tale per la maggior parte dei romanzieri contemporanei. Come epigrafe al mio romanzo, Jubilate, una storia d’amore ambientata a Lourdes, ho usato Goethe: “Il conflitto tra fede e scetticismo resta il tema più profondo, attuale, il solo della storia del mondo e dell’umanità, a cui tutti gli altri sono subordinati”. Sospetto che se Goethe fosse tra noi, si sorprenderebbe di quanto raramente questo tema sia esplorato nell’ambito letterario. Naturalmente, come chiunque si occupi di narrativa, non posso fare a meno di essere influenzato dalla Bibbia, anche se l’ho esplorata direttamente in due soli romanzi: Of Men and Angels, in cui tratto la storia di Lot a Sodoma e le sue conseguenze religiose, e questo ultimo, The Anointed.
Il titolo del suo romanzo è potente: Cristo, il Messia, proviene dalla casa di Davide, l’Unto del Signore. Che rapporti ha con la fede, crede in Dio?
Sono un uomo di fede, benché di una fede piuttosto idiosincratica, di cui preferisco non discutere pubblicamente. Penso che se essere creati a immagine di Dio vuol dire qualcosa, questo significhi avere la capacità di amare e di essere creativi e di esercitare un giudizio morale. Come la maggior parte dei cristiani pensanti, ho un atteggiamento ambiguo nei riguardi della Chiesa. Da un lato sono consapevole della sua importanza storica, nell’aver preservato e trasmesso il messaggio di Cristo e nell’aver commissionato così tante gloriose opere d’arte che continuano ad arricchirci e ispirarci. Sono consapevole che restare nel cuore della comunità cristiana significhi sostenere alcuni valori eterni in cui credo. D’altra parte, sono altrettanto consapevole della funesta influenza della Chiesa lungo i secoli. Come omosessuale, non posso non osservare quanto la Chiesa abbia stigmatizzato e represso la sessualità, nonostante alcuni uomini di potere in quella stessa Chiesa abbiano abusato del proprio ruolo per violare i deboli e i vulnerabili.
Qual è il libro che le ha “cambiato la vita”, che le ha fatto comprendere la necessità della scrittura? Qual è l’autore vivente o il libro che ammira di più?
Negli anni, sono stato influenzato da Marcel Proust. Un flebile legame familiare con lui lo ha reso subito interessante ai miei occhi anche quando ero troppo giovane per leggerlo e capirlo. Al di là della straordinaria ricchezza del romanzo, l’importanza che il narratore attribuisce alla letteratura è enormemente rassicurante per lo scrittore di oggi, che vive in un mondo che in larga parte ha abbandonato la parola a favore dell’immagine e dello schermo. Tendo ad ammirare romanzi singoli rispetto all’opera intera di un autore ma sono costantemente colpito, stimolato e impressionato dal lavoro di Marilynne Robinson e Rose Tremain.
Quale romanzo le sarebbe piaciuto scrivere? Quale romanzo sta scrivendo?
Temo di dovermi ripetere. Avrei voluto scrivere la “Recherche” di Proust. Se mi è concessa una seconda scelta, direi I fratelli Karamazov. Proust e Dostoevskij rappresentano le cime gemelle – e i poli opposti – del mio panorama letterario. Ho appena terminato un romanzo breve su un attore all’epoca della Reggenza, e dopo due libri storici mi sto imbarcando in una storia centrata su una donna sacerdote anglicana.
Ultima: come vive la sua personale reclusione?
Vivo da solo e, nelle ultime sei settimane, in totale isolamento. Dedico la mattina alla scrittura, come sempre. Nel pomeriggio, leggo, parlo con gli amici al telefono, guardo Netflix e trovo che il giorno passi piuttosto piacevolmente.
*In copertina: Valentin de Boulogne, “Davide con la testa di Golia e due soldati”, 1620-22
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“Io sono la tenebra”. Quel Giuda di Giuseppe Berto
Stava sulle scatole a tutti e per questo lo hanno messo in soffitta a cadavere ancora fresco. Giuseppe Berto (1914-1978) era così: estremamente sé, estremamente solo. Non uno stinco di santo, per carità, non certo un monaco stilita. Per stare sotto ai riflettori avrebbe fatto di tutto. E di tutto ha fatto. E ha avuto la malaugurata sorte di mettersi a fare le pernacchie a Moravia e compagnia. Ma lui, Berto, la sua vitaccia se l’è vissuta. Il successo lo ha coltivato e per un po’ gli ha sorriso. E lui ci ha giocato con la fama, girandogli le spalle e ostentando il didietro, irriverente fino all’ultimo. Ecco, l’ultimo atto.
È il 1978, Berto, nel pieno di una ennesima “bagarre”, muore. Due settimane prima Mondadori manda in libreria il suo ultimo libro, La gloria, eccentrica rilettura dei Vangeli dallo sguardo di Giuda. Il suo testamento? Forse. Sicuramente un tentativo per fare i conti con sé, per denudarsi. Ha ragione Dario Biagi, nella sua Vita scandalosa di Giuseppe Berto (Bollati Boringhieri, 1999) quando scrive: «Pochi libri l’assorbirono, lo commossero mentre li scriveva, nella solitudine del suo eremo, come La gloria». Vero. Berto si smaschera, e lo fa con quel libro che voleva titolare Io, Giuda oppure Gloria di Giuda (fu Alcide Paolini della Mondadori a scegliere il titolo definitivo), e che se pareva rimpastare un suo dramma neppure troppo antico e per nulla compreso, cioè La passione secondo noi stessi, del 1972 (Rizzoli), in verità è qualcosina di più.
*
Qualche considerazione a lato. Il vangelo è genere letterario a sé (cfr. Pius Ramon Tragan, La preistoria dei vangeli, Servitium, Milano 1999). Non è un libro di storia (celebre la conclusione dello Jesus di Bultmann, 1926, per cui dai vangeli non ricaveremmo nulla del “Gesù storico”), non è un racconto allegorico, perché il contesto in cui la vicenda è situata è reale, realissimo, certo. È entrambe le cose. È una profezia realizzata.
Nella letteratura tout court, potremmo azzardare, esiste un “sottogenere” che è quello del midrash, del commento ai Vangeli. O agli apocrifi. Gli scrittori che s’impegnano in questo sottogenere ibrido solitamente piegano, “tradiscono” la loro lingua originaria per assecondarlo. Ci sono i commenti brevi in forma di racconto (ad esempio il racconto del 1946 di Dürrenmatt dedicato a un allucinato e grottesco Pilato, e che va a rimpolpare l’originario ciclo apocrifo, o il testo di Álvaro Mutis, Prima che il gallo canti, in La casa di Araucaíma, 1978, in cui viene riletta in chiave moderna la vicenda di un Salvatore-operaio o ancora l’invenzione della Yourcenar che tratta della Maddalena e di Giovanni Battista in Fuochi, 1936), ci sono i vangeli veri e propri (vedi la modestissima prova di Norman Mailer, Il Vangelo secondo il Figlio, 1996), la cui vetta è toccata dal criticatissimo Vangelo secondo Gesù di Saramago, del 1992, in cui l’autore riscrive da par suo e partigianamente (da sogno di salvezza a incubo disumano di perdizione) la vicenda evangelica, usando molteplici fonti e con una lingua sontuosa, barocca, “finta”.
Rimangono ai margini due capolavori della lingua russa: l’inserzione “La leggenda del grande Inquisitore” nei Karamazov di Dostoevskij, e le porzioni del Maestro e Margherita di Bulgakov, in cui la vicenda di Pilato e di Giuda s’alterna, a dittico, a quella di Margherita. L’eccezionalità dei due testi è irriducibile in riassunti; fatto è che il “genere vangelo” non c’entra per nulla. Superato per meriti.
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Anche in Italia esiste qualcosa di simile. Tra la rilettura degli apocrifi di De André (La buona novella, del 1970) e un misconosciuto romanzo di Vassalli (La notte del lupo, del 1998; sicuramente un testo sinistro e poco riuscito, ma che emana uno strano fascino, narrazione di un Giuda che torna trasfigurato – persino nell’atto folle di Alì Agca – più volte nella Storia), c’è un capolavoro del “genere” (ma che di generi ne usa e abusa tantissimi, dalla spy story alla pièce teatrale), cioè Il quinto evangelio di Mario Pomilio, edito nel 1975. Proprio questa mi pare idealmente (riguardo al concetto strutturale del romanzo siamo lontanissimi) la “fonte” del Giuda di Berto. E non a caso.
Berto stimava assai Pomilio e questi era stato uno dei “pochi ma buoni” che spesero lodevolissime parole all’uscita del Male oscuro. Ma rimase piuttosto freddo dopo aver letto La gloria, autunnale reazione che colpì molto Berto. Il Giuda di Pomilio, che fa ingresso in una ipotetica e suggestiva porzione scenica alla fine del romanzo, è un capro espiatorio: «Se ci badate, nella Passione ci sono due morti, la mia e quella di Gesù, e ambedue, pare, necessarie al piano di salvezza: come se, per poter dire “Li ho salvati tutti”, fosse occorsa prima la vittima, il destinato alla caduta». Il momento in cui Giuda va dai sacerdoti a consegnare Gesù svela la divinità di quest’ultimo: «il bacio stesso diventa un momento d’alta emozione, è un addio dato all’uomo in vista del mito».
Il Giuda di Berto si allinea a questa interpretazione, con delle non inutili differenze. Il Giuda di Berto, a differenza di quello di Pomilio, crede («Io, ormai, credevo») e ama Gesù («E tuttavia Ti amavo, molto più di quanto non Ti amasse Giovanni, sconfinatamente»). Crede e ama più di tutti gli altri discepoli. Con Gesù ha avuto un rapporto intenso e intimo, come Gesù si è sentito “chiamato”. Ma a un dialogo senza risposta con l’Eterno («O la tua voce è il silenzio?»).
Nella sua personale riscrittura dei fatti, Berto usa materiali “sporchi”, che donano un’aura sinistra, obliqua, a tutta la narrazione. La sua Bibbia di riferimento è un’antica traduzione protestante (secondo la testimonianza di don Pasquale Russo raccolta da Biagi), per altri testi (Ecclesiaste, Giobbe e Salmi), che egli riscrive mettendoli in bocca a un Giuda giobbesco e poco paziente, usa le icastiche versioni di Guido Ceronetti, con tutta quella loro atmosfera “gnostica”. Linguisticamente dimentica se stesso. Dimentica la scrittura del Male oscuro (benché di «oscuro male» si dica a proposito di Giuda), ne rischia una nuova. Tersa, limpida, ferma. I cui abissi sono tutti interni, da scoprire tra le parole-travi. Vedere cosa c’è sotto la pavimentazione.
*
Vi è poi un’altra fonte, taciuta, mai detta, forse solo inconscia. È quella del vangelo copto di Tommaso, tra le più succulente scoperte di Nag Hammadi nel 1945, redatto come lo conosciamo tra il 100 e il 120 dopo Cristo, ma che serve da puntello all’ipotesi della “Q”, cioè una tradizione letteraria che starebbe a mezzo tra le raccolte disparate dei “detti” del Cristo e la fusione di questi in una cornice narrativa (i vangeli così come a noi noti).
Il Vangelo di Tommaso, che raccoglie appunto una serie di “parole” pronunciate dal Cristo, ha parecchi punti di contatto con i sinottici. Solo, verticalizza i valori, esalta, complica, sparge sensi imprevisti. Si mette nella schiera di esempi “sinistri” o gnostici a cui s’aggrappa Berto. A volte letteralmente (come, ad esempio, in questi casi: «L’Unto è, ma non può rivelarsi se non completato da tutti»; «il principio vitale che Tu impersoni è, a conti fatti, un principio di morte: l’unica vita è la vita eterna»). Il detto 21 del Vangelo di Tommaso ci aiuta, incrociando le fonti, a comprendere il Giuda di Berto: «Maria domandò a Gesù: “A chi assomigliano i tuoi discepoli?”. Egli rispose: “Sono simili a bambini che si intrattengono in un campo che non appartiene a loro”». In questo senso Giuda, il più scaltro, il più furbo, è colui che sa bene cosa accade in quel campo. È l’unico che comprende Gesù.
Storia antica quella del Giuda come più fedele dei discepoli. È lui infatti, assieme a Pietro, il coprotagonista di maggior spicco nella vicenda evangelica. Se Giuda è ottusamente fedele, cioè asseconda la sua sorte senza domande e per questo si perde, valica la tenebra e si uccide, come racconta il solo Matteo, Pietro, che è sia colui che riconosce prima di tutti la verità di Gesù il Cristo ma anche colui che lo tradisce non una ma tre volte, sia il fedele intransigente sia l’uomo titubante, è figura del cristiano, cioè di quell’essere che ha la capacità di “convertirsi”, di modificare il proprio cammino.
*
Giuda, il più fedele dei Discepoli. «Lui lo sapeva che la sua gloria sarebbe stata dovuta anche a quel che io pagavo in ignominia e dannazione eterna», scrive Berto. Lo scrittore, che fa a pugni specialmente con il Vangelo di Giovanni, non ignora quei tre passaggi nevralgici in cui si compie il rapporto tra Giuda e Gesù. Da quando Gesù lo riconosce tra i Dodici, ne dice sia la malvagità sia l’incontestabile importanza nel suo progetto di gloria (Gv 6, 70-71: «“Non ho forse scelto io voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!”. Egli parlava di Giuda, figlio di Simone Iscariota: questi infatti stava per tradirlo, uno dei Dodici»), alla vicenda di Betania (Gv 12), in cui Giuda si lamenta che dell’unguento prezioso a ricavare denaro per gli sfortunati venga utilizzato per lustrare i piedi del Cristo. Se l’episodio prepara la sepoltura del Figlio di Dio, vero è che Giuda, secondo lettura alternativa, potrebbe aver ritenuto l’atto della lavanda di scarsa importanza: che bisogno c’è di predisporre al sepolcro un corpo che sarebbe risorto? Giuda, l’unico credente. Il culmine del rapporto si ha in Gv 13, 27-31 (l’unico che ricordi questo evento), quando Gesù, durante l’Ultima Cena, dà a Giuda il compito di “venderlo” affinché venga catturato e crocefisso: «Quand’egli fu uscito, Gesù disse: “Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui”». Subito dopo segue, non casualmente, la rivelazione del triplice tradimento di Pietro.
Appena prima eravamo stati avvisati che, mangiando il boccone offertogli da Gesù «satana entrò in lui» (Gv 13, 27), penetrò nell’animo di Giuda. Il pezzo di pane lo dona il Figlio di Dio. Uno spicchio di tenebra, un’azione di satana (che in qualche modo compie la gloria del Cristo) è necessaria al compimento degli eventi. E ci vuole un uomo abbastanza netto e scaltro (e fedele) per fare da capro espiatorio. A un certo momento Berto fa dire al suo Giuda: «Io sono la tenebra, Gesù».
*
Carlo Bo, in uno scritto piuttosto algido, paragonava la fatica di Berto alla vicenda di Renan, che in verità con il Nostro cozza pochissimo, poi scrisse «ci sembra di capire che ancora una volta si trovi in questo libro ribadito il concetto che il Vangelo è un libro senza possibilità alcuna di applicazione, che Cristo ha predicato una verità che alla fine si dimostra illusoria e vana». Il testo è un tantino più complesso di quanto lo descrive l’illustre critico. Tanto che la speculazione attorno alla verità vera o presunta del Cristo, che corre troppo spedita negli ultimi capitoli perdendo di chiarezza e tenore, non si risolve, rimane così, aerea, eterna, antica. Berto cioè non fa che risuonare la domanda che sta al fondamento della religione cristiana, l’attimo in cui Gesù ha chiesto e continua a chiedere “Chi credete che io sia?”. Da quella risposta, o da quella titubanza dipendono le sorti di un rapporto privilegiato e personale con il Padre.
*
In quella domanda, travisando il fatto e leggendolo con altra lente, si legge la vicenda di Berto. E anche un’idea della scrittura. Lo scrittore cioè, con una ottusità allo stesso tempo tremenda e illustre, tradisce gli uomini e se stesso per fare la volontà, la gloria, della letteratura. In questa fosca strada, senza ritorno, radicale, assoluta, si dissipa, si scinde, muore. In una intervista a Sergio Valentini per Il Giorno, del 3 aprile 1969, Berto disse che i letterati gl’incutevano terrore («I letterati mi fanno paura»). Irriducibile fino all’osso, Giuseppe sapeva che la letteratura non è affare da letterati, che questi, piuttosto, la vampirizzano, la tradiscono. Berto, nella buona e nella mala sorte, era un Giuda. (d.b.)
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