#meschite
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LEGNO E AFFUMICATURA FANNO IL BBQ
Un milione di anni fa l’Homo erectus iniziava a dominare il fuoco e riteniamo che circa ottocentomila anni or sono alcune specie di ominidi cominciarono ad usarlo per abbrustolire carni e fare il primo barbecue, un rito che concludeva la battuta di caccia dei nostri antichi antenati. Ancora oggi il barbecue è in effetti una sorta di rituale, maschile soprattutto, e la bella stagione è il momento magico per compierlo in un parco, in giardino o in cortile, su una terrazza o un terrazzino. Una delle principali differenze tra la classica grigliata ed il barbecue è la presenza di quell’aroma impartito volontariamente al cibo con la tecnica dell’affumicatura, utilizzando apposito legno. L’affumicatura dona al cibo un sapore ed un aroma non riproducibile in alcun altro modo in cucina e ogni legno lo fa in maniera differente. L’hickory è il “principe” dei legni da affumicatura ed è il legno ricavato da botti di whiskey Jack Daniel’s. Altri legni utlizzati sono i legni di quercia, olivo, acero, faggio, ontano, melo, ciliegio, arancio, pero e pesco, pecan, mesquite.
Diverse intensità di affumicatura Per un’affumicatura leggera indicata per carni delicate come pesce e pollame, le verdure e formaggi si utilizzano legni di ciliegio, melo oppure ontano. Per un’affumicatura media con un aroma più deciso e persistente — ideale per carni di manzo, maiale e pollame —, sono indicati legni di acero, pecan o quercia. Per un’affumicatura intensa il mesquite è il legno più indicato, anche se di non facile dosaggio, così come il legno hickory, da usare con moderazione.
Fonte: “Legno e affumicatura fanno il barbecue” di Giovanni Ballarini, Eurocarni 8/23
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La Divina Commedia • Inferno • Canto VIII
Io dico, seguitando, ch’assai prima che noi fossimo al piè de l’alta torre, li occhi nostri n’andar suso a la cima
per due fiammette che i vedemmo porre, e un’altra da lungi render cenno, tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre.
E io mi volsi al mar di tutto ’l senno; dissi: «Questo che dice? e che risponde quell’ altro foco? e chi son quei che ’l fenno?».
Ed elli a me: «Su per le sucide onde già scorgere puoi quello che s’aspetta, se ’l fummo del pantan nol ti nasconde».
Corda non pinse mai da sé saetta che sì corresse via per l’aere snella, com’ io vidi una nave piccioletta
venir per l’acqua verso noi in quella, sotto ’l governo d’un sol galeoto, che gridava: «Or se’ giunta, anima fella!».
«Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto», disse lo mio segnore, «a questa volta: più non ci avrai che sol passando il loto».
Qual è colui che grande inganno ascolta che li sia fatto, e poi se ne rammarca, fecesi Flegïàs ne l’ira accolta.
Lo duca mio discese ne la barca, e poi mi fece intrare appresso lui; e sol quand’ io fui dentro parve carca.
Tosto che ’l duca e io nel legno fui, segando se ne va l’antica prora de l’acqua più che non suol con altrui.
Mentre noi corravam la morta gora, dinanzi mi si fece un pien di fango, e disse: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?».
E io a lui: «S’i’ vegno, non rimango; ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?». Rispuose: «Vedi che son un che piango».
E io a lui: «Con piangere e con lutto, spirito maladetto, ti rimani; ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto».
Allor distese al legno ambo le mani; per che ’l maestro accorto lo sospinse, dicendo: «Via costà con li altri cani!».
Lo collo poi con le braccia mi cinse; basciommi ’l volto e disse: «Alma sdegnosa, benedetta colei che ’n te s’incinse!
Quei fu al mondo persona orgogliosa; bontà non è che sua memoria fregi: così s’è l’ombra sua qui furïosa.
Quanti si tegnon or là sù gran regi che qui staranno come porci in brago, di sé lasciando orribili dispregi!».
E io: «Maestro, molto sarei vago di vederlo attuffare in questa broda prima che noi uscissimo del lago».
Ed elli a me: «Avante che la proda ti si lasci veder, tu sarai sazio: di tal disïo convien che tu goda».
Dopo ciò poco vid’ io quello strazio far di costui a le fangose genti, che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.
Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»; e ’l fiorentino spirito bizzarro in sé medesmo si volvea co’ denti.
Quivi il lasciammo, che più non ne narro; ma ne l’orecchie mi percosse un duolo, per ch’io avante l’occhio intento sbarro.
Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo, s’appressa la città c’ha nome Dite, coi gravi cittadin, col grande stuolo».
E io: «Maestro, già le sue meschite là entro certe ne la valle cerno, vermiglie come se di foco uscite
fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno ch’entro l’affoca le dimostra rosse, come tu vedi in questo basso inferno».
Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse che vallan quella terra sconsolata: le mura mi parean che ferro fosse.
Non sanza prima far grande aggirata, venimmo in parte dove il nocchier forte «Usciteci», gridò: «qui è l’intrata».
Io vidi più di mille in su le porte da ciel piovuti, che stizzosamente dicean: «Chi è costui che sanza morte
va per lo regno de la morta gente?». E ’l savio mio maestro fece segno di voler lor parlar segretamente.
Allor chiusero un poco il gran disdegno e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada che sì ardito intrò per questo regno.
Sol si ritorni per la folle strada: pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai, che li ha’ iscorta sì buia contrada».
Pensa, lettor, se io mi sconfortai nel suon de le parole maladette, ché non credetti ritornarci mai.
«O caro duca mio, che più di sette volte m’hai sicurtà renduta e tratto d’alto periglio che ’ncontra mi stette,
non mi lasciar», diss’ io, «così disfatto; e se ’l passar più oltre ci è negato, ritroviam l’orme nostre insieme ratto».
E quel segnor che lì m’avea menato, mi disse: «Non temer; ché ’l nostro passo non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato.
Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso conforta e ciba di speranza buona, ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso».
Così sen va, e quivi m’abbandona lo dolce padre, e io rimagno in forse, che sì e no nel capo mi tenciona.
Udir non potti quello ch’a lor porse; ma ei non stette là con essi guari, che ciascun dentro a pruova si ricorse.
Chiuser le porte que’ nostri avversari nel petto al mio segnor, che fuor rimase e rivolsesi a me con passi rari.
Li occhi a la terra e le ciglia avea rase d’ogne baldanza, e dicea ne’ sospiri: «Chi m’ha negate le dolenti case!».
E a me disse: «Tu, perch’ io m’adiri, non sbigottir, ch’io vincerò la prova, qual ch’a la difension dentro s’aggiri.
Questa lor tracotanza non è nova; ché già l’usaro a men segreta porta, la qual sanza serrame ancor si trova.
Sovr’ essa vedestù la scritta morta: e già di qua da lei discende l’erta, passando per li cerchi sanza scorta,
tal che per lui ne fia la terra aperta».
— Dante Alighieri
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LA DIVINA COMMEDIA
Inferno • Canto VIII
Io dico, seguitando, ch’assai prima che noi fossimo al piè de l’alta torre, li occhi nostri n’andar suso a la cima
per due fiammette che i vedemmo porre, e un’altra da lungi render cenno, tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre.
E io mi volsi al mar di tutto ’l senno; dissi: «Questo che dice? e che risponde quell’ altro foco? e chi son quei che ’l fenno?».
Ed elli a me: «Su per le sucide onde già scorgere puoi quello che s’aspetta, se ’l fummo del pantan nol ti nasconde».
Corda non pinse mai da sé saetta che sì corresse via per l’aere snella, com’ io vidi una nave piccioletta
venir per l’acqua verso noi in quella, sotto ’l governo d’un sol galeoto, che gridava: «Or se’ giunta, anima fella!».
«Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto», disse lo mio segnore, «a questa volta: più non ci avrai che sol passando il loto».
Qual è colui che grande inganno ascolta che li sia fatto, e poi se ne rammarca, fecesi Flegïàs ne l’ira accolta.
Lo duca mio discese ne la barca, e poi mi fece intrare appresso lui; e sol quand’ io fui dentro parve carca.
Tosto che ’l duca e io nel legno fui, segando se ne va l’antica prora de l’acqua più che non suol con altrui.
Mentre noi corravam la morta gora, dinanzi mi si fece un pien di fango, e disse: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?».
E io a lui: «S’i’ vegno, non rimango; ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?». Rispuose: «Vedi che son un che piango».
E io a lui: «Con piangere e con lutto, spirito maladetto, ti rimani; ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto».
Allor distese al legno ambo le mani; per che ’l maestro accorto lo sospinse, dicendo: «Via costà con li altri cani!».
Lo collo poi con le braccia mi cinse; basciommi ’l volto e disse: «Alma sdegnosa, benedetta colei che ’n te s’incinse!
Quei fu al mondo persona orgogliosa; bontà non è che sua memoria fregi: così s’è l’ombra sua qui furïosa.
Quanti si tegnon or là sù gran regi che qui staranno come porci in brago, di sé lasciando orribili dispregi!».
E io: «Maestro, molto sarei vago di vederlo attuffare in questa broda prima che noi uscissimo del lago».
Ed elli a me: «Avante che la proda ti si lasci veder, tu sarai sazio: di tal disïo convien che tu goda».
Dopo ciò poco vid’ io quello strazio far di costui a le fangose genti, che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.
Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»; e ’l fiorentino spirito bizzarro in sé medesmo si volvea co’ denti.
Quivi il lasciammo, che più non ne narro; ma ne l’orecchie mi percosse un duolo, per ch’io avante l’occhio intento sbarro.
Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo, s’appressa la città c’ha nome Dite, coi gravi cittadin, col grande stuolo».
E io: «Maestro, già le sue meschite là entro certe ne la valle cerno, vermiglie come se di foco uscite
fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno ch’entro l’affoca le dimostra rosse, come tu vedi in questo basso inferno».
Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse che vallan quella terra sconsolata: le mura mi parean che ferro fosse.
Non sanza prima far grande aggirata, venimmo in parte dove il nocchier forte «Usciteci», gridò: «qui è l’intrata».
Io vidi più di mille in su le porte da ciel piovuti, che stizzosamente dicean: «Chi è costui che sanza morte
va per lo regno de la morta gente?». E ’l savio mio maestro fece segno di voler lor parlar segretamente.
Allor chiusero un poco il gran disdegno e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada che sì ardito intrò per questo regno.
Sol si ritorni per la folle strada: pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai, che li ha’ iscorta sì buia contrada».
Pensa, lettor, se io mi sconfortai nel suon de le parole maladette, ché non credetti ritornarci mai.
«O caro duca mio, che più di sette volte m’hai sicurtà renduta e tratto d’alto periglio che ’ncontra mi stette,
non mi lasciar», diss’ io, «così disfatto; e se ’l passar più oltre ci è negato, ritroviam l’orme nostre insieme ratto».
E quel segnor che lì m’avea menato, mi disse: «Non temer; ché ’l nostro passo non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato.
Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso conforta e ciba di speranza buona, ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso».
Così sen va, e quivi m’abbandona lo dolce padre, e io rimagno in forse, che sì e no nel capo mi tenciona.
Udir non potti quello ch’a lor porse; ma ei non stette là con essi guari, che ciascun dentro a pruova si ricorse.
Chiuser le porte que’ nostri avversari nel petto al mio segnor, che fuor rimase e rivolsesi a me con passi rari.
Li occhi a la terra e le ciglia avea rase d’ogne baldanza, e dicea ne’ sospiri: «Chi m’ha negate le dolenti case!».
E a me disse: «Tu, perch’ io m’adiri, non sbigottir, ch’io vincerò la prova, qual ch’a la difension dentro s’aggiri.
Questa lor tracotanza non è nova; ché già l’usaro a men segreta porta, la qual sanza serrame ancor si trova.
Sovr’ essa vedestù la scritta morta: e già di qua da lei discende l’erta, passando per li cerchi sanza scorta,
tal che per lui ne fia la terra aperta».
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