#manipolazione scientifica
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Fiori per Algernon, romanzo di Daniel Keyes, racconta la storia di Charlie Gordon, un uomo con disabilità intellettiva che, sottoposto a un intervento chirurgico per aumentare il suo QI, vive un'esperienza trasformativa.
La narrazione avviene attraverso il suo diario, evidenziando le sfide dell'emarginazione e il desiderio di appartenenza.
Il romanzo esplora anche i rischi della scienza moderna e le emozioni umane.
La trasformazione di Charlie Gordon in Fiori per Algernon da persona con disabilità a genio solleva interrogativi sull'identità e il valore dell'intelligenza: lo scrittore esplora la solitudine di Charlie, evidenziando il suo desiderio di connessione umana; affronta le implicazioni morali delle manipolazioni scientifiche e il rischio di perdere la propria umanità.
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Inquietanti esperimenti scientifici: un racconto di scienza e orrore
Gli inquietanti esperimenti scientifici hanno avuto un ruolo fondamentale nel progresso della conoscenza umana, permettendo scoperte che hanno cambiato per sempre il nostro modo di vivere. La ricerca, in molte delle sue forme, è stata il motore che ha spinto l’umanità verso l’innovazione. Tuttavia, dietro a molti dei traguardi raggiunti, si nascondono storie che sfidano le convenzioni morali e…
#dilemmi etici sovietici#esperimenti controversi sovietici#esperimenti di biologia avanzata#esperimenti macabri sovietici#esperimenti non etici#Esperimenti sovietici inquietanti#esperimenti su cani#esperimenti su teste viventi#esperimenti sugli animali#esperimenti sui limiti della vita#esperimenti sui primati#esperimenti sul cervello#etica della sperimentazione#Guerra Fredda e scienza#Guerra Fredda e tecnologia#innovazione chirurgica radicale#innovazione medica sovietica#limiti della medicina#macchinari di rianimazione#manipolazione biologica sovietica#manipolazione della vita#primati nei test#progresso e morale#progresso e orrore#progresso scientifico controverso#rianimazione artificiale#rianimazione artificiale avanzata#ricerca scientifica estrema#ricerche sovietiche segrete#scienza della rianimazione
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In che modo gli articoli con immagini ritoccate possono influenzare le revisioni scientifiche La scoperta di immagini ritoccate negli articoli scientifici Il comportamentista animale Otto Kalliokoski ha notato immagini identiche in uno studio scientifico che stava revisionando. Questo ha portato alla scoperta di oltre 100 articoli con immagini discutibili durante una revisione sistematica sull’umore dei topi di laboratorio. Impatto sulle revisioni scientifiche La manipolazione delle immagini compromette la base di conoscenza scientifica. I ricercatori hanno evidenziato come le immagini false abbiano influenzato i risultati della revisione, sollevando preoccupazioni sull’affidabilità della letteratura accademica. Rivelazioni preoccupanti La revisione sistematica ha esaminato la validità di un test utilizzato per valutare la ricerca di ricompense nei ratti
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Piccola storia ignobile
Una lettura sociologica della recente vicenda sanremese.
L'Italia vittima sacrificale del potere mafio-camorrista ?
Cosa dire del povero Geolier?
Un tamarro che non doveva neppure mettere piede su palco di Sanremo, in quanto non in grado di cantare nella lingua di Dante.
Amadeus, in perfetto stile mafio-siciliano, invece, usufruendo dei poteri di Direttore Artistico, decide ugualmente di farlo esibire, facendosi beffe del Regolamento del Festival che da 74 anni è per l'appunto il "FESTIVAL DELLA CANZONE ITALIANA".
Geolier quindi da autentico "raccomandato", canta un brano totalmente incomprensibile alla maggioranza del pubblico italiano. E lo fa, perchè si sono volute violare di proposito le regole di una manifestazione che da sempre rappresenta lo specchio del costume italiano.
Non contento di esibirsi nella lingua di Pino Daniele, (Pino almeno riusciva ad essere comprensibile e anzi arrivava dritto al cuore di chi lo ascoltava), il team di Geolier, vuole strafare e insiste nel voler "rap-pare" il dialetto napoletano, rendendo di fatto l'ascolto impraticabile: insomma, un vero atto di masochismo per l'utente medio italiano.
Ma gli strateghi che guidano il suo team, si mettono in testa di voler stravincere la competizione e venerdi sera schierano le truppe cammellate, vere milizie in puro "camorra's style" e pensano :
" se abbiamo i soldi per alimentare e stravolgere il televoto da casa, possiamo anche vincere a mani basse il Festival di Sanremo!"
Di qui le migliaia di sms che arrivano agli amici, e ai parenti e ai parenti degli amici degli amici" con le ferree istruzioni per validare 5 voti per ogni scheda Sim e per ogni numero telefonico.
Il contenuto degli sms sono le istruzioni per votare col Televoto: ogni numero di telefono deve corrispondere a 5 voti per Geolier, il cantante alieno che canta in una lingua extraterrestre.
Lui deve vincere! L'ordine è dato. Guai a chi non esegue!
E così in un colpo solo, migliaia di voti pervengono in modo univoco, al cantante partenopeo, che alza il suo inno surreale alla "incomunicabilità umana".
Tema nobile, per carità! Argomento già molto frequentato dagli chansonnier francesi degli anni 50 e 60.
L'alienazione e l'incomunicabilità umana simbolizzata da un canto marziano!
Perfetto!
Operazione culturale di valore!
E così, pianificando a tavolino, la truffa e la manipolazione del voto popolare, si arriva alla serata di venerdi sera 9 febbraio, quando un cantante che veleggiava oltre il quindicesimo posto nella classifica delle precedenti serate, viene issato in vetta alla classifica generale del Festival dalle proprie milizie munite di cellulari con decine e decine di SCHEDE SIM attivate appositamente per questa operazione mediatica.
Il teatro Ariston a quel punto, fiuta la truffa in corso, si alza in piedi e protesta in modo violento contro questo scippo in corso. Protesta e urla e fischia fino ad abbandonare il teatro.
È evidente ai più, infatti, che sta succedendo un colpo di mano.
C'è qualcuno che sta forzando ogni tipo di regola, contando sul fatto che utilizzando più schede Sim, il risultato finale può essere indirizzato e guidato a piacimento.
Altro che giudizio del pubblico a casa!!
Non c'è più alcuna spontaneità nell'esprimere il gradimento popolare di chi guarda Sanremo, da casa.
L'operazione è semplice: vincerà Sanremo chi ha più soldi per manipolare il Televoto.
Chi ha più soldi per comprarsi le Schede Sim ed i voti.
Chi ha più Sim. Chi ha più soldi.
Il potere dei plutocrati insomma. Una operazione dall'alto e non dal basso. Ciò di più anti-democratico possa esistere.
Vince chi muove voti artificiali e finti.
Niente più giura popolare nel gradimento dei brani, ma una operazione scientifica, metodica e pianificata in modo militaresco da tempo e a tavolino.
Per fortuna il voto complessivo del Festival è composto non solo dal Televoto da casa (manipolabile dalle truppe camorriste), ma dalla giuria delle radio e dei giornalisti.
E cosi il colpo di mano dei poteri occulti (ma nemmeno tanto occulti) viene sventato.
L'operazione tesa a far trionfare il cantante che canta in lingua aliena, naufraga e si schianta sugli scogli.
Naturalmente con grande clamore mediatico e grida di protesta dei truffatori che si sentono truffati di un risultato dato per certo!
Niente di nuovo rispetto al solito vittimismo delle periferie partenopee e campane.
Come se il Festival di Sanremo fosse stata una partita al San Paolo di Napoli (ora stadio Maradona) e il Napoli Calcio di Aurelio De Laurentis non fosse stato in grado di battere la squadra neo-promossa di turno.
Che dire?
E' una piccola storia ignobile che tuttavia ci insegna tanto sulle Istituzioni italiane e sul rispetto delle Regole in questo nostro povero paese.
Un paese sempre in bilico e a disposizione del colpo di mano dei potentati locali, un paese permeabile ai fenomeni di corruzione e alla mentalità mafiosa diffusa .
Prendiamone atto e difendiamolo ancora una volta.
Anche in vista delle proposta di stravolgere la Costituzione Italiana uscita dalla Resistenza.
Avete presente il progetto meloniano di un solo uomo(donna) a capo di tutti?
Un popolo e un solo Capo assoluto!
Ricordiamocele bene queste malsane tentazioni cui è esposto da sempre il nostro paese. La Costituzione fu posta a baluardo proprio dai padri costituenti contro ogni possibile colpo di mano autoritario e antidemocratico.
Quelli sì, Signori miei, che sapevano vedere lontano...
.
#letture sociologiche dell'attualita italiana#piccola storia ignobile#Sanremo 2024: un colpo di mano sventato
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“Viaggio nella Storia: L’Ipnosi e la Sua Influenza sulla Medicina 🕰️💊
L’ipnosi, un fenomeno intrigante che ha attraversato secoli, ha radici profonde nella storia della medicina. Esploriamo il suo affascinante percorso attraverso il tempo.
1. Antiche Radici e Magnetismo Animale
Le origini dell’ipnosi risalgono ai tempi antichi, ma fu Franz Mesmer, un medico austriaco del XVIII secolo, a portare l’attenzione su quello che chiamò il “magnetismo animale”. Mesmer sosteneva che il corpo umano fosse permeato da un fluido magnetico e che la sua manipolazione potesse curare malattie. Sebbene la sua teoria fosse discutibile, Mesmer ha introdotto il concetto di un’energia influente sulla mente e sul corpo, un tema centrale nell’ipnosi.
2. James Braid e l’Emergenza dell’Ipnosi Scientifica
Nel XIX secolo, James Braid, un medico scozzese, riconsiderò il concetto di Mesmer e lo ribattezzò “ipnosi”, derivato dal termine greco per sonno. Braid fu il primo a definire l’ipnosi come uno stato mentale specifico, dissociato dal sonno, e a esplorarne le applicazioni mediche.
3. Freud, Charcot e l’Ipnosi nell’Età Moderna
Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, inizialmente utilizzò l’ipnosi nella sua pratica terapeutica, ma alla fine sviluppò altre tecniche. Nel frattempo, Jean-Martin Charcot, un neurologo francese, contribuì allo studio dell’ipnosi nella comprensione dei disturbi neurologici. Questa era segnò una fase di crescita e riconoscimento dell’ipnosi nella comunità scientifica.
4. Ipnosi Contemporanea e Terapie Integrative
Nel XX secolo, l’ipnosi divenne sempre più riconosciuta come una pratica terapeutica legittima. Molti professionisti medici e psicologi hanno integrato l’ipnosi nei loro approcci per trattare disturbi come ansia, dolore cronico e disturbi del sonno. Oggi, l’ipnosi è spesso utilizzata come strumento complementare nella gestione del dolore, nella terapia cognitivo-comportamentale e in molte altre discipline.
In conclusione, la storia dell’ipnosi è una ricca trama di sviluppo scientifico e scoperte nell’ambito medico. Da Mesmer a oggi, l’ipnosi continua a offrire nuovi orizzonti nel trattamento di diverse condizioni, dimostrando che il potere della mente può essere un alleato prezioso nella cura della salute. 🌐🧠 #StoriaDellIpnosi #MedicinaEmente #CurareConLaMente”
#storia#storia dell’ipnosi#charcot#franz Anto e MESMER#Freud#autoipnosidcs#autoipnosi#ipnosidcs#autoipnosi dcs#dcs metodo#dr claudio saracino#benessere dcs#droga#autostima#calcio
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Metodo IBSE, facciamo riavvicinare i bambini alle scienze
Inquiry Based Science Education (IBSE) ossia educazione scientifica basata sull’investigazione è l’approccio pedagogico promosso dalla Commissione Europea ( Rapporto Rocard 2007) sviluppato per promuovere la scienza e il metodo scientifico.
Mette al centro gli studenti coinvolgendoli in modo attivo nella costruzione della conoscenza. Quello che caratterizza l’inquiry scientifico è il fatto che esso è relativo alla conoscenza e comprensione del mondo naturale e analizza il mondo che ci circonda attraverso metodi che si basano sulla raccolta e sull’uso di evidenze (metodo scientifico). È basato sull’investigazione, che stimola la formulazione di domande e azioni per risolvere problemi e capire fenomeni. DEFINIZIONE DI INQUIRY L’inquiry è un’attività multiforme che comporta fare osservazioni; porre domande; esaminare manuali e altre fonti di informazione per acquisire quello che è già noto; pianificare investigazioni; rivedere quello che già si conosce alla luce di evidenze sperimentali; usare strumenti per raccogliere, analizzare e interpretare dati; proporre risposte, spiegazioni e previsioni e comunicare risultati.
L’inquiry richiede l’individuazione di ipotesi, l’uso del pensiero logico e critico e di considerare spiegazioni alternative. CARATTERISTICHE CHIAVE DELL’IBSE Le evidenze vengono raccolte attraverso la manipolazione di materiali e l’osservazione di eventi attraverso l’utilizzo di fonti diverse di informazione (libri, internet…). I docenti svolgono il ruolo di facilitatori e guidano gli studenti verso la comprensione dei concetti scientifici e verso lo sviluppo delle competenze dell’inquiry (inquiry skills) coinvolgendoli attivamente e facendoli riflettere sulle loro esperienze. https://youtu.be/kYap39FNFv8 Perché l’ibse? 1) Negli ultimi anni molte indagini europee hanno evidenziato un sensibile calo dell'interesse dei giovani per gli studi scientifici 2)Questo preoccupa sia per lo sviluppo delle potenzialità cognitive dei ragazzi ma anche per il ruolo di principale leva economica che la Scienza ha assunto nell'attuale società della conoscenza (knowledge-based society). 3) Numerosi studi concordano nell'indicare nella qualità dell'insegnamento scolastico delle Scienze l'elemento cruciale per invertire la tendenza e la comunità di esperti di educazione scientifica ha individuato come valida pratica educativa l'Inquiry Based Science Education - IBSE le cui consolidate esperienze internazionali di implementazione si sono mostrate efficaci sia a livello di scuola primaria che secondaria.
PRINCIPI FONDAMENTALI DEL METODO IBSE Si fonda anche sulla convinzione che sia importante portare gli studenti a comprendere profondamente ciò che stanno imparando, e non semplicemente a ripetere contenuti e informazioni. Piuttosto che un superficiale processo di apprendimento finalizzato al voto, l’IBSE va in profondità e fa scoprire agli studenti che la motivazione ad apprendere deriva dalla soddisfazione di aver appreso e capito qualcosa in modo significativo. L’IBSE non prevede molte informazioni da memorizzare nell’immediato, ma è finalizzato alla costruzione graduale di significati, di idee o concetti mediante una comprensione che si fa sempre più profonda man mano che gli studenti crescono. La naturale curiosità degli studenti è, almeno in parte, un tentativo di dare senso al mondo circostante – per renderlo prevedibile – e porta alla ricerca di modelli e relazioni sia nelle loro esperienze personali che mediante l’interazione con gli altri. I ragazzi costruiscono la propria conoscenza attraverso la riflessione sull’esperienza. Nell’insegnamento il passaggio dai metodi deduttivi (generale-particolare) ai metodi basati sull’investigazione aumenta l’interesse per le scienze. L’educazione scientifica basata sull’investigazione si è dimostrata efficace sia nella scuola primaria che secondaria. Gli studi dimostrano che serve ad aumentare l’interesse e il rendimento degli alunni e a stimolare la motivazione degli insegnanti. Gli studenti sono coinvolti attivamente nella costruzione della conoscenza e se sono più interessati e coinvolti dalla disciplina o da un progetto, sarà più facile per loro costruire una conoscenza profonda-alternanza fare e riflettere. https://youtu.be/u84ZsS6niPc 4 possibili livelli di inquiry 1) Confermativo: gli studenti svolgono indagini su fatti e fenomeni noti, di cui sanno prevedere i risultati, rispondendo ad una domanda proposta dall’insegnante, corredata dal procedimento da seguire. 2) Strutturato: gli studenti svolgono indagini per rispondere ad una domanda proposta dall’insegnante, corredata dal procedimento da seguire, ma saranno gli studenti a formulare una spiegazione supportata dalle evidenze che hanno raccolto. 3) Guidato: gli studenti svolgono indagini per rispondere ad una domanda proposta dall’insegnante, individuando il procedimento da seguire, ad esempio, gli studenti sviluppano un metodo per testare la reattività di diversi metalli in soluzioni saline differenti. 4) Aperto: Nell’ inquiry aperto gli studenti svolgono indagini scegliendo la domanda di ricerca e il procedimento da seguire. 5 fasi di programmazione delle attività 1)Engagement, coinvolgimento dei ragazzi per far emergere le preconoscenze 2)Explore, lo studente fa l’esperienza diretta 3)Explain, inserire il lessico giusto e la spiegazione 4)Elaborate, approfondire e rinforzare la comprensione di ciò che hanno appreso, applicandolo in situazioni nuove 5)Evaluate, autovalutare la propria comprensione e le abilità acquisite Un modulo o parte può includere numerose investigazioni prima di raggiungere la fase “Trarre conclusioni finali”. Una sessione o una lezione di un modulo raramente, se non mai, comprende tutte le parti della fase “Progettare e condurre l’indagine scientifica”. Una sessione o una lezione non comprendono mai tutte le fasi indicate.
1)ENGAGEMENT L’attività inizia sempre con l’osservazione di un fenomeno inquadrabile tra i temi del modulo didattico, su cui gli studenti sono invitati a riflettere e a porsi domande. In questa fase gli studenti sono lasciati liberi di esprimere le proprie opinioni e osservazioni, sarà compito dell’insegnante raccogliere quelle più significative. Questa fase ha il compito di attirare l’attenzione, stimolare la curiosità, indurre nello studente la sensazione di “volerne saperne di più”. È il momento in assoluto più importante, perché dalla sua buona organizzazione deriva la riuscita dell’intero percorso di apprendimento. Da fare in classe. Gli studenti devono sentire come propri e comprendere la domanda o il problema che è al centro del loro lavoro: hanno bisogno di tempo per prendere confidenza con la disciplina, devono discutere possibili domande e problemi e pensare quali aspetti potrebbero essere oggetto di un’investigazione scientifica. Gli allievi si impegnano, investono nell’inquiry scientifico e si sforzano di capire, se comprendono appieno il problema sul quale stanno lavorando e se è per loro significativo. A questo proposito è importante che i ragazzi abbiano l’opportunità di partecipare alla formulazione della domanda o del problema. 2) Explore Una volta raccolte le domande su ciò che si desidera indagare, si indirizzano gli studenti verso la fase sperimentale, chiedendo loro di ideare un esperimento che possa dare delle risposte. È fondamentale che gli studenti identifichino le variabili in gioco e le sperimentino. Lo scopo di questa fase è registrare dati, isolare variabili, creare grafici e analizzare i risultati. Nell’inquiry scientifico gli studenti devono acquisire molte abilità. L’osservazione focalizzata è una delle più importanti. In altre parole, per “vedere” qualcosa, occorre avere ben chiaro che cosa si sta cercando di vedere! 3) Explain Gli studenti vengono introdotti a modelli, leggi e teorie. Si fornisce il vocabolario corretto (parole chiave-linguaggio scientifico), che permetta loro di spiegare in modo scientificamente rigoroso i risultati delle loro esplorazioni, stimolando la ricerca autonoma sul contesto studiato. 4)Elaborate Gli alunni elaborano quanto hanno scoperto nelle fasi precedenti applicandolo ad altre situazioni che possano fare emergere nuove domande e ipotesi da esplorare. Gli studenti dovrebbero raggiungere il trasferimento dell’apprendimento (transfer of learning). 5)Evaluate L’ultima fase prevede la realizzazione di un prodotto finale che sarà valutato mediante autovalutazione, valutazione dei membri del proprio gruppo e valutazione da parte dell’insegnante. Il prodotto finale potrà essere discusso in vario modo: davanti agli insegnanti e ai ricercatori, in un’occasione apposita, inquadrabile in una giornata della Scienza, in una mostra o altro. https://youtu.be/xTXASM00-OA Vi allego anche questa ottima spiegazione Considerazioni pedagogiche sull’ibse Indipendentemente dalla tipologia di analisi, che dipenderà dal livello scolare e dalla disponibilità di strumentazioni specifiche, è importante sottolineare che “non sono i laboratori attrezzati che permettono di fare l’IBSE”, questo approccio didattico può, anzi generalmente viene realizzato, con materiale povero ad ogni livello scolare. Quello che è importante è che gli studenti possano facilmente accedere ai materiali e che li utilizzino responsabilmente. L’IBSE prevede che gli studenti lavorino insieme, indaghino, formulino e condividano idee nuove e imparino dagli errori. Tutto ciò non avviene in un contesto nel quale i ragazzi temono di sbagliare, o dove l’interazione tra gli studenti non si basa sul rispetto reciproco, perché alcuni studenti predominano sugli altri o perché ad alcuni vengono assegnati solo compiti operativi. Se gli studenti sono restii a condividere le idee degli altri a meno che non siano certi della loro correttezza, è opportuno parlare con loro, in modo esplicito, dell’importanza delle idee di ognuno e del valore di discutere una cosa da molti punti di vista. formare gruppi Formare gruppi che lavorino bene non è facile. È consigliabile indicare esplicitamente il comportamento da tenere; per esempio: esprimere il proprio disaccordo in modo rispettoso, ascoltare gli altri, condividere i materiali e dare ad ognuno il tempo di parlare. Si possono inoltre adottare alcune strategie dell’apprendimento cooperativo tra cui assegnare ruoli specifici (ad esempio chi raccoglie i dati, chi coordina le attività, chi gestisce la strumentazione, chi espone i risultati...) in modo che gli studenti, a turno, ricoprano ogni incarico. Il gruppo funziona meglio se è piccolo (massimo quattro persone) e se ha chiaro lo scopo del lavoro. Quando si lavora con materiali particolari, quando gli studenti stanno imparando a lavorare insieme o quando si lavora con gli studenti più piccoli, il gruppo di quattro lavora meglio se, durante le attività pratiche, si divide e lavora a coppie. formulare le domande Le domande che l’insegnante rivolge al gruppo classe, al piccolo gruppo o al singolo, giocano un ruolo molto importante nell’IBSE: • Un buona domanda è una domanda stimolante, che invita ad uno sguardo attento, ad una nuova sperimentazione o ad una nuova attività • Le domande produttive incoraggiano gli studenti a riflettere sulle proprie domande e su come trovare le risposte. Le domande non produttive sono quelle che spesso richiedono solo una breve risposta verbale. condurre discussioni di gruppo La discussione tra studenti fornisce l’opportunità di esplicitare le loro idee, di ascoltare e discutere le idee degli altri e di accordarsi sulle conclusioni. Le discussioni possono svilupparsi durante tutto il processo di indagine tra coppie, membri del gruppo o nell’intera classe. I membri del gruppo interagendo tra loro “distribuiscono” l’apprendimento, il quale non avviene solo nella “mente” di ognuno, ma è anche esplicitato nelle discussioni, nelle azioni, nell’uso di strumenti condivisi attraverso i quali si costruisce la conoscenza (Boscolo, 1997; Mason, 1999). Guidare gli studenti nella documentazione Quando gli studenti documentano il loro lavoro, diventano consapevoli dei propri progressi, dei risultati ottenuti e del loro sviluppo cognitivo. La documentazione del lavoro scientifico comprende testi, disegni, diagrammi di flusso, grafici, cartelloni. È auspicabile che i ragazzi di ogni livello scolare abbiano un quaderno di scienze, producano documenti scritti per le presentazioni e per preparare relazioni. Gli insegnanti, leggendo il lavoro degli studenti, possono valutare lo sviluppo e la natura del loro pensiero.
Sintesi dell’approccio metodologico • si pone un problema ai ragazzi e su di esso si formula una domanda (osservazione); • ciascuno risponde singolarmente sul suo quaderno in base alle conoscenze pregresse (verbalizzazione scritta individuale); • si divide poi la classe in gruppi di 4/5 alunni; • all’interno di ogni gruppo i bimbi socializzano le risposte di ciascuno (socializzazione di gruppo); • ogni gruppo concorda una risposta unica condivisa al problema; • l’alunno, nominato capogruppo, riferisce alla classe (discussione collettiva); • l’insegnante raccoglie le risposte di ogni gruppo su un cartellone(socializzazione di classe) • concettualizza con la classe (affinamento della concettualizzazione e produzione condivisa). Per altre strategie didattiche vi lascio un link: https://www.archiviodelmaestro.it/category/strategie-didattiche/ Per approfondire l'argomento consiglio l'acquisto di questo libro: https://amzn.to/3Ar8FTG E anche la lettura su questo sito: https://ibseedintorni.com/ Read the full article
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Favara, dal 5 all'8 aprile la XXV Sagra dell'Agnello Pasquale
Prenderà il via domani, mercoledì 5 aprile, la 25esima edizione della Sagra dell’Agnello Pasquale di Favara, organizzata dal Comune di Favara e dalla Pro Loco “Castello” con il contributo di numerosi partners pubblici e privati. Si inizia alle 17 in piazza Cavour con una performance di musica e danza popolare a cura del gruppo folcloristico “Fabaria Folk”. Ci si sposterà quindi al Castello Chiaramonte per una dimostrazione di manipolazione degli Agnelli Pasquali a cura dei maestri pasticceri e dell’azienda “Favarese” di Giuseppe Rizzo. Saranno inoltre esposti i tradizionali “panareddra” pasquali e i pani votivi realizzati dai maestri panificatori di Favara. Alle 18 prenderà il via, sempre all’interno del Castello il convegno “L’Agnello Pasquale di Favara, tutela, valorizzazione e filiera” che sarà moderato da Antonio Moscato, presidente della Pro Loco di Favara e da Antonio Liotta, assessore alla Cultura e ai Beni Culturali di Favara. Dopo i saluti istituzionali si terranno gli interventi di Maria Giovanna Mangione, presidente dell’Ordine dei dottori Agronomi e Forestali di Agrigento; Achille Contino, dirigente del settore Turismo del Libero consorzio di Agrigento; Lillo Alaimo Di Loro, presidente del Consorzio “Italia Bio” che interverrà sul tema “Sostenibilità Ambientale e Paesaggio Culturale”; Giacomo Sorce, dirigente della P.O. 7 “Turismo e Beni Culturali” del Comune di Favara e Carmelo Vetro, responsabile del servizio 3 della P.O.7 del Comune di Favara. Alle 19 spazio invece alle degustazioni a cura dell’Istituto alberghiero “Gaspare Ambrosini” di Favara e dell’azienda “Favarese”. A concludere la giornata, alle 20 e sempre al Castello Chiaramonte, sarà la performance di musica, canti e parole siculo-popolari di Peppe Calabrese e Salvatore Nocera Bracco. Giovedì 6 aprile alle 10.30 appuntamento invece ai “7 Cortili” della “Farm Cultural Park” per “L’Agneddru Pasquali Favarisi”, realizzato appunto dalle massaie del centro storico di Favara. L’evento è a cura di "Farm Cultural Park”, con la partecipazione degli Ic “Guarino”, IC "Brancati", “Borsellino” e “Bersagliere Urso”. Alle 12.30 ci si sposta al Castello Chiaramonte per una manipolazione della pasta reale e la realizzazione dell’Agnello Pasquale a cura degli studenti dell’Istituto alberghiero “Ambrosini” di Favara. Alle 16.30, con partenza dal Castello Chiaramonte la Pro Loco curerà invece una visita guidata nei luoghi dove questo dolce straordinario è nato. Alle 17.30, al Castello, si terrà una performance tecnico/scientifica intitolata “I punti di forza del marchio Dop”, a cura dell’Ipsseoa “G. Ambrosini” di Favara a cura del professor Bruno Carmelo, responsabile tecnico del Consorzio Pistacchio di Raffadali Dop. Sempre il Castello, alle 17.45, si terrà invece un convegno su “Il Barone Antonio Mendola e l’Ampelografia”, a cura dello storico favarese Filippo Sciara. Seguirà una degustazione di vino Grillo a cura dell’azienda “Sciara Filippo”. Alle 19.30, sempre al Castello Chiaramonte si terrà in chiusura un momento dedicato alla letture e alle poesie sull’Agnello Pasquale di Favara a cura del “Caffè Letterario”. Venerdì 7 Aprile, Venerdì Santo, il Castello resterà aperto dalle 10 alle 19 grazie al personale interno per consentire la visita alle mostre. Sabato 8 Aprile, alle 10, piazza Cavour ospiterà una mostra d’auto d’epoca che sarà gemellata Asi con il “Veteran car club Panormus Giro di Sicilia” a cura del Club “Epocar dei Templi”. Alle 10.30 si torna all’interno del Castello Chiaramontano per una performance e degustazione a cura dell’associazione “Nzemmula” e dell’associazione “Cuochi e pasticcieri di Agrigento”. Alle 18.00 , presso il Castello Chiaramonte si terrà invece una performance di musica, canti e parole siculo/popolari a cura di Ricky Ragusa con il suo gruppo e con gli strumenti ricavati dall’Albero di pistacchio e Peppe Calabrese, cantautore siculo-popolare e autore del Cd “Mari Matri”. Il Castello Chiaramonte ospiterà infine la chiusura della Sagra, con la consegna degli attestati ai pasticcieri partecipanti da parte del DMO “Valle dei Templi”. Read the full article
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Drabble da 200 parole partecipante all'ultima settimana del CowT 13
Titolo: Cliché
Fandom: FMA
Pair: Roy/Ed
Raiting: Safe
Roy Mustang, sebbene tutti lo credessero un superficiale arrivista, caratterizzato dalla frivolezza e il libertinismo, non aveva mai amato i cliché sui ruoli lavorativi in un'azienda. Li aveva certamente alimentati, per poter distogliere l'attenzione dai suoi veri obiettivi e riuscire in questo modo a fare velocemente carriera.
Con l'astuzia e della sana manipolazione era arrivato fino al ruolo di comandante supremo, anche se con non pochi sacrifici.
Il più grande lo aveva compiuto il Edward Elric, che aveva rinunciato alla propria alchimia pur di riavere indietro il corpo di suo fratello Alphonse.
Poco male, penserebbe qualcuno, se non ché la mente più giovane e brillante in campo alchemico ora non aveva alcun talento nel praticare l'alchimia.
Mustang però aveva molta autorità ed influenza all'interno della comunità scientifica e avrebbe potuto permettere di continuare a studiare a Edward con i fondi statali, anche senza più la carica di alchimista di stato.
Tutto ciò che il ragazzo avrebbe dovuto fare era prendere il posto di Hawkeye come suo segretario per tre settimane, fino a che la donna fosse stata in vacanza.
E chiss��... magari il clichè del segretario in ginocchio sotto la sua scrivania gli sarebbe piaciuto.
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In privato mi è stato chiesto di commentare questo articolo... lo faccio adesso e in questo particolare caso per motivi che sarebbe lungo spiegare ma molto umilmente, il mio tempo è prezioso e non intendo passarlo a commentare tutte le voci antivax della rete.
L’autore dell’articolo, che se non ho fatto errori di ricerca dovrebbe essere un attempato musicista antropofosico naturopata (nulla di male e senza alcun intento denigratorio da parte mia), dedica la prima metà dell’articolo (una 70ina di righe) a una descrizione semplice - e semplicistica - di come funziona un vaccino generico, come funziona quello per il Sars-Cov2 e della tecnologia con la quale viene ottenuto.
Nulla di male, solo un tono dubbioso... ma è dalla frase ‘usciamo ora dai tecnicismi’ che il tono dello scritto cambia (e fa pensare che forse conveniva restarci, nei suddetti tecnicismi).
Quale pensiero sta dietro a tutta questa costruzione? L’organismo umano è considerato un meccanismo, un computer che attraverso uno schema, una mappatura genica, un software, può essere “addestrato”, appunto, programmato per produrre a piacere ciò che si desidera.
Si spaccia un agire meccanicistico come grande progresso scientifico attraverso il quale si vorrebbe far fare all’organismo, ingannandolo, ciò che esso sa fare molto bene. Lo si vorrebbe ingannare inserendo molecole, proteine, virus o altro geneticamente modificati, che non esistono in natura.
La cosa mi fa sorridere per l’estrema ingenuità del pensiero, molto ricorrente in chi pratica la naturopatia, secondo il quale esistono cose ‘naturali’ - e quindi benefiche per l’organismo - e cose ‘artificiali’, automaticamente dannose perché ‘non presenti in natura’.
A parte che anche l’arsenico è così ‘naturale’ da essere presente sulla tavola periodica degli elementi senza la minima manipolazione da parte dell’essere umano ma sappiamo bene cosa succede a metterlo nel tè, voglio ricordare che esistono tantissime persone che curano i propri dolori osteo-articolari con infuso di corteccia di salice (E’ NATURALE!) e poi gli viene l’ulcera perché evidentemente non sanno che più di 100 anni fa un tizio ha ridotto la gastrolesività dell’acido salicilico aggiungendo acido acetico... acido acetilsalicilico, l’Aspirina.
Ma l’organismo sa curare bene i propri dolori articolari... perché bisogna ingannarlo andando a inibire la sintesi delle prostaglandine con la corteccia di salice? I dolori passano naturalmente. Come prima o poi passerà una polmonite neonatale o una meningite, senza bisogno di antibiotici o vaccini ‘artificiali’. Lasciate lavorare il sistema immunitario in modo naturale, no?!
L’articolo prosegue col cavallo di battaglia dei negazionisti ‘NESSUNO HA MAI ISOLATO IL SARS-COV2′ in cui si cita uno studio del famigerato Dott.Scoglio ‘ignorato dalla comunità scientifica’ (chissà perché... forse perché è un dottore IN LEGGE?) in cui si afferma che nessuno ha la certezza dell’esistenza del virus.
Poi
E’ lecito a questo punto chiedersi quali effetti può produrre questo “addestramento” del sistema immunitario a fare forzatamente un lavoro che sa fare molto bene da solo.
È lecito chiederselo e la risposta è PRODURRE ANTICORPI ANTI-SARS-COV2 che in effetti l’organismo può produrre benissimo naturalemente, se non che a volte muore prima di riuscirci.
Perché si vuole vaccinare tutti, compresi quelli che la malattia l’hanno fatta, e senza chiedersi se larga parte della popolazione sia già immunizzata “naturalmente”, termine abolito dai protocolli scientifici?
Come ho già detto in privato a una persona, sarebbe una perdita di tempo prezioso in un momento di grande confusione sociale e organizzativa, fare una distinzione tra chi ha avuto il Covid-19 e chi no, soprattutto perché si è visto che in parecchi soggetti l’immunità ‘naturale’ può non essere più sufficiente o, addirittura, presente. E non è un termine abolito... è una definizione fuorviante che le persone userebbero senza avere alcuna certezza di immunità pregressa.
Forse allora si sa o si sospetta che non essendoci alcuna sicurezza sul fatto che il virus sia stato isolato, la proteina spike abbia poco o nulla a che fare col Covid-19?
Brevemente? NO
Sarà forse questo uno dei motivi per cui vi è una riluttanza a questo vaccino proprio dagli operatori sanitari, malgrado siano i più esposti, da un lato, ma dall’altro anche i più informati?
O forse il motivo è che essere un operatore sanitario non ti dà automaticamente il titolo di Esculapio in terra e che ignoranza e stupidità sono ubiquitarie nella popolazione?
La perla, a mio avviso, è quando cita la difesa del vaccino da parte di Marco Cattaneo (direttore editoriale di Le Scienze) e gli controbatte
Capito? Garantisce lui, che ha seguito personalmente il processo dentro ogni singolo ribosoma…
Con questo credo che si possa concludere il mio ‘debunking’* (che termine odioso e antipatico) di un pensiero un po’ troppo dietrologico, delirante e che denuncia una sfrontata incapacità dell’autore di comprendere i basilari meccanismo di funzionamento biologico del nostro organismo.
* odioso e antipatico perché con questo mio post ho rafforzato le convinzioni di chi già era d’accordo con me e non ho spostato di una virgola il pensiero di chi, invece, vede in questo articolo l’illuminante ‘verità che non ti dicono’.
Andiamo faticosamente avanti.
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ARRIVA LA PRIMA LEGGE PER PROTEGGERE I NEURO-DIRITTI
Il Cile ha approvato una legge che stabilisce i diritti all'identità personale, al libero arbitrio e alla privacy mentale, diventando il primo paese al mondo a legiferare con l’obiettivo di proteggere dagli effetti della neurotecnologia sulla manipolazione della mente.
Secondo i legislatori, lo scopo di questa legge è proteggere "l'ultima frontiera dell'essere umano: la psiche umana”. "Siamo felici che questo sia l'inizio di una valutazione globale su come la tecnologia dovrebbe essere utilizzata per il bene dell'umanità", ha dichiarato il senatore Guido Girardi, uno dei suoi promotori. Per questo la nuova legge cilena stabilisce che “lo sviluppo scientifico e tecnologico deve essere al servizio delle persone e si svolgerà nel rispetto della vita e dell'integrità fisica e mentale", afferma una nota della Camera dei deputati.
La legge intende salvaguardare i neurodati delle persone e stabilire i limiti su come i dati del cervello possono essere analizzati e modificati. L’uso delle neurotecnologie causa preoccupazione in una parte della comunità scientifica che teme che le neurotecnologie possano essere utilizzate per registrare i dati mentali delle persone e per modificarli.
L'emendamento alla Costituzione cilena mira a definire l'identità mentale per la prima volta nella storia come un diritto non manipolabile, per proteggerla dalle manipolazioni che potrebbero derivare da alcuni progressi tecnologici nelle neuroscienze e nell'intelligenza artificiale. La legge cilena ha l’obiettivo di proteggere la libera volontà di pensiero e l'accesso equo alle tecnologie che aumentano le capacità umane.
__________________
Fonte: Senato del Cile; Senatore Guido Girardi - 29 settembre 2021
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ELENA PULCINI,
LA FILOSOFIA CHE SALVA
Che cos’è la passione?
La passione è l’energia affettiva che ci motiva all’azione, è la sorgente profonda delle nostre scelte, preferenze, credenze. Non ha niente a che fare con l’ “irrazionale”, cioè con l’altro dalla ragione, a cui ha per lo più cercato di ridurla il pensiero occidentale e moderno. Attraverso le passioni (preferisco parlarne al plurale) noi conosciamo, comunichiamo, entriamo in relazione con il mondo, ci mettiamo in gioco. Certo, si tratta di energie intense, durature che pervadono l’intera personalità del soggetto; non vanno infatti confuse con le emozioni o gli stati d’animo, come la paura che insorge se un’auto sfreccia veloce mentre attraverso la strada, o come la gioia che mi investe se incontro inaspettatamente un amico che credevo perduto per sempre. Le passioni sono quelle che ci infondono una particolare tonalità emotiva e che presiedono di volta in volta alla relazione con l’altro, attraverso una dinamica aperta di reciproca trasformazione. Ovviamente questo non vuol dire che non ci siano passioni negative, persino capaci di distruggerci. Il punto è proprio questo: la qualità prismatica, ambivalente, imprevedibile delle passioni; che non solo ci impone di distinguere tra negative e positive, ma anche di capire che ci sono passioni positive, come l’amore, le quali possono annientarci e passioni negative, come la vergogna, che ci inducono a preoccuparci del giudizio dell’altro e a riaccedere a una dimensione etica. Etica è infatti la proprietà di tutte le passioni che ci spingono a tener conto dell’altro, a mettersi nei suoi panni, ad esercitare la nostra capacità di empatia. Ed è proprio l’empatia -attualmente oggetto di una importante riscoperta scientifica, ma già valorizzata dalla filosofia di Hume, Smith, o Scheler- la radice comune di quelle che propongo appunto di chiamare passioni empatiche, in quanto sono ispirate dalla capacità di mettersi nei panni dell’altro e di partecipare al suo vissuto. Una qualità emotiva che il pensiero moderno ha prevalentemente ignorato, finendo per identificare le passioni unicamente con quelle egoistiche.
Perché l’invidia è una passione triste?
Passioni tristi, che non vuol dire malinconiche, è una definizione che possiamo trarre da Spinoza, che le associa ad una condizione di depotenziamento del Sé e le oppone alle passioni “gioiose”: nelle quali al contrario egli vede l’espressione della “vis existendi”, della potenza di esistere. L’invidia è a mio avviso l’esempio più significativo delle passioni tristi, in quanto scaturisce da un senso di inferiorità che rende il soggetto incapace di tollerare il bene dell’altro (il suo talento, successo, bellezza) che viene vissuto come una sconfitta, una ferita narcisistica del Sé. Perché lei/lui sì e io no? È la domanda silenziosa e inconfessata che avvelena l’anima, e corrode la relazione, fino a pervertirsi nella nietzscheana Schadenfreude, cioè nel piacere che si prova di fronte al male e alle disgrazie dell’altro. L’invidia è una passione universale, persino i greci la conoscevano bene, ma prospera paradossalmente nelle società democratiche, in quanto è alimentata da quella che Tocqueville chiamava “l’uguaglianza delle condizioni”. È qui che essa mostra tutta la sua peculiare ambivalenza: si manifesta infatti allo stesso tempo come volontà di eccellere e intolleranza verso la sia pur minima differenza, desiderio di autoaffermazione e tendenza al conformismo, onnipotenza dell’Io e trionfo del desiderio mimetico di essere come l’altro. Non è difficile riconoscere in questi fenomeni le patologie più evidenti della nostra società narcisistica: patologie difficili da combattere perché l’invidia non si confessa mai come tale, lasciando tutt’al più trapelare quello “evil eye”, quello sguardo maligno che ci colpisce senza che ce ne accorgiamo…
Che cosa ha determinato la perdita del legame sociale?
L’assoluta egemonia di una prospettiva economicistica. Il soggetto moderno trova la sua raffigurazione nell’homo oeconomicus: motivato, come accennavo sopra, da quella che già Thomas Hobbes chiamava la “passione dell’utile”, vale a dire da passioni egoistiche, dalla realizzazione dei propri interessi, da quella brama di guadagno e di profitto che ha prodotto la progressiva atrofizzazione, o comunque rimozione, delle passioni empatiche. L’abbaglio della ricchezza e del benessere, la fantasmagoria della merce, come la chiamava Walter Benjamin, è così potente da oscurare altri moventi e obiettivi. Ed è la miccia che fa esplodere la logica seduttiva e incontrastata del capitalismo, di cui si è vista ancora troppo poco la molla emotiva: che non è solo il desiderio di beni materiali e di una vita prospera, ma anche quel desiderio di prestigio e di status che, a partire dalla modernità, viene conferito dalla ricchezza. Un desiderio che è poi a sua volta figlio dell’invidia: in una sorta di corto circuito tra passioni dell’utile e passioni dell’Io del quale, nella nostra effimera società dello spettacolo, siamo sempre più prigionieri, e al quale abbiamo sacrificato la relazione, il legame sociale, il bene comune.
“La cura del mondo” è uno dei suoi libri più significativi. La ritiene ancora possibile?
Penso che sia più che mai necessaria e urgente. Sembra incredibile ma dal 2009, l’anno in cui il mio libro è stato pubblicato, il mondo ha subito trasformazioni radicali, per non dire sconvolgenti, sintomo del fatto che velocizzazione e accelerazione non sono più parole che individuano una tendenza, ma una realtà che constatiamo ad un ritmo quasi quotidiano. E’ come se una serie di fenomeni finora ipotizzati, ma rimasti ancora in nuce, stessero esplodendo. Penso al fenomeno migratorio, certo, che assume proporzioni sempre più estese e preoccupanti, ma soprattutto al cambiamento climatico dei cui effetti siamo ormai ogni giorno testimoni. Ne è esempio inquietante questa torrida estate del 2019: il mondo sta bruciando, non solo per incendi devastanti in Siberia, Canarie, foresta amazzonica, ma per temperature così alte da sciogliere i ghiacciai della Groenlandia e mettere a repentaglio l’equilibrio ecologico del pianeta. Impossibile ovviamente fare previsioni precise, ma è certo che siamo entrati nell’era dell’Anthropocene: quella in cui tutto è prodotto dall’azione umana, e la natura, come realtà a noi esterna e autonoma, rischia di scomparire insieme alle risorse indispensabili alla vita. Abbiamo creato le condizioni per la nostra autodistruzione. Eppure non c’è ancora sufficiente consapevolezza di questo. Il genere umano è di fronte ad una sfida epocale che non sembra in grado di affrontare anche perché mette in atto meccanismi di diniego e illusorie strategie di indifferenza. La responsabilità e la cura non sono più un’opzione né solo un dovere etico, ma un meta-imperativo, un impegno concreto e ineludibile se vogliamo salvare il pianeta, le generazioni future, il mondo vivente.
Qual è la trasformazione più eclatante che ha modificato il soggetto occidentale?
È quella che ho appena evocato e che stiamo attualmente vivendo, il mistero della tendenza dell’umanità all’autodistruzione. Tendenza paradossale che sfida i paradigmi fin qui conosciuti: da quello, peculiare della modernità, di un soggetto prometeico, di un homo oeconomicus razionale e progettuale capace di foresight e proiettato nel futuro, a quello, esaltato dal pensiero postmoderno, di un soggetto edonista che si oppone all’etica del sacrificio per godere della felicità del presente. Oggi assistiamo, come direbbe Günther Anders, alla perversione di entrambi, a causa della scissione tra fare e immaginare, tra conoscere e sentire. Abbiamo un Prometeo senza foresight e un Narciso senza piacere: il primo sembra aver perso il senso e lo scopo dell’agire e procede ciecamente senza più chiedersi le conseguenze future del suo agire. Il secondo appare schiacciato sulla futilità della ricerca di un illusorio e autarchico benessere, ormai incapace di anelare alla felicità. Le sfide epocali della contemporaneità esigono perciò un nuovo tipo di soggettività, che deve ancora nascere, che si assuma la responsabilità del futuro e del destino del mondo e metta in atto strategie di cura per la ricostruzione di un mondo comune e per la difesa del mondo vivente. Ne cogliamo tracce nelle forme di solidarietà col diverso, nella lotta per la giustizia e per i diritti delle minoranze, e soprattutto nelle lotte per la difesa del pianeta che testimoniano auspicabilmente il farsi strada di una nuova consapevolezza dei rischi a cui siamo esposti e della necessità di nuove strategie.
La filosofia può limitarsi soltanto alla riflessione o può incidere in un contesto così complicato?
Oggi non abbiamo più bisogno di quella che chiamo una filosofia senza mondo, arroccata nella cittadella delle sue sofisticate riflessioni astratte, ma di una filosofia per il mondo; che in primo luogo recuperi l’originaria alleanza con la politica, intesa come preoccupazione per il destino della polis, come nella Repubblica di Platone; e che in secondo luogo sia disposta a riflettere in presa diretta con l’attualità. Insomma una “filosofia d’occasione”, per riprendere l’espressione di Anders, che sappia non solo continuare tenacemente a porre domande in un mondo che sembra annegare in una oppiacea indifferenza e nella banalità dell’ovvio, ma anche porre le domande giuste: quelle cioè che sanno opporsi alla manipolazione della verità, sempre più diffusa, per cogliere le trasformazioni in atto, individuare di volta in volta i veri pericoli, interpretare e dare la priorità agli eventi simbolicamente rappresentativi.
Che cos’è l’identità?
Non mi è mai piaciuta molto questa parola, perché contiene in sé il rischio di una fissità, compattezza, definitività, egemonia, che limita se non addirittura preclude, l’apertura, l’inclusione, il cambiamento; che non contempla in altre parole, l’idea di differenza. Basti pensare all’identità maschile che ha imposto il suo modello a livello universale relegando, nel migliore dei casi, l’identità femminile nel ruolo di un “altro” inevitabilmente subalterno. Una dicotomia che possiamo ulteriormente declinare in etero/omosessuale, bianco/nero, nord/sud ecc. L’identità è insomma facilmente esposta alla sua assolutizzazione, con effetti di dominio e di violenza. Lo vediamo oggi in particolare nello scontro, anche planetario, tra identità collettive, soprattutto quelle fondate su radici etniche e/o religiose, tese alla difesa di un Noi totalitario ed endogamico che si (ri)costituisce attraverso l’esclusione violenta dell’altro, del diverso; e sulla costruzione di capri espiatori su cui proiettare l’immagine stessa del male, sia che si tratti della contrapposizione planetaria occidente/islam, sia che si tratti di conflitti locali (come gli innumerevoli conflitti dei paesi dell’Africa, dal Ruanda al Mali ecc.). Indubbiamente i conflitti identitari sono oggi acuiti dai processi di globalizzazione, come ritorno regressivo del “locale” dentro il “globale”; fenomeno nel quale emerge comunque un bisogno di riconfinamento che fin qui è stato sottovalutato dalle forze progressiste e a cui è invece necessario - se non si vuole cadere nella trappola mortifera dei razzismi e dei populismi- dare una risposta, ripartendo da una diversa idea di comunità, compatibile con la libertà.
Di cosa è figlia la paura che attanaglia l’umano?
La paura non deve essere identificata tout court con una dimensione negativa. E’ infatti la passione primordiale, quella che, come ci insegna Blumenberg, ci spinge a costruire una familiarità con il mondo che ci circonda, cominciando con l’evitare i pericoli e sfuggire alle insidie. E’ dunque figlia della nostra ontologica vulnerabilità, che è ciò che definisce l’umano. E riconoscere la vulnerabilità è oggi più che mai salutare per un genere umano caratterizzato dalla perdita del limite e da una hybris narcisistica accecante. La vulnerabilità è insomma una risorsa, anche in quanto ci spinge ad interrompere la spirale di illimitatezza della quale siamo diventati inconsapevolmente prigionieri. La paura è infatti la passione del limite, il semaforo rosso, il campanello d’allarme che ci apre gli occhi di fronte al pericolo. Bisogna però reimparare ad avere paura. Oggi ne siamo evidentemente pervasi, ma di quale paura si tratta? Da un lato l’angoscia paralizzante, di cui ci parla Freud e che ritroviamo in una edizione attuale nella “paura liquida” di Bauman, che ci corrode internamente ma non sa individuare un bersaglio, scivolando da un oggetto all’altro in una sorta di perenne indeterminatezza; dall’altro, la paura persecutoria di cui parlavo prima, che proiettiamo sull’altro come nemico e origine di tutti i mali: una paura che si traduce in sentimenti violenti e distruttivi -come odio, rabbia, risentimento-, terreno di coltura di razzismi, nazionalismi, guerre religiose, atroci rivalità etniche. Presi tra questa forbice tra angoscia e paura persecutoria, finiamo per non vedere i veri pericoli, come quello che pende sul futuro del pianeta e delle prossime generazioni e ci trinceriamo dietro meccanismi di difesa (come il diniego e l’autoinganno) che ci esonerano dall’obbligo di una risposta. Reimparare ad avere paura significa dunque ritrovare la capacità di distinguere tra ciò che dobbiamo o non dobbiamo temere, tra paure giuste e paure sbagliate.
L’Altro è fuori o dentro di noi?
C’è evidentemente un altro fuori di noi: il prossimo, il diverso, l’amato, l’amico, il collega, lo sconosciuto che incontriamo nella sua concreta e tangibile corporeità. A cui si aggiunge l’altro virtuale, l’ “amico” dei social con cui chattiamo condividendo pensieri (fb) o immagini (instagram). E poi ancora c’è l’altro distante: distante nello spazio (il migrante) o nel tempo (le generazioni future). La nostra epoca produce una proliferazione delle figure dell’alterità in quanto moltiplica i luoghi –reali, virtuali o immaginari- della relazione, dell’incontro. Ma la nostra capacità di rapportarci a questa molteplicità di figure dipende molto dalla relazione che abbiamo con la nostra alterità interna: quanto più mi lascio contestare dall’altro che mi abita, dalla differenza che mi impedisce di chiudermi nella mia identità, tanto più saprò confrontarmi con l’altro esterno. Se sono in grado di riconoscere che il Sé contiene sempre un altro o meglio molti altri, sarò in grado di accettare l’altro concreto nella sua differenza, provare empatia per lo sconosciuto e persino per chi vive in territori lontani, nonché distinguere tra un’esperienza reale di relazione con l’altro da una relazione puramente virtuale, incorporea: senza tuttavia a priori negare la possibilità che persino una relazione virtuale possa diventare fonte di coinvolgimento emotivo…
Quando espelliamo l’Altro, in realtà che cosa espelliamo?
Espelliamo quella parte di noi che ci contesta dall��interno e che ci impedisce, come dicevo, di rinchiuderci nei confini asfittici di un’identità compatta che non lascia spazio alla differenza. Essere in contatto con l’alterità vuol dire mantenere viva la consapevolezza del fatto che l’identità è una struttura contingente, dovuta all’intreccio casuale di fattori che potevano anche comporsi in modo diverso, e che sono sempre passibili di cambiamento, dato l’incessante divenire dell’umano nella precarietà e nella vulnerabilità. Ed è questa consapevolezza che ci permette di riconoscere l’altro concreto nella sua stessa differenza; perché il bagaglio che egli porta con sé (di storia, cultura, suoni, colori e sapori) può diventare oggetto di curiosità, e persino di arricchimento, piuttosto che di diffidenza e di paura, come purtroppo accade sempre più spesso nelle nostre società, che chiamiamo multiculturali, ma che sono ben lungi dall’esserlo davvero. Noi, cittadini del mondo globale, siamo tutti esposti, inevitabilmente, alla reciproca contaminazione: possiamo scegliere di accettarla governando la paura e disponendoci alla reciproca solidarietà, o possiamo trincerarci nell’illusione immunitaria di chi pensa ancora di poter erigere muri.
“Essere singolare plurale” è possibile o è solo il titolo di un libro di Jean-Luc Nancy?
Temo il giorno in cui non lo considereremo più possibile. Ma indubbiamente non è un obiettivo facile anche se, come ci suggerisce Nancy, possiamo appellarci alla verità ontologica dell’essere-in- comune. Perché se è vero che l’essere è essere-con, è vero anche che la storia ci mostra un’infinita serie di tradimenti di questa nostra condizione. E allora bisogna interrogarsi sul perché: sul perché almeno in Occidente, l’individualismo ha nettamente prevalso sulla comunità e l’identità sulla pluralità. Quali motivazioni, passioni, interessi abbiano fatto sì che l’essere si mostrasse in un’unica, o prevalente prospettiva assumendo una connotazione unilaterale, impoverita se non addirittura patologica. Insomma, come sostengo da tempo, l’ontologia non basta; bisogna mobilitare interrogativi antropologici ed etici per spiegare luci ed ombre della condizione umana e individuare strategie per correggerne le patologie (tra cui, la più paradossale come abbiamo visto è la tendenza all’autodistruzione). La formula di Nancy, che ha peraltro una chiara radice arendtiana, è concettualmente efficace in quanto ci invita a valorizzare il singolo senza cadere nell’individualismo e a ripensare la comunità al di fuori di ogni organicismo, cioè all’insegna della differenza e della pluralità. Per raggiungere questo obiettivo, dobbiamo agire non solo “come se” fosse possibile, ma creare nuove congiunture, nuovi paradigmi che siano all’altezza di questo compito.
Come si passa dall’uomo economico all’uomo reciproco?
L’homo reciprocus, la figura in positivo che ho proposto nel mio L’individuo senza passioni, è appunto uno dei possibili, nuovi paradigmi sui quali possiamo scommettere per rispondere alle patologie del sociale e alle sfide del mondo globale. E’ la risposta alla prospettiva puramente utilitaristica e strumentale dell’homo oeconomicus, che ha privilegiato la logica dell’interesse, dell’acquisizione e del profitto sacrificando o marginalizzando tutto ciò che esula da questa logica -la relazione, la comunità, le passioni empatiche, la gratuità-; provocando non solo l’erosione del legame sociale, ma precludendo uno sviluppo più pieno e più ricco dell’individuo stesso. L’homo reciprocus è colui che integra l’unilateralità del paradigma economicistico (dell’utile e dello scambio) con la dimensione del dono, inteso nel senso proposto da Marcel Mauss, di struttura della reciprocità. Ben lungi dall’essere un modello di buonismo, egli non fa altro che attingere a moventi altri i quali, come ci ricorda per esempio Amartya Sen, sono intrinseci all’essere umano tanto quanto la ricerca dell’utile. Lo mostra il fatto che il dono non è il frutto di un dover essere, ma un evento che agisce già, spontaneamente, nel sociale; e che aspetta solo di essere valorizzato e praticato, al fine non solo di ricostruire il legame sociale, ma di riaprire l’accesso ad una felicità che rischia di inaridirsi totalmente nella ricerca egoistica del benessere materiale.
Responsabilità, uguaglianza e sostenibilità sono tre parole-chiave per interpretare il futuro. Quale delle tre fa più fatica a essere coniugata?
Si potrebbe pensare che fra le tre l’uguaglianza, godendo di una lunga tradizione nel pensiero moderno, sia quella più consolidata e meno attaccabile. Ma in realtà non è così perché va ripensata e riconfermata a fronte delle inedite minacce cui la espongono fenomeni complessi come la crisi della democrazia, il populismo, l’irruzione dell’altro come diverso. Indubbiamente però le altre due sono più direttamente connesse a fenomeni inediti e al tema del futuro. E’ infatti nel contesto di un’etica del futuro resa urgente dal primo manifestarsi delle sfide globali (nucleare, ecologica) che, con Hans Jonas nella seconda metà del ‘900, emerge l’importanza del concetto di responsabilità, intesa come responsabilità per: per il mondo, la natura, le generazioni future, in una parola per l’intero mondo vivente. E ciò vuol dire che c’è un nesso intrinseco tra responsabilità e sostenibilità. Abbiamo reso il mondo insostenibile, come già accennavo sopra, a causa della nostra hybris, della nostra avidità e della nostra cecità; abbiamo saccheggiato la terra in tutti modi possibili, la crisi ecologica sta esplodendo attraverso fenomeni sempre più accelerati. Dunque, siamo noi che l’abbiamo prodotta e siamo noi che dobbiamo farcene carico, assumendo, qui ed ora, la responsabilità per uno sviluppo sostenibile. Siamo di fronte ad una scommessa senza compromessi: dall’assunzione di responsabilità dipende la possibilità di prefigurare un mondo sostenibile e dalla sostenibilità dipende il futuro della vita, o meglio di una vita degna di essere vissuta.
La differenza emotiva del femminile è una risorsa potenziale ancora inespressa pienamente?
Qui bisogna fare una premessa. Il femminismo ha molti volti perché sfaccettato e complesso è il pensiero delle donne. Penso che non tutte si riconoscerebbero tout court in questo presupposto della differenza emotiva, che io condivido senz’altro insieme ad alcune voci del femminismo (come l’etica della cura): purché però venga sottoposto ad uno sguardo critico-decostruttivo. In altre parole, è vero che le donne sono state tradizionalmente identificate con l’amore, la cura, i sentimenti, ma questo patrimonio ereditario le ha anche fortemente penalizzate: non solo confinandole nel privato e nella pura gestione dei rapporti familiari, ma anche privandole di quello che chiamo il diritto alla passione. Oggi uno dei concetti preziosi del pensiero delle donne è quello di un soggetto in relazione, che va a contestare l’idea egemone (e patriarcale) di un Sé del tutto autonomo e autosufficiente (basti richiamare l’homo oeconomicus o il soggetto cartesiano). Tuttavia, è importante addentrarsi meglio nell’idea di relazione: che non vuol dire oblatività, cura sacrificale, dedizione -le qualità su cui a partire da Rousseau è stata costruita l’immagine moderna della donna che ancora conosciamo bene- quanto piuttosto attenzione, empatia, desiderio e passione per l’altro. Se la integriamo con la potenza del pathos, la differenza emotiva delle donne può essere non solo una risorsa ma una risorsa rivoluzionaria, capace di sovvertire l’idea consolidata (maschile) di soggetto, astratta e atomistica, e di valorizzare quella capacità di relazione che può (e deve) investire non solo l’altro come prossimo, ma la comunità, la città, la natura, il mondo vivente.
A quale autore e a quali testi deve di più la sua formazione filosofica?
In generale, il mio percorso è stato scandito dal pensiero critico: da Rousseau, che (nonostante le sue “colpe” relative alla visione delle donne!) ha di fatto inaugurato la filosofia critica, alla Scuola di Francoforte, da Marx a Tocqueville, da Anders ad Arendt. E poi il pensiero francese del 900: dal decostruttivismo di Derrida al Collège de sociologie (Bataille), da Michel Foucault alla filosofia dell’alterità (Lévinas). E last but not least, al femminismo. Tra i testi a cui sono particolarmente grata: La democrazia in America di Tocqueville, Eros e civiltà di Marcuse, L’uomo è antiquato di Anders; senza dimenticare il Simposio di Platone, Il disagio della civiltà di Freud…
Che cos’è la politica?
La politica è la cura della polis attraverso la capacità di prendere decisioni, rispettando quella funzione di rappresentanza dei cittadini che richiede un grande senso di responsabilità. A partire dalla modernità, la politica è per così dire inscindibile dalla democrazia come forma di governo, vale a dire dalla attiva partecipazione di tutti alla cosa pubblica (res publica). E’ ciò che Hannah Arendt chiamava un “agire di concerto”, nel quale essa vedeva un vero e proprio “miracolo”; anche perché presuppone un agire insieme nel rispetto della pluralità. Ma questo miracolo -che non pare proprio esistere in nessun luogo del mondo- richiede comunque la vigile e attenta consapevolezza critica di quelle che con Tocqueville possiamo chiamare le patologie della democrazia: individualismo, indifferenza e delega, torsione autoritaria, esplodere delle passioni tristi come l’invidia o la paura del diverso, erosione del legame sociale. Non abbiamo ancora ben compreso che la politica (e la democrazia) non sono qualcosa fuori di noi, ma siamo noi: dobbiamo quindi costantemente educarci alla democrazia -come sosteneva anche un autore illuminato come John Dewey- per correggere le degenerazioni sempre possibili ed agire per il bene comune, valorizzando le risorse positive intrinseche sia ai soggetti che al sociale.
Che cosa diventa la politica se perde l’aggancio al perseguimento del bene comune?
Diventa pura gestione degli interessi egoistici dei gruppi in conflitto, lotta per la conservazione del potere, tradimento della rappresentanza, visione shortsighted, capace solo di policies, per lo più inefficaci, per affrontare la contingenza e incapace di abbracciare più ampi ideali. E’ questa purtroppo l’immagine prevalente della politica oggi in diverse parti del mondo: aggravata da forme estreme e stupefacenti di avidità e di corruzione, da manipolazioni senza scrupoli di passioni e opinioni che tendono a trasformare il conflitto in violenza, dal ritorno del carisma e del potere carismatico, riproposto in forme caricaturali e pericolose ad un tempo, e sostenuto da involuzioni populistiche spacciate per legittimità democratica. Inoltre, ignorare il bene comune oggi vuol dire rendersi colpevoli dell’indifferenza verso il futuro e i destini di un mondo che, come ho detto, è percorso da sfide inedite, ed avrebbe perciò estremo bisogno di nuove parole d’ordine e nuove pratiche.
La globalizzazione è vista come nemica da alcuni popoli perché non governata?
In realtà la globalizzazione è molto “governata”: non dallo Stato e dalla politica, certo, che mostrano sempre di più la loro debolezza di fronte alle accelerate trasformazioni globali, ma dai poteri forti -economico, tecnologico, mediatico/informatico- pilastri del capitalismo neoliberista, capaci di varcare ogni confine, ispirati solo dalla logica del profitto e pronti allo sfruttamento senza scrupoli delle risorse planetarie, naturali ed umane. Gli Stati a loro volta tendono a rispondere per lo più arroccandosi difensivamente su posizioni cosiddette sovraniste, nell’illusione di poter difendere i propri confini con politiche “illiberali” che fanno appello con tutti i mezzi possibili, inclusa la menzogna legittimata da media e social networks, all’identità nazionale. Un processo bifronte ben sintetizzato dalla formula global/local, che si adatta anche alla dimensione antropologico/culturale: da un lato omologazione, indifferenziazione, pensiero unico, dall’altro emergere (dentro e fuori dell’Occidente) di comunità regressive sempre più alimentate da logiche immunitarie e dalla costruzione di un Noi esclusivo e ostile. Basti pensare, in Occidente, all’espulsione del diverso che trova il suo culmine nella sciagurata gestione del fenomeno migratorio, o, fuori dall’Occidente, all’escalation del fondamentalismo (soprattutto) islamico, fino ai suoi estremi terroristi. Eppure, in questo scenario desolante, c’è chi avanza l’ipotesi di un’ “altra” globalizzazione: non più del mercato ma del senso, per dirla con Nancy o Edgar Morin. Una globalizzazione come processo emancipativo, nella quale cogliere la chance di pensarsi come un’unica umanità: stretta intorno alla necessità di affrontare le patologie sociali e le sfide ecologiche, determinata a combattere le disuguaglianze senza negare le differenze, capace, come propongono Jeremy Rifkin e Peter Singer, di estendere i cerchi dell’empatia fino ad includere i poveri della terra e le generazioni future. Le condizioni oggettive di questa possibilità ci sono e sono date in primo luogo da quell’interdipendenza degli eventi che ci unisce di fatto in un legame planetario. Non ci resta quindi che mettere alla prova la nostra capacità soggettiva di cogliere la chance: quella di costruire, per usare il lessico di Alain Caillé e del Manifesto convivialista che ho attivamente condiviso, una società conviviale globale.
Siamo ancora nella società liquida di Bauman o la intende superata?
Con il concetto di società liquida, Bauman coglie senza dubbio una trasformazione importante del nostro tempo, ancora decisamente attuale, che pone l’accento su una diffusa condizione di incertezza e di fragilità dovuta al franare di regole e valori consolidati, all’assenza di punti di riferimento e alla frammentazione del legame sociale. Liquida, per darne solo qualche pennellata, è la società nella quale, a differenza della prima modernità, “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria” (come recita la metafora di Marx), lasciando gli individui in balia di un cambiamento permanente che rende endemica la vertigine del disorientamento. E’ la società caratterizzata dall’individualismo illimitato di cui parlavo sopra, che alla perdita del legame e del progetto, dei valori e della stabilità delle relazioni e del lavoro, risponde con la precarietà e la futilità del consumismo, del successo, dell’apparire ad ogni costo, dal teatrino dei talk shows alla ricerca dei like come conferma della propria fragile identità. E’ la società che esalta l’immediatezza e l’accelerazione a scapito dei contenuti. Tuttavia, in questo scenario ancora attuale che consacra il trionfo della precarietà e dell’effimero, vediamo rinascere forme che possiamo definire solide, sia pure in un senso nuovo, le quali affiorano inevitabilmente dal rimosso: forme regressive, come il revival di ideologie razziste, xenofobe e totalitarie a fondamento di comunità immunitarie e pateticamente esclusive (quello che ho chiamato comunitarismo endogamico); ma fortunatamente anche forme emancipative, come la rinascita di movimenti collettivi tesi alla ricostituzione del legame sociale, all’affermazione del valore della comunità e dei legami affettivi, all’assunzione della responsabilità collettiva (verso il pianeta, la natura) e della solidarietà (verso l’altro, il diverso). Non possiamo che scommettere, nel senso pascaliano, su quale di queste due forme avrà la meglio, puntando ovviamente sulla seconda.
Ormai solo un Dio o solo la filosofia può salvarci?
Se mi lasciassi sopraffare dal pessimismo, sarei tentata di aderire all’ammonimento heideggeriano. Ma se vogliamo darci una speranza, la filosofia può effettivamente venire in nostro soccorso: continuando in primo luogo a porre domande radicali e coraggiose che scuotano le coscienze in un mondo percorso da un lato da un oppiaceo individualismo e da una colpevole indifferenza, e dall’altro da ottuse regressioni verso miti identitari. Come ho già detto, abbiamo bisogno di una filosofia vitale che non tema di contaminarsi anche con altri linguaggi (letteratura, psicoanalisi, cinema) laddove il concetto e l’argomentazione non sono (più) sufficienti. Ma, come mi ha insegnato soprattutto il pensiero delle donne, la filosofia deve anche fornire risposte, prospettive, sentieri inediti, che siano all’altezza delle sfide della contemporaneità. È quello che chiamo un normativismo er-etico, che non proponga schemi astratti o retorici imperativi, ma tenda a valorizzare le risorse intrinseche sia al soggetto che al sociale; e che abbia il coraggio di lanciare nuove e rivoluzionarie parole d’ordine.
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Luc Montagnier continua la sua battaglia con la comunità scientifica riguardo all’origine del coronavirus. Il virologo francese ha vinto il premio Nobel per la medicina nel 2008 grazie ad alcuni studi sull’Aids, ma nell’ultimo decennio è diventato un personaggio controverso per alcune sue teorie vicine ai no-vax. Adesso, però, Montagnier ha analizzato la descrizione del genoma del Covid-19 ed è emerso che “la sequenza dell’Aids è stata inserita nel genoma del coronavirus per tentare di produrre un vaccino”. Di conseguenza per il virologo è plausibile questa ricostruzione: “Stavano cercando un vaccino per l’Hiv e gli sarà scappato dal laboratorio”. Ovviamente non un laboratorio qualsiasi, bensì quello di Wuhan, che ormai conoscono in tutto il mondo. La comunità scientifica smentisce (“Quelle stesse sequenze si trovano in altri virus”), ma Montagnier continua a sostenere la posizione della manipolazione in laboratorio fino a prova contraria.
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I nuovi virus non arrivano solo per caso Sabato il WWF ha pubblicato un rapporto sul coronavirus (SARS-CoV-2) e la sua origine. Ci si potrebbe chiedere perché una notissima organizzazione dedicata alla difesa degli animali si occupi di un virus diffuso tra le persone,... la COVID-19 è una zoonosi, cioè una malattia infettiva che a un certo punto si è trasmessa da una specie animale alle persone; lo spillover è il “salto di specie” fatto dal virus che la causa, il SARS-CoV-2. La probabilità che una nuova malattia contagiosa si diffonda, insomma, dipende non solo dall’applicazione delle misure sanitarie indicate dalle autorità, ma anche dal modo in cui l’umanità interagisce con la natura. È per questo che al WWF interessa ciò che sta accadendo nel mondo: ritiene che dovrebbe farci capire, una volta di più, che «dalla salute del pianeta dipende la nostra». (...) Nonostante le incertezze, non c’è dubbio che tutto sia cominciato con un contatto “straordinario” tra un animale selvatico e una persona e che, con buona probabilità, l’occasione di questo contatto sia stata il commercio legale e illegale di animali selvatici o di loro parti del corpo. Gli spillover infatti sono fenomeni rari, ma il fatto che esistano luoghi in cui ogni giorno avvengono milioni e milioni di contatti tra animali selvatici e persone, come nei mercati asiatici e non solo, aumenta significativamente le probabilità che si verifichino. La comunità scientifica è da tempo consapevole che la manipolazione e il commercio di animali selvatici, la distruzione dei loro habitat naturali, la creazione di ambienti artificiali e più in generale la riduzione della biodiversità siano tra le cause della diffusione di nuove malattie infettive pericolose per gli esseri umani. Secondo molti esperti che si occupano di salvaguardia ambientale, il commercio non controllato di animali selvatici andrebbe fortemente contrastato o reso illegale in modo permanente per diminuire il rischio di nuovi spillover ed epidemie future. Il rapporto di WWF lo spiega chiaramente: "La distruzione di habitat e di biodiversità provocata dall’uomo rompe gli equilibri ecologici in grado di contrastare i microrganismi responsabili di alcune malattie e crea condizioni favorevoli alla loro diffusione. In aggiunta, la realizzazione di habitat artificiali o di ambienti poveri di natura e con un’alta densità umana possono ulteriormente facilitare la diffusione di patogeni. Le periferie degradate e senza verde di tante metropoli tropicali, ad esempio, sono la culla perfetta per malattie pericolose e per la trasmissione di zoonosi, mentre la diffusione in paesi tropicali di sistemi d’irrigazione, canalizzazioni e dighe permette la riproduzione di vettori come alcune specie di zanzare." Insomma, le azioni distruttive dell’uomo verso la natura sono in molti casi le stesse che amplificano la potenziale diffusione di microorganismi patogeni: pensiamo per esempio al mantenimento in cattività di specie selvatiche a stretto contatto tra loro o all’estinzione di specie predatrici o ancora a cambiamenti genetici indotti dall’uomo come la resistenza delle zanzare ai pesticidi o la comparsa di batteri resistenti agli antibiotici. In particolare, dice il rapporto del WWF, sembra che i cambiamenti di uso del suolo e la distruzione di habitat naturali come le foreste siano responsabili di almeno la metà delle zoonosi emergenti perché espongono l’uomo a nuove forme di contatto con i microbi e con le specie selvatiche che li ospitano. Le foreste, nello specifico, sono gli ecosistemi più “rischiosi” perché sono abitati da milioni di specie, in gran parte sconosciute alla scienza. Tra questi milioni di specie ignote ci sono virus, batteri, funghi e molti altri organismi, nella maggior parte dei casi parassiti benevoli che non riescono a vivere fuori del loro ospite, in altri casi agenti patogeni per l’organismo umano. David Quammen, divulgatore scientifico e autore del saggio divulgativo Spillover, ha scritto a questo proposito: «Là dove si abbattono gli alberi e si uccide la fauna i germi del posto si trovano a volare in giro come polvere che si alza dalle macerie». Il Post
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• Covid-19 • 182 giorni di Apocalisse, tra morti misteriose, sparizioni, e report dei servizi segreti
La vita ai tempi della pandemia - Mondo, Zona Rossa / giorno 116
Ieri, 30 giugno 2020, sono stati 6 mesi da quel fatale 30 dicembre 2019, che ha cambiato il mondo che conoscevamo. Per sempre.
In questi 6 mesi, un virus letale, di origine (s)conosciuta, con epicentro la megalopoli cinese di Wuhan, da 11 milioni di abitanti, fuoriesce dal BioLab-4 di Wuhan (un super laboratorio di massima sicurezza che gestisce i patogeni più letali al mondo) e comincia silenziosamente ad infettare ed uccidere migliaia di persone in tutto il pianeta.
Questo virus mortale, provoca polmoniti interstiziali bilaterali mai viste prima: alle radiografie, i polmoni appaiono a “vetro smerigliato” e, all’auscultazione, i polmoni producono un caratteristico rumore di “carta accartocciata”.
Ma soprattutto, questo virus letale, nato già “perfetto” e che non ha bisogno di replicarsi per mutare e perfezionarsi (com’è accaduto invece per il similare virus della Sars, questo sì, un virus di origine naturale, che ha fatto “solo” 800 morti nel mondo in 32 paesi, in 4 mesi totali di epidemia, da novembre 2002 a marzo 2003, contro i 500.000 morti, in 188 paesi, di Covid-19, in soli 6 mesi, e non è ancora finita), uccide con un meccanismo mai visto prima in altri virus: provoca una reazione immunitaria abnorme, che fa “impazzire” il sistema immunitario umano, il quale comincia a produrre centinaia di coaguli nel sangue, che, una volta arrivati agli organi vitali, portano alla morte.
Il mondo si blinda in un lockdown globale.
Le economie precipitano.
Disoccupazione e povertà arrivano a livelli esponenziali, intaccando anche il ceto medio.
Cominciano rivolte e guerriglie in diversi paesi, soprattutto negli Stati Uniti, dove l’epidemia è fuori controllo.
I suicidi aumentano, sia tra il personale sanitario, che tra le persone comuni.
Gli ospedali di tutto il globo collassano.
Finiscono i respiratori.
Non ci sono farmaci nè vaccini contro il virus.
I malati vengono messi per terra, nei corridoi, o all’esterno, nelle tende di biocontenimento.
Gli obitori, i cimiteri, i forni crematori di tutto il pianeta, non bastano più.
Si scavano fosse comuni per seppellire i corpi infetti.
Decine e decine di camion militari trasportano decine e decine di bare da cremare.
Centinaia di persone, in tutto il mondo, vengono trovate morte, da sole, a casa, senza nessuna assistenza. Uccise dal virus.
Poi, dopo 3 mesi di buio e di lotta per la sopravvivenza individuale, qualcosa nella genetica del virus muta, e s’indebolisce: la carica virale non è più in grado di uccidere le cellule umane. I sintomi diventano lievi, e le terapie intensive si svuotano, insieme ai Covid Hospital, prima in Cina, poi in Italia, poi in Europa, ovvero, nei paesi che la pandemia ha colpito per primi. Il resto del mondo, invece, è ancora alle prese con le fasi più feroci e mortali della malattia.
Attualmente, in Cina, Italia ed Europa, ci sono ancora alcuni importanti focolai, ma sono tutti di persone asintomatiche, che non richiedono, nella maggior parte dei casi, ricovero ospedaliero, ma solo quarantena e assistenza domiciliare.
E mentre imperversa ovunque questo caos apocalittico, in questi 6 mesi di puro terrore, ci sono state anche misteriose “scomparse”, morti, uccisioni di ricercatori, blogger, giornalisti, che hanno cercato di dire la verità sul virus, e cioè che proviene dal BioLab-4 di Wuhan, da cui è fuoriuscito per un errore umano, e dove è stato geneticamente modificato con innesti di altri virus, per scopi, molto probabilmente militari, e molto meno probabilmente per semplice “studio”.
In un dossier di 15 pagine, redatto da “Five Eyes” (una super intelligence internazionale, basata su un’alleanza tra i servizi segreti dei maggiori 5 paesi di lingua anglofona: Australia, Canada, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati Uniti), la Cina viene accusata di aver nascosto o distrutto prove sull'origine della diffusione del virus, di aver negato inizialmente la trasmissibilità da uomo a uomo, e di aver bloccato l'accesso delle organizzazioni internazionali a Wuhan, epicentro del contagio, e ai campioni del virus inizialmente disponibili. Nel fascicolo, inoltre, si fa riferimento all'esistenza di prove in grado di dimostrare che il virus sia stato generato nei laboratori dell'istituto di virologia di Wuhan, a pochi passi dal mercato del pesce, prove che Pechino ha intenzionalmente cercato di insabbiare.
In particolare, il report di Five Eyes muove 3 pesanti accuse contro la Cina:
1) la prima, riguarda la scomparsa di molte persone, tra cui la ricercatrice dell'istituto di Wuhan, Huang Yan Ling, da molti ritenuta la ‘paziente zero’ di Covid-19, misteriosamente scomparsa. Pechino non ha fornito spiegazioni in merito, e addirittura il profilo della ricercatrice è stato rimosso dal sito dell'Istituto di ricerca di Wuhan.
Anche altre persone sono scomparse, come i ricercatori cinesi Botao Xiao e Lei Xiao (di cui mi sono già occupata tempo fa), che per primi avevano parlato della possibilità che il virus fosse uscito dal laboratorio di Wuhan, dove, già in passato, c’erano stati altri incidenti di ricercatori infettatisi coi virus dei pipistrelli.
Ma la scomparsa più eclatante, riguarda Shi Zenghli (anche di lei ho già ampiamente parlato), la virologa numero 1 della Cina, soprannominata “Batwoman”, per i suoi studi sui coronavirus dei pipistrelli, di cui è la massima esperta a livello mondiale.
Di Shi Zenghli non si hanno più notizie da aprile 2020.
Il 2 gennaio 2020, terminando la mappatura della sequenza del genoma di Covid-19, Shi scopre che è identico per il 96% a quello di un virus studiato nel suo laboratorio.
Lo stesso 2 gennaio, la direttrice dell’istituto in cui si trova il BioLab-4 di Wuhan, diretto da Shi, invia una mail, rivolta a tutta la comunità scientifica, in cui vieta la divulgazione dei risultati delle ricerche sul virus Sars-Cov-2.
Ma Shi non rispetta questo monito, e il 23 gennaio 2020, pubblica una relazione scientifica, ripresa poi da “Nature”, in cui spiega di aver scoperto l’altissima contagiosità di questo virus il 14 gennaio (6 giorni prima che il regime di Pechino lo riveli al mondo).
L’11 marzo 2020, Shi rilascia inoltre un’intervista (per lei fatale), nonostante le fosse stato vietato, alla rivista “Scientific American”, in cui dichiara i suoi dubbi sul presunto passaggio animale-uomo fatto dal virus e avvenuto in una zona urbana, il mercato del pesce di Wuhan, anziché negli ambienti tropicali che lei studia da 16 anni, e a cui ha dedicato la sua vita e la sua carriera.
Ammette poi che <<il virus potrebbe essere arrivato dal nostro laboratorio. Questo è stato un vero peso, non ho chiuso occhio per giorni>>.
Più avanti, nell’intervista, dice anche di aver abbandonato gli studi su Covid-19, senza peró spiegarne i motivi.
Queste sono state le ultime dichiarazioni di Shi, dopodiché, di lei si sono perse le tracce.
Molte voci dicono che sia fuggita dalla Cina e abbia trovato rifugio a Parigi con la sua famiglia, e sia pronta a consegnare un dossier sulla fuga dal laboratorio di Wuhan del Covid-19.
Ma anche altre persone sono state colpite dalle misure restrittive del regime, come diversi medici che hanno cercato di dare l’allarme sulla diffusione dell’epidemia, e sono tutti stati incarcerati o scomparsi, oppure come l'uomo d'affari Fang Bin, l'avvocato Chen Qiushi e l'ex reporter televisivo statale Li Zehua, anche loro tutti incarcerati, per aver diffuso il proprio pensiero in merito alla gestione governativa dell’emergenza.
Infine, c’è un’altra scomparsa misteriosa: l’uccisione, a maggio 2020, di Bing Liu, 37 anni, un professore cinese dell'università di Pittsburgh, che era vicino a "scoperte molto significative" sul Covid-19, e che è stato assassinato nella città della Pennsylvania in un caso di omicidio-suicidio.
Bing Liu, è stato ucciso nella propria abitazione, con numerosi colpi di pistola alla testa, al collo e al torace. L'omicida è il 46enne Hao Gu, anche lui di Pittsburgh, che poi si è ucciso nella sua auto, parcheggiata poco distante. La polizia ritiene che i due si conoscessero e che il movente non fosse una rapina. Il delitto è avvenuto sul patio della casa mentre la moglie della vittima era fuori.
L'università di Pittsburgh ha poi spiegato che Bing Liu aveva un dottorato in chimica ed era "un eccezionale e prolifico ricercatore", e che era "vicino a realizzare scoperte molto significative per la comprensione dei meccanismi cellulari che sottintendono all'infezione da SARS-CoV-2 e alle successive complicazioni".
Bing Liu è stato ucciso perché stava per trovare le prove di una manipolazione genetica di Covid-19? Certamente sì.
2) La seconda accusa mossa da Five Eyes a Pechino, riguarda la possibilità di una fuoriuscita del virus dai laboratori di Wuhan, nei quali l'equipe della dottoressa Shi Zhengli ha per anni condotto esperimenti sui Coronavirus nei pipistrelli, manipolando un campione del virus corrispondente al 96% con il Covid-19.
3) La terza, e ultima accusa, riguarda la continua attività di insabbiamento delle prove da parte di Pechino, attraverso la censura delle notizie sul virus dal web, già dal mese di dicembre 2019, e la deliberata rimozione dai motori di ricerca di key words riguardanti il coronavirus, le sue similitudini con la Sars, il mercato del pesce e il laboratorio di Wuhan.
Il mondo punta (a ragione) il dito contro la Cina, ma tutte le colpe del regime di Pechino nell’aver taciuto per mesi (gli inizi dell’epidemia sembra risalgano addirittura ad agosto 2019) il diffondersi del virus, alla fine non avranno conseguenze, perche nessuna nazione, per quanto ricca e potente, puó risarcire il mondo intero per un suo errore, anche se fatale e letale, e soprattutto perché, rivalersi sulla Cina, significherebbe arrivare alla terza guerra mondiale, e alla fine dell’umanità.
E già adesso, l’umanità si trova in bilico sull’orlo del baratro.
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Cosa ne pensi delle parole del premio Nobel Montagnier sulla manipolazione del virus con il genoma dell' HIV? In sintesi: sulla sua manipolazione umana? C'è tutto e il contrario di tutto
faccio molta fatica a non bestemmiare, certe volte. Sono stato educato a non farlo, anche se sono ateo e totalmente indifferente al giudizio divino, la bestemmia è qualcosa che non mi viene spontanea, il più delle volte.
Tranne quando leggo “Montagnier dice” da qualche parte.
Questo premio Nobel ha avuto il merito di aver isolato HIV (il povero Robert Gallo non se lo ricorda mai nessuno, ma l’ha isolato contemporaneamente) ma da quando per questo gli hanno dato il Nobel ha cominciato a inanellare una serie di scempiaggini una peggio dell’altra, dalla memoria dell’acqua al sostegno all’omeopatia, fino ad arrivare ora a questa cosa già smentita mesi fa da una ricerca scientifica.
Ora, io non ho l’abitudine di parlare male delle persone, soprattutto in pubblico, quindi mi limiterò a giudicare l’idea:
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