#migrazione inversa
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silviascorcella · 11 months ago
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Rahul Mishra, Butterfly People: gli artigiani sono farfalle che ricamano il giardino della vita
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“Vivere non è abbastanza" disse la farfalla, “uno deve avere il sole, la libertà e un piccolo fiore”: l’essenza del racconto prezioso che si dipana nella collezione Couture a/i 2020-21 Rahul Mishra la incastona qui, in queste parole che hanno la semplicità della realtà e la suggestione della fantasia. Sono, infatti, parole prese in prestito da una fiaba di Hans Christian Andersen, opera, come lo sono tutte le fiabe, di sincerità e poesia: ovvero un’alchimia narrativa creata con minuzia e dedizione generosa, per intessere nelle trame surreali composte di parole e immaginari gli insegnamenti universali che compongono la grande trama della vita vera.
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L’antica fiaba in questione s’intitola “il farfallone”: narra le vicende di una farfalla che spreca la giovinezza sua e della primavera rigogliosa scartando la bellezza peculiare di ogni fiore in virtù della ricerca di una egoistica perfezione, finché giunto l’inverno che spegne la natura e con essa anche la gioventù, il farfallone si ritrova invecchiato e imprigionato nel compromesso di sopravvivere chiuso dentro una casa, appuntato con uno spillo dentro una teca, privato della bellezza essenziale della vita di cui ha scoperto e rimpianto ormai troppo tardi il sentimento.
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Ecco, come fosse un gesto di ribaltamento al contempo romantico ed eroico, Rahul Mishra ha creato la collezione Couture a/i 2020  su quello che il farfallone della fiaba aveva dato per scontato: il valore vitale della bellezza della natura che va difesa e celebrata. Ma anche, e soprattutto il valore etico della condivisione umana che tale bellezza la crea ogni giorno nell’armonia del lavoro da cui sbocciano i capolavori couture, così come le farfalle nutrono ogni giorno la linfa vitale della natura.
La fiaba contemporanea narrata da Rahul Mishra s’intitola per l’appunto “Butterfly People”: ed è un gesto di celebrazione e ringraziamento alle “sue” farfalle, ovvero i Karigar, gli artigiani ricamatori e sarti indiani che con le loro mani abili e le conoscenze sapienti danno forma e vita alla meraviglia delle creazioni. Ed è anche un gesto di profonda consapevolezza che dalla dimensione personale abbraccia con gentilezza anche quella universale: la forza dell’ispirazione e del messaggio della collezione si rinsaldano con la violenza della pandemia che si è abbattuta in India infliggendo al suo popolo una crisi devastante, in cui migliaia di lavoratori migranti si sono ritrovati chiusi in casa, privati del lavoro, a lottare per sopravvivere. Rahul Mishra, infatti, che sin dall’inizio ha fondato l’essenza del  brand sull’etica della “migrazione inversa”, cioè valorizzando il lavoro artigiano dislocato nei villaggi indiani d’appartenenza anziché convogliare gli artigiani in massa nella capitale dove sono gli headquarter, non solo è riuscito a realizzare la collezione Couture a/i 2020 ma l’ha trasformata in un diario interiore, e al contempo in una grande metafora di umanità che in ogni ricamo narra e celebra l’importanza della partecipazione collettiva alla co-creazione della vita.
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Un’allegoria dell’animo che si dipana sui tessuti diafani: nel cuore dell’immaginario c’è il giardino, quello che in natura riprende a fiorire rigoglioso grazie al lock-down che blocca l’intervento infestante dell’uomo, e quello metaforico della couture, in cui Rahul Mishra è il couturier-giardiniere che solo grazie alla sinergia con i suoi artigiani-farfalla può ricreare a distanza l’ecosistema dell’atelier e realizzare la meraviglia rigogliosa delle creazioni, facendo fronte al lock-down con un’azione collettiva in cui in brevissimo tempo son stati recuperati ricami e stoffe dall’archivio di collezioni precedenti, e in sei settimane son stati plasmati gli abiti, una paillette alla volta, una perlina alla volta.
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Una storia ricamata che narra il ritorno alla vita: le gru e gli uccelli migratori che sono tornati a volare nei cieli di Delhi che nel frattempo si sono tinti di sfumature di un blu mai stato così intenso, la leggerezza poetica delle libellule che sono tornate a brillare sui fiumi, la magnificenza dei fiori di loto che celebrano la rinascita di una vita purificata, i fondali marini con le barriere coralline guarite dall’inquinamento e dallo sfruttamento.
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Una storia che con i ricami sartoriali narra l’importanza vitale del lavoro che nobilita l’animo degli artigiani eccellenti che la allestiscono: artigiani che di solito esprimono la propria preziosa impressione sulle opere attraverso le espressioni delle labbra, ma che ora per via delle mascherine hanno trasferito la loro validazione nell’espressione degli occhi, sfumature di linguaggio che Rahul Mishra per primo ha imparato a decodificare, un cambiamento piccolo eppur epocale che ha riportato nelle mascherine in collezione, che sembrano sculture, ma che nella bellezza racchiudono il valore del monito sociale, e nessun intento commerciale.
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La collezione Couture a/i 20-21 è stata presentata alla Paris Couture Week nella sua edizione digitale: tutte le suggestioni, e la bellezza della realizzazione delle creazioni ad opera delle Butterfly People sono narrate in un bellissimo fashion film realizzato in collaborazione con il fotografo e film-maker Hormis Anthony Tharkan.
Silvia Scorcella
{ pubblicato su Webelieveinstyle }
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tammy82sblog · 7 years ago
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Da san Nicola a Santa Claus la vera storia di Babbo Natale Come un severo vescovo proveniente dall'attuale Turchia è diventato il gioviale dispensatore di doni natalizi che cala dal Polo Nord di Brian Handwerk    Babbo Natale non è sempre stato un gioviale vecchietto vestito di rosso. Fotografia Classickstock/Corbis Il santo originale  Un'icona con l'immagine di san Nicola. Fotografia Hemis/Alamy. Vedi anche Tutto quello che c'è da sapere sul solstizio invernaleRenne per tutti Tutti i bambini lo sanno:  Babbo Natale viene dal Polo Nord, è barbuto e sovrappeso e la notte tra il 24 e il 25 dicembre porta i regali ai piccoli di tutto il mondo viaggiando su una slitta trainata da renne. Ma la storia di questo amato personaggio del folklore è lunga e affascinante quasi come la sua leggenda. Babbo Natale nasce sulle rive del Mediterraneo, si evolve nell’Europa del Nord e assume la sua forma definitiva (Santa Claus) nel Nuovo Mondo, da dove poi si ridiffonde quasi in ogni parte del globo. In principio era san Nicola, un greco nato intorno al 280 d.C. che divenne vescovo di Mira, cittadina romana del sud dell’Asia Minore, l’attuale Turchia. Nicola si guadagnò la reputazione di fiero difensore della fede cristiana in anni di persecuzioni e trascorse molti anni in prigione finché, nel 313, Costantino emanò l’Editto di Milano che autorizzava il culto. L’iconografia ha tramandato diverse sue immagini, ma nessuna somiglia troppo all’omone allegro, sovrappeso e dalla barba bianca che oggi attribuiamo a Babbo Natale. Catherine Wilkinson, un’antropologa  forense della University of Manchester, ha cercato di ricostruirne il vero aspetto basandosi sui resti umani conservati  nella cripta della Basilica di san Nicola di Bari, dove le presunte reliquie del santo furono portate nel 1087 da un gruppo di marinai e sacerdoti baresi che era andato fino a Myra per impadronirsene. Quando, negli anni Cinquanta del secolo scorso, la cripta fu restaurata, il cranio e le ossa del santo furono accuratamente misurate, fotografate e radiografate. Wilkinson ha esaminato questi dati alla luce delle moderne tecniche dell’antropologia forense, aiutandosi con un software di ricostruzione facciale e aggiungendo dettagli dedotti dalle fattezze delle popolazioni mediterranee dell’epoca. Il risultato – un uomo anziano, dalla pelle olivastra, il naso rotto forse nel corso delle persecuzioni, e barba e capelli grigi – è stato illustrato nel documentario della BBC The Real Face of Santa. Il protettore dei bambini Dopo la morte (avvenuta il 6 di dicembre di un anno imprecisato alla metà del IV secolo), la figura del santo divenne popolarissima in tutta la cristianità, grazie anche ai tanti miracoli che gli furono attribuiti. Molte professioni (ad esempio i marinai), città e intere nazioni lo adottarono e ancora lo venerano come loro patrono. Ma perché diventò anche protettore dei bambini e mitico dispensatore di doni? La ragione, spiega Gerry Bowler, storico e autore del libro Santa Claus: A Biography, sta soprattutto in due leggende che si diffusero in Europa intorno al 1200. La prima, e più nota, racconta del giovane vescovo Nicola che salva tre ragazze dalla prostituzione facendo recapitare in segreto tre sacchi d’oro al padre, che così può salvarsi dai debiti e fornire una dote alle figlie. Nella seconda, Nicola entra in una locanda il cui proprietario ha ucciso tre ragazzi, li ha fatti a pezzi e li ha messi sotto sale, servendone la carne agli ignari avventori. Nicola non si limita a scoprire il delitto, ma resuscita anche le vittime: “ecco uno dei motivi che lo resero patrono dei bambini”, commenta Bowler. Da san Nicola a Santa Claus Resta da spiegare come questo santo mediterraneo si sia spostato al Polo Nord e sia stato associato al Natale. In realtà per molti secoli il culto di san Nicola – e la tradizione di fare regali ai bambini - si continuò a celebrare il 6 dicembre, come avviene tuttora in diverse zone dell’Italia del Nord e dell'arco alpino, fino in Germania. Col tempo al santo vennero attribuite alcune caratteristiche tipiche di divinità pagane preesistenti, come il romano Saturno o il nordico Odino, anch’essi spesso rappresentati come vecchi dalla barba bianca in grado di volare. San Nicola era anche incaricato di sorvegliare i bambini perché facessero i buoni e dicessero le preghiere. Ma la Riforma protestante, a partire dal Cinquecento, abolì il culto dei santi in gran parte dell’Europa del Nord. “Era un bel problema”, commenta Bowler. “A chi far portare i doni ai bambini?”. In molti casi, risponde lo studioso, il compito fu attribuito a Gesù Bambino, e la data spostata dal 6 dicembre a Natale. “Ma il piccolo Gesù non sembra in grado di portare troppi regali, e soprattutto non può minacciare i bambini cattivi. Così gli fu spesso affiancato un aiutante più forzuto, in grado anche di mettere paura”. Nacquero così nel mondo germanico alcune figure a metà tra il folletto e il demone. Alcune, come i Krampus, servono da aiutanti dello stesso san Nicola; in altre il ricordo del santo sopravvive nel nome, come Ru-klaus (Nicola il Rozzo), Aschenklas (Nicola di cenere) o Pelznickel (Nicola il Peloso). Erano loro a garantire che i bambini facessero i buoni, minacciando punizioni come frustate o rapimenti. Per quanto possa sembrare strano, anche da questi personaggi nasce la figura dell’allegro vecchietto in slitta. San Nicola in America Gli immigrati nordeuropei portarono con sé queste leggende quando fondarono le prime colonie nel Nuovo Mondo. Quelli olandesi, rimasti affezionati a san Nicola, diffusero il suo nome, "Sinterklaas" Ma nell’America delle origini il Natale era molto diverso da come lo consideriamo oggi. Nel puritano New England era del tutto snobbato, mentre altrove era diventato una specie di festa pagana dedicata soprattutto al massiccio consumo di alcol. “Era così anche in Inghilterra”, spiega Bowler. “E non c’era nessun magico dispensatore di doni”. Poi, nei primi decenni dell’Ottocento, diversi poeti e scrittori cominciarono a impegnarsi per trasformare il Natale in una festa di famiglia, recuperando anche la leggenda di san Nicola. Già in un libro del 1809, Washington Irving immaginò un Nicola che passava sui tetti con il suo carro volante portando regali ai bambini buoni; poi fu la volta di un libretto anonimo in versi, The Children’s Friend, con la prima vera apparizione di Santa Claus, associato al Natale “ma privato di qualsiasi caratteristica religiosa, e vestito nelle pellicce tipiche dei buffi portatori di doni germanici”, spiega Bowler. Questo Santa porta doni ma infligge anche punizioni ai bambini cattivi, e il suo carro è trainato da una sola renna. Le renne diventano otto e il carro diventa una slitta nella poesia A Visit From St. Nicholas, scritta nel 1822 da Clement Clark Moore per i suoi figli ma diventata subito “virale”. Per molti decenni Santa Claus viene rappresentato con varie fattezze e con vestiti di varie forme e colori. Solo verso la fine del secolo, grazie soprattutto alle illustrazioni di Thomas Nast, grande disegnatore e vignettista politico, si impone la versione “standard": un adulto corpulento, vestito di rosso con i bordi di pelliccia bianca, che parte dal Polo Nord con la sua slitta trainata da renne e sta attento a come si comportano i bambini. Ritorno in Europa Una volta standardizzata (grazie anche alle pubblicità della Coca-Cola, nota del trad. it) la figura di Santa Claus torna in Europa in una sorta di migrazione inversa, adottando nomi come Père Noel, Father Christmas o Babbo Natale e sostituendo un po’ ovunque i vecchi portatori di doni. A diffonderla sono anche i soldati americani sbarcati durante la Seconda mondiale, e l’allegro grassone finisce per simboleggiare la generosità degli USA nella ricostruzione dell’Europa occidentale. Naturalmente, c'è anche chi nel Babbo Natale di origine yankee vede nient'altro che il simbolo della deriva consumista del Natale. Altri lo rifiutano o lo snobbano semplicemente in nome della tradizione, come i non pochi italiani ancora affezionati a santa Lucia, alla Befana o al vecchio, originale san Nicola.
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charmingsociology · 8 years ago
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Dalla valigia di cartone al web: il movimento inverso delle generazioni migranti
Torniamo a proporvi alcuni spunti tratti dalle nostre interviste migranti agli italiani che vivono in Svizzera. La nostra prima curiosità è quella di definire e descrivere le caratteristiche delle tante e per certi aspetti “nuove” mobilità italiane oltre confine. Il fatto sociale è un ritorno numerico importante di cittadini italiani che si trasferiscono in Svizzera per vivere e lavorare. Dopo un periodo di relativa pausa (dalla metà degli anni ‘70 ai primi anni del 2000), la storica comunità italiana è ripresa a crescere in modo costante. Ad arrivare sono persone con profili molto diversi tra loro per età, professione, motivazione dello spostamento, obiettivi e modi di vivere da stranieri all’estero. Chiaramente uno dei motivi di questi nuovi arrivi è la consolidata crisi economica in Europa e in Italia in particolare. Persone che lavoravano stabilmente, soprattutto dal Sud della penisola, hanno perso in lavoro oppure si sono rese conto dell’impossibilità di un avanzamento di carriera o di ottenere condizioni di lavoro migliori. Chi ha studiato anche a lungo, cosa che adesso succede con più frequenza di cinquant’anni fa, si ritrova spesso con una laurea in mano ma poche conoscenze spendibili nel mondo del lavoro, saturo e occupato dalle generazioni precedenti. Il risultato è che queste persone decidono di spostarsi. Non sono in fuga come i rifugiati di guerra e non sono più cervelli di quanto lo siano questi ultimi. Sono persone che hanno la capacità di spostarsi e che grazie allo strabiliante sviluppo dei mezzi di comunicazione digitale degli ultimi venti anni e dei mezzi di trasporto, possono farlo in modo più semplice, economico, veloce, consapevole e informato di qualsiasi altro periodo precedente nella storia dell’umanità. In Svizzera la storia degli italiani è resa ancora più intensa e interessante da alcune peculiarità. La migrazione storica italiana in territorio elvetico (dove gli italiani arrivarono praticamente per primi già dalla fine dell’800 ma in massa a metà del ‘900) rende il percorso degli italiani che arrivano adesso diverso. Non ci muoviamo in un vuoto storico e sociale ma ci portiamo appresso rappresentazioni, storie, stereotipi, traguardi che ci collegano ad alcuni gruppi sociali di cui facciamo parte. In questo caso, quello degli italiani in Svizzera. La ricerca racconta come è cambiato il vecchio migrare nella nostra attuale epoca globale e digitalizzata senza dimenticare l’apporto e la storia di chi si è spostato quando farlo era molto più faticoso e rischioso. Nella storia di Maria, che qui vi proponiamo, la migrazione con la valigia di cartone è legata a quella attuale dalla storia familiare (come spesso capita). Cinquant’anni dopo, la storia si ripete, e si ribalta, in un certo senso. 
Maria è in Svizzera, a Würenlos (AG) da un anno e mezzo. Ma ci era già stata sedici anni fa, per qualche tempo. Il rapporto di Maria con la Svizzera, in realtà, parte molto prima. Probabilmente da quando, a soli quattordici anni si innamora di quello che diventerà suo marito. 
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Conosciuto nel loro paese di origine, San Pietro a Maida, in provincia di Catanzaro, in Calabria, quel ragazzo di qualche anno più grande di lei è nato in Svizzera tedesca, nei dintorni di Zurigo dove il padre si era trasferito con la madre venti anni prima, negli anni ‘50. Come tanti italiani di allora, ha lavorato costantemente come operaio e risparmiato i soldi per comprare casa in Italia dov’è puntualmente tornato nel 1975 quando suo figlio maschio aveva appena tre mesi. 
lui era arrivato con la valigia di cartone alla frontiera e una cosa che mi ha raccontato e che mi è sempre rimasta in testa è che là, a Chiasso, gli hanno guardato i denti per capire se stava bene ... Ha vissuto qua, ha costruito casa là (in Calabria)  e quando sono nati i bimbi è tornato”
In Svizzera è rimasta una parte di famiglia, cognati di Maria e proprio grazie ai contatti con loro, il marito di Maria torna a lavorare in Svizzera dopo essersi diplomato, come elettrotecnico, e aver già maturato qualche anno di esperienza prima nel Nord Italia e poi in Germania. Quando si sposano, nel 2000, Maria raggiunge il marito e con lui vive per tre anni a  Regensdorf  (ZH). Nei primi anni, però, la coppia non riesce ad avere figli e la decisione è quella di tornare in Calabria
“non riuscivo a rimanere incinta e giù avevamo la casa e la terra, avevamo gli olivi allora ho detto a mio marito torniamocene laggiù”
Ma l’odore del mare e il sole del Sud ha le sue conseguenze positive. Appena tornati in Italia, i due giovani sposi coronano il sogno di sempre e nascono i loro due figli a distanza di pochi anni. Come la generazione dei loro padri, anche per Maria e suo marito la decisione di muoversi è dettata prima di tutto da quello che si pensa sia meglio per la prole. Solo, che il viaggio è nella direzione inversa. 
“siamo tornati qua in primis per i miei figli, sono due maschietti, qua si trovano bene, hanno prospettive, possono avere un futuro, parlano già tedesco, la mamma invece no, io per niente. Ora è un anno e mezzo che siamo qua. Il più grande ha dodici anni e il più piccolo otto.  Il grande ha preso la licenza elementare in Italia e poi l’ho portato qua, l’altro faceva la seconda e certo portarli da un piccolissimo paese della calabria dove conosci tutti a dove non conosci nessuno, un po’ di paura ce l’hai e il primo giorno di scuola io ho pianto per loro perché soprattutto il grande mi stringeva forte la mano mi diceva che aveva paura che non capiva niente col tedesco, quando sono andato a prenderlo mi ha detto “mamma, è bellissimo qua”. Adesso se per scherzo dico ai miei figli  “dai ce ne torniamo giù, mi dicono no mamma se vuoi te ne torni giù da sola”.  Se devo dirti che sono felicissima di stare qua, no, non te lo direi, non per me ma per loro si per i miei figli sono molto felice, hanno opportunità, a scuola organizzano tante cose invece in Calabria in cinque anni mio figlio non ha mai fatto una gita a momenti dovevamo portare anche la carta igienica a scuola, così io sono felice di vedere loro che sono felici”
A ben vedere, anche la scelta del “nonno” di tornare in Italia era motivata dalla nascita dei bambini. Negli anni ‘70 in Italia si respirava aria di possibilità, si era appena usciti dal miracolo economico Italiano e si guardava  con speranza e ottimismo al futuro. Il sogno dei “vecchi migranti” (in questo diversi da i nuovi viaggiatori di adesso) era il ritorno a casa, in una casa comoda, grande, dove i figli potessero crescere e costruire nel loro paese il proprio futuro. L’Italia era il posto dove tornare e identificarsi. La migrazione era di sola andata o con un ritorno a lunghissimo termine, un ritorno che rappresentava un sogno, l’obiettivo di una vita. Non c’era internet e nemmeno la televisione satellitare, non si comunicava in tempo reale con chi era rimasto altrove, non arrivavano ogni giorno notizie interattive e aggiornate su tutti i luoghi più lontani al mondo, il mondo stesso era più piccolo. Non c’erano le low cost, non c’era il prosciutto e la mozzarella al supermercato, era un viaggio diverso in un paese ancora per certi versi ostile. Ma le motivazioni alla base delle grandi decisioni erano le stesse: il bene dei figli. Solo, che adesso questo “valore aggiunto” è la capacità di muoversi e di spostarsi. Maria fa felicemente sacrifici per l’educazione dei figli che possono studiare le lingue in un sistema scolastico che ha le sue pecche ma che è più ricco di quello italiano e che prepara i suoi studenti ad un mondo del lavoro competitivo ma vivo e vegeto. E questo basta. La scelta del nonno, emigrato con la valigia di cartone di tornarsene in Italia è vista in retrospettiva con un po' di rimpianto ma anche come un monito, una lezione, un’esperienza
Ha vissuto qua (in Svizzera) ha costruito casa là (in Calabria) e quando sono nati i bimbi è tornato…ora la figlia e il figlio sono tornati in Svizzera e pure e un’altra si è spostata in un altro paese e lui dice ora ve ne siete andati tutti e quella grande casa è vuota,  adesso dice che doveva restare in svizzera, 41 anni fa! e anche per questo io non penso mai ai miei figli laggiù (in Italia), se vorranno ci torneranno per scelta quando saranno grandi
In questo piccolo riassunto della nostra intervista migrante ci piace lasciare questo spunto di riflessione: come cambiano gli spostamenti e le traiettorie biografiche alla luce del cambiamento dei tempi storici e sociali. Le motivazioni individuali possono essere diverse, tante quante sono le persone e sta al sociologo ricostruirle. Tuttavia, per quanto personali, le nostre scelte avvengono in un contesto sociale che è strutturato in modi diversi a seconda delle contingenze storiche ed economiche. La stessa motivazione può avere risultato “mobile” opposto, date le mutate condizioni sociali. 
Vi lasciamo con poche righe scritte da Maria per la nostra ricerca e per la nostra pagine, invitandovi a interagire con noi e ad usare internet in modo attivo e partecipato. La ricerca digitale si fa democratica, se ci aiutate. 
Mi chiamo Maria ho 36 anni,sono sposata da 16 anni,ho due bambini a dir poco meravigliosi,vengo dalla Regione più bella che esista al mondo la mia amatissima Calabria,terra di sole,mare e calore umano,dove purtroppo manca una cosa importantissima il "futuro" lo metto tra le virgolette perché è un tema che ancora oggi fa male,la mia Regione è dimenticata dal mondo sul fattore lavorativo,è pieno di ragazzi che non riescono ad abbandonare le proprie origini,io l ho fatto con tanto dolore,e ancora oggi sto male al pensiero di stare 1500 km lontana dalla mia terra amata ma tanto sofferta. Lavoravo al Call center da 8 anni,ma poi è arrivato il declino dell’azienda,e quindi la maggior parte licenziati. L’ unica soluzione era di preparare le valige e andare verso un futuro migliore,non per me ma per i miei figli sicuramente: in Calabria non avrebbero avuto futuro e quindi un domani mi avrebbero lasciata per andare al nord a studiare e sperare di trovare qualche lavoro per mantenersi,per me la Svizzera non è "il paese dei balocchi" che tutti pensano,la Svizzera è frenetica,la Svizzera è lavoro casa,casa lavoro...ci vorrebbe un pó di quel sole calabrese,e poi diventerebbe uno spettacolo.Della mia scelta a volte sono un pó titubante,ma basta pensare e guardare i miei figli che tutto passa,il mio sogno è quello che loro troveranno un futuro pieno di soddisfazione e gioia.
Dalla Valigia di cartone al web ringrazia il tempo che Maria ci ha concesso e si augura che questi piccoli italiani diventino cittadini del mondo con entusiasmo e passione. 
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