#malina inter
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A cabeça de Calloway ainda doía como um inferno desde que acordou, ainda mais zonza. Esfregava constantemente a testa, tanto para aliviar a dor quanto para procurar alguma coisa, que nem mesmo ela sabia o que era. — Ai... Acho que preciso de um tylenol.— Resmungou baixo, piscando algumas vezes enquanto encarava os arredores. — É isso chat, acho que não foi uma boa ter jogado 24hrs de VR. Já nem sei qual jogo eu tô mais, mas os gráficos são ultra realistas. Se a live travar, favor, contatar um dos mods, porque eu realmente nem sei mais onde tô ou o que tô fazendo. Que ódio, como é que eu vou ler os bitz pra vocês? — Perguntou literalmente para o nada, recebendo olhares estranhos. — Agora é sério, de quem foi a ideia BOSTA de fazer um rpg de faculdade? Porra, não tinha mais criatividade, não? Primeiro aquele jogo do mercado falidasso, e agora isso? O que é o próximo? Um murder mystery? Nossa, acho que não valeu o que quer que eu tenha gastado nisso. — A voz de Malina era um tanto estressada, com alguns décimos à ponto de gritar. Odiava jogar no VR, e odiava ainda mais jogos daquele estilo, só tinha aceitado o desafio do Raphael e, sinceramente, já estava se arrependendo dele. Estava ainda mais irritada em NÃO CONSEGUIR TIRAR OS ÓCULOS DE REALIDADE VIRTUAL. — Você, você. — Chamou muse, apontando irritada para elu. — Você é um npc ou jogador? Que ódio, você sabe como eu faço pra sair dessa merda? Pelo amor de Deus, não quero ficar presa nisso, só assisti os cinco primeiros episódios de Sword Art Online e achei uma chatice.
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Assim que chegaram ao dormitório, Malina se dirigiu até o guarda-roupa, jogando todas as coisas de um lado para o outro, até achar a roupa amarela que tanto queria. — Na verdade não seria uma peruca, e sim te deixar careca, mas é muito trabalhoso e não temos tempo. — Respondeu de forma apressada, colocando o amontoado amarelo na cama. — O que você acha? — Questionou, cruzando os braços e olhando orgulhosa para o traje que havia ficado semanas trabalhando.
Com uma inspirada bem, beeeem funda, Kai se permitiu ser puxado por Malina na direção do dormitório dela. Apressou um pouquinho o passo para ficar ombro a ombro e conseguir ler as palavras; infelizmente. Parecia que sempre se arrependia de ter aprendido a ler lábios. ─ Tá. Você que é a especialista. ─ deu de ombros. ─ Ok, sem peruca, começamos bem. Não quer me dar nem um spoiler? ─
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We are an English (language) based open agency, and all interactions, including your updates, shall mainly occur in english with the addition of your muse’s mother tongue!
We accept both GenRP, OCRP, and MVRP, but please take note that our events will run mostly with your original character, so you might have to adapt to our storylines! This means that you will be using an original character name at times needed.
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Any kind of drama and hostility among the members will not be tolerated. Please refrain yourself from the unpleasant action, and if you experience any inconvenience, please contact the caretakers!
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INGEBORG BACHMANN Letteratura come utopia
Biblioteca Adelphi 266
INGEBORG BACHMANN
Letteratura come utopia
LEZIONI DI FRANCOFORTE
«Un libro dev’essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi»: questa frase, che incontriamo in una lettera di Kafka, e che la Bachmann riprende, può valere come epigrafe per queste celebri lezioni, pronunciate a Francoforte nel
1959-1960. In poche pagine limpide e vi branti la Bachmann ha consegnato l’es senza del suo pensiero sulla letteratura, vale a dire - per lei, almeno - su tutto. La forma è piana e pacata, di una trasparen za educata su Hofmannsthal e Musil. Il senso è audace e inflessibile: l’idea di una letteratura che per essere tale deve nasce re «laddove, prima di ogni conoscenza, un pensiero nuovo, con la sua forza dirom pente, ha dato il primo impulso». Una ta le letteratura, già nel manifestarsi della sua forma, «contrappone alla vita una uto pia della lingua». Queste lezioni ci confer mano che in questo secolo le parole deci sive sulla letteratura le hanno dette i gran di prosatori e i grandi poeti, da Proust a Benn, da Auden a Mandel’stam - e accan to a quei precedenti esse si dispongono.
Di Ingeborg Bachmann (1926-1973) sono ap parsi presso Adelphi: Malina (1973), Tre sentie ri per il lago (1980), Il trentesimo anno (1985), Il caso Pranza (1988), Il buon Dio di Manhattan (1991), Il dicibile e l’indicibile (1998), Il libro Franza (2009) e Diario di guerra (2011). Que sto ciclo di lezioni, che in tedesco porta il sot totitolo Problemi di poetica contemporanea, è sta to pubblicato per la prima volta nel 1978.
«Ma la letteratura, che da sé non sa nean che definirsi, che si dà a conoscere solo c<>- me affronto più che millenario e mille vol te compiuto contro una lingua brulla - perché la vita possiede soltanto una lin gua brutta - e con questo affronto con trappone alla vita una utopia della lingua; questa letteratura, per quanto strettamen te possa essere legata al tempo e alla sua brutta lingua, deve essere lodata per il suo disperato muoversi verso quella uto pia e solo così essa può dirsi vanto e spe ranza degli uomini. I suoi linguaggi più preziosi, nonché quelli più volgari, parte cipano ancora di un sogno linguistico; ogni vocabolo, sintassi, periodo, interpun zione, metafora, ogni simbolo esaudisce qualcosa di quel nostro sogno di espres sione che non sarà mai pienamente rea lizzato».
In copertina: Ingeborg Bachmann a Roma nel 1962.
BIBLIOTECA ADELPHI 266
DELLA STESSA AUTRICE:
Diario di guerra Il buon Dio di Manhattan Il caso Pranza Il dicibile e l’indicibile Il libro Franza Il trentesimo anno
Tre sentieri per il lago
INGEBORG BACHMANN
Letteratura come utopia
LEZIONI DI FRANCOFORTE
ADELPHI EDIZIONI
TITOLO originale: Frankfurter Vorlesungen:
Probleme zeitgenössischerDichtung
Traduzione di Vanda Perretta Cura editoriale di Renata Colorni
Prima edizione: marzo 1993 Terza edizione: ottobre 2011
© 1980 R. PIPER & CO. VERLAG MÜNCHEN © 1993 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO
www.adelphi.it ISBN 978-88-459-0965-8
INDICE
Domande e pseudodomande 11
Sulle poesie 33
L’Io che scrive 55
Il rapporto con i nomi 81
Letteratura come utopia 103
Nota al testo 125
LETTERATURA COME UTOPIA
LEZIONI DI FRANCOFORTE
Signore e Signori,
la curiosità e l’interesse che vi hanno condotto in quest’aula credo di conoscerli. Essi scaturiscono dal desiderio di sentir parlare di argomenti che a noi tutti stanno a cuore, e cioè giudizi, opinioni e di scussioni riguardo a cose che, per il fatto stesso di esistere, dovrebbero bastarci. E il desiderio di qual cosa di flebile, dunque, perché tutto quello che vie ne detto sulle opere d’arte è più flebile delle opere stesse. Ciò vale, a mio avviso, anche per i prodotti più alti della critica e per tutto ciò che di tanto in tanto si è voluto in passato o ancora oggi si vuole di re di fondamentale e basilare. Sono discorsi che ser vono da orientamento, e noi desideriamo ascoltarli appunto per poterci orientare. D’altra parte gli scrittori stessi hanno sempre dimostrato un interes se vivissimo per le testimonianze di altri scrittori, per i loro diari, taccuini, carteggi e scritti teorici, e
oggi sempre di più anche per tutto quello che con tribuisce a svelare «le segrete cose della loro fuci na ». Ancora trenta o quaranta anni fa il poeta russo
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Majakovskij esortava i suoi lettori a rivendicare il diritto di esigere dai poeti che essi non portassero con sé nella tomba i segreti del mestiere. Al giorno d’oggi, questo pericolo è pressoché inesistente, so prattutto i poeti lirici non sono certo avari di dichia razioni, in tal senso, anche se è un campo dove non regna l’unanimità...: Un’opera poetica viene prodot ta, una poesia nasce dall’ispirazione, è distillata, co struita, montata, così è anche da noi.
Comunque stiano le cose, le informazioni non mancano, e addirittura vi vengono confidati come segreti cose che di segreto non hanno nulla. La cu riosità è talmente grande - ma non da meno po trebbe essere la delusione - che provvisoriamente può servirci da scusa per le false speranze che voi vi fate e che mi faccio anch’io nel momento in cui, chiamando a raccolta tutto il mio coraggio, ritengo che se da questa cattedra certo non sarà possibile insegnare nulla, forse non sarà impossibile risve gliare qualcosa: pensare insieme la disperazione e la speranza con cui alcuni - o sono invece già molti?
— mettono in discussione se stessi e la nuova lette ratura.
«Problemi di poetica contemporanea»: questo il titolo che è stato scelto per un primo ciclo di lezioni, e quando stavo per mettermi al lavoro, fino all’ulti mo quasi del tutto incapace di trovare un punto di avvio per questo tentativo che mi sembrava sospet to, tornai a riflettere sul titolo. Avrei dovuto tratta re questioni già poste da altri? E quali, in tal caso, e dove, e da chi? O addirittura mi si chiedevano ri sposte? Quali sono secondo voi le autorità, ci crede te voi a quelli che si ritengono autorizzati a dispen sare domande e fornire risposte? E, soprattutto, di
quali mai domande si potrebbe trattare? Dovrem mo forse prendere in considerazione gli interroga tivi sollevati a intervalli regolari dalla stampa quoti
li
diana nelle sue pagine culturali, o i problemi che vengono discussi in Accademie o Congressi, o inve ce, più al passo coi tempi, dovremmo occuparci del le inchieste radiofoniche o dei quiz letterari che si trovano sui supplementi natalizi di giornali e rivi ste? Per citarne solo alcuni: « La materia del narrare ha da essere trattata a freddo? », « Il romanzo psico logico è morto? », « Nell’èra della relatività è ancora possibile una cronologia nel romanzo?», «E pro prio necessario che la nuova poesia sia tanto oscu ra? », « La drammaturgia vista caso per caso ».
O invece bisognerà tener conto di interrogativi meno eclatanti e attraenti, come quelli che si pone la scienza della letteratura? È lecito a noi, anche se incompetenti e privi di cognizioni specialistiche, ac costarci a questa scienza in cerca di aiuto? Certo, es sa offre, belli e pronti, i suoi salvagente: interpreta zione empatica, storicismo, formalismo, realismo socialista. Chi non vorrebbe cavarsela in questo mo do, e senza far male a nessuno! Anche la psicologia, la psicoanalisi, la filosofia dell’esistenza, la sociolo gia si fanno innanzi e pongono quesiti alla letteratu ra. Ovunque giudizi consolidati, prese di posizione, punti di vista, etichette, istruzioni, parole chiave della storia dello spirito tra cui si può trovare qual cosa, nonché il modo per trovarlo. Ma a chi in que sto momento deve farsi avanti e parlare manca pro prio la parola chiave, mentre sente alle sue spalle tutte le opere e tutti i tempi, perfino le opere più nuove e i tempi appena trascorsi, e ha paura di do versi arroccare, per mancanza di sapere, su quel poco di esperienza che ha avuto con la lingua e con quelle opere che vengono contrassegnate come let teratura. Eppure l’esperienza è l’unica maestra. Per limitata che sia, essa non offrirà forse minore consi glio di un sapere che passa per tante mani, di cui si usa e di continuo si abusa, e che finisce spesso, se non è rinverdito dall’esperienza, per logorarsi e gi rare a vuoto.
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Per lo scrittore, infatti, esistono soprattutto pro blemi che in apparenza si trovano fuori dell’ambito letterario; in apparenza, perché la loro diretta tra duzione nella lingua addetta ai problemi letterari, così come noi la conosciamo, ce li fa apparire pro blemi secondari, della cui esistenza, talvolta, neppu re ci accorgiamo. Si tratta di problemi devastanti, terribili nella loro semplicità, e dove essi non emer gono, anche nell’opera niente può emergere.
Guardando retrospettivamente al mezzo secolo trascorso, alla sua letteratura con i capitoli che si chiamano Naturalismo e Simbolismo, Espressioni smo, Surrealismo, Immaginismo, Futurismo, Da daismo, e ad alcune altre cose che non si possono iscrivere in nessuno di questi capitoli, siamo indotti a ritenere che questa letteratura si sia sviluppata in maniera assolutamente meravigliosa, ancorché piuttosto contraddittoria, come è stato sempre, co me fu nel passato — prima lo Sturm und Drang, poi il Classicismo, e ancora il Romanticismo, e così via, lungo un percorso sul quale non è particolarmente difficile trovare un’intesa; soltanto il presente lascia parecchio a desiderare, le direzioni del suo svilup po non ci appaiono chiare, non vediamo bene dove puntano, tutto è incerto, non si riesce neppure a identificare in modo attendibile una o più linee di tendenza. È quello che ci accade con la storia con temporanea; le siamo troppo vicini, non riusciamo
a comporre un quadro d’insieme, solo quando scompaiono gli stereotipi di un’epoca noi siamo in grado di trovare il linguaggio adatto a quell’epoca e la sua rappresentazione diventa possibile. Tra gli stereotipi del giorno d’oggi noi prendiamo coscien za soltanto dei più violenti. Se avessimo la parola, se possedessimo il linguaggio, non avremmo bisogno di armi.
Per quello che riguarda la letteratura, mi basti ri chiamare alla vostra memoria gli argomenti che so no stati più discussi negli anni passati e ancora oggi
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sono al centro del dibattito. Da un lato si leva la la mentazione per la perdita di un centro e le etichette per questi prodotti letterari privi di centro recitano: alogico, troppo calcolato, irrazionale, troppo razio nale, distruttivo, antiumanistico — e così via con ogni sorta di connotazioni negative. D’altro lato i paladini di questi stessi prodotti letterari dispongo no di un lessico che è in gran parte simile al primo e ne riprende intenzionalmente le connotazioni ne gative o addirittura ne crea di nuove, e quindi, vi vaddio, si dà il benvenuto proprio all’alogicità, al l’assurdo, al grottesco, a ogni anti-, a ogni dis-, a ogni de-, e quindi alla destrutturazione, alla discon tinuità, all’anti-teatro, all’anti-romanzo; di anti poesia ancora non si è parlato, ma forse si è prossi mi a farlo. Contemporaneamente hanno libero cor so opere più rassicuranti e tradizionali, accompa gnate da una critica di tipo più tradizionale che si affida a termini come: dominio della forma, creati vità, essenzialità. E voi stessi potreste completare la lista come più vi piace. Dagli anni convulsi e densi di speranze delfimmediato dopoguerra ci vengono ancora vocaboli come Kahlschlag (taglio netto), pun to zero, calligrafia, esistenziale, situazione ontologi ca, in primo piano e in secondo piano, perché pro prio la nostra generazione ha assistito al divampare della battaglia tra la letteratura impegnata e Vart
pour Vart come conseguenza diretta, questa volta, della catastrofe politica in Germania e delle altre ca tastrofi provocate da quella tedesca nelle nazioni vi cine, battaglia alimentata dal presentimento di fu ture e nuove catastrofi.
Sarebbe dunque possibile scegliere, non dovrem mo fare altro che dichiararci entusiasti di una posi zione, rifiutare con orrore l’altra e schierarci con quella da cui più siamo attratti. Forse vi chiederete da quale punto sarete indotti a partecipare al dram ma di questo scontro o se invece vi si terrà occupati in una osservazione neutrale e oggettiva dell’evento
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in corso — in modo da far contenti tutti e non irrita re nessuno. Ogni scrittore vive infatti in una situa zione intricata; che lo vogliano ammettere o no, tut ti gli scrittori vivono in una rete di favori e sfavori e non è possibile esser ciechi di fronte al fatto che la letteratura è oggi simile alla Borsa. Questa frase non è mia, e neppure è di oggi, la dobbiamo a Heb bel, Friedrich Hebbel, che l’ha scritta nel 1849. Sot to questo aspetto tutte le epoche si somigliano.
Consentiteci comunque di scartare sia la partigia neria sia la neutralità, per tentare invece una terza strada: quella irta di ostacoli che conduce al supera mento della babelica confusione dei linguaggi.
La prima e la più grave tra le domande di cui vi ho parlato e su cui ogni scrittore deve prendere po sizione, è quella che riguarda la giustificazione della sua esistenza. Certo quasi mai essa affiora alla co scienza del singolo autore che, sedotto e animato dal proprio talento, scrive le sue opere e spesso av verte la presenza di questa domanda solo tardiva mente. Perché scrivere? A quale fine? Perché, dal momento in cui non c’è più un mandato dall’alto, anzi non esistono più mandati, e quelli che si spac ciano per tali, non ingannano più nessuno? Su che
cosa scrivere, per chi, e a che cosa dare voce al co spetto degli uomini, in questo mondo? Anche chi è più posseduto di tanti altri dalla sete di conoscere, più posseduto dal desiderio di interpretare e di da re un senso alle cose, anche costui come può so pravvivere in virtù di una qualche interpretazione, di una attribuzione di senso, o anche solo in virtù di una qualsiasi descrizione, per quanto esatta possa sembrargli? E i suoi giudizi per mezzo del linguag gio, perché uno scrittore giudica sempre, egli giudi ca cose e esseri umani nel momento stesso in cui dà loro un nome, non sono forse del tutto indifferenti, o fuorvianti, o addirittura riprovevoli? E se egli osasse assegnarsi da solo un compito (e oggi è que sta la sola possibilità che gli resta!) non sarebbe que-
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sto compito arbitrario, ambiguo, e non sarebbe egli sempre - malgrado ogni suo sforzo - in debito di qualcosa nei confronti della verità? E tutto il suo operare non sarebbe forse hybrìs, e non dovrebbe egli diffidare di ogni propria parola, di ogni pro pria finalità, perfino di se stesso? Il fatto che già da tempo queste domande abbiano un interesse pura mente biografico per coloro che si occupano della letteratura e delle sue vittime, è assai singolare. Per ché quando si comincia a parlare di « fine della poe sia », vuoi voluttuosamente vuoi astiosamente, come se fosse la poesia stessa a voler finire per sempre e come se questa fine fosse il suo tema estremo, non si deve dimenticare che una delle premesse di tutto questo va cercata negli stessi poeti, nel dolore che essi hanno patito per la propria insufficienza e nei loro sensi di colpa. Negli ultimi anni di vita, Tolstoj ha maledetto l’arte, ha dileggiato se stesso e ogni ge nio, ha accusato se stesso e gli altri di diavolerie di ogni genere, del peccato di superbia, di aver profa nato la verità e l’amore, e ha urlato al mondo la pro pria sconfitta morale e spirituale. Gogol’ ha brucia to il seguito delle Anime morte, Kleist ha dato fuoco al suo Robert Guiskard e, sentendosi un fallito, si è suicidato. In una delle sue lettere leggiamo: « Sento viva in me un’esigenza, quella di fare qualcosa di buono; se non dovessi soddisfarla, non potrei mai vi vere felice ». E che cosa significa la tacita rinuncia a continuare a scrivere per Grillparzer e per Mörike? Le circostanze esterne non spiegano quasi nulla. E la fuga di Brentano nel grembo della Chiesa, la sua abiura, la sua ritrattazione di tutto ciò che di bello aveva scritto? E tutte queste abiure, i suicidi, il muti smo, la follia, i silenzi su silenzi causati dal senso del peccato, dalla colpa metafisica o da quella indivi duale, i peccati di indifferenza o quelli di omissione nei confronti della società. Già prima dell’epoca di cui ci dobbiamo occupare vediamo venirci incontro ogni specie di inadeguatezza. Nel nostro secolo que-
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ste cadute nel silenzio, le loro cause, ma anche i mo tivi per riemergere dal silenzio mi sembrano fonda- mentali per capire i lavori linguistici che lo prece dono o lo seguono, proprio perché la situazione si è ulteriormente aggravata. Oggi per la prima volta la precarietà dell’esistenza poetica deve confrontarsi con l’insicurezza di ogni tipo di relazione. Le cate gorie di spazio e di tempo si sono dissolte, la realtà attende pertinacemente di essere ridefinita dal mo mento che la scienza l’ha ridotta a un coacervo di formule. Il rapporto di fiducia tra Io, linguaggio e cose è stato fortemente scosso. Il primo documento che raccoglie tematicamente la messa in discussione del singolo, la disperazione della lingua e la dispe razione per l’estraneità e lo strapotere non più do minabile delle cose, è la famosa Lettera di Lord Chan- dos di Hugo von Hofmannsthal. Questa lettera rap presenta fra l’altro l’inatteso allontanamento di Hofmannsthal dalla purissima poesia magica dei suoi primi anni - e cioè l’allontanamento dall’esteti
smo.
« Ma, mio stimato amico, anche i concetti terreni mi si sottraggono in egual modo. Come debbo ten tare di descrivervi tali strani tormenti spirituali, questo scattare in alto dei rami carichi di frutti so pra le mie mani tese, questo ritrarsi dell’acqua gor gogliante davanti alle mie labbra assetate?
« Il mio caso, in breve è questo: ho perduto del tutto la facoltà di pensare o parlare coerentemente su qualsiasi argomento.
« Dapprima mi divenne a poco a poco impossibi le trattare un tema elevato o comune servendomi di quelle parole di cui pure tutti gli uomini usano servirsi correntemente senza pensarci. Provavo un inesplicabile disagio solo a pronunciare le parole “spirito”, “anima” o “corpo”. Nel mio intimo trova vo impossibile portare un giudizio sulle cose di cor te, i casi in parlamento o qualsivoglia altra materia.
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E ciò non per riguardi di alcuna sorta, ché Voi co noscete la mia franchezza che si spinge fino alla sconsideratezza: ma le parole astratte di cui la lin gua, secondo natura, si deve pur servire per espri mere qualche giudizio, mi si sfacevano in bocca co me funghi ammuffiti».
E ancora:
« Ma a poco a poco questo malessere si estese co me una ruggine corrosiva. Anche nella conversa zione familiare e domestica tutti i giudizi, che si usa no dare alla leggera e con una sicurezza da sonnam buli, mi divennero così dubbi ch’io dovetti cessare di prendere una qualunque parte a tali conversazio ni. Di un’ira inspiegabile, che a fatica celavo alla meglio, bastavano a riempirmi affermazioni come queste: quell’affare è riuscito bene o male a questo o a quello; lo sceriffo N. è un malvagio, il predicatore T. un brav’uomo; il fittavolo M. è da compiangere, ha dei figli dissipatori; un altro è da invidiare per ché le sue figlie sono econome; una famiglia sale in alto, un’altra è in declino. Tutto ciò mi sembrava quanto mai indimostrabile, menzognero, inconsi stente. Il mio spirito mi costringeva a vedere ogni cosa, che cadesse in tali conversazioni, a una vici nanza inquietante; come una volta avevo visto in una lente d’ingrandimento un lembo di pelle del mio dito mignolo, che somigliava a una pianura con solchi e buche, così m’accadeva ora con gli uomini e le loro azioni. Non mi riusciva più di coglierli con lo sguardo semplificatore dell’abitudine. Tutto mi si scomponeva in parti e le parti in altre parti, e più nulla si lasciava abbracciare con un concetto. Le sin
gole parole fluttuavano intorno a me; si coagulava no in occhi che mi fissavano e in cui io son costretto a fissare a mia volta; vortici sono, che a guardarli mi
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danno le vertigini, che turbinano senza posa e, tra versatili, si giunge al vuoto ».'
Malgrado si tratti di travagli molto diversi, Malte Laurids Brigge di Rilke, alcuni racconti di Musil e Rönne, Aufzeichnungen eines Arztes [Rönne, Appunti di un medico] di Benn descrivono esperienze ana loghe. E tuttavia non è lecito, in letteratura, pensare a pure coincidenze, bisogna essere consapevoli del fatto che si tratta ogni volta di spinte rivoluzionarie a se stanti. Eppure si continua a dire che le cose era no nell’aria. Ma io non credo che le cose siano sem plicemente nell’aria e che tutti possano raggiunger le e appropriarsene. Perché le esperienze nuove vengono fatte, non respirate con l’aria. L’aria o gli altri forniscono esperienza solo a coloro i quali non hanno mai avuto una propria esperienza. E io sono convinta che dove non vengono sollevate le eterne, sempre nuove domande che non risparmiano nes suno sul perché e sul fine ultimo delle cose, e le al tre che a queste si legano, compresa, se volete, la questione della colpa, e dove nell’autore stesso non esista il dubbio, il sospetto, e cioè la vera problema tica, là, io credo, non può nascere nuova poesia. Ciò può suonare paradossale perché abbiamo appena parlato di mutismo e silenzio come conseguenze del disagio dello scrittore che si confronta con se stesso e con la realtà — disagio che semplicemente ha as sunto oggi forme diverse. I conflitti religiosi e me tafisici hanno ceduto il passo ai conflitti sociali, in terpersonali e politici. E tutti sfociano per lo scritto re nel conflitto con il linguaggio. Infatti tutte le
opere veramente grandi di questi ultimi cinquan-
1. Hugo von Hofmannsthal, Der Brief von Lord Chandos, in Prosa, II, Fischer, Frankfurt am Main, 1951, p. 7 [trad. it. di Leone Traverso in L’ignoto che appare. Scritti 1891-1914, a cura di Gabriella Bemporad, Adelphi, Milano, 1991, pp. 139-40].
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t’anni, quelle che hanno reso visibile una nuova let teratura, non sono nate dalla volontà di sperimen tare nuovi stili, né dal tentativo di esprimersi ora in un modo ora in un altro, né dal desiderio di essere moderni, esse sono nate sempre laddove, prima di ogni conoscenza, un pensiero nuovo, con la sua for za dirompente, ha dato il primo impulso, cioè dove, prima ancora di ogni formulabile etica, la spinta morale è stata abbastanza grande da concepire e progettare una nuova possibile etica. Per questo non credo che oggi i nostri problemi siano quelli che ci vengono affibbiati a forza di chiacchiere, è so lo che in tutti noi, ahimè, è troppo forte la tentazio ne di prendere parte alla chiacchiera generale. E do po tutte le scoperte e le avventure formali di questo secolo (soprattutto dei suoi inizi) non credo nemme no che non ci resti altro che una scrittura epigona le, più surrealistica che surrealista, più espressioni stica che espressionista, e che insomma non ci resti altro da fare che utilizzare le scoperte di Joyce e di Proust, di Kafka e di Musil. Gli stessi Joyce e Proust e Kafka e Musil non hanno certo utilizzato esperienze precedenti da loro trovate già belle e fat te, e ciò che hanno in effetti utilizzato, come si può appurare in seminari e tesi di laurea, si rivela co munque un elemento trascurabile nelle loro opere, esterno oppure fuso nel resto. Se si dovessero ri prendere ciecamente tutte le definizioni del reale appartenenti al passato, e le forme di pensiero che ieri erano nuove, si arriverebbe solo a una specie di calco e di pallida imitazione dei grandi capola
vori. Se questa fosse l’unica possibilità: continuare, prolungare, sperimentare senza alcuna esperienza sino al momento in cui sembri che ne valga la pe na, allora le accuse che oggi vengono spesso rivolte ai giovani scrittori sarebbero giustificate. Ma ormai la barca fa acqua. La notte precede il giorno e il fuoco viene appiccato al crepuscolo.
La realtà acquista un linguaggio nuovo ogni qual-
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volta si verifica uno scatto morale, conoscitivo, e non quando si tenta di rinnovare la lingua in sé, co me se essa fosse in grado di far emergere conoscen ze e annunciare esperienze che il soggetto non ha mai posseduto. Se ci si limita a manipolare la lingua per darle una patina di modernità, ben presto essa si vendica e mette a nudo le intenzioni dei suoi ma nipolatori. Una nuova lingua deve avere un modo nuovo di incedere, il che può accadere soltanto se un nuovo spirito la abita. Noi tutti crediamo di co noscerla, la lingua, e infatti la adoperiamo; non così
lo scrittore, lui, lui soltanto, non può adoperarla. La lingua lo spaventa, non gli appare qualcosa di ov vio; essa esiste già, infatti, prima della letteratura, in movimento e in divenire, destinata a un uso che a lui è negato. Per lo scrittore la lingua non è un’ine sauribile riserva di materiali cui attingere, non è l’oggetto sociale, il patrimonio indiviso di tutta l’u manità. Per ciò che lo scrittore vuole, per ciò che vuole dalla lingua, essa non ha ancora le carte in re gola; e quindi all’interno dei confini che gli sono da ti, lo scrittore dovrà fissare i segni della lingua, do vrà riportarla in vita seguendo un rituale, dovrà darle un ritmo che mai essa trova se non in un’ope ra d’arte letteraria. E qui la lingua ci concederà di prendere in considerazione la sua bellezza, di senti re questa bellezza, ma obbedirà a una trasformazio ne che non intende sollecitare, né in prima né in ul tima istanza, il piacere estetico, ma piuttosto una nuova capacità di comprensione del reale.
Si è parlato della necessità di una spinta che per ora non saprei definire se non come spinta morale che precorre ogni morale, forza d’urto per un pen siero che agli inizi non si preoccupa della propria direzione, un pensiero che tende alla conoscenza e che vuole raggiungere qualcosa con e attraverso il linguaggio. Questo qualcosa potremmo provviso riamente chiamarlo realtà.
Una volta scelta questa direzione - e non si tratta
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di una direzione filosofica né letteraria — essa sarà ogni volta differente. Ha condotto Hofmannsthal e George per strade diverse, come diversa è stata per Rilke e per Kafka; e a Musil è stata destinata una di rezione completamente diversa da quella di Brecht. Questo prendere una certa direzione, questo essere catapultati in una traiettoria per la vita e per la mor te, il cui accesso è vietato a ogni cosa o parola casua le... ebbene, io credo che dove questo accade esista no maggiori garanzie di autenticità di un fenomeno poetico di quelle che possiamo avere quando cer chiamo nelle opere i segni distintivi della qualità. La qualità è variabile, discutibile, a tratti addirittura contestabile. Si può di tanto in tanto trovare la qua lità anche nella poesia di un uomo qualsiasi, un buon racconto, un romanzo piacevole e intelligente sono sempre possibili; non sono certo i talenti quelli che fanno difetto al giorno d’oggi, ed esistono cose casualmente azzeccate, curiose, marginali eccezioni che possono anche, personalmente, divenire a noi care. E tuttavia è solo la direzione, il coerente mani festarsi degli stessi problemi, un unico e irripetibile universo di parole, figure e conflitti ciò che può in durci a riconoscere un poeta come inevitabile. Il poeta quindi esiste realmente proprio in quanto ha una sua direzione, segue una sua traiettoria come l’unica via possibile, disperato perché costretto ad appropriarsi del mondo intero, colpevole per l’ar roganza di volerlo definire. E il suo compito gli si ri vela nel momento in cui capisce di non avere altra
scelta, di non potere sfuggire a se stesso. Quanto più comincia a essere consapevole dei compiti che gli stanno di fronte, quanto più li individua con chiarezza, tanto più le sue opere sono accompagna te da un impegno teorico nascosto o palese. Spesso sentiamo dire che Rilke è stato sì un grande poeta, ma che l’essenza della sua visione e della sua descri zione del mondo non necessariamente deve interes sarci, come se si trattasse di un ridondante e fasti-
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dioso sovrappiù, qualcosa di trascurabile di cui si può benissimo fare a meno. L’importante invece sa rebbe la singola poesia ben riuscita, se non, addirit tura, il singolo verso. Sentiamo dire che Brecht è un grande poeta, nonché uno dei nostri maggiori drammaturghi, purché si faccia la cortesia di di menticare, oppure di deplorare vivamente, il fatto che egli è stato comunista. Detto in maniera becera: ciò che conta son le belle parole, il poetico in sé,
questo è bene, questo ci piace, soprattutto gli alberi di prugne e quella piccola nuvola bianca. Lo stre nuo tentativo di Hofmannsthal di ridar vita con le sue opere alla perturbata tradizione spirituale euro pea proprio mentre quest’ultima aveva fatto posto al vuoto, sembra a molti fatica sprecata, eppure il suo teatro non sarebbe stato possibile né i suoi saggi sarebbero stati ordinati con tanta forza raziocinante senza quella fittizia copertura. Nell’ultimo volume della Ricerca del tempo perduto, Proust ha come assi curato tutta l’opera con una riflessione teorica sulla sua genesi che è molto simile a una giustificazione, e noi potremmo chiederci: A quale scopo? Era neces sario? Io credo di sì. E perché Gottfried Benn - ho sentito domandare una volta — non ci ha risparmia to la formulazione di un radicale estetismo, disegno del suo mondo espressivo, e tutti quei termini intri si di fanatismo come: ebbrezza, elevazione, io mo nologico? Ma avrebbe egli potuto utilizzare altri
strumenti per dare risalto a quel paio di poesie che sembravano importanti a colui che ha posto questa domanda? I brani saggistici dell’Uomo senza qualità di Musil non sono forse parte integrante dell’ope ra? E possibile ignorare la costruzione di una utopia condannata al fallimento, o la ricerca di una «mi stica chiara come il giorno»? Non sono proprio tutte queste teorizzazioni a fare del libro quello che esso è?
Non cito questi esempi per rendere impossibile un giudizio sui singoli poeti e i loro errori e le loro
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parzialità. Bensì per ricordare, quando oggi, diso rientati, ce lo domandiamo, come sia possibile rico noscere il nuovo, la comparsa di un poeta o di una poesia autentici. Ciò sarà possibile grazie a una definizione nuova e globale, grazie alla nascita di nuove norme, alla presentazione nascosta o palese di un pensiero inevitabile.
Eterne, certo, sono solo le immagini. Il pensiero, legato al tempo, è in sua balìa. Ma proprio per que sto suo essere in balìa del tempo, il nostro pensiero ha da essere nuovo se vuole essere autentico ed esercitare qualche influsso.
Non ci verrebbe mai in mente di aggrapparci al l’universo di pensiero del Classicismo o a quello di altre epoche che per noi non hanno più alcun valo re normativo; altri sono ormai la nostra realtà e i nostri conflitti. Per quanto splendenti possano ap parirci singoli pensieri di epoche passate, quando oggi ne invochiamo la testimonianza ciò è soltanto per fornire un sostegno ai nostri attuali pensieri. Né d’altra parte dobbiamo pensare che tutto il lavo ro sia già stato fatto solo perché quaranta o cin quanta anni fa sono nati un paio di grandi spiriti. Non giova lasciare a costoro, come se fossero le no stre stelle polari, ancora e sempre ogni attività di pensiero. Non giova appoggiarsi alle cose meravi gliose create negli ultimi decenni. Dalla loro esi stenza dovremmo dedurre solamente la certezza che non ci saranno risparmiate le loro stesse ri schiose avventure. L’arte non conosce progressi li neari, ma solo e sempre nuove impennate verticali. Soltanto i mezzi e le tecniche artistiche danno l’im pressione che si tratti di progresso. In realtà, quello che è possibile è solo il mutamento. E i cambiamenti che derivano da opere nuove ci educano a nuove percezioni, a nuovi sentimenti, a una nuova consa pevolezza.
Ogni qualvolta coglie una nuova possibilità, l’arte dà anche a noi la possibilità di capire dove siamo o
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dove dovremmo essere, quale sia il nostro stato e quale dovrebbe essere. Infatti i suoi progetti non nascono nel vuoto. Oggi nessuno è più disposto a credere che la poesia nasca al di fuori di una situa zione storica precisa, e che esista anche un solo poe ta le cui posizioni di partenza non siano state deter minate dagli avvenimenti dell’epoca in cui è vissuto. Nel migliore dei casi, al poeta riusciranno due cose: rappresentare, rappresentare l’epoca sua, e presen tare qualcosa per cui il tempo non è ancora venuto. Certo, esiste anche per il poeta, se non proprio il bi sogno timoroso di sostegno, l’aggrapparsi intellet tuale tipico di coloro che non sanno far altro che re
cepire la scintilla, l’ispirazione che viene da lontano. Per un’intera generazione è stato Nietzsche: una scintilla del suo fuoco ha colpito André Gide, Tho mas Mann, Gottfried Benn e molti altri. Per Brecht si è trattato di Marx, per Kafka di Kierkegaard; Joyce si è acceso alla fiamma della filosofia della sto ria di Vico, e poi ci sono stati gli innumerevoli spunti derivati da Freud, e in epoche più recenti l’influenza di Heidegger.
Come potrebbero prodursi nuove scintille? Dif ficile a dirsi. Aumentano gli specialisti e gli esperti. Mancano i pensatori. Wittgenstein, Ernst Bloch, forse questi due eserciteranno ancora un certo in flusso. Pure supposizioni.
Arte come principio di trasformazione...? Già il termine « trasformazione » è un problema, uno dei tanti, fondamentali, terribili e irrisolti problemi. Che cosa intendiamo per trasformazione e perché vogliamo che l’arte operi una trasformazione? Per ché intendiamo pure qualcosa quando pensiamo a una trasformazione! L’arte ha già cambiato tante volte casa, dalla casa del Signore è passata a quella degli ideali, dalla house beautiful al bateau ivre, e poi ai quartieri popolari, alla nuda realtà - come si usa va dire - e poi ancora alla casa del sogno e ai templi
con i loro giardini pensili, e via ancora alla pestilen-
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ziale, pseudomistica atmosfera da Blut und Boden e poi alla casa della humanitas e a quella della politica. Come se non avesse pace in nessun luogo, come se non potesse mai trovare un tetto sotto il quale ripa rarsi. Per un certo periodo riceve e riconosce ordini e poi, un bel giorno, obbedisce a ordini nuovi. E questo, in realtà, è tipico del suo modo di procede re, di tirare avanti.
E il poeta che voglia operare una trasformazione, in che misura è libero e in che misura non lo è? An che questo bisogna domandarsi. Esiste un dramma per il poeta, un dramma che solo nel nostro tempo è diventato palese: giacché il poeta ha davanti agli occhi tutta l’infelicità dell’uomo e del mondo, è co me se sanzionasse questa infelicità, come se mancas se l’effetto voluto. Poiché il suo sguardo rivela tutta l’infelicità esistente, il poeta sembra ammettere l’i dea che anche ciò che è trasformabile non sia tra sformato. Vediamo la schiuma sulla sua bocca e ap plaudiamo. Nulla si muove, solo questo atroce ap plauso. Suppongo che, dopo tutti gli shock fittizi che il pubblico ha dovuto subire da anni e anni, si sia generata un’abitudine, un ottundimento o una dipendenza come per la droga, un bisogno di subi re altri piccoli shock. Solo la massima serietà e la lot ta contro l’abuso delle grandi e originarie esperien ze di dolore potrebbero aiutarci a risvegliare il pub blico dal letargo in cui è caduta la sua fantasia. « Il popolo ha bisogno di poesia come del pane » : que
sta frase commovente, certo nient’altro che espres sione di un desiderio, è stata scritta da Simone Weil. Ma oggi la gente ha bisogno di cinema e rotocalchi come ha bisogno di panna montata, e le persone più esigenti (tra cui anche noi) hanno bisogno di qualche piccolo shock, un po’ di Ionesco o le urla dei beatnik per non perdere del tutto l’appetito. Poesia come pane? Un pane che dovrebbe stridere tra i denti come sabbia, e risvegliare la fame piutto sto che placarla. Una poesia che dovrà essere affilata
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di conoscenza e amara di nostalgia se vorrà scuotere l’uomo dal suo sonno. Dormiamo, infatti, dormia mo per paura di dover percepire il mondo intorno a noi.
Oggi la nostra esistenza si trova all’incrocio di tante realtà tra loro sconnesse e investite dei valori più contrastanti. Sia che voi viviate tra le mura della vostra casa una serena vita di famiglia nel più puro stile patriarcale, sia che coltiviate il libertinaggio o qualsiasi altra inclinazione: all’esterno, comunque, siete presi nell’ingranaggio di un mondo funzionale e dominato dall’utilitarismo che si è fatto della vo stra esistenza un’idea ben precisa. Potete essere su perstiziosi e toccare ferro, ma ciò non toglie che i resoconti sullo stato della ricerca e degli armamenti vi appaiano rassicuranti per la salvaguardia della vostra sicurezza e della vostra libertà. Potete crede re alla immortalità della vostra anima e puntare tut to sulla condizione spirituale che vi è propria; all’e sterno troverete comunque un giudizio diverso, fuori saranno i test a decidere, le autorità, gli affari, fuori sarete messi in malattia o in salute, fuori sare te classificati e valutati. Potete vedere fantasmi o va lori reali, ne esistono moltissimi degli uni e degli al tri, e inoltre potete affidarvi a tutti nello stesso tem po, purché poi, nella prassi, siate in grado di tenerli
ben separati. Da una parte interiorità, senso, co scienza e sogno — dall’altra funzionalità, utilitari smo, insensatezza, frasi fatte e tacita violenza. Non date ai vostri pensieri un unico fondamento, potreb be essere pericoloso - dategliene più di uno.
Allo stato attuale delle cose, noi, a furia di con sensi, siamo ormai arrivati al punto che Hermann Broch ha stigmatizzato con una frase irosa. Ma tan- t’è, vuol dire che ci siamo arrivati. « La morale è mo rale, gli affari sono affari, la guerra è guerra e l’arte è arte ».
Se noi la tolleriamo, se accettiamo - pars pro foto - la formula: « L’arte è arte » e il suo tono derisorio, e
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se i poeti faccettano e la sostengono con superficia lità e con la chiara intenzione di distruggere quel la comunicazione con la società che è sempre in pe ricolo e quindi sempre da ricostruire, e se a sua volta la società si sottrae alla poesia quando i suoi contenuti diventano seri e scomodi e intendono cambiare le cose, allora vuol dire che stiamo dichia rando fallimento.
E non è accettabile né può essere nostro compito che, solo per rendere possibile il godimento di qual che immagine difficile, per risvegliare il senso del l’arte, ci si difenda dall’arte stessa rendendola inof fensiva. Sotto questi pessimi auspici noi tutti non avremmo più niente da pretendere gli uni dagli al tri. Né l’arte dagli uomini, né gli uomini dall’arte. E non avremmo più bisogno di porre domande.
Ma noi poniamole, invece. E facciamolo in modo che esse riacquistino in futuro un carattere vinco lante.
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II SULLE POESIE
Signore e Signori,
abbiamo appena cominciato ed è già posta la pri ma pietra per i primi fraintendimenti. Agli inizi, proprio l’inizio si presenta come la cosa più difficile - ma non appena si comincia a parlare, e si dice qualcosa, ecco che il proseguire diventa ancora più faticoso. Per questa ragione preferirei che il nostro fosse un vagabondaggio più che una dissertazione, e che nel nostro vagabondare potessimo chinarci su una qualche parola, o magari raccoglierne un’altra alla quale, all’inizio, non abbiamo dato peso.
Niente spaventa chi ha scritto poesie in proprio più dell’essere chiamato in causa per parlare e ri spondere a domande sulla lirica contemporanea: il suo sapere in proposito è assai più limitato di quan to si pensi, e poi noi tutti veniamo a conoscenza di ciò che di nuovo accade negli altri paesi solo dopo molto tempo, con un ritardo di una o spesso due generazioni; conosciamo Eliot, Auden e Dylan Thomas, quest’ultimo forse solo perché, bevitore leggendario, è già morto; conosciamo Apollinaire,
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Éluard, Aragon, e infine René Char, quasi fosse il poeta francese più recente, tra gli italiani sappiamo a mala pena qualcosa di Ungaretti e Montale, dei russi conosciamo Blok e Majakovskij, e da ultimo Pasternak, in virtù di un discutibile polverone poli tico; e tutto ciò non solo perché la lirica viene tra dotta meno; anche qualora, possedendo una o più lingue straniere, ci sforzassimo di rivolgere lo sguardo oltre le nostre frontiere, di questi tempi, quando si tratta di poesia, ci verrebbe restituita un’immagine annebbiata. Quando la poesia possie de una nuova capacità di comprensione, essa resta celata tra le pieghe della lingua di origine e non si manifesta anche all’esterno, come accade invece per il romanzo e il teatro. Non esiste quasi romanzo o dramma uscito da poco a Parigi, a New York o a Roma di cui non abbiamo immediatamente notizia, e che non leggiamo o non siamo indotti ad andare a
vedere. Le poesie, invece, non si vendono affatto bene, e la loro influenza all’interno dell’area lingui stica in cui sono nate resta minima anche quando, come oggi in alcuni paesi, Germania compresa, molti dicono che i maggiori talenti siano da ricerca re proprio tra i poeti. Se questa affermazione sia esatta è una questione da lasciare in sospeso: esiste infatti anche qui un rovescio della medaglia alquan to sgradevole, dato che in nessun luogo la gramigna del dilettantismo è così rigogliosa come nel campo della poesia lirica e in nessun luogo è più difficile stabilire, per la maggior parte dei lettori, se questo o quell’autore valga veramente « qualcosa » oppure no. Molta gente, ostile più che mai alla poesia, so spetta addirittura che da noi le raccolte di versi non sortiscano nessun effetto se non quello di incorag giare altri venti giovani a scrivere poesie.
Mi preoccupa di più la questione se sia un errore, per i tempi più recenti, limitarsi a parlare dei poeti tedeschi. Non credo, non in questo caso almeno, perché essi rivendicano il diritto a essere presi in
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considerazione qui e da noi, il loro corpo estraneo, le loro parole estranee chiedono, prima di ogni altra cosa, di essere accettate dalla loro propria lingua.
Non vi saranno presentati qui tutti i poeti nuovi, sarebbe inutile, esiste un buon numero di saggi in cui essi sono elencati in bell’ordine, etichettati e ci tati come lirici della natura, della coscienza, e Dio solo sa di che cos’altro; esistono antologie, rubriche pubblicate ^tensilmente in ogni sorta di riviste, e si trovano nelle biblioteche volumi di poesia da cui trarre le più svariate informazioni. Io, per parte mia, non sono in grado di presentare questi poeti uno per uno con la loro etichetta e di inventare una bella frase per ognuno di loro.
Vagabondaggi, dunque...
OSSERVATE LA PUNTA DELLE DITA Osservate la punta delle dita, se mutano colore!
Un giorno ritorna, la peste estirpata. Il postino la imbuca come lettera nella cassetta rantolante,
giace nel piatto come tua porzione d’aringhe, la madre la porge al bambino invece del seno.
Che fare, poiché non vive più nessuno di quelli che sapevano trattarla? Chi è in buoni rapporti con l’orrore può attendere tranquillamente la sua visita.
Di continuo noi ci disponiamo alla felicità, che però non ama star seduta accanto a noi.
Osservate la punta delle dita! Se diventano nere è troppo tardi.1
1. Günter Eich, «Betrachtet die Fingerspitzen», in Botschaften des Regens, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1955, p. 46.
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Questa poesia è di Günter Eich. Non vorrei che qualcuno — ove ciò fosse possibile — alzasse la mano turbato dall’interrogativo: Che cosa ha voluto dirci il poeta? Chiediamoci invece quali mai potrebbero essere le nostre osservazioni, che cosa potrebbe na scere dalla lettura di questa poesia? Vorrei dire im mediatamente che l’autore ha concepito se stesso e il suo lavoro in maniera diversa dai poeti di una o due generazioni addietro. Difhcilmente possiamo immaginarlo come profeta, o artista o mago, o [...], non ha niente di compiaciuto, di arrogante nel mo do di concepire se stesso, infatti un concetto di sé traspare sempre nell’opera di un poeta, sempre es sa cela una volontà, un intendimento. In questo ca so invece si è già verificata una svolta che ci avverte
come qui sia avvenuto qualcosa, il produttore stesso ha cambiato posizione. Eppure, nonostante la ri nuncia a tanti [...] non c’è traccia di un voler abdica re, ritirarsi, sebbene il luogo dal quale si parla sia ormai quello di una insidiosa solitudine, non una solitudine scelta per vocazione o alterigia, ma detta ta da una società all’interno della società, un luogo spettrale, nel quale restare vigile non è facile per chi debba, possa, voglia, non chiudere gli occhi. Colui che parla gli occhi non li ha chiusi, insonne e reiet to, egli abita in mezzo a noi...
Quando la finestra viene aperta e penetra l’orrore della terra -
Il bambino con due teste, mentre una dorme, l’altra grida, grida contro il mondo e riempie di spavento le orecchie del mio amore.2
I vocaboli della realtà sono semplici [nelle poesie di Günter Eich], abbiamo finestre, discariche, spaz
2. Günter Eich, «Augenblick im Juni», ibid., pp. 52-53. 38
zatura, treni merci, pioggia, macchie di ruggine e di olio, termos di caffè, panetterie, fabbriche, metro politane - il mondo viene interrogato, ma con misu ra. All’Io invece viene chiesto moltissimo, è un Io perseguitato, ammonito e richiesto di trasmettere ad altri quei moniti.
Signore e Signori, oggi non si può certo più par lare di sacro canto, di missione, di eletta comunità di artisti. E per citare intenzionalmente un esempio estremo, vorrei riferirmi a una testimonianza che proviene dal circolo di George, e che allora recitava:
« Crediamo, e di questo siamo orgogliosi, di aver raccolto in questi anni non solo quanto di più alto una nazione tutta è stata in grado di produrre in un certo ambito del sapere umano, ma speriamo altresì di aver spianato a quelli che verranno dopo di noi il cammino su cui avanzare alla scoperta di sempre più puri empirei dell’arte »?
Questi «puri empirei dell’arte», malgrado l’im portanza delle loro ragioni, non sono sopravvissuti, e gli spiriti che allora si scagliavano, come è com prensibile, contro ogni piatto naturalismo, e le cui opere mai potremo dimenticare, quegli spiriti han no vissuto la caduta del loro empireo. Già l’Espres sionismo portò il primo contraccolpo e, sconvolte dalla prima guerra mondiale, voci di singoli uomini si levarono, ancora una volta destinate a fallire, a farsi mute. Nuove rivolte estetiche seguirono, e an che di queste dovremo parlare poiché hanno con dotto a conquiste nel campo della lingua e della realtà che sono valide ancora oggi, anche se da un
certo punto di vista appaiono ai nostri occhi orribil mente screditate.
3. Il testo è tratto dalla introduzione (p. 24) alla raccolta della rivista « Blätter für die Kunst», 3 serie, 5 tomi, selezione delle annate 1892-1898, pubblicata a Berlino nel 1899. [La rivista, fondata da George nel 1892, cessò le pubblicazioni nel 1909],
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Penso per esempio al Surrealismo con la sua idea del bello: esso prevedeva che il bello dovesse essere terroristico, mozzafiato, e tale da generare una de moniaca confusione, che il Surrealismo dovesse in trodurci alla morte, e André Breton, il portavoce della nuova poetica, scrive nel secondo Manifesto che il Surrealismo non è una scuola artistica, ma piuttosto qualcosa che tende alla disobbedienza to tale, al sabotaggio sistematico, e che tutto deve esse re finalizzato ad annientare le idee di famiglia, pa tria e religione - e fin qui tutto bene, la cosa faceva il suo effetto - ma poi vien la postilla in cui si dice che il Surrealismo aspira prima di tutto e solamente alla violenza. E ancora:
« L’atto surrealista più semplice consiste, rivoltel la in pugno, nell’uscire in strada e sparare a caso, finché si può, tra la folla »?
Tutto questo non fu certo messo in pratica dai surrealisti, anzi voi saprete certamente che sotto la dittatura tedesca tutti gli scrittori e i pittori surreali sti hanno goduto di pessima fama, sono stati messi al bando e minacciati di morte, eppure c’è qualcosa, una zona d’ombra che non è mai stata chiarita, il so spetto che le vittime, senza intuire quello che stava no facendo, abbiano permesso che il loro linguag gio, in qualche caso limite, confluisse col linguaggio della violenza. Certo, lo spirito surrealista era anti borghese, intendeva seriamente dare scandalo, e non aveva niente in comune con quella pratica del
l’assassinio che più tardi venne inaugurata su tut- t’altro versante.
Molto più discutibili furono le proclamazioni di estetica dei futuristi i quali si dicevano pronti - cosa comprensibile in fase di attacco e di ardore combat-
4. André Breton, Second Manifeste du Surréalisme (1930), Kra, Paris, 1972, p. 135.
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tivo - ad accettare il mondo della tecnica e di rico noscerlo nella sua bellezza e soltanto in questa. Fu Marinetti il primo a gridare con l’entusiasmo pro prio della gioventù:
« Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza del la velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia ».5
Allo scoppio della guerra di Etiopia, un più tardo manifesto futurista afferma:
« Da ventisette anni noi futuristi ci opponiamo a che la guerra venga definita come antiestetica... noi affermiamo... la guerra è bella perché - grazie alle maschere antigas, ai terrificanti megafoni, ai lan ciafiamme e ai piccoli carri armati - essa fonda il dominio dell’uomo sulla macchina soggiogata. La guerra è bella... perché arricchisce un prato in fiore delle fiammanti orchidee delle mitragliatrici. La guerra è bella perché riunisce in una sinfonia il fuo co dei fucili, le cannonate, le pause tra gli spari, i profumi e gli odori della decomposizione. La guer ra è bella perché crea nuove architetture come i grandi carri armati, le geometriche squadriglie ae ree, le spirali di fumo elevantisi da villaggi bruciati e molto altro ancora... I poeti ed artisti del futurismo... si ricordino di questi princìpi di una estetica della guerra, perché da essi venga illuminata... la loro lot ta per una poesia nuova e una nuova plastica ».6
5. Filippo Tommaso Marinetti, Fondazione e Manifesto del Futu rismo, 1909, citazione del punto 4 in Per conoscere Marinetti e il futurismo, a cura di L. De Maria, Mondadori, Milano, 1973, p. 6. 6. F.T. Marinetti. La Bachmann trae la citazione della postfa-
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Questo può essere il frutto estremo del principio de fart pour Γατί. Qui lo sconfinamento viene for mulato con molta chiarezza.
Non vorrei che mi giudicaste di vedute troppo ri strette perché insisto sulla questione della responsa bilità nell’arte e la metto così in primo piano. Proce diamo con calma facendo un altro passo avanti. Non credo affatto che si tratti di un caso se Gott fried Benn ed Ezra Pound, del quale proprio ades so alcuni dei nostri giovani poeti dovrebbero riap propriarsi, un americano che aveva idee quanto mai confuse su revitalizzazione e Renaissance-Re- nassaince, non è affatto casuale, dicevo, se per ognuno di questi due poeti, e tali essi sono senza ombra di dubbio, soltanto un passo divideva il puro empireo dell’arte dal traffico più indegno con la barbarie.
Ma esiste una massima dalla quale Karl Kraus non si è mai allontanato e che noi non dovremmo mai stancarci di sottolineare: « Tutti i pregi di una lingua hanno radice nella morale ». E con ciò non si intende niente di banale, niente che possa essere li quidato come morale borghese o cristiana, non un codice, ma quel fronte avanzato in cui i criteri di ve rità e falsità han da essere stabiliti ex novo da ogni nuovo scrittore. Abbiamo appena ascoltato parole come queste: « La guerra è bella, perché grazie alle maschere antigas..., ai lanciafiamme... » e così via.
Ecco invece una poesia di oggi, nella quale com pare anche una maschera antigas; la si trova in una
zione redatta da W. Benjamin per il suo saggio Das Kunstwerk im Zeitalter der technischen Reproduzierbarkeit. Essa è stata verificata sulla base di Benjamin, Gesammelte Schriften, Suhrkamp, Frank furt am Main, 1974, t. I, p. 507 [ed. it. L'opera d'arte nell'epoca del la sua riproducibilità tecnica, trad. it. di E. Filippini, Einaudi, Tori no, 1966, p. 47]. Il testo, che Benjamin intitola Manifest zum äthiopischen Kolonialkrieg, non si trova in nessuna bibliografia ita liana di Marinetti, né è compreso negli archivi conservati dalla figlia, signora Vittoria Marinetti.
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raccolta di poesie d���amore di questi ultimi anni, e voi stessi potete vedere in quale diversa luce venga no immersi gli oggetti, una luce che segnala la di struzione di ogni estetica delirante: sto parlando della poesia Bräutigam Froschkönig [Lo sposo, princi pe rospo] di Marie Luise Kaschnitz:’
Com’è brutto Il tuo sposo, Vergine vita
Una maschera a proboscide la sua faccia La sua cintura una cartucciera La sua mano un lanciafiamme
Il tuo sposo, il principe rospo, Viaggia con te (volano le ruote, una qua una là) Sopra le case dei morti
Tra due Fini del mondo Si spinge Nel tuo grembo
Nel buio soltanto Riesci a toccare I suoi umidi capelli
All’alba Solo all’ Alba Solo allora
Scorgi i suoi Begli Occhi Tristi.
7. Marie Luise Kaschnitz, «Bräutigam Froschkönig», in Neue Gedichte, Claassen, Hamburg, 1957, p. 55.
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Qui solo gli occhi vengono definiti belli, e sono occhi tristi. La parola « triste » è appaiata alla parola « bello ».
E all’inizio si dice di quell’uomo con il lanciafiam me e la cartucciera, un uomo che ambisce al potere: « Com’è brutto il tuo sposo... ».
Questi sono accenti nuovi, nuove definizioni an che in poesia.
Negli stessi anni Nelly Sachs, la più anziana delle poetesse tedesche viventi, scrive, in Svezia, parole che valgono per i giovani perché descrivono quello che essi fanno e che debbono fare. Si parla di un giovane, privo di bussola e in lotta con tutto il firmamento:
Dalle sedie a dondolo di generazioni addomesticate egli si stacca
fuori di sé e con l’elmo di fuoco, ferisce la notte.8
(« A voi, che costruite la nuova casa » ci rammenta su quale suolo la stiamo costruendo, su quante fosse e luoghi di ignominia, e al tempo stesso ci invita a non sospirare, a non consumare il nostro tempo nel pianto e a far sì che le nostre mura e i nostri stru menti siano sensibili come arpe eolie).9
Ma qui il tono profetico e salmodiante non de v’essere scambiato per vaticinio artistico, non si trat ta di un gesto formale, bensì di un sentimento deri
8. Nelly Sachs, da «Ohne Kompass», in Flucht und Verwand lung, Deutsche Verlagsanstalt, Stuttgart, 1959, p. 47. 9. Nelly Sachs, «An euch, die das neue Haus bauen», nella raccolta In den Wohnungen des Todes, Berlin, 1947; ora in Ge dichte, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1977, p. 19 [trad. it. in Poesie, a cura di Ida Porena, Einaudi, Torino, 1971, p. 6].
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vato dall’esperienza del dolore. E sarebbe accettabi le se fosse altrimenti? Non siamo forse diventati sensibilissimi e vigili e ostili sino all’eccesso verso l’ubriacatura verbale da un lato e il conservatorismo linguistico piccolo-borghese dall’altro, verso una malattia di maniera come verso una sanità altrettan to di maniera, non siamo quasi pronti, ormai, a non farci più sedurre da nessuno? Il nostro unico e ulti mo desiderio non è forse quello di stabilire un nuo vo rapporto di diritti tra uomo e linguaggio?
E non è forse vero che noi faremo uso di questo nuovo diritto, solamente di questo, e che attraverso errori e verità acquisite sceglieremo un solo cammi no e nessun altro?
Che cosa è dunque la letteratura che abbiamo alle spalle: parole ritagliate dalle pareti del cuore e tra gici silenzi, e maggesi di parole abusate, pantani di silenzio maleodorante e vile, e sempre parola e si lenzio insieme, e sempre di due tipi. E sempre que sti due aspetti ci hanno richiamato e sedotto: la no stra parte di coinvolgimento nell’errore è sicura, ma dove ha inizio il coinvolgimento che ci lega a una verità nuova?
E poiché vogliamo parlare di poesie nuove, come ha inizio il coinvolgimento di una poesia in questa nuova verità?
Hans Magnus Enzensberger:
DIFESA DEI LUPI CONTRO GLI AGNELLI
Deve mangiar viole del pensiero, l’avvoltoio? Dallo sciacallo, che cosa pretendete? Che muti pelo? E dal lupo? Deve da sé cavarsi i denti?
Che cosa non vi garba nei commissari politici e nei pontefici? Che cosa, idioti, vi fa sgranare gli occhi davanti allo schermo bugiardo?
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Chi cuce al generale la striscia di sangue sui pantaloni? Chi trancia il cappone all’usuraio? Chi fieramente si appende la croce di latta suH’ombelico brontolante? Chi intasca la mancia, la moneta d’argento, l’obolo del silenzio? Son molti i derubati, pochi i ladri; chi li applaude allora, chi li decora e distingue, chi è avido di menzogna?
Nello specchio guardatevi: vigliacchi che scansate la pena della verità, avversi ad imparare, e che il pensiero ai lupi rimettete,
l’anello al naso è il vostro gioiello più caro, nessun inganno è abbastanza cretino, nessuna consolazione abbastanza a buon prezzo, ogni ricatto troppo blando è per voi.
Pecore, a voi sorelle son le cornacchie, se a voi le confronto. Voi vi accecate a vicenda. Regna invece tra i lupi fraternità. Vanno essi in branchi.
Siano lodati i banditi. Alla violenza voi li invitate, vi buttate sopra il pigro letto dell’ubbidienza. Tra i guaiti ancora mentite. Sbranati
volete essere. Voi non lo mutate il mondo.10
10. Hans Magnus Enzensberger, « Verteidigung der Wölfe ge gen die Lämmer», in Verteidigung der Wölfe, Suhrkamp, Frank furt am Main, 1959, pp. 90-91 [trad. it. in Poesie per chi non legg
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« Voi non lo mutate il mondo ». Già. E la poesia in quanto tale? Che cosa provoca? Non è forse vero che se una poesia di questo genere ci rende infelici, se riesce a tanto, e se esistono poeti nuovi capaci di renderci infelici, ciò accade perché anche in noi esi ste uno strappo, uno strappo conoscitivo per impul so del quale siamo in grado di ripercorrere quello in tutta la sua pregnanza.
C’è una lettera di Kafka assolutamente meravi gliosa nella quale egli parla di ciò che pretende da un libro:
«Se il libro che stiamo leggendo non ci sveglia con un pugno in testa, perché mai lo leggiamo? Perché ci renda felici [...]? Mio Dio, saremmo felici lo stesso, anche senza libri, e i libri che ci rendono felici, quelli, all’occorrenza, potremmo scriverli da soli [...]. Un libro dev’essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi. Di questo sono con vinto ».“
Forse vi sarete già accorti che non ho ancora det to niente delle nuove forme della lirica e ho appena accennato al suo nuovo linguaggio. Tenterò di far lo, indirettamente, proprio in relazione a questa poesia. Non molto tempo fa sono stati pubblicati due saggi; il loro autore non è propriamente uno storico della letteratura, ma piuttosto un outsider·, mi riferisco ai due saggi di Gustav René Hocke, Il mon do come labirinto e II Manierismo nella letteratura}2 In
poesie, a cura di Franco Fortini e Ruth Leiser, Feltrinelli, Mila no, 1964, pp. 43-46]. 11. Franz Kafka, Briefe, 1902-1924, Fischer, Frankfurt am Main, 1958, pp. 27-28. La lettera, del 27 gennaio 1904, è indi rizzata a Oskar Pollack.
12. Gustav René Hocke, Die Welt als Labyrinth. Manierismus in derEuropäischen Kunst und Literatur, Rowohlt, Hamburg, 1953 [trad. it. Π mondo come labirinto. Maniera e mania nell’arte euro pea, Theoria, Roma, 1989],
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essi compaiono gli autori di cui oggi sto parlando, accanto a molti altri con i relativi esempi, e le argo mentazioni sono pressapoco le seguenti: i fenomeni di provocazione formale e tematica che osserviamo sia in letteratura sia nelle altre arti, a partire grosso modo dal 1850, non sono nuovi, non sono fenome ni originali, essi rivelano piuttosto l’esistenza di una tradizione sotterranea anche per il moderno, le au dacie linguistiche e i « vizi dell’anima » — come essi vengono definiti - hanno avuto origine nel mondo greco-orientale. La seconda rivoluzione ebbe luogo alla metà del XVI secolo e finì alla metà del XVII secolo. La terza, per quel che concerne la letteratu ra, ha inizio con la comparsa di Baudelaire. Queste tre epoche vengono ricondotte al concetto generale di « manierismo » per indicare la costante anticlassi ca nella storia dello spirito europeo. I poeti e gli scrittori di queste età vogliono essere «moderni». Essi vengono così caratterizzati: rifuggono l’imme
diatezza, amano l’oscurità, tollerano le immagi nifiche figurazioni della sensualità solo se masche rate da metafore astruse, utilizzano un sistema in tellettuale di segni per catturare il reale o l’iperrea- le, e quindi le loro opere sono enigmatiche, gero glifici che si sottraggono al controllo estetico dei pa radigmi classicistici. Il mio è solo un abbozzo, mi li mito a consigliarvi di leggere quei due saggi, con scia del pericolo che, per un certo tempo, sospette rete tutto e tutti di « manierismo » e, trascinati dallo stupore, dimenticherete di esprimere un vostro giudizio. Questo stimolante volume ha comunque provocato con le sue grandi scoperte le reazioni più
peregrine. Esso è infatti un boccone amarissimo per i nuovi atleti del linguaggio, per i tecnici della meta fora e per gli scienziati della scissione della parola. Perché ognuno di loro ha avuto qualche predeces sore, vuoi intorno al 1600 vuoi nel 1910. Appren diamo infatti che un uomo di nome Athanasius Kirchner costruì un paio di secoli fa una macchina
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metaforica per creare dal nulla l’immagine perfet ta. Esistono per lo meno tre antecedenti di scrittura astratta: il Lettrismo, inaugurato a Parigi da Isidor Isou un paio di anni fa come estrema ratio per dila tare l’alfabeto ed evocare l’essere con l’aggiunta di qualche lettera nuova e di nuovi ritmi fonetici, ha un precedente nel III secolo, e più tardi in Hugo Ball che nel primo anno del Dada zurighese scrive va poesie lettristiche, sia pure con intenzioni diffe renti e più polemiche. Ciò può essere abbastanza triste per i molti che ritengono che le rivoluzioni in letteratura, e cioè l’acquisizione ad essa di nuovi ter ritori, vadano cercate innanzitutto nelle sperimen tazioni formali, dimenticando spesso che ciò può invece avvenire soltanto in conseguenza di un nuo vo modo di pensare.
D’altra parte la scoperta del manierismo è stata per molti critici una specie di manna, perché final mente si sono avuti tra le mani un paio di criteri di giudizio da applicare alla nuova letteratura, all’insa lata verbale non meno che al più autentico e pre gnante dominio delle parole. Grazie a Dio, anche questo è già accaduto, non c’è niente di nuovo sotto il sole, non c’è più bisogno di avere paura se si in contrano metafore come «nero latte»,13 infatti già Marino aveva parlato di «neve rossa», (XVI seco lo), tutto ritorna, finalmente l’abbiamo capito, e ca pire tutto significa perdonare tutto. Oppure, nel ca so in cui fossimo diversi, di temperamento più co razzato, potremmo dire: si tratta di cose vecchie e
quindi non più interessanti, ne abbiamo viste di mi gliori; infatti, si tratta di ripetizioni, di copie, già i surrealisti facevano le stesse cose, e meglio, già le fa cevano i poètes maudits, e loro pure le facevano me glio, per non parlare degli antichi che erano ancora
13. Cfr. Paul Celan, « Schwarze Milch der Frühe » Todesfuge, in Mohn und Gedächtnis, Deutsche Verlagsanstalt, Stuttgart, 1952 [N.d.T.].
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migliori, si pensi a Marino, a Góngora, si pensi a... si pensi a...
Ebbene, a chi dobbiamo pensare, se torniamo alla poesia Difesa dei lupi contro gli agnelli or ora citata? Il suo autore è un manierista? Ha scritto poesie in cui ricorrono termini come « manitipista » e « stenocu- ra», questo è vero (ma con quale intento, ecco il problema!). Se sfogliassimo un’antologia di autori recenti tenendo conto solo degli aspetti formali, soffermandoci cioè sulle metafore e le somiglianze, su quanto ognuno di loro attinga da una riserva di parole anonime, su quanto sia iniziato ai segreti di
certi cocktails alla moda, scopriremmo facilmente che cosa si nasconde dietro tutto questo. E, al tempo stesso, non vedremmo la cosa più importante, e cioè se si tratta solo di bricolage e di artificio, di un gioco di destrezza o solo di tentativi momentaneamente mal riusciti, e non vedremmo dove qualcuno vuole davvero commettere una rapina e viene invece rapi to dalla lingua e dalla verità, e dove il non imitabile ha divorato ciò che è imitabile. Infatti io credo che tutti o quasi tutti siano toccati dalle mode, e di que sto ci rendiamo conto benissimo leggendo opere più antiche e già consolidate nel loro rango, in quanto avvertiamo con chiarezza che in esse voca boli legati al tempo e figure legate al tempo vengo no sorretti da un contesto solido e forte.
Ma perché, vi chiederete a questo punto con un certo sgomento, perché ho scelto queste poesie, per dimostrare che cosa? Forse i buoni « sentimenti » di questi autori? Una simile supposizione può venire spontanea. Ma che cosa significa « buoni sentimen ti», e chi non rivendica di averne? Si può essere di sentimenti liberali e pacifici, e infine —il passo è bre ve - anche buoni, ma rivolti a chi? E se è vero che la radicalità di ogni forma di estetismo ci ha lasciato una sola certezza vincolante, questa è che i buoni sentimenti non bastano da soli a fare una buona poe sia. Non so se come ritenevano alcuni, tra cui Benn,
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fosse davvero così necessario continuare a ricordar lo ai tedeschi, perché essi non lo avrebbero ancora capito e sarebbero sensibilissimi al « bel poetare » e alla «poesia d’atmosfera». Ripetiamolo quindi an cora una volta anche se, pensando ai giovani che hanno pubblicato poesie negli ultimi dieci o quindi ci anni, si ha la sensazione che quasi più nessuno or mai ceda a questa predilezione nazionale. Più fasti diosa è semmai la predilezione per [...] di certi criti ci, nonché le loro diagnosi e prognosi su una perpe tua situazione di crisi a cui perennemente si accom pagna l’esortazione a superarla; negli ultimi tempi è appunto il manierismo a dover essere superato, e ancora la crisi del romanzo, quella del teatro, tutto deve essere superato o almeno parzialmente inte grato. Riflettendo però su queste frasi una certa ir ritazione è inevitabile: chi dovrà essere superato e da chi? Voi potete certamente superare un avversa rio, o un dolore o una debolezza, ma nessuno potrà mai superare una crisi che è la crisi del romanzo, o della cultura, o di uno dei tanti nostri mostruosi ste reotipi concettuali. Le constatazioni sono tutte buo ne, spesso anche molto buone, ma gli interrogativi che ne derivano sono malposti, praticamente non hanno alcun peso e altro non fanno che vanificare
quelle poche domande che vale la pena di porsi. Certo, solamente il singolo, oppure chi è stato com mosso da un paio di parole più che da una serie ben assortita di problemi, solo costui è capace di sentire il pungolo delle domande su cui nella lezione pre cedente ho cercato di attirare la vostra attenzione, e una delle parole, che non vuole affatto essere supe rata, è quella di Brecht: «Quali tempi sono mai questi, quando discorrere d’alberi è quasi un delit to, perché su troppi misfatti comporta il silenzio».14
14. Bertolt Brecht, « An die Nachgeborenen », in Poesie e canzo ni, a cura di R. Leiser e F. Fortini, Einaudi, Torino, 1961, p. 92. La poesia è tratta dalla raccolta degli Swendborger Gedichte (1933- 38) [N.d.T.].
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Per questa ragione « coloro che verranno » provano un certo imbarazzo nell’esibire le loro preoccupa zioni per quei problemi di forma, espressione o contenuto che da tempo immemorabile sono stati fonte di grande tormento.
In alcuni suoi versi Günter Eich parla del disagio per la bellezza e per la felicità, tutta questa tensione tra l’orrore e la bellezza, che si condizionano a vi cenda, tra il culto del bello e il culto dell’orrore che lasciano il passo a un’altra tensione. Le poesie, pur così diverse tra loro, non sono godibili ma dense di conoscenza, come se dovessero fare qualcosa per le nire la disperazione in un’età di estrema miseria lin guistica derivata da un estremo smarrimento. E così facendo esse ricevono una nuova dignità alla quale non osano nemmeno aspirare.
Fuori di sé e con l’elmo di fuoco, feriscono la notte.
Ciò vale, e in grande misura, anche per il poeta di cui dirò per ultimo. Per Paul Celan. Egli è apparso tra noi per la prima volta con un epitaffio, Todesfuge [Fuga di Morte], con le sue luminosissime parole oscure, in viaggio sino al termine della notte. E l’Io, in queste poesie, rinuncia altresì a ogni progetto violento, a ogni estorta autorità, per acquistarne in compenso una nel momento in cui per sé non im plora altro che: « Fammi amaro, contami tra le mandorle, conta anche me... ciò che era amaro e ti teneva desto... ».15
Ho preso con me il suo ultimo volume di poesie: Sprachgitter [Grata di linguaggio] perché esso calca un territorio nuovo. Le metafore sono del tutto scomparse, le parole hanno deposto maschere e ve li, nessuna parola ne evoca un’altra né la rende eb-
15. Paul Celan, « Zähle die Mandeln», in Mohn und Gedächtnis, cit., p. 76 [trad. it. in Poesie, a cura di M. Kahn e M. Bagnasco, Mondadori, Milano, 1976, pp. 55-57. La citazione raccorda, ma in senso inverso, i primi e gli ultimi versi della poesia].
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bra. Dopo una svolta dolòrosa e un esame durissi mo dei rapporti tra parola e mondo, nascono nuove definizioni. Le poesie sono Matière de Bretagne, op pure Bahndämme, Wegränder, Ödplätze, Schutt [Ter rapieni, scarpate, luoghi incolti, macerie], oppure Entwurf einer Landschaft [Schizzo di un paesaggio] o ancora Schuttkahn [La chiatta dei detriti]. Sono poe sie scomode, sono scandagli, attendibili, così atten dibili nel loro dare il nome alle cose che non ci resta altro da dire se non: fin qui e non oltre.
Poesia:16
Ma all’improvviso, grazie a questa rigorosa limita zione, è di nuovo possibile dire qualcosa in modo molto diretto, non più in cifra. E possibile a colui che ha saputo dire di sé che « ferito di realtà e in cerca di realtà, consegna la propria esistenza alla lingua ». Nella chiusa della grande lirica Engführung [Stretto] compare una frase e con questa frase vor rei concludere, ma prima vorrei aggiungere, af finché possiate capire il vero significato della paro la « stella », che per Paul Celan le stelle sono « ope ra dell’uomo », che con esse egli intende l’opera del l’uomo.
.... Una stella
ha forse ancora luce. Niente, niente è perduto.17
16. Nel dattiloscritto originale manca l’indicazione della lirica letta durante la lezione. 17. Paul Celan, «Engführung», in Sprachgitter, Fischer, Frank furt am Main, 1959, p. 64 [trad. it. cit., p. 111. Le frasi fra virgo- lette corrispondono a citazioni implicite da un discorso che Ce lan ha tenuto nel 1958 a Brema].
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L’IO CHE SCRIVE
Signore e Signori,
vorrei parlare dell’Io, della sua presenza nella let teratura e quindi delle faccende dell’uomo nella let teratura, nella misura in cui l’uomo si rivela tramite un Io, o tramite il proprio Io, oppure si cela dietro l’Io. Alcuni probabilmente penseranno: com’è mai possibile nascondersi dietro l’Io, è la cosa meno se greta che si possa immaginare e talmente univoca — l’Io - che noi stessi saremmo in grado di parlarne con chiarezza e senza infingimenti.
« Io Le dico » : se mi rivolgo così a un singolo indi viduo, è abbastanza chiaro che tipo di Io stia par lando e che senso abbia la frase in cui quell’io com pare, e dunque chi sta dicendo qualcosa. Ma già se uno sta qui sopra, e dal podio dice ai molti che stan no più in basso: « Io vi dico», l’Io muta inopinata mente, sfugge a colui che sta parlando, diventa un Io formale e retorico. E chi lo pronuncia non è più sicuro di potersi assumere la responsabilità di quel l’io che ha sulle labbra, di poter coincidere con es so. Quali prove può addurre infatti che quell’io gli
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appartenga, se le labbra si muovono appena, artico landone il suono, mentre nessuno gli garantisce nemmeno la più banale identità; nella sala arriva solo l’eco indistinta di un Io cartaceo. Se voi, di nor ma singoli individui, ora riuniti in un gruppo di po che centinaia di persone che già rappresenta una massa, se voi riuscite a captare un « Io » che appare lontano anni luce — e già dieci metri bastano a crea re l’effetto di siderale lontananza, e questo effetto di siderale lontananza diventa ancora più forte con la scomparsa fisica di colui che parla o con la sua in visibilità, come per esempio nel caso in cui si comu nichi attraverso la radio, attraverso un microfono. Allora si tratta solo di una frase che vi viene portata da un altoparlante, o da un foglio di carta o da un libro o da un palcoscenico, la frase di un Io che non offre garanzie.
Un Io senza garanzie! Che cosa è l’Io, infatti, che cosa potrebbe essere? Un astro di cui posizione e or bita non sono mai state del tutto individuate e il cui nucleo è composto di sostanze ancora sconosciute. Potrebbe essere questo: miriadi di particelle che formano un « Io », ma al tempo stesso l’Io potrebbe essere un nulla, l’ipostasi di una forma pura, qual cosa di simile a una sostanza sognata, qualcosa che definisce una identità sognata, cifra di qualcosa che è più faticoso da decifrare del più segreto dei codi ci. Ma esistono gli scienziati e i poeti che si rifiutano di abbandonare l’impresa, e vogliono individuare, studiare, indagare e fondare l’Io, e rischiano quindi in continuazione di uscire di senno. Essi hanno fat to dell’Io il terreno dei loro esperimenti, oppure hanno fatto di se stessi il terreno sperimentale del l’Io, e hanno pensato a tutti gli Io dei vivi e dei mor ti e delle grandi personalità intellettuali, all’Io della gente comune e all’Io di Cesare e all’Io di Amleto, e tutto ciò ancora non è niente perché ancora non è tutto. Infatti si dovrà anche pensare all’Io degli psi
cologi, degli analisti, all’Io dei filosofi, come mona-
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de o come correlato ad altro, come stazione di con trollo empirica o come grandezza metafisica. Tutti questi esperti si assicurano un Io, cercano di venir ne a capo, lo toccano, lo amputano e lo distruggo no, lo valutano, lo ripartiscono e lo circoscrivono.
Una volta ho visto un bambino piccolo che la ma dre voleva costringere ad ammettere di aver fatto una certa cosa. All’inizio il bambino recalcitrava, forse non capiva neppure che cosa la madre volesse da lui. « Di’ che l’hai fatto » continuava a ripetere la donna. « Devi dire: l’ho fatto io! ». E a un tratto, co me se finalmente avesse capito, o fosse ormai stanco di tacere e di resistere, il bambinodisse: « L’ho fatto io », e poi ancora, soddisfatto di questa frase, o me glio di questa parola così perentoria, continuò a ri petere: « Io l’ho fatto, io, io io! ». Non la smetteva più di strillare, urlava e gridava, e alla fine, ridendo convulsamente, si gettò tra le braccia della madre torcendosi come un epilettico. « Io, io l’ho fatto, io, io! ».
Fu una scena straordinaria, nel corso della quale un Io veniva scoperto e al tempo stesso messo a nu do in tutto il suo significato e non significato, e in tanto si scopriva il folle piacere della rivelazione stessa dell’Io, una cosa da uscire di senno, come mai più in seguito si uscirà di senno quando si sarà co stretti a dire Io, questa parola sarà ormai un’ovvie- tà, una parola logora, usurata, che degrada tutto ciò che dovrebbe, di volta in volta, definire.
Se poi, un giorno, trovandoci di nuovo in una si tuazione inconsueta, diremo ancora Io, saremo tur bati più che in passato da un senso di affanno, di stupore, di orrore, di dubbio e di incertezza.
Non so se esista una indagine sull’Io e sui molti Io in letteratura, non ne conosco nessuna, e pur non sentendomi in grado di presentarne alcuna esegui ta a regola d’arte e per di più esauriente, ritengo che in letteratura esistano molti Io e nessun accordo sull’Io. Come se sull’uomo non potesse esistere un
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accordo ma sempre e soltanto nuovi abbozzi di ac cordo. L’Io viene alla luce presto e nella letteratura degli ultimi decenni ogni giorno si fa più scatenato e ammaliante. Come se in suo onore si fosse orga nizzata una carnevalata durante la quale, nei suoi abiti buffoneschi, l’Io potesse dichiararsi o dissimu lare, mutarsi o svelarsi in quanto tale, questo Io che è al tempo stesso qualcuno e nessuno.
Quando un personaggio storico, un politico per esempio, un uomo di Stato o un militare compaiono con il loro Io nelle loro memorie, ciò non rappre senta per noi un problema. Quando Churchill o De Gaulle riportano qualche episodio o ci consegnano i loro giudizi, noi ci aspettiamo da loro proprio quel- 1’« Io » e da esso pretendiamo che si identifichi con l’autore; quell’io ci interessa solo in relazione a quel Winston Churchill, in carica dal... al..., ci interessa solamente il riflesso di un Io che agisce, il riflesso di azioni che si presumono note, o anche, se volete, iti nerari e fatti privati, al margine però, sempre per il fatto che il ruolo storico di Churchill conduce ne cessariamente a un ingenuo svelamento dell’Io. E il termine « ingenuo » non si riferisce alle qualità let terarie di questo autore, o di altri del suo genere, ma al modo con cui l’Io viene trattato, con una inge nuità per così dire obbligata. Il ruolo dell’Io di Churchill nei suoi libri è di essere Churchill, l’uomo di Stato.
Il ruolo dell’Io che ho appena tentato di descri vervi vale per tutta la letteratura di questo tipo, dal mondo antico a quello dei giorni nostri, per gli esempi più venerandi e sommi fino a quelli più infimi e bassi. In questi celebri memoriali il lettore critico ed esigente accetta questo Io sicuro di sé e tutto d’un pezzo con la stessa naturalezza con cui centinaia di altri lettori istupiditi e disorientati divo rano i rifiuti della letteratura memorialistica e si la sciano impressionare dall’Io di generali delle SS, di gangster e di spie. Infatti l’Io di chi agisce nell’am-
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bito dei ruoli più elementari (in quelli della storia e della storia contemporanea) è il più convincente, il più accessibile, non ha bisogno di alcuna legittima zione, viene ascoltato, riscuote fiducia, perché gli atti o i misfatti dell’autore sono stati per la società densi di conseguenze.
Questi tipi di ruoli, peraltro facilissimi, non pos sono essere interpretati dalla maggioranza degli scrittori, e io vorrei parlare soprattutto di loro, dei loro Io, che solo quando siamo molto giovagli ci ap paiono compatti, certissimi. Chi di noi non ha in contrato a sedici anni in un libro, in una poesia, un Io, presumibilmente l’autore che parla Sn prima persona, e chi non lo ha sentito quasi come un altro se stesso, perché quell’io era un Tu e quel Tu un Io, tanto confuso era ogni confine in quella prima fiducia e in quel primo incantamento. Non si arri vava nemmeno a scambiarsi le parti, perché di esse neanche si percepiva l’esistenza. Leggendo si vede va solo e semplicemente un « Io », e tutto era chiaro. Questo Io, supponiamo, pativa la fame, soffriva, pensava, provava sentimenti, e noi facevamo esatta mente le stesse cose, era un Io forte o debole, gran dioso o miserando, o anche tutto questo insieme, al la rinfusa, e noi pure riuscivamo a imitarlo per un paio d’ore o per un mese, e poi venivano altri libri e altre poesie, cioè altri Io, e anche questi continuava no a invadere il nostro Io. Ma queste invasioni non hanno impedito che noi diventassimo degli Io com pletamente diversi e che ci confrontassimo con l’Io estraneo dei libri guardandolo con più lucidità e prendendone le distanze. E dopo la dissoluzione di
questa unio abbiamo vissuto un’esperienza nuova, notavamo le interferenze tra autore e Io, e infine abbiamo riconosciuto tutti i possibili Io che com paiono nella letteratura, l’Io fittizio, l’Io maschera to, l’Io ridotto, l’Io lirico assoluto, l’Io come figura del pensiero, come figura dell’azione, un Io imma teriale o un Io che si è fatto materia.
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Ciò nonostante vorrei cominciare con l’Io più semplice e per ciò stesso più impressionante, sebbe ne, dopo quanto abbiamo appena detto, possa sem brare quasi impossibile che un autore (quando non si tratti di un personaggio storico) ci presenti il pro prio Io col corredo del suo proprio nome e dei rela tivi dati personali. Come se lui fosse credibile, come se la sua esistenza scevra da ogni finzione avesse per noi qualche interesse, come se fosse possibile porta re, in un libro, la propria persona, la propria vita, senza mediazione alcuna. Un tale Io - cioè un tenta tivo così selvaggio e spericolato di eludere la conce zione dell’Io - possiamo ammirarlo nei libri di Hen ry Miller. Ancora meglio ne\Youtsider della moderna letteratura francese, in Louis-Ferdinand Céline. La questione se i libri di Henry Miller e di Céline siano tutti autobiografici è irrilevante e si sottrae a ogni possibilità di verifica. L’unica cosa che invece ci in teressa è il tentativo di rinunciare alla finzione del l’Io. E un tentativo dal vago sapore dilettantesco,
che sarebbe fatale per ogni scrittore meno dotato di loro, e che è comunque fatale, a tratti, agli stessi Cé line e Miller, ma soprattutto a Miller.
Nel romanzo Viaggio al termine della notte di Céline ci vengono mostrati eventi, vicende ed esperienze dell’Io come appartenenti all’autore stesso. Lo scrit tore e medico condotto Céline si presenta nella sua qualità di medico condotto, si chiama Ferdinand, è stato in guerra, al fronte, poi nelle colonie, poi a New York, e in seguito esercita la sua professione in un sobborgo di Parigi. Il suo eroe, l’Io, ha il suo stesso nome, e gli capitano le stesse cose. Céline insi ste sui fatti reali e non ci consente che tra l’autore e l’Io venga tracciata una separazione. Dal momento che il Céline autore altri non è che il Céline prota gonista del romanzo (così come l’autore Miller altri non è che il Miller eroe del romanzo), l’Io non può essere manovrato, il contenuto non può essere ma novrato. Ogni evento è accidentale al massimo, visto
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che la vita dell’individuo singolo, per quanto inte ressante, ricca o addirittura densa di significati pos sa talvolta apparire a lui o ad altri, è del tutto priva di significato, qualora non si compia una scelta e si rinunzi a dare un ordine a quel materiale grezzo che è la « vita ». E per il lettore non ha alcun valore. L’Io di Miller e quello di Céline hanno un valore so lo perché entrambi posseggono un linguaggio che riproduce, accentuandolo, il caos, essi parlano par lano e parlano, fino a quando la loro vita è assorbita dal linguaggio. E Céline strepita, polemizza e infu ria con il suo argot, e in questo fiume di parole rie sce a far sì che le sue storie di miseria, che altrimen ti non interesserebbero nessuno, finiscano per rap presentare la miseria di tutti i poveri.
« Anch’io di certo pensavo all’avvenire, ma in una sorta di delirio, perché per tutto il tempo avevo, in sordina, la paura di essere ammazzato in guerra e anche la paura di morir di fame in pace. Ero in rin vio di morte e innamorato. Non era solo un incubo. Non molto lontano da noi, a meno di cento chilo metri, milioni di uomini, coraggiosi, ben armati, ben addestrati, mi aspettavano per sistemare la fac cenda, e c’erano anche dei francesi che mi aspetta vano per farla finita con la mia pelle, se non volevo farmela ridurre a brandelli sanguinolenti da quelli di fronte.
« Ci sono per il povero a ’sto mondo due grandi modi di crepare, o con l’indifferenza generale dei suoi simili in tempo di pace, o con la passione omici da dei medesimi quando vien la guerra. Se si metto no a pensare a te, è a torturarti che pensano sùbito gli altri, e nient’altro che quello. Li interessi solo se sei al sangue, ’ste carogne! »?
1. Louis-Ferdinand Céline, Voyage au bout de la nuit, Gallimard, Paris, 1952, pp. 81-82 [trad. it. Viaggio al termine della notte, a. cu ra di Ernesto Ferrerò, Corbaccio, Milano, 1992, p. 95].
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E altrove:
« Quello spararsi addosso che si faceva, così, sen za nemmeno vedersi, non era proibito! Quello face va parte delle cose che si possono fare senza meri tarsi una bella sgridata. Era perfino riconosciuto, incoraggiato senza dubbio da gente seria, come le lotterie, i fidanzamenti, la caccia coi cani!... Niente da dire. Di colpo scoprivo la guerra tutta intera. Ero sverginato... Ah! Cosa non avrei dato in quel momento per essere in prigione invece d’esser lì, come un cretino! Per avere, per esempio, quand’era così facile, con un po’ di previdenza, rubato qualco sa, da qualche parte, quando c’era ancora tempo. Si pensa a niente! Dalla prigione, ci esci vivo, dalla guerra no. Tutto il resto sono parole».2
Il libro è un urlo disperato e la disperazione dà voce al libro, lo fa urlare nelle colonie, in America, in un sobborgo di Parigi. Fallimento è la parola ri corrente, sempre e ovunque.
« La mia spossatezza si aggravava davanti a quelle distese di facciate, quella monotonia gonfia di sel ciati, di mattoni e arcate all’infinito e di commercio su commercio, questo cancro del mondo, sfolgo rante nelle réclames ammiccanti e pustolose».3
Miller ha molte più difficoltà col suo eroe, lo scrittore Miller, proprio là, precisamente, dove l’au tore non capisce di essere un autodidatta diligente e disorientato, e per pagine e pagine, come ad esem pio in Plexus, ci racconta il suo entusiasmo per Benn, Dostoevskij o Spengler. Egli riesce a suscitare il nostro interesse per gli episodi più banali della
2. Ibid., pp. 14-15 [trad. it. eit., p. 22]. 3. Ibid., p. 204 [trad. it. cit., p. 230].
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sua vita quotidiana, ma non per la sua maturazione intellettuale, le sue letture, i suoi pensieri, perché in un libro si possono certo raccontare cose superflue, ma non è lecito esprimere pensieri superflui.
I pensieri che si annotano in un diario sono plau sibili, ma smettono di essere tali quando, senza al cun discernimento, ne risulta appesantito il perso naggio di un romanzo. Infatti, l’Io di chi scrive un diario, l’Io di uno scrittore ha tutt’altro peso e tut- t’altra portata. È un Io al quale, come nel caso di André Gide, è concesso di prendere nota della visi ta di Jammes, dei preparativi di un viaggio, e che può anche annotare quali libri si sono letti e quali si dovrebbero leggere. Parla di riflessioni, di mal di testa, del tempo e, un attimo dopo, può esprimere un pensiero relativo alla situazione politica o lette raria. Anche se l’Io di un diario sembra procedere registrando tutto senza scegliere, esso è invece, per sua natura, selettivo. L’Io infatti non impersona André Gide nella sua interezza, ma posa, e non lo dico in senso peggiorativo, ad essere lo scrittore André Gide.
In un diario l’Io possiede anche questa qualità particolare: non ha bisogno di creare il personaggio Io, come non ne ha bisogno l’Io di una lettera. Non può entrare nel testo se non nella forma dell’Io. Non deve neanche operare spostamenti, non è gra vato dall’onere della coerenza, procede a piccoli passi, ma può anche avanzare a balzi; può inter rompersi, toccare tutto e tutto tralasciare. Poiché questo Io non fa il suo ingresso nel testo come vita, non dà di sé una immagine tridimensionale. Questa può apparire una contraddizione, visto che il diario viene considerato il genere più soggettivo e imme diato che ci sia. Eppure, malgrado ogni soggettività, malgrado le espressioni e le comunicazioni più inti me, esso nasconde la persona. Nei diari l’Io si affer ma e si ripete di continuo; eppure, in maniera in spiegabile, l’autore si ritrae, si fa scudo dietro la for-
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ma, dietro l’Io, dietro la prima persona che il diario appunto richiede.
Infatti il diario è scritto obbligatoriamente in pri ma persona. Per il romanzo o per la poesia non è così, e poiché a romanzo e poesia è concesso sceglie re, sono date altre possibilità, essi possono disporre di molteplici modi e problemi dell’Io. E solo in que sti due generi si manifesta infatti il desiderio di di struggere o di esautorare l’Io, o invece di rifondar lo. Vorrei quasi dire che non esiste nel romanzo, co sì come non esiste in poesia, un Io che non viva in
virtù di questa affermazione: Io parlo, dunque so no. Tale inferenza vanifica la domanda che spesso si pone allo scrittore quando un testo non è scritto in prima persona: chi sta parlando, in realtà? Chi sa questo e quello dei vari personaggi, chi li guida, chi li fa andare e venire e con quale diritto, e chi sceglie ciò di cui si dovrà narrare? Domanda comprensibi le, la quale, mezzo secolo fa, ha imposto a un natu ralismo messo alle strette dalla sua stessa coerenza una oggettività ancora più grande e puntigliosa, per cui tuttora alcuni giovani romanzieri scrivono in Francia una prosa behavioristica, una prosa che si esaurisce in descrizioni di comportamenti e oggetti
in modo da riuscire a evitare ogni sospetto.
Ma ritorniamo all’Io. Esiste un libro non recentis simo che inizia con una scena in cui compaiono al cuni viaggiatori nello scompartimento di un treno; essa viene narrata da un Io del quale non ci viene detto nulla — non sappiamo se si tratti dell’autore o di un Io posto dall’autore. Questo Io narra una conversazione sul matrimonio che ha luogo tra gli occupanti di quello scompartimento e che si tra sforma all’improvviso - ci viene detto - in una di sputa violenta, al limite della cattiva educazione, e ciò per l’intervento di un signore anziano e dai ca pelli bianchi.
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« “Voi, a quel che vedo, avete capito chi sono”, disse sommessamente e con una certa calma il si gnore dai capelli bianchi.
« “No, non ho il piacere” ».
« “Oh, il piacere non è poi tanto grande. Io sono Pozdnysev, quello a cui è capitato proprio l’episodio di crisi cui accennavate, l’episodio di aver ucciso la moglie” aggiunse lui, lanciando rapide occhiate ad
ognuno di noi ».4
E due pagine dopo, mentre il narratore è solo col vecchio signore, questi continua:
« “Beh, allora vi racconterò... ma lo volete davve ro?”.
« Ripetei che lo desideravo molto. Tacque, si pas sò le mani sul volto e cominciò:... ».5
La confessione che segue noi la conosciamo col ti tolo di Sonata a Kreutzer datole da Lev Tolstoj.
Ho voluto presentarvene l’inizio perché è diven tato un modulo ormai classico del moderno raccon to in prima persona, anzi di un doppio racconto in prima persona: all’interno della cornice in cui si svolge l’azione ci si avvale di un Io che ci permette di prestare ascolto a un altro Io, quello più impor tante, e quindi ci fa giungere la confessione di que st’ultimo in via confidenziale.
Esiste una variante ancora più interessante del racconto in prima persona: quella in cui si utilizza un Io editore, depositario del manoscritto, per ca muffare o straniare, nel libro, l’altro Io, quello fon damentale. Dostoevskij ha utilizzato questa variante per timore della censura. Nei Ricordi della casa dei morti egli appare due volte in prima persona e pre-
4. Leone Tolstoj, La sonata a Kreutzer, trad, di Elisabetta Bruz- zone, Mondadori, Milano, 1988, pp. 31-32. 5. Ibid., p. 35.
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tende, nella sua qualità di depositario del mano scritto e editore del racconto, di aver conosciuto un certo Aleksandr Petrovic Gorjancikov, il quale ave va scontato dieci anni di prigionia in Siberia per aver ucciso la moglie. Dopo la morte di costui, lui, Dostoevskij, avrebbe trovato un quaderno con il racconto della vita del condannato - ma oggi sap piamo tutti che questo è un mascheramento; Do stoevskij era stato lui stesso deportato in Siberia, se pure per altri motivi. Nella prefazione, presentan dosi come editore, afferma cautamente:
«Lo scritto era slegato... Io percorsi più volte quei frammenti e quasi mi convinsi che erano stati scritti in un periodo di follia. Ma questi ricordi della galera, “Scene della casa dei morti” come li chiama egli medesimo nel suo manoscritto, mi parvero non del tutto privi di interesse. Un mondo assolutamen te nuovo, finora sconosciuto, la stranezza di alcuni fatti, alcune osservazioni su quella popolazione di uomini perduti, tutto ciò mi sedusse, e lessi con cu riosità. Naturalmente posso sbagliare. Stralcio alcu ni capitoli: che il pubblico giudichi... ».6
La tattica imposta a Dostoevskij ha dato origine a un artificio che rimane interessante anche nel caso in cui se ne sia dimenticata l’occasione. Questa evi dente messa in scena, questo « Naturalmente posso sbagliare » o « Stralcio alcuni capitoli » lo incontria mo spessissimo nel romanzo, sino ai giorni nostri. E non manca mai di produrre il suo effetto, continua a risvegliare la nostra curiosità e il piacere di gioca re a rimpiattino con un Io che deve nascondersi per meglio potersi svelare.
Non molto diversamente agisce Italo Svevo nel
6. Fëdor M. Dostoevskij, Bicordi della casa dei morti, a cura della Duchessa d’Andria, Tea, Milano, 1988, p. 8.
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romanzo in cui un medico psicoanalista pubblica per pura cattiveria gli appunti di un suo paziente, Zeno Cosini, un commerciante triestino. Gli appun ti erano stati scritti perché il paziente, non inten dendo prendere sul serio la psicoanalisi e non aven do nessuna voglia di sdraiarsi sul divano del medi co, aveva deciso di indagare, da solo, sulla propria vita. Ma, con Italo Svevo, siamo di nuovo nel XX se colo e quindi in presenza di un Io che non solo rac conta nella speranza di arrivare a una personale ca tarsi (come per esempio nelle precedenti confessio ni dei narratori russi), ma che è a disagio nei con fronti del proprio Io. Il titolo italiano suona infatti La coscienza di Zeno. E la domanda che domina tutto il libro è sempre e soltanto una: «Chi sono io?». Apparentemente seguiamo solo l’evoluzione, a par tire dall’infanzia, di un essere umano qualsiasi, ap prendiamo delle prime sigarette fumate di nasco sto, di una università frequentata di malavoglia sino alla morte del padre, dell’amore infelice per Ada e del grottesco fidanzamento con la di lei poco avve nente sorella, e ancora dell’infedeltà ai danni di questa moglie, fatto che non turba in nulla la vita borghese della famiglia; apprendiamo inoltre della fondazione di una azienda, dello scoppio della pri ma guerra mondiale che, finalmente, offre all’abuli- co Zeno Cosini l’occasione di riscuotersi dal suo ve getare e di dedicarsi all’azione, e cioè ad affari non proprio puliti. Questa esistenza insignificante che ha dei tratti chapliniani, la comicità fantastica di tanti episodi senza conseguenze e privi di dramma
ticità acquistano la loro grandezza per la luce che è gettata su questo Io. L’ipocondriaco Cosini, che è alla ricerca di una malattia che non trova, che è alla ricerca di una verità che non trova, che potrebbe raccontare la sua vita così come fa oppure in modo del tutto diverso, esclama:
« Una confessione in iscritto è sempre menzogne-
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ra. Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo. Se egli (Zeno intende lo psicoanalista) sapesse come raccontiamo con predilezione tutte le cose per le quali abbiamo pronta la frase e come evitiamo quel le che ci obbligherebbero di ricorrere al vocabola rio! È proprio così che scegliamo dalla nostra vita gli episodi da notarsi. Si capisce come la nostra vita avrebbe tutt’altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto (si intende il triestino) ».7
Ciò che l’Io di Italo Svevo può farci scoprire, le possibilità cui accenna, ancora non sono state pie namente comprese. E un Io utilizzato pochissimo, non ancora sfruttato appieno, che va in giro con la maschera da buffone di un triestino perdigiorno, un buono a niente, bugiardo, avido di verità, molto diretto e un momento dopo capace di riderci in fac cia, perché quello che noi riteniamo essere il suo volto è ora un’illusione ora una maschera, e poi, ad un tratto, di nuovo il suo vero volto. Questo Io non sa neppure con chiarezza qual è il suo vero spesso re, le sue qualità, e infatti di lì a non molto tempo giungerà un altro scrittore e metterà esplicitamen te, nero su bianco, il suo « Uomo senza qualità». E poiché il tragicomico eroe di Svevo corre di medico
in medico, si sottopone a una cura dopo l’altra e vie ne spinto dalla psicoanalisi, nel corso della quale egli inganna il medico, nell’avventura della memo ria da cui riesce comunque a uscire alla sua manie ra, una maniera assolutamente peculiare, Joyce, ammiratore e amico di Svevo diventato poi più fa moso, ha potuto scrivere che la maniera sveviana di trattare il tempo era la cosa che, nel romanzo, lo aveva interessato di più. E in realtà l’Io di Italo Sve vo consente un modo di trattare il tempo da anno
7. Italo Svevo, La coscienza di Zeno, Dall’Oglio, Milano, 1966, p. 445. [Le parentesi tonde sono di Ingeborg Bachmann].
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verare tra le prestazioni poetiche pionieristiche di questo secolo.
Svevo stesso dice in proposito:
« ... il passato è sempre nuovo: come la vita proce de esso si muta perché risalgono a galla delle parti che parevano sprofondare nell’oblio mentre altre scompaiono perché oramai poco importanti. Il pre sente dirige il passato come un direttore d’orchestra i suoi suonatori. Gli occorrono questi o quei suoni, non altri. E perciò il passato sembra ora tanto lungo ed ora tanto breve. Risuona o ammutolisce. Nel presente riverbera solo quella parte ch’è richiamata per illuminarlo o per offuscarlo. Poi si ricorderà con intensità piuttosto il ricordo dolce e il rimpian to che il nuovo avvenimento».8
Per questo io sono dell’opinione che tra l’Io del XIX secolo (o addirittura tra quello del Werther goethiano, che è uno dei casi più eccelsi di un Io che pone se stesso come unica istanza che illumina gli eventi), tra l’antico Io, dunque, e l’Io di un libro come La coscienza di Zeno, si spalanca un abisso, co me altri abissi dividono questo Io dall’Io di Samuel Beckett, di cui in seguito parlerò. La prima mo dificazione vissuta dall’Io è quella per cui l’Io non è più nella storia, ma è la storia, oggi, a essere nell’io. Ciò vuol dire: solo fin tanto che all’Io non venivano poste domande, fin tanto che lo si riteneva in grado di raccontare la propria storia, l’Io garantiva anche la storia e, insieme, se stesso come persona. Ma a partire dal momento in cui l’Io si è dissolto, l’Io e la storia, l’Io e il racconto non sono più garantiti. Né il lettore né l’autore Italo Svevo sarebbero disposti a mettere le mani sul fuoco per l’Io di Zeno Cosini. E tuttavia l’Io si è fatto più ricco proprio grazie alla
8. Italo Svevo, La morte, in I racconti, a cura di Giacinto Spa gnoletti, Rizzoli, Milano, 1988, p. 481 [N.d.T.].
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perdita di certezze. Il nuovo modo di trattare il tempo, che già l’Io di Svevo aveva reso possibile, e con esso il nuovo modo di trattare la «materia», è solo un primo avvio. Il romanzo di Marcel Proust Alla ricerca del tempo perduto coronerà l’opera. Quan do Proust mette in azione il suo Io e lo spinge alla ricerca, quell’io così poco romanzesco, e gli carica sulle spalle un romanzo ciclopico, egli non gli affida il ruolo di protagonista in quanto persona e ancor meno in quanto portatore dell’azione, bensì in ra gione del talento che l’Io possiede per la memoria - per questa qualità e nessun’altra. L’Io, che compie azioni esemplari solo come testimone, non viene più ascoltato, non viene fatto parlare nel senso anti co del termine, né spinto alla confessione, esso è piuttosto un Io in divenire, perché è stato sempre presente sul luogo dell’azione - a Combray, a Bal-
bec, a Parigi, a casa della duchessa di Guermantes, a teatro, sul luogo dell’accadere e del non accadere - perché esso è stato ovunque, sempre costretto dal tempo assassino ad andare avanti e a dimenticare, tempo che può sospendere solo quando un odore, un sapore, una parola, un suono gli riporta il passa to - luoghi e figure - riportando l’Io a ciò che ha vi sto, vissuto, a ciò che gli è stato narrato. Una partico larità del romanzo proustiano è proprio il fatto che l’Io scompare per lunghi tratti. Tutto il libro di Swann e anche altre parti hanno l’aria di essere in dipendenti, e narrate in terza persona. Eppure è l’Io a varcare la soglia, a fare il suo ingresso nel tem po, conquistandosi una profondità memoriale mai raggiunta prima. Alla fine del primo libro l’Io nar rante giustifica il libro successivo di Swann con le
seguenti parole:
« E così che, spesso, indugiavo fino al mattino a rievocare il tempo di Combray, le mie tristi sere senza sonno, i tanti giorni, anche, la cui immagine mi era stata di recente restituita dal sapore - che a
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Combray si sarebbe chiamato il “profumo” - di una tazza di tè e, per associazione di ricordi, quanto ave vo appreso, molti anni dopo aver lasciato quella pic cola città, intorno a un amore che Swann aveva avu to prima che io nascessi, con quella precisione di dettagli che risulta più facile da ottenere, a volte, per la vita di persone morte da secoli che non per le vicende dei nostri migliori amici, e che sembra im possibile come sembrava impossibile parlare da una città a un’altra - finché si ignora il trucco grazie al quale l’impossibilità è stata aggirata. Tutti quei ri cordi sovrapposti gli uni agli altri formavano ormai una massa, ma questo non impediva di distinguere fra loro — fra i più antichi e i più recenti, nati da un profumo, e poi quelli che erano soltanto i ricordi di un’altra persona, dalla quale li avevo raccolti - se non delle fessure, delle faglie vere e proprie, alme no quelle venature, quelle screziature di colorazio ne che in certe rocce, in certi marmi, rivelano diffe renze d’origine, d’età, di “formazione”».9
Dove invece questo Io, questo Marcel, si avvicina di più a ciò che noi riteniamo essere il romanzo in prima persona e precisamente nel volume La prigio niera, che narra il suo amore per Albertine, quello che ci affascina non è mai la confessione, né la di mensione dell’intimità, perché questo Io è come specializzato nel riversare ogni sua esperienza in una totalità dell’esperienza, e rischiararla poi, in modo molto uniforme, con la luce della conoscen za. Tipiche di questo trasmettere la comunicazione dell’Io e della dissoluzione della soggettività nell’og- gettività sono, in Proust, le frasi come quelle che ri-
9. Marcel Proust, A la recherche du temps perdu, I: Du côté de chez Swann, vol. I, Gallimard, Paris, 1954, pp. 242-243 [ed. it. Alla ri cerca del tempo perduto, vol. I: Dalla parte di Swann, trad. it. di Gio vanni Raboni, Mondadori, Milano, 1983, p. 226].
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guardano il suo amore per la duchessa di Guer- mantes:
« E subito l’amai, perché se qualche volta, per in namorarci di una donna, basta che lei ci guardi con disprezzo, come mi era parso nel caso di Mademoi selle Swann, facendoci pensare che non potrà mai essere nostra, a volte può anche bastare che ci guar di con bontà, come Madame de Guermantes, facen doci pensare che potrà essere nostra».10 11
Questo « E subito l’amai » viene immediatamente assorbito nel noi delle frasi seguenti, in enunciati di tipo conoscitivo. Come voi certamente capite, ho in teso qui dare soltanto alcune indicazioni riguardo all’Io; infatti anche sull’Io in Proust, su questo uni co Io, si potrebbero dire moltissime cose e dispiace dover abbandonare così rapidamente un Io come questo, con quel suo particolarissimo modo di per cepire che nella nostra esperienza quotidiana in contriamo solo in casi eccezionali. Robert Curtius scrive in proposito:
« Esso (quel modo di percepire) si trova su quel crinale che segna il passaggio dalla coscienza vigile normale ad altri stati di coscienza. Esso coincide con quello che la psicologia della mistica definisce in senso stretto “contemplazione”: un atteggiamento che istituisce un legame reale tra colui che vede e la cosa vista ».H
L’Io proustiano è molte cose insieme, ma per se stesso, come strumento, non è un enigma. È tran quillo, ha fiducia nelle proprie capacità: nella sua
10. Ibid., p. 235 [trad. it. cit., p. 216].
11. Ernst Robert Curtius, Französischer Geist im zwanzigsten Jahrhundert [Lo spirito francese nel XX secolo], Francke, Bern,
1952, p. 320.
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ricerca del tempo perduto assume il ruolo di vetto re di una conoscenza che certo non produce risulta ti parziali, bensì riedifica la totalità della nostra esperienza e quindi assume la valenza di una « sum ma ».
Un Io enigmatico, che non conduce alle profondi tà del tempo ma nel labirinto dell’esistenza, alle mo struosità dell’anima, è quello creato dal romanzo te desco Fluss ohne Ufer [Fiume senza sponde] di Hans Henny Jahnn. Il protagonista, Gustav Anias Horn, avendo raggiunto i quarantanove anni, scrive per sé solo, senza rivolgersi a nessuno, sorvegliando so spettoso l’Io che scrive, perennemente disperando di scoprire la verità sul suo passato, su un crimine mai chiarito, di cui lui stesso è colpevole. Significati vi non sono tanto gli elementi dell’azione che proli ferano e si espandono a dismisura, ma piuttosto la situazione di colui che scrive, che non racconta niente a nessuno e si trasforma in giudice di se stes so nel momento in cui rinuncia alla menzogna e alle convenzioni. Ma poiché per Hans Henny Jahnn l’Io non è una grandezza fissa, bensì un enigma, poiché muta senza posa e di esso non è più possibile dire come e chi fosse in passato, essendo un Io che scor re e si perde in un mare agitato dal quale riemerge
ogni volta rinnovato, le difficoltà appaiono insupe rabili. E infatti impossibile scoprire una costante del suo essere che possa renderlo responsabile e per metta di giudicarlo. La ricerca della precisione è il suo unico tratto distintivo, arriva al punto da far sì che l’Io entri in contatto con persone che possano aiutarlo a fare chiarezza su singoli momenti del suo passato. In questo modo il passato si trasforma in presente e Horn finirà per incontrare l’uomo che lo ucciderà. Horn è ossessionato da una idea:
« Mi trovo al centro di un procedimento giudizia rio; tutto ciò che accade è frutto di una disposizione
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giudiziaria e l’oggetto dell’inchiesta e del giudizio è la mia vita. Non esiste possibilità di scampo».12
E così si esprime l’anelito del suo Io:
« In questo mondo inaffidabile, dovrebbe pur esi stere qualcosa su cui io potessi contare - l’immagine del nostro destino e del nostro agire non dovrebbe poter essere deformata».
L’Io soffre del fatto di non avere più una ben precisa personalità, di essere stato reciso da ogni le game, da ogni rapporto nel quale potrebbe definirsi in quanto Io. L’Io si scopre ridotto a mero strumen to di un cieco divenire.
« Mi trovo nella debole posizione di chi è un sin golo, un rinnegato, che tenta di pensare - che cono sce la propria dipendenza dai movimenti e dalle norme del tempo suo, nei cui orecchi risuonano pa role dette, insegnamenti, annunci, parole con le quali si giudica, e nelle quali si muore - e alle quali non crede più. Di chi non crede più a centrali elet triche, miniere di carbone, di ferro, a pozzi di pe trolio, altiforni, laminatoi, catrame, cannoni, film e telegrafi - di chi sospetta un errore».13
Questo Io cerca, trova e si condanna già davanti al niente; non concepisce la sua tragicità se non co me fato. Eppure conosce un’altra cosa, ciò che
Jahnn definisce «destino». Niente di tutto ciò ha più valore per l’ultimo Io
di cui intendo parlare, e cioè per l’Io di Samuel Beckett. Nel suo ultimo romanzo L’Innominabile l’Io
12. Hans Henny Jahnn, Fluß ohne Ufer, in Werke und Tagebücher, in 7 voll., Hoffmann und Campe, Hamburg, 1974, voi. 3, p. 350. 13. /taf, p. 288.
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sostiene un monologo senza inizio né fine, alla di sperata ricerca di sé. Questo Io, Mahood, non spe rimenta più nulla, non conosce più storie, è un esse re che consiste solo di testa e tronco, di un braccio e una gamba, che vive in un vaso di fiori, tenta di con centrarsi, di pensare, di pensare soltanto per poter ancora domandare - ma domandare che cosa, è pro prio questo il problema! - insomma, per rimanere in vita come un essere che domanda. In lui sono ve nuti meno non solo personalità o addirittura identi tà, costanti dell’essere, storia, mondo circostante e passato, ma il suo anelito al silenzio minaccia di spe gnerlo, di annientarlo. La fiducia di questo Io nel linguaggio è talmente compromessa da rendere va na la abituale messa in discussione dell’Io e del mondo. Come ho già detto prima, l’Io dimorava ini zialmente nella storia circostante, poi, con Svevo e Proust sono state le storie a dimorare nell’Io, e si è quindi verificato uno spostamento. In Beckett si ar riva infine a una vera e propria liquidazione dei contenuti.
« E gli uomini, quanti discorsi mi hanno mai fatto sugli uomini prima ancora di volermici assimilare. Tutto quello di cui parlo, lo strumento che mi serve per parlare, è da essi che l’ho avuto. A me va anche bene, ma non serve a niente, non se ne viene a capo. E di me adesso che devo parlare, sia pure con il loro linguaggio, sarà un inizio, un passo verso il silenzio, verso la fine della follia, quella di esser costretto a parlare e non poterlo fare, salvo che di cose che non mi riguardano, che per me non contano, alle quali non credo, e di cui mi hanno rimpinzato per impe dirmi di dire chi sono, dove sono, di fare quel che ho da fare nel solo modo che possa mettervi fine, di fare quel che devo fare. Certo, non mi vogliono be ne. Ah, mi hanno proprio sistemato, ma non me l’hanno fatta, non del tutto, non ancora. Testimo niare per loro sino a creparne, come se uno potesse
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crepare in questo modo, ecco che cosa vogliono da me. Non poter aprire la bocca senza nominarli co me esseri del mio stesso genere, ecco a che cosa cre dono di avermi ridotto. Avermi accollato un lin guaggio del quale credono che non potrò mai ser virmi senza riconoscere la mia appartenenza alla lo ro schiatta, che bel trucchetto. Glielo sistemo io, quel loro assurdo linguaggio. Del quale comunque non ho mai capito niente, così come non ho capito niente delle storie che esso si porta con sé, come fos sero carogne. Hanno sottovalutato la mia incapacità di assorbimento, la mia facoltà d’oblio. Cara incom prensione, proprio a te dovrò, alla fine, il mio esse re io. Presto non rimarrà più niente di tutto ciò che
mi hanno cacciato dentro. Allora, finalmente, vomi terò me stesso, tra i rutti sonori e inodori degli affa mati che finiscono nel coma, un lungo, delizioso co ma ».I4
L’Io di Beckett si perde in un mormorio, e anche questo mormorio gli appare sospetto, ma la coazio ne a parlare permane, e la rassegnazione è impossi bile. Anche se si è sottratto al mondo perché il mon do lo ha oltraggiato, umiliato e derubato di ogni contenuto, l’Io non può sottrarsi a se stesso, e nella sua miseria e inermità resta pur sempre un eroe, l’eroe Io, con il suo eroismo d’altri tempi, con quella audacia che in lui rimane invisibile e che pure è grandissima. [Le ultime parole di Mahood sono]:
«... e dunque continuerò, bisogna dire parole fin quando ce ne sono, bisogna dirle, fino a quando es se mi trovino, fino a quando mi dicano, strana pena, strana colpa, bisogna continuare, forse ormai è sta to fatto, forse mi hanno già detto, forse mi hanno portato fino alla soglia della mia storia, davanti alla
14. Samuel Beckett, Llnnomable, Éditions de Minuit, Paris, 1953, pp. 62-63.
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porta che s’apre sulla mia storia, mi stupirebbe se si aprisse, sarò io, sarà il silenzio, lì dove sono, non so, non lo saprò mai, nel silenzio non si sa, bisogna con tinuare e io continuo».15
Sono queste le ultime opprimenti notizie che ab biamo dell’Io in letteratura, mentre ogni giorno, cocciutamente, continuiamo a dire « Io » con l’enfa si della convinzione, derisi dagli impersonali « si » e «noi», dalle anonime istanze che non prestano ascolto al nostro Io, come se non stesse parlando nessuno. Ma non è forse vero che la letteratura, la quale pure è una grandezza non determinabile e occupa una posizione altrettanto poco determinabi le, continuerà sempre in situazioni nuove e con pa role nuove a dare voce all’Io? Non esistono infatti dichiarazioni ultime. Il miracolo dell’Io è appunto questo: dovunque parli, l’Io vive; non può morire — per quanto schiantato, o oppresso dal dubbio, non più credibile e amputato - questo Io privo di garan zie! E se nessuno gli presta fede, e se non crede nemmeno più a se stesso, noi dobbiamo credergli, l’Io deve credere in se stesso quando entra in scena, quando prende la parola e si stacca dal coro unifor me, dal gruppo di quelli che tacciono, deve credere in sé, non importa chi sia né che cosa esso sia. E fini rà per trionfare, oggi come sempre è stato, nella sua qualità di araldo della voce umana.
15. Ibid., p. 213.
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IV IL RAPPORTO CON I NOMI
Signore e Signori,
in queste ultime settimane, a Francoforte, avete avuto la fortuna di conoscere l’opera di Alban Berg Lulu, e per molti, anche per coloro che non hanno potuto vederla e ascoltarla, sarà impossibile, d’ora in poi, ignorare l’esistenza del nome Lulw, il nome di questa creatura del poeta Wedekind e del com positore Berg resterà ancorato alla coscienza come un nome dotato di aura, un’aura che gli deriva cer to dalla musica e dalla parola, ma che nel momento in cui diviene sua fa sì che il nome sprigioni una tale energia da liberarsi di ogni pastoia e acquistare vita autonoma; il nome è in sé già sufficiente per essere nel mondo. Non esiste nulla di più misterioso dello splendore dei nomi e del nostro attaccamento a tali nomi, e nemmeno la non conoscenza delle opere che li illustrano impedisce a Lulu e a Ondina, a Em ma Bovary e Anna Karenina, a Don Chisciotte, a Rastignac, a Enrico il Verde e a Hans Castorp di condurre una esistenza trionfale. Infatti l’uso che ne facciamo nei nostri discorsi o nei nostri pensieri
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ci appare talmente ovvio e naturale che non ci chie diamo mai perché quei nomi siano nel mondo, qua si che quei pochi che portano quei nomi avessero ri cevuto un battesimo migliore del nostro, come se il loro fosse un battesimo in cui nessuno ha dovuto versare l’acqua benedetta e di cui nessuna scrittura parla in nessun registro — come se aver ricevuto quei nomi fosse un atto definitivo e ricco di privilegi al quale nessuna creatura vivente può aspirare. Questi nomi sono incisi col fuoco su esseri immagi nari di cui sono anche i rappresentanti, e a quegli esseri sono legati in maniera così duratura che quando noi li prendiamo in prestito e li diamo ai nostri figli, quelli per tutta la vita vanno in giro co me citandoli, oppure come portando una maschera che li adombra; il nome infatti è legato con più for za alla figura creata dall’artista che non all’essere vivente.
Poiché, in alcuni casi felici, la letteratura ha avuto fortuna con i nomi e li ha consacrati con il battesi mo, il problema del nome, la questione del nome, è per gli scrittori qualcosa di molto emozionante; e ciò vale non solo per i personaggi, ma anche per i luoghi, le strade da disegnare su quella straordina ria carta geografica, su quell’atlante che solo nella letteratura acquista leggibilità. Questa carta coinci de solo in pochi punti con le carte dei geografi. Cer to essa registra luoghi conosciuti da ogni bravo sco laro, ma altri ne annovera che nessun maestro co nosce, e questi luoghi formano tutti insieme una re te che si estende da Delfi all’Aulide, da Dublino a Combray, dalla rue Morgue sino all’Alexanderplatz
e dal Bois de Boulogne sino al Prater: in questa car ta ci sono anche il deserto di T.E. Lawrence e il cie lo solcato da Saint-Exupéry, ma molti altri deserti, molte altre fertili terre no, non vi figurano affatto. In compenso alcuni luoghi vi compaiono più e più volte, Venezia per esempio, che ricorre in cento oc casioni ed è sempre diversa: la Venezia di Goldoni e
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quella di Nietzsche, quella di Hofmannsthal e quel la di Thomas Mann, e poi paesi difficili da trovare sulle carte geografiche in commercio: Orplid1 e Atlantide, e altri che invece ci sono come l’Illiria, eppure Tllliria di Shakespeare non è quella reale; e poi ancora la Francia e l’Inghilterra e l’Italia, e tutti gli altri paesi che dir si vogliano! Ma proviamo a cercare la Francia che ora abbiamo in mente, met tiamoci in viaggio - non arriveremo mai, ci siamo già da sempre o non ci siamo stati mai. Su quell’a tlante magico essa appare più vera, molto più vera di quanto non sia in realtà, su quelle pagine la Neva confina con la Senna, e sulla Senna ecco il Pont du Carrousel di Balzac e il Pont Mirabeau di Apollinai re, e le pietre e l’acqua sono fatte di parole. Lì non poseremo mai piede, mai, su quel Pont Mirabeau, e non vedremo mai la Russia coperta di neve, attra versata da I Dodici di Aleksandr Blok. E d’altra par te: tutti i nostri viaggi, dove ci hanno veramente condotto? Nel bordello di Dublino o sul Blocks berg, nelle tenute finlandesi del Signor Puntila, e nei salotti di Cacania - questi sono i luoghi dove forse siamo stati davvero.
I nostri nomi sono accidentali e spesso siamo as saliti dalla sensazione di essere anonimi a noi stessi e al mondo. Da ciò nasce il bisogno di nomi, nomi di figure, di luoghi, nomi in genere. Ma tutto ciò è strano, e chi non vorrebbe esclamare come Amleto:
E tutto per nulla! Per Écuba? Ma per lui che cos’è? Chi è lui, per Ecuba da farne tanti gemiti?2
1. Orplid è l’isola immaginaria del romanzo Maler Nolten di Eduard Mörike e di Orplids letzte Tage di L.A. Bauer [TV.rf.T.]. 2. William Shakespeare, Amleto, atto II, scena n [trad. it. di Eugenio Montale, in «Teatro completo di William Shakespea re», vol. Ili, Mondadori, Milano, 1977, p. 149].
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Già, che cosa sono per noi Lulu e Julien Sorel, che cosa è per noi Manon o il ragazzo Eli? Esistono solo per rappresentare, per alludere? Come quan do uno allude a Ecuba e Ecuba, a sua volta, allude a una terza cosa. Sono vicari di altri? O invece son qualcosa di più?
Perché a me pare che la fedeltà a questi nomi, no mi di personaggi, nomi di luoghi, sia quasi Punica fedeltà di cui gli esseri umani sono capaci.
La nostra memoria è organizzata in modo tale da farci dimenticare i nomi dei vivi, e infatti quindici anni dopo ricordiamo a mala pena i nomi dei nostri compagni di scuola, gli indirizzi che sapevamo a memoria si cancellano; oppure cancelliamo parte di un nome, come la sua corretta ortografia; un bel giorno ci accorgiamo di confonderli. E poi questo annebbiarsi del ricordo: era Parma o Piacenza? No, era Pavia, o forse nemmeno! Da questa moria dei nomi dentro di noi si salvano in pochissimi: i nomi delle persone che ci sono più vicine, o quelli che so no stati fissati da avvenimenti, da capricci del caso.
Ma tutti quei nomi che già da ragazzi, negli anni di scuola, speravamo di poter dimenticare, perché non tolleravamo di essere perseguitati da Ulisse o da Guglielmo Teli, e malgrado ci fossimo giurati di di menticarli come le formule chimiche di cui in effet ti non sappiamo più niente, quelli no, non li abbia mo dimenticati, e la loro immagine, chiara o sbiadi ta, è più resistente e plausibile di quella di esseri umani viventi. Il nostro rapporto con loro è diven tato inesorabile.
E infatti li frequentiamo, li frequentiamo davve ro, per noi il mondo è popolato anche da loro.
Non molto tempo fa, in un Museo di New York, è bruciato un quadro di Monet, le Ninfee. Io lo avevo visto, e dopo aver letto la notizia sui giornali, conti nuavo a pensare: dove mai saranno andate a finire le ninfee? Non è possibile scomparire, spegnersi co-
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sì; la nostra memoria ancora le trattiene, vuole trat tenerle, vorrebbe parlare di loro per tenerle in vita, perché una distruzione simile è molto diversa dalla morte di tutte le ninfee di tutti i laghi, eppure quel l’incendio è stato solo una distruzione insignificante in confronto alle distruzioni che conosciamo e che derivano dalle guerre. E che cosa fu l’incendio della biblioteca di Alessandria, del quale parliamo ancora dopo duemila anni, come se nel frattempo non fos se andata a fuoco nessuna delle nostre case o delle nostre città? Continuiamo a pensarci, fedeli in mez zo a tante infedeltà. Se questa fedeltà sia da lodare - al pari delle lacrime per Ecuba — non lo sappiamo. Siamo esseri tramandabili e dobbiamo tramandare il meglio. Così a quanto pare è stato stabilito.
Nella letteratura più recente sono accadute, per ciò che riguarda i nomi, alcune cose che fanno ri flettere: un consapevole indebolimento dei nomi, una incapacità di attribuire nomi, anche se i nomi continuano a esistere e spesso si tratta di nomi forti. E io intendo parlare ora di entrambe le cose, della affermazione dei nomi e deH’immiserimento dei nomi, del pericolo che li minaccia e delle cause di quest’ultimo.
Allorché i romanzi e i racconti di Kafka diventa rono celebri, lo diventarono altresì K. e Josef K., due figure che non solo assai difficilmente possono essere considerate personaggi romanzeschi nel sen so comune del termine, ma che già nel nome ap paiono in un certo senso ridotte, fornite come sono più di una cifra che di un nome vero e proprio. Esi ste infatti una relazione eclatante tra questo rifiuto del nome da parte dell’autore e il rifiuto di attribui re a K. tutto quello che potrebbe dargli il diritto a portare un nome. Origine, ambiente, qualità, ogni obbligo, ogni specie di legame o provenienza, tutto è stato strappato a questa figura. E a tutti voi sono note le conseguenze che ha avuto la geniale mani-
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polazione di Kafka. La moda di Kafka ci ha regalato un’intera letteratura, montagne di racconti e ro manzi i cui eroi rispondono al nome di A. e X. e N., non sanno da dove vengono né dove vanno, abitano in città e paesi, in terre dove nessuno riesce a orien tarsi, spesso nemmeno l’autore, ed ecco allora de nominazioni generiche, la città, il fiume, le autorità, processi e accerchiamenti da vedere come parabole, ma di che cosa? Esse sono applicabili a tutto. Eppu re non dovremmo essere troppo severi con questi epigoni, perché non è escluso che più o meno con sapevolmente alcuni di loro abbiano capito qualcosa
- e cioè che oggi non è così facile dare nomi, dare un nome alle cose, che la fiducia nella innocente possibilità di dare nomi è ormai scossa, che questo è un punto di reale difficoltà, e che anche gli altri au tori i quali continuano con facilità a dare nomi, rie scono di rado a consegnarci un nome, una figura con un nome che sia qualcosa di più che una piastri na di riconoscimento, un nome che ci convinca a tal punto da essere accettato senza discussione, un no me da tenere a mente, da ripetere a noi stessi e con il quale cominciare ad avere un rapporto.
Sulla scorta del romanzo II castello, vorrei dimo strare con quale coerenza Kafka stesso, a differenza di chi lo imita, lavori con i suoi nomi. Con che rigo re ci conduce Kafka sino alla perdita di ogni certez za e di ogni identificazione!
Un agrimensore, K., arriva in paese, presumibil mente come impiegato del castello. Dopo qualche tempo, arrivano anche i suoi aiutanti e assistiamo alla seguente scena:
« “È difficile con voialtri” disse K. confrontando i loro visi, cosa che aveva già fatto parecchie volte, “come faccio a distinguervi? Siete diversi soltanto di nome, per il resto vi somigliate come...” esitò un at-
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timo, poi continuò involontariamente “vi somigliate come serpenti”. Essi sorrisero. “Gli altri ci sanno di stinguere benissimo” dissero per giustificarsi. “Lo credo” disse K. “ne sono stato testimonio io stesso, ma io non vedo che con i miei occhi, e con quelli non riesco a distinguervi l’uno dall’altro. Quindi vi tratterò come un uomo solo e vi chiamerò tutti e due Artur; uno di voi si chiama così, non è vero? Tu forse?” chiese a uno dei due. “No” disse quegli “io mi chiamo Jeremias”. “Fa lo stesso” disse K. “Io vi chiamerò tutti e due Artur. Se mando Artur in qualche luogo, vi andrete entrambi, se do un lavoro ad Artur, lo farete entrambi...”».3
Vedremo in seguito che l’ignoranza di K. finirà per ritorcersi contro di lui, perché non è nel suo di ritto rifiutare i nomi.
K. stesso si troverà in grave imbarazzo quando, finalmente, verrà chiamato al telefono dal castello e dovrà rispondere.
K. esita a dire il suo nome. L’esitazione di K. in nervosisce l’uomo. « “Con chi parlo?” ripetè e ag giunse: “Preferirei che di costì non si telefonasse tanto, hanno chiamato appena un minuto fa” ». K. ignora l’osservazione e, seguendo l’impulso di una decisione improvvisa, si presenta, mentendo, come aiutante dell’agrimensore. Quando gli viene chiesto con insistenza di quale degli aiutanti si tratti, K. finalmente rivela il suo nome e dice: «Josef». Il mormorio dei contadini alle sue spalle lo disturba un po’, è chiaro che non approvano che egli si sia presentato sotto false generalità.
Al telefono gli viene replicato che non è vero, che tutti al castello sanno che gli aiutanti si chiamano Artur e Jeremias. K. continua a mentire, afferma di
3. Franz Kafka, Das Schloss, in Gesammelte Werke, a cura di Max Brod, Fischer, Frankfurt am Main, 1951 [trad. it. Il castello, a cu ra di Anita Rho, in I romanzi, Mondadori, Milano, 1989, p. 582].
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essere il vecchio aiutante arrivato al seguito dell’a grimensore. « No » gli viene detto gridando. « “E chi sono allora?” chiese K. senza perdere la cal ma ».4 E dopo una pausa la voce al telefono gli dice quello che lui voleva sentirsi dire, e cioè che era il vecchio aiutante. E questo rappresenta il funesto inizio; ormai K. potrà soltanto, nascosto dietro un’altra persona, chiedere quando il suo padrone, cioè lui stesso, avrà il permesso di salire al castello. E la risposta è: « Mai ».
K. si degna di chiamare Jeremias «Jeremias» so lo quando questi diventa pericoloso per lui e Artur è fuggito al castello da dove trama contro di lui, ma ormai è comunque troppo tardi, Jeremias gli ha ru bato Frieda che K., d’altra parte, intendeva legare a sé solo perché lei era l’amica di Klamm, personag gio che si supponeva fosse molto potente al castello. Infatti, in una conversazione su Klamm, nel corso della quale K. chiede all’ostessa, altra vecchia aman te di Klamm, di parlargliene, egli ottiene una rispo sta significativa:
«L’ostessa tacque e lasciò errare su K. il suo sguardo penetrante. Poi disse: “Ascolterò tranquil lamente tutto quello che ha da dirmi. Preferisco che parli con franchezza, non si preoccupi di usarmi ri guardo. Le chiedo una cosa, però: non nomini Klamm. Dica ‘lui’, dica come vuole, ma non pro nunci il suo nome”».5
Ma se nel caso di Klamm l’uso del nome è ancora univoco, sebbene sia solo il suo nome a muoversi nel libro come un fantasma - K. vedrà infatti Klamm soltanto una volta e confusamente attraver so uno spioncino, e anche l’ostessa ha conservato so lo una fotografia del messaggero che le aveva chie-
4. Ibid., p. 34 [trad. it. cit., pp. 584-585]. 5. Ibid., p. 117 [trad. it. cit., p. 656].
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sto di andare da Klamm - la confusione dei nomi diventa assoluta nel momento in cui una persona che nel castello occupa una posizione importante compare in carne e ossa oscurando tutto con la sua ombra, come se anche questa volta la maniera di trattare i nomi fosse in grado di determinare la non identificabilità auspicata da Kafka. Appena arriva to, K. si imbatte nel nome di un impiegato: Sordini. Qualcuno gli spiega:
« ... Non capisco poi come, per quanto forestiero, uno possa credere che, se chiama ad esempio Sordi ni al telefono, Sordini in persona gli possa rispon dere. Probabilmente invece gli risponde un infimo impiegato d’ordine di qualche altro ufficio. Può ac cadere in certe ore rare e fortunate, che, chiaman do l’impiegatuccio, Sordini in persona venga all’ap parecchio. Allora però è meglio lasciar cadere il ri cevitore e fuggir via prima d’aver udito la prima parola ».®
K. è convinto di riconoscere quel Sordini quando Olga gli racconta la storia di sua sorella Amalia, che ha rifiutato le indecenti proposte dell’impiegato con la conseguenza che da allora tutta la famiglia si bat te per riconquistare la posizione che lei aveva nel villaggio.
«... “Nel castello c’è un alto funzionario che si chiama Sortini”. “Ne ho già sentito parlare,” disse K. “era immischiato anche lui nella faccenda della mia nomina”. “Non credo,” disse Olga “Sortini non compare quasi mai in pubblico. Forse confondi con Sordini, che si scrive con la ‘d’?”. “Hai ragione,” dis se K. “era Sordini”. “Sì,” disse Olga “Sordini è co nosciutissimo, è uno dei funzionari più attivi, si
6. Ibid., p. 100 [trad. it. cit., p. 642]. 91
parla molto di lui. Sortirli invece vive molto ritirato, pochi lo conoscono...”».7
Segue tutta la storia, e più tardi, all’improvviso, si afferma:
«... Tutti sanno che Klamm è molto brutale, pare che stia zitto per ore e ore, poi ad un tratto dica del le volgarità da far fremere. Di Sortini questo non si racconta, anche perché è pochissimo conosciuto. A dire il vero, di lui si sa soltanto che il suo nome asso miglia a quello di Sordini. Senza questa rassomi glianza di nomi, forse nessuno di lui saprebbe nul la. Anche come esperto in fatto d’incendi, probabil mente lo confondono con Sordini, il vero esperto è quest’ultimo e approfitta dell’analogia dei nomi per rigettare su Sortini i doveri di rappresentanza... ».8
Al fatto che le persone siano ignote o relativa mente ignote si contrappone la fluttuazione e il mi stero dei loro nomi. Una cosa determina l’altra. E quindi nessuno più si stupisce leggendo il grottesco colloquio tra K. e il maestro, a proposito del conte:
« Ma K. non si diede per vinto e ripetè la doman da: “Come? Lei non conosce il Conte?”. “Come po trei conoscerlo?” disse il maestro piano, e aggiunse forte, in francese: “Abbia riguardo alla presenza di bambini innocenti”».9
Questo « Abbia riguardo alla presenza di bambini innocenti » è davvero impareggiabile, come se chie dere una semplice informazione su una persona avesse già in sé un che di osceno o di criminoso.
Il fatto che in Kafka compaiano anche nomi sem
7. Ibid., p. 248 [trad. it. cit., p. 767]. 8. Ibid., pp. 259-60 [trad. it. cit., p. 776]. 9. Ibid., p. 19 [trad. it. cit., p. 572].
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plici, prosaici, nomi di ragazze tipo Frieda o Olga, e cognomi come Gerstäcker e Lasemann, con tutta la loro ovvietà e irrilevanza, contribuisce solo a sviare lo sguardo dal non più dominabile problema rap presentato dai nomi. L’eroe K. ammette con se stes so, in un attimo di vera lucidità, che per trovare pa ce in quel paese dovrà passare inosservato come quei Gerstäcker e come tutti gli altri abitanti del luogo. Max Brod racconta che K. avrebbe dovuto apprendere, sul letto di morte, che gli era stato con cesso di vivere e lavorare in paese, anche se non po teva vantare alcun diritto di farlo. La coincidenza della morte di K. con questa notizia è inevitabile, perché non è assolutamente immaginabile come il nome K. potesse adeguarsi, acclimatarsi e ambien tarsi tra tutti gli altri semplici nomi del racconto. In fatti K. è pensabile in viaggio e non certo alla meta, già solo per via del suo nome non è pensabile in una comunità.
Lungi da me, a questo punto, l’idea di dedicarmi all’esegesi di Kafka.
Siamo da sempre così abituati a riconoscere le figure dai loro nomi, e con l’ausilio dei nomi a se guire le orme degli eventi, da credere che posse dendo un nome possediamo anche la figura che lo porta. Anche in Kafka è ancora possibile, per noi, aggrapparci ai nomi; è vero che spesso veniamo re spinti, disorientati, ma riusciamo pur sempre a riaggrapparci ad essi. E una vecchia abitudine ma è anche un vizio - siamo stati viziati non solo dalla let teratura del passato, ma anche dai contemporanei di quegli scrittori che per primi ci hanno privati di quell’appiglio. Penso soprattutto a Thomas Mann. Ma la raffinatezza con cui egli ci offre la maggior parte dei suoi nomi non è altro, forse, che un cam panello d’allarme. I nomi hanno, in Thomas Mann, una grande importanza, Mann è l’ultimo grande in ventore di nomi, un mago dei nomi. Ma i suoi nomi posano come ironici drappeggi sulle sue figure co-
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miche e tragiche, come una serie di ben meditate accentuazioni. Mann vuole tirar fuori tutto dai suoi nomi. Serenus Zeitblom, Hélène Oelhafen, Mada me Houpflé, la marquise de Venosta, née Pletten berg: la sussiegosità borghese, la volgarità, la bana lità, il languore o l’esotismo, lo pseudoesotismo - tutto, tutto è pensato e calcolato, inoculato nel no me, e anche un nome serio come Adrian Lever kühn è sapientemente caricato del senso che Mann attribuisce al personaggio. O ancora, l’accentuazio ne di alcuni nomi della Germania del Nord, quelli della Germania del Sud, quelli del Meridione, tutti contribuiscono ad annunciare il tema. O invece, co me in Tonio Kröger, essi rivelano il loro essere legati a due mondi diversi. Il nome indica già il conflitto cui il protagonista sarà esposto. Non sono certa che Thomas Mann possa esserci molto utile in questo nostro studio sui nomi nella letteratura contempo ranea, ma il suo uso ironico, e intendo ironico nel senso più ampio del termine, dei nomi, può far pensare che, anche nel suo caso, quella rassicurante attribuzione sia sul punto, almeno provvisoriamen te, di aver fine, non senza averci prima lasciato, tut tavia, un paio di nomi impareggiabili, splendidi: Peeperkorn, Settembrini, Krull. E l’elenco sarebbe lungo.
Anche in James Joyce, a prima vista, i nomi sem brano stabili, quasi tanto stabili quanto lo sono nei romanzi dell’Ottocento. Promettono una assoluta solidità, e ci cullano in questa certezza: ecco Leo pold Bloom, agente di pubblicità, Marion-Molly sua moglie, e, in modo ancora più accentuato, Stephen Dedalus, col suo nome così denso di significato. « Che canzonatura » gli viene detto, « quel tuo nome assurdo, da greco antico».10 E non ci sarebbe altro da dire, se non fosse che anche i nomi vengono col
io. James Joyce, Ulisse, trad. it. di Giulio de Angelis, Mondado ri, Milano, 1989, p. 6 [A.d.r.].
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piti da un sommovimento del linguaggio, dalla sua aggressiva dissoluzione. Agli inizi il nome di Bloom viene semplicemente messo innanzi al lettore, poi viene sbattuto, assaggiato di nuovo, e chiamato da ogni parte e con tutte le varianti possibili: Leo, Pol- dy, Siopold! Il viatore Leopold, sire Leopold, Mr Leopold, l’amato Compagno, Leopold dolce mae stro, sire Leo Bloom, Leop. Bloom, Stephen D. Leop. Bloom.
Durante la scena notturna nel capitolo del bor dello viene prima chiamato dal campanello: « Bang Bang Bla Bac Blad Bag Bloo». Poi da una voce: «Poldy! ». Arrivano le guardie, gli mettono le ma ni sulle spalle e dicono « Bloom. Di Bloom. Per Bloom. Bloom».
E subito dopo una delle guardie lo investe: « Ven ga. Nome e indirizzo ». Bloom risponde: « ... Dottor Bloom, Leopold, chirurgo dentista. Avete certo sentito nominare von Bloom Pascià. Milioni e milio ni. Donnerwetter. Mezza Austria è sua. L’Egitto. Cu gini». La prima guardia chiede: «Le prove». Bloom le porge un biglietto. Ma su questo biglietto la guardia legge il nome: « Henry Flower. Senza fissa dimora».
(Infatti Leopold si fa chiamare Henry Flower da Marta, la sua amante e, come sappiamo, nel corso della giornata ha ritirato, al fermo posta, una lette ra indirizzata a quel nome).
Poco dopo questa scena con la polizia, appare Marta, che grida: « Henry! Leopold! Leopold! Lio nello, tu sparisti! Lava il mio onore».
Un’altra donna afferma di aver ricevuto una sua lettera, firmata col nome di James Lovebirch.
Entrano in scena i baci, che cinguettano e squitti scono: «Leo!... Leopopold! Leolé! O, Leo!».
Nel corso della scena Bloom assume altri ruoli, come imperatore e sovrano prende il nome di Leo poldo Primo.
L’arcivescovo da cui riceve l’investitura gli dà i 95
nomi di: « Leopold, Patrizio, Andrea, Davide, Gior gio, che tu sia unto! ».
Bloom (nel suo discorso ai sudditi) dice: « Miei amati sudditi. Una nuova èra sta per spuntare. Io, Bloom, in verità vi dico che è oggimai prossima. Oh, sì, parola di un Bloom, voi entrerete tra non molto nell’aurea città da venire ancora, la nuova Bloomusalemme... ».
Al che un uomo si alza e dice: « Non credete una sola parola di quello che dice. Quell’uomo è Leo pold M’Intosh, il famigerato incendiario. Il suo ve ro nome è Higgins ».
Nelle vesti del professor Bloom egli appare come il primo esemplare di uomo femminile, in attesa di mettere al mondo un figlio. Una voce gli chiede: « Bloom, sei il Messia Ben Joseph o il Messia Ben David? ».
Sua figlia Milly: « Ma no! È il papalino! ».“ Quan do i fantasmi di quella scena notturna sono scom parsi, Bloom rimane, ma sempre col nome di Bloom, che all’improvviso produce le associazioni « Bloom, fiore blu », mentre resta ancora Henry Flower, in rappresentanza del nome Bloom, che quindi ricompare surrettiziamente in forma di re troversione.
I nomi che seguono vengono citati come possibili per la casa che si è fatta o si farà costruire: Bloom Cottage, Saint Leopold’s o Flowerville.
In Joyce i nomi possono essere distorti per si gnificato e suono, possono essere fatti impazzire, es sere scritti scorrettamente o messi fuori posto, ma sempre in modo tale che rimanga un’allusione al nome originario, come nell’acrostico composto dal giovane Bloom.
11. Ibid.., pp. 600, 621, 623, 624, 625, 647, 655, 656, 658, 659, 670, 727.
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« Poeti e aedi hanno cantato in rima Osannando alla musica divina. Lasciamoli immaginar sera e mattina. Di tutto a me più caro è questo invio. Oh, diletta sei mia. Il mondo è mio ».‘2
(Le lettere iniziali formano il suo nome, Poldo).
Un altro passaggio dimostra a quali acrobazie ven ga sottoposto il nome Bloom, acrobazie che stordi scono e il nome e noi lettori (si tratta di un ana gramma inventato in gioventù da Bloom):
« Leopold Bloom Ellpodbomool Molldopeloob Bollopedoom Old Ollebo, M. P. ».1S
E con chi è stato in viaggio Bloom? viene chiesto a un certo punto.
« Con?
« Sinbad il Marinaio e Binbad il Bottaio e Linbad il Lattaio, e Ninbad il Notaio e Cinbad il Cartaio e Ginbad il Giostralo e Tinbad il Tendaio e Finbad il Funaio e Pinbad il Pellaio e Minbad il Sellaio e Quinbad il Guantaio e Dinbad il Dentalo e Rinbad il Rotaio e Vinbad il Vinaio e Zinbad lo Zampaio ».‘4
Infatti — e come potremmo mai dimenticarlo! — il libro si chiama Ulisse, e la passeggiata di Leopold Bloom attraverso Dublino in una unica giornata, si compie all’ombra di quel grande nome che qui vie ne evocato: Odisseo. Nome che basta e deve bastarci come permanente richiamo al viaggio del paziente12 13 14
12. Ibid., p. 902. 13. Loc. cit. 14. Ibid., p. 982.
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Ulisse e che ci aiuta a scoprire ovunque scene allego riche.
Rifiuto del nome, ironia e giochi di nomi, con o senza significato, stravolgimento dei nomi — queste sono le possibilità - ma ne esiste anche una più ra dicale. Come se fosse troppo banale far riconoscer«· una persona dal nome che porta, William Faulkner, in quella che è probabilmente la sua opera più im portante, L’urlo e ilfurore, porta i lettori alla dispe razione. Sono quasi certa che pochissimi siano in grado di orientarsi perfettamente nell’ordito di questo libro, e non tanto perché la maniera con cui Faulkner tratta il tempo rende difficile un orienta mento — nel libro infatti si salta continuamente at traverso ben tre epoche: qualche frase può riferirsi ad esempio all’anno 1928 e subito dopo si parla in
vece dell’anno 1910. Ma non è questa la vera difficoltà, perché da molto tempo siamo abituati a testi che non assumono più il tempo cronologico co me modello; la difficoltà nasce piuttosto dal fatto che ogni qualvolta tentiamo di afferrare un nome, veniamo piantati in asso. E non possiamo far altro che ammirare e invidiare l’autore del risvolto di co pertina di questo libro per la sua capacità di riassu merne il contenuto come se fosse una saga familia re. Una volta avviluppati in quel testo, veniamo tra sformati in segugi che, a ogni passo, perdono la traccia che stanno inseguendo perché un nuovo odore colpisce le loro narici. Troviamo due volte il nome Caddy, una volta scritto con y, un’altra con ie;
due volte il nome Jason, due volte il nome Quentin, una volta come nome maschile, una volta invece co me nome femminile. Ma aver capito questo non ba sta, perché la funzione del nome non è quella di far riconoscere le persone. I nomi sono piuttosto simili a trappole. Le persone dobbiamo riconoscerle da ben altre cose. Dall’alone che circonda ciascuna di esse, dalla costellazione fatta di stati d’animo delica tissimi in cui sono iscritte. Esse ci vengono presenta-
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te con brevi citazioni alle quali bisogna prestare molta attenzione e, a ogni ricomparsa del personag gio — si tratti di Quentin lui o di Quentin lei - non importa in quale periodo della storia né se è bambi no, studente o giovanetto, in ogni caso l’autore lo accompagna con quella citazione. Più che ai nomi, è importante prestare attenzione al contesto nel quale il nome viene citato. Può stare in relazione a un fiore, al caprifoglio, a un prato che è stato venduto, a una partecipazione di matrimonio. All’improvviso scopriamo che solo così conquistiamo terreno e che, altrimenti, i personaggi ci rimarrebbero celati per sempre. Essi stessi d’altra parte si nascondono, per ché c’è un motivo, un mistero che intimidisce i no mi. Qualcosa è accaduto in passato, un incesto, e i
colpevoli non vogliono essere nominati - il bambino nato da quella relazione non deve essere nominato. L’evento viene rievocato più volte e immediatamen te taciuto, e anche i nomi vengono evocati e taciuti.
La prima volta che ne sentiamo parlare è in questi termini: « ... Euforbia. Io dissi, ho commesso un in cesto, padre, dissi. Rose ».I5
In seguito, questa frase riappare, riferita a un no me che, agli inizi non ci dice nulla, e che però segui terà a essere evocato fino a quando non ne afferre remo l’importanza. « Ho commesso un incesto pa dre dissi sono stato io non Dalton Ames. E quando mise Dalton Ames. Dalton Ames ».‘6 (Segue un inci so che riguarda un altro periodo di tempo, poi que sto nome viene citato ancora per ben tre volte). « Dalton Ames. Dalton Ames. Dalton Ames».
Anche le rose ricorrono sempre, come citazioni. Un fiore è menzionato spesso come riferimento a Benjamin il folle; ma il collegamento immediato
15. Le citazioni tratte da William Faulkner, The Sound and the fury, sono state verificate in base all’edizione tedesca usata dal
l’Autrice: Schall und Wahn, Diogenes, Zurich, 1973, p. 84. 16. Ibid., p. 86.
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con il fatto occultato è sempre il profumo del capri foglio.
Lui, Quentin, racconta:
« ... Lei teneva la mia testa contro il suo seno umi do e duro, io sentivo il suo cuore che ora batteva lento e regolare, non più martellante, e l’acqua che nell’oscurità gorgogliava fra i salici e il profumo di caprifoglio che a ondate si levava... ».*’
E poco oltre: « quel dannato caprifoglio non fini sce proprio mai».
E poco oltre: « Il caprifoglio stillava goccia a goc cia».18
Cose legate a una situazione o a un essere umano mantengono per sempre questo legame e danno più rilievo al personaggio di turno di quanto non possa fare un nome. E a provare la presenza di una persona sono le cose o il ricordo delle cose.
In realtà il metodo di Faulkner è il seguente: di stoglierci dai nomi per precipitarci nella realtà di rettamente, senza spiegazioni. E non è lui, l’autore, ad arrogarsi i nomi, non è l’autore a presentarceli, a prevenire le confusioni. Sono invece le figure a co noscersi tra loro, solamente loro a chiamare se stes se e altri per nome, e, come nella realtà, noi dobbia mo vedere da soli fin dove siamo capaci di arrivare, quali relazioni siamo in grado di stabilire tra perso ne che nessuno precostituisce, prepara ed etichetta per noi, al fine di rendercele più comprensibili.
A questo punto dovrei dire che ho pensato ai no mi per la prima volta leggendo Alla ricerca del tempo perduto di Proust. Non esiste libro che susciti mag gior attenzione per l’uso dei nomi, per il loro fun zionamento, per la loro densità o permeabilità. In fatti, chi non perda le tracce di ogni singolo nome
17. Ibid., p. 152. 18. Ibid., p. 153.
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in Proust, afferra chiaramente il perché della forza di irradiazione di alcuni nomi e il perché altri na scano invece già morti. Proust non solo ha traman dato un cimitero di nomi famosi, ma ha anche fatto dei nomi e dell’esperienza dei nomi il tema del suo romanzo. Ha detto dei nomi tutto ciò che è possibile dire e ha agito in due direzioni: ha intronizzato i nomi, li ha immersi in una luce magica, ma poi li ha distrutti e cancellati; li ha riempiti di senso, li ha ca ricati e, al tempo stesso, ha dimostrato tutta la loro vacuità gettandoli via come gusci vuoti, marchian doli a fuoco come usurpatori.
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Signore e Signori,
non è passato molto tempo da quando sedevo an ch’io in un’aula universitaria, certo non per ascolta re lezioni di letteratura - e le poche cose che mi ca pitava incidentalmente di sentire in proposito han no solo accresciuto il mio fastidio, in un’età in cui lo scrivere per un giovane che scrive e non vuole fare altro che scrivere è già da tempo diventato il centro di ogni pensiero e di ogni speranza. L’avversione per come la letteratura viene trattata dalla critica letteraria può ben essere stata una sciocchezza tra le tante. Che per uno scrittore gli studi di letteratura non siano né necessari né rilevanti è cosa ben nota, come è noto che commercianti e vagabondi, medici e galeotti, ingegneri, dandy, giornalisti e perfino al cuni professori hanno raggiunto una certa fama co me scrittori.
E sempre ricompare la stessa ominosa parola «letteratura», questa omnicomprensiva, elastica definizione di una cosa apparentemente chiara, vol tata e rivoltata cento volte e non solo dalla scienza,
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una parola usata anche dagli scrittori, una delle lo ro parole chiave, per quanto talvolta essi la usino in maniera personale e arbitraria. Certo è che per uno scrittore, non contare niente o pensare che un gioì no non conterà più niente nella letteratura è una prospettiva terribile, molto simile a una condanna a morte. E per essere ammesso allOrdine della « lei teratura » egli la corteggia senza posa, anche se pre ferisce non ammetterlo, e se pure non gli viene co municato se gli è stata concessa l’iscrizione a vita -
questa iscrizione sarà sempre un suo miraggio al quale mai vorrà rinunciare.
Che cosa questa parola magica significhi, che cosa essa riveli, su quali regni spalanchi il nostro sguar do, non ha bisogno - si direbbe - di chiarimenti. Tutti sanno infatti che cosa sia, per esempio, la let teratura tedesca e la letteratura europea o la lettera tura del mondo intero. Non teniamo conto, per adesso, del fatto che in terra tedesca si tende a con siderare termini quali « letteratura » e « letterario » come concetti restrittivi e spregiativi, quando addi rittura essi non vengono visti come ingiuriosi (e questo svilimento ha quasi ottenuto il suo scopo nel l’uso della parola « letterato »!) e che da noi, nei fat ti, esistono espressioni del tipo: è solo letteratura! Ma questo è letterario! Amiamo molto di più parla re del «poetico» e del «creativo», di «poesia» e « creatività », ma poiché questa abitudine linguistica viene a sua volta sottolineata da tante sciagurate
emozioni, vorrei appunto non tenerne conto e limi tarmi a considerare la parola letteratura come un sostantivo che indica una cosa. Ma qual è la cosa in dicata? La letteratura è forse la somma di tutte le opere e anche la somma di tutti coloro che ci hanno lasciato opere letterarie?
Quali opere? Solo le più eminenti? E da chi definite come tali? Di quali personaggi? Solo di co loro le cui opere sono sopravvissute, e sopravvissute per chi? E ancora, il posto di cose e persone entrate
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nella letteratura è un posto immutabile? E il tesoro, quel cosiddetto fondo dell’eterna poesia, custodito e amministrato con tanto zelo dalla storia letteraria, vale davvero tanta pietas e tanta evocazione ininter rotta? L’oro di questi lingotti dello spirito umano è tutto puro, è proprio vero che nessuno di essi di venta nero e che il loro suono non è spesso un po’ falso? E l’oro stesso non è forse soggetto alle più in credibili oscillazioni del mercato? I vostri maestri potranno raccontarvi molto meglio di me quante volte Goethe o Schiller siano crollati, quali tracolli di borsa abbiano subito i romantici, i naturalisti, i simbolisti. Quante volte un autore sia stato disprez zato, poi ancora osannato e dimenticato per poi ri sorgere — quante opere di vari Maestri? siano state lodate più del dovuto oppure più del dovuto tra scurate. E anche noi siamo al centro di questo pro cesso, disprezziamo, rivalutiamo, trattiamo la lette ratura come se fosse qualcosa di fisso ma, al tempo stesso, la manipoliamo sino a farla assomigliare a un ideale.
Una catena indiziaria di opere letterarie basta a provare che la letteratura esiste. Prendiamo, ad esempio, quella tedesca - e ci areniamo immediata mente sebbene ogni manuale reciti: dalle formule magiche di Merseburg [Merseburger Zaubersprüche] fino a... già, fino a dove? Ci areniamo perché sentia mo anche dire che, a ben vedere, non abbiamo una letteratura, una letteratura dotata di continuità; la letteratura tedesca viene definita come priva di tra dizione e sarebbe quindi la meno adatta a osservare e recepire tutto ciò che intendiamo per letteratura. Per lo meno se la compariamo alla letteratura fran
cese o a quella inglese. E molto di ciò è giusto, se ci atteniamo ai soliti canoni di pensiero. Se però ci po niamo a una distanza diversa, allora non si capisce più perché proprio la letteratura francese o una
* In italiano nel testo [N.d.T.]. 107
qualsivoglia altra letteratura debbano rispecchiare meglio tutto ciò che intendiamo per letteratura. In fatti, che cosa intendiamo per letteratura?
Essa è un ideale che rivediamo e correggiamo a nostro piacimento, nel quale manteniamo alcuni fatti e altri ne escludiamo.
Consideriamo per ora quali siano le opinioni e le definizioni che ci circondano. Potremmo fare ogni giorno singolari esperienze, per esempio parlando con gli amici. Se in una conversazione sulla pittura vi è capitato di sentire i nomi di Giotto, Kandinskij, Pollock, certamente in quello stesso discorso tutti si saranno ben guardati dal citare con lo stesso tono il nome di Raffaello. E se, ospiti nella casa di qualcu no, guardando i dischi avete trovato in bella mostra Bach, forse un po’ di musica barocca, Schönberg e Webern, difficilmente avrete visto in questo assorti mento anche Cajkovskij. In conversazioni di lettera tura tra gente che si ritiene competente è facile che sentiate parlare con entusiasmo di Joyce e Faulk ner, Omero e Cicerone, ma al nome di Eichendorff o di Stifter scatterebbe probabilmente un campa nello di allarme. Queste non sono invenzioni né trovate a effetto, sono esperienze di ogni giorno cui
anche noi prendiamo parte. Infatti, se da un lato si provvede ufficialmente a una tutela dei monumenti letterari e artistici in genere, che a tutti rende giu stizia, ciò non toglie che a livello non ufficiale si in stauri una sorta di terrore che mette al bando per un certo periodo capitoli interi della letteratura o di qualsiasi altra arte. Un terrore simile è sempre esisti to e il saperlo non serve a molto; per forza di cose finiamo per esercitarlo anche noi; l’entusiasmo che proviamo per una parte della letteratura implica il rifiuto del resto, e noi manteniamo viva la letteratu
ra grazie a questa ingiustizia, orientandola verso un polo ideale. Ed è pensabile che in un futuro non lontano i nostri idoli, sia i più antichi sia i più recen ti, vengano di nuovo abbattuti e siano costretti a
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uscire di scena per un certo periodo; che il nostro aprire la strada al nuovo e la nostra lotta per il nuo vo, così come noi lo concepiamo, dia origine a nuo ve dispute. Ma finché qui e ora ci siamo noi, e qui e ora siamo convinti delle nostre buone ragioni, la co sa non ci preoccupa.
Sebbene, o forse proprio perché è un miscuglio di cose passate e di cose che abbiamo ritrovato, la letteratura è questo: è la speranza, è il desiderio cui noi diamo forma attingendo al nostro patrimonio secondo le nostre esigenze - sicché essa è un regno aperto al futuro di cui non conosciamo i confini. Il nostro desiderio fa sì che ciò che ha già preso forma grazie al linguaggio partecipi anche di ciò che anco ra non è stato detto, e il nostro entusiasmo per certi testi splendidi è, in realtà, l’entusiasmo per la pagi na bianca, non scritta, sulla quale sembrano altresì fissarsi le future conquiste. In ogni grande opera, sia essa il Don Chisciotte o la Divina Commedia, sco priamo qualcosa di sfiorito, di sfatto, una lacuna che noi stessi colmiamo dandole una possibilità, leg gendola oggi e intendendo leggerla ancora domani - una inadeguatezza così grande da spingerci a trat tare la letteratura come se fosse un’utopia.
La scienza letteraria dovrebbe trovarsi in grande imbarazzo, dato che sulla letteratura non è possibile un giudizio obiettivo ma solo un giudizio vivo, e da to che questo giudizio vivo ha le conseguenze che abbiamo enunciato. Nel corso della nostra vita sia mo soliti modificare più volte il nostro giudizio su un autore. A vent’anni lo liquidiamo con una battu ta o lo definiamo statua di cera che non ci interessa affatto, a trenta ne scopriamo la grandezza e dieci anni più tardi il nostro interesse per lui si è spento, oppure abbiamo nuovi dubbi e nuove intolleranze. O, viceversa, prima lo riteniamo un genio e poi sco priamo banalità che ci deludono e allora lo abban doniamo. Siamo inclementi e irrispettosi, e quando così non è, vuol dire che non siamo partecipi. Sem-
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pre, in un’epoca, in un autore, una cosa o l’altra c i appare paradigmatica e altre invece sono di intrai ciò e sentiamo il bisogno di liberarcene mettendole in discussione. Le citiamo in tono di trionfo o di condanna, come se le opere letterarie esistessero so lo per dimostrare qualcosa ai nostri occhi.
Gli alterni successi delle opere oppure i loro in successi ci danno indicazioni non tanto sulle operi stesse e sulla loro intima struttura, quanto piuttosto sul modo di essere nostro e sul modo di essere del tempo, ma la storia di questo modo di essere non c ancora stata scritta da nessuno, mentre si continua a scrivere la storia della letteratura, essendo quest’ul- tima ordinata secondo princìpi estetici e critici co me se fosse un fatto compiuto, pronto a sottoporsi al giudizio unanime dei competenti giurati - che so no poi i lettori, i critici e gli studiosi di letteratura.
Ma la letteratura non è un fatto compiuto, né quella antica né quella moderna, essa è il territorio più aperto, più aperto ancora di quelle scienze in cui ogni nuova scoperta soppianta le vecchie - essa non è compiuta perché tutto il suo passato si riversa nel presente. Con la forza che le viene da tutte le età, essa preme contro di noi, contro la soglia del tempo sulla quale noi sostiamo, e avanzando armata di tutte le sue profonde conoscenze, le antiche e le nuove, ci fa intendere che nessuna delle sue opere è datata e nessuna può essere resa inoffensiva, perché esse contengono tutti quei presupposti che si sot traggono a ogni accordo e catalogazione definitivi.
Questi presupposti insiti nelle opere stesse vorrei provare a definirli presupposti «utopici».
Se le opere stesse non contenessero tali presup posti, la letteratura, con tutta la nostra simpatia, sa rebbe un cimitero. E noi non potremmo far altro che deporre qua e là corone mortuarie. E ogni ope ra sarebbe sostituita e migliorata dall’opera succes siva, ogni opera sepolta da quella che viene dopo.
La letteratura, invece, non ha bisogno di un Pan-
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theon, non s’intende di morte, cielo e redenzione,
essa conosce soltanto il proprio intento fortissimo di in fluenzare ogni presente, quello attuale o quello pros
simo venturo. La letteratura, sempre la «letteratura»... La cosa non cambia se oggi in Francia appare un
volume dal titolo Alittérature contemporaine (Albin Michel, Parigi, 1958), che si propone di dimostrare come i poeti evitino la letteratura, come la letteratu ra o l’essere nella letteratura venga rihutato dai poeti. Si tratta di sfumature da considerare in un modo un po’ diverso dai sentimentali tentativi dei tedeschi di creare una separazione tra letteratura e poesia; si può ben capire quel che intende l’autore, Claude Mauriac, ma che un’opera diventi un’opera letteraria perché ha voluto restare « fuori » della let teratura o perché in essa ha voluto entrare non è davvero così importante.
Anche l’ideale della aletteratura è tutto dentro la letteratura, e dice molte più cose sul mondo lettera rio, sulla posizione sociale e sulle inevitabili rivolte degli artisti che sulla letteratura stessa: una alettera tura ha il suo luogo all’interno della letteratura. Ma come circoscrivere, come avvicinarci alla letteratu ra, visto che non è in grado di definirsi, e visto che a essa si continua a ripetere quello che è e che do vrebbe essere? Potremmo tentare di prendere una via traversa che metterebbe subito in luce una doz zina di sentieri interrotti.
Flaubert ha scritto un romanzo cattivo: Bouvard e Pécuchet e l’avventura letteraria di questi due copisti assetati di sapere ha gli stessi tratti grotteschi della nostra. Bouvard e Pécuchet sono due bonhommes che hanno bisogno di certezze, e poiché scoprono l’incertezza della umana conoscenza essi diventano entrambi ridicoli, e in più nostri compagni di sven tura. Infatti la tragicommedia recitata da Bouvard e Pécuchet riproduce altresì la tragicommedia della scienza. Poiché essi con la sola lettura delle opere
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letterarie non vengono a capo di nulla, cercano ri fugio nella scienza che dovrà condurli sulla retia via.
Pécuchet aveva avuto un’« illuminazione »:
« Se facevano tanta fatica, dipendeva dal fatto clic ignoravano le regole.
«Se le studiarono nella Pratique du Théâtre di d’Aubignac, e in qualche altra opera meno antiqua ta.
« Vi si discutono problemi importanti: se la com media possa scriversi in versi, - se la tragedia non oltrepassi i suoi limiti quando ricava il suo racconto dalla storia moderna; - se i protagonisti debbano essere virtuosi - che genere di ribaldi comporti, - fino a che punto vi siano consentiti gli orrori? Che i particolari concorrano a un unico fine, che l’inte resse vada crescendo, che la fine corrisponda al principio, su queste regole non poteva esserci dub bio!
« “Inventate dei meccanismi capaci di avvincermi” di ce Boileau.
« Con che mezzo inventare dei meccanismi?
« “Che in tutti i vostri dialoghi, l’agitarsi della passione Vada dritto al cuore, lo infiammi e lo sconvolga”.
« Ma come si fa a infiammare il cuore?
« Ecco dunque che non bastano le regole. In più, serve il genio.
« E neppure il genio basta. Secondo l’Académie française, Corneille non capisce niente di teatro. Geoffroy diffamò Voltaire. Racine fu schernito da Subligny. La Harpe urlava di rabbia quando sentiva nominare Shakespeare.
« Disgustati dalla vecchia critica, vollero conosce re la nuova ».'
1. Gustave Flaubert, Bouvard et Pécuchet, Gallimard, Paris, 1950, pp. 214-15 [ed. it. Bouvard e Pécuchet, a cura di Lea Cami-
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E ancora:
« “Dopo! Per adesso, occupiamoci della prosa”.
« Viene espressamente raccomandato di scegliersi un classico per modellarvisi, ma tutti i classici han no i loro pericoli - e non soltanto presentano cadu te di stile, ma anche di lingua.
«Questa affermazione sconcertò Bouvard e Pé cuchet, che si misero allora a studiare la grammati ca... »?
« I grammatici, è vero, non sono concordi perché questi vedono una bellezza dove quelli scoprono un errore. Ammettono princìpi dei quali respingono le conseguenze, proclamano le conseguenze delle quali rifiutano i princìpi, si basano sulla tradizione, rifiutano i maestri e hanno strane raffinatezze...
« Giunsero perciò alla conclusione che la sintassi è un capriccio e la grammatica un’illusione».3
Ma la scienza che viene chiamata estetica potreb be forse appianare il loro dissidio.
« Un professore di filosofia, amico di Dumouchel, mandò loro un elenco di libri sull’argomento. Pre sero a lavorare separatamente, comunicandosi in seguito le rispettive riflessioni.
« In primo luogo, che cos’è il Bello?
« Per Schelling è l’infinito che si esprime col fini to, per Reid una qualità occulta, per Jouffroy un fatto non analizzabile, per de Maistre ciò che è gra dito alla virtù, per padre André, ciò che si addice al la ragione.
« E esistono parecchie specie di Bello... ».4
niti Pennarola, traduzione di Gioia Angiolillo Zannino, Classici Rizzoli, Milano, 1992, p. 158]. 2. Ibid., p. 217 [trad. it. cit., p. 160]. 3. /άά/.,ρρ. 217-18 [trad. it. cit., p. 161].
4. Ibid., p. 219 [tradt it. cit., p. 162]. 113
—·— >
Affrontarono poi il problema del sublime.
« Certi oggetti sono di per sé sublimi, il rumoreg giare di un torrente, tenebre profonde, un albero battuto dalla tempesta. Un carattere è bello quando trionfa, sublime quando lotta.
«“Capisco” disse Bouvard “il Bello è il Bello, il Sublime è il Bellissimo”.
« Come distinguerli? « “Con l’intuizione” rispose Pécuchet. « “E l’intuizione da dove viene?”. « “Dal gusto!”. « “Che cos’è il gusto?”. « Viene definito un particolare discernimento, un
giudizio immediato, la facoltà di saper distinguer«· certi rapporti.
« Insomma il gusto è il gusto - e questo non ci di ce come si fa ad averne »?
Ma, parlando seriamente, qual è stato il tratta mento riservato alla letteratura, e come è arrivata fino a noi, con quali metodi, e colpita da quali av versità? Non è una domanda oziosa, questa, perché la letteratura conserva sempre una traccia di quello che le è capitato.
Una storia della letteratura esiste solo a partire dal XIX secolo, cioè dal Romanticismo; allora lo studio della storia veniva visto come un dovere patriottico. Così si arrivò a una meticolosa registrazione della letteratura nazionale, e spesso, anche se non sem pre, l’orgoglio nazionale dei cronisti vietava loro di rendersi conto che quella letteratura, per intere epoche, girava a vuoto. Queste fiduciose esposizioni globali di qualcosa che non era un insieme, ma solo un traballante ideale ottimistico prodotto dal pa thos nazionale, hanno influenzato a lungo i nostri manuali scolastici. E questa più o meno depravata
5. Ibid., pp. 219-20 [trad. it. cit., p. 163]. 114
storiografia letteraria ha avuto frutti ancora ina spettati e insospettati, nella Germania del XX se colo. Ma Goethe, agli inizi del XIX secolo aveva tro vato una formulazione altrettanto duratura e più felice:
« Io vedo sempre di più » seguitò Goethe « che la poesia è un bene comune a tutta l’umanità, e che es sa appare ovunque e in tutti i tempi in centinaia e centinaia di uomini».6 7
E ancora, a Eckermann:
« Letteratura nazionale non vuol dire più molto; s’approssima il tempo d’una letteratura universale, e tutti devono adoperarsi per affrettare quest’epo ca. Ma s’intende che con questo apprezzare i pro dotti stranieri non dobbiamo rimanere attaccati ad essi come a qualcosa di particolare, né dovremo prenderli come modelli. Noi non dobbiamo pensa re a modelli cinesi o serbi, a Calderón o ai Nibelun ghi; e se proprio dobbiamo rivolgerci a qualche ca polavoro dovremo piuttosto tornare sempre col pensiero agli antichi Greci, nelle cui opere è rap presentata la somma bellezza dell’umanità. Il resto dobbiamo solo considerarlo dal punto di vista stori co, e far nostro quanto c’è di buono »?
Per quanto eccellente possa apparirci ancora oggi l’inizio di questo passo - l’intenso desiderio di un modello e l’individuazione di questo modello nella grecità, nonché l’invito a considerare tutto da un
6. Johann Wolfgang Goethe, Gedenkausgabe der Werke, Briefe und Gespräche, Bd. 24, 1948, p. 228 (Johann Peter Eckermann, Gespräche mit Goethe. Gespräch vom 31 Januar 1827) [trad. it. J.P. Eckermann, Colloqui con Goethe, a cura di Tomaso Gnoli, Sansoni, Firenze, 1947, p. 187].
7. Ibid., p. 229 [trad. it. cit., pp. 187-88]. 115
punto di vista storico - simili istruzioni per l’uso della letteratura, come del resto quasi tutte quelle* che ci sono pervenute, hanno molto patito i danni del tempo. Nel desiderio di far risalire l’idea di mo dello a un momento originario si cela tuttavia il de siderio di proiettare in avanti qualcosa, una dismi sura piuttosto che una misura, dismisura che pei quanti sforzi si facciano non è raggiungibile.
Oggi comunque non abbiamo più voglia di accet tare pedissequamente proposizioni olimpiche come queste o simili a queste. Eppure, leggendole in una chiave nuova, esse assumono una nuova posizione sul nostro orizzonte. I Greci di Goethe possono es sere visti come un simbolo.
Infatti nel XX secolo una curva febbrile e inquie ta, che mai sarebbe stata pensabile prima, sostitui sce, per quanto riguarda i criteri di giudizio, quel lento mutare di opinioni e norme che sino alla fine del XIX secolo procedeva ancora tanto lentamente da permettere di trovare il tempo per rispettarle singolarmente e per far sì che tutte arrivassero ad affermare la loro validità. Una delle cause di questo dato di fatto viene individuata da Jakob Burckhardt nelle Weltgeschichtliche Betrachtungen [Considerazio ni sulla storia del mondo]: «Il destino della poesia moderna dipende dal suo rapporto consapevole, sotto il profilo della storia letteraria, con la poesia di tutti i tempi e di tutti i popoli».8 Questi doni che non potevano mancare e che ci vengono dal XIX
secolo ci hanno certo resi più ricchi di ogni altra passata generazione, ma anche più labili e fragili, più privi di difesa contro ogni tipo di associazione. Infatti oggi conosciamo non solo la poesia di tutti i popoli, compresi quelli africani, ma siamo consape voli dell’esistenza di tutte le grammatiche, le poeti
8. Cfr. Jakob Burckhardt, Weltgeschichtliche Betrachtungen in Historische Fragmente aus dem Nachlass, DVA, Stuttgart-Berlin- Leipzig, 1929, p. 54.
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che, le retoriche, le estetiche, di tutte le possibilità esistenti, in quanto a leggi e forme della composi zione poetica. Perché tutta la realtà dei fatti letterari è accompagnata da un bagaglio teorico quando non è essa stessa già teoria, e al suo credito si contrappo ne un debito che la orienta o vorrebbe orientarla, o che è scaturito dal suo interno come il sogno di un possibile orientamento, e spesso questo sogno oltre passa a tal punto la realtà dei fatti letterari da dan neggiarla o non raggiungerla più.
Tutti noi vogliamo dimostrare qualcosa tramite la letteratura, oltre la letteratura stessa. E sulla lettera tura si avventano la filosofia, la psichiatria e ogni sorta di discipline, ed essa viene costretta in un complesso di norme, condizioni o rivelazioni alle quali — per contentare tutti e nessuno - oggi obbe disce, mentre certo domani le contraddirà. Gli sto rici della letteratura - e a questo ci siamo già abitua ti - la scompongono in frammenti temporali e la tingono di Antichità, Medioevo e Evo Moderno. La critica letteraria e la scienza della letteratura in vena di filosofia la analizzano in rapporto a problemi me tafisici ed etici - ma la scienza della letteratura ha anche cercato appoggio altrove ricorrendo alla so ciologia, alla psicoanalisi e alla storia dell’arte - tan to grande è il suo campo di azione. Essa indaga lo stile in cerca di periodizzazioni; azzarda una visione dell’essenza o spera invece di ricavarne un profitto esistenziale. E poiché uno scrittore ignora troppi dettagli per avventurarsi in un tale labirinto, conce detemi di chiamare in mio aiuto uno dei nostri grandi studiosi. Ernst Robert Curtius, nel suo libro Letteratura europea e Medio Evo latino, a proposito della moderna scienza della letteratura e di alcuni suoi indirizzi scrive:
« Essa vuole essere “storia dello spirito”. L’indi rizzo specificamente appoggiato sulla storia dell’ar te segue il principio, molto discutibile, secondo il
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quale “le varie arti si chiariscono reciprocamente"; provoca così una dilettantistica confusione delle co se; poi trasferisce anche in letteratura la classifica zione di periodi secondo lo stile, come si usa in sto ria dell’arte; si parla allora di un periodo letterario romanico, gotico, rinascimentale, barocco, persino di periodo impressionistico ed espressionistico. Ad ogni periodo stilistico viene attribuita una “essen za”, previa una “visione dell’essenza” (Wesensschau), popolandolo poi di un “uomo” particolare. L’“uo- mo gotico” (che Huizinga fa precedere dall’“uomo pregotico”) è il più popolare, ma anche (“uomo ba rocco” lo segue da non molto lontano. Intorno al-
l’“essenza” del Gotico, del Barocco ecc. sono stati scritti saggi interessanti, che cadono in parte, è cer to, in alcune contraddizioni. Shakespeare fa parte del Rinascimento o del Barocco? Baudelaire è im pressionista? E espressionista George? È stata spre cata molta energia intellettuale in simili problemi. Accanto ai periodi stilistici, il Wölfflin pone i “con cetti-base” della storia dell’arte: si parla allora di forme “aperte” e di forme “chiuse”. Si dovrà con cludere che il Faust di Goethe è “aperto” e quello di Valéry è “chiuso”? Angosciosa questione! Esiste for se persino, come Karl Joël con molto ingegno e an cor più ricca visione storica ha cercato di dimostra re, un’alternanza sistematica di secoli “congiungen ti” (bindende) e “disgiungenti” (lösende) ciascuno con
il proprio particolare “spirito del secolo”? Nell’Evo Moderno, i secoli pari (il XIV, il XVI, il XVIII e - a quanto sembra — anche il XX) sarebbero “disgiun genti”, i secoli dispari (cioè XIII, XV, XVII, XIX) invece “congiungenti”; e così di seguito, ad infini tum»?
9. Ernst Robert Curtius, Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, Francke, Bern, 1948, p. 21 [trad. it. Letteratura euro pea e Medio Evo latino, a cura di Roberto Antonelli, La Nuova Italia, Firenze, 1992, pp. 19-20].
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E Curtius continua:
« L’odierna scienza della letteratura - quella degli ultimi cinquanta anni - è un fantasma».10
Non so se a quindici anni di distanza voi vi ritro viate, studiando, nella stessa situazione, speriamo di no; ma l’ottimismo nel trattare la letteratura sem brerebbe non reggere più visto che neanche la sua storiografia è più al riparo dal pessimismo. Uno dei suoi primi titoli suona infatti Storia della letteratura nazionale e della poesia dei tedeschi,11 e l’ultimo che io conosca è Storia tragica della letteratura.12 Ma perché la letteratura sfugge sempre in modo così fatale alla ricerca, perché non arriviamo a catturarla così co me vorremmo? Ciò non può dipendere solo dagli studiosi o dalla critica. Non sono loro i soli colpevoli di tante definizioni contraddittorie. Deve esserci un motivo che non può essere ricercato solo nella mu tevole costituzione del tempo e di noi stessi.
Se fossimo così sprovveduti e creduli come quei due poveri sciocchi di Bouvard e Pécuchet, e talvol ta ci capita di esserlo, dovremmo lasciar cadere que sto e ogni altro oggetto, accompagnati da una gran de, anonima risata che finirebbe poi per sotterrare anche noi e la letteratura.
Ma la letteratura, che da sé non sa neanche de finirsi, che si dà a conoscere solo come affronto più che millenario e mille volte compiuto contro una lingua brutta - perché la vita possiede soltanto una lingua brutta - e con questo affronto contrappone alla vita una utopia della lingua; questa letteratura, per quanto strettamente possa essere legata al tem-
10. Ibid., p. 22 [trad. it. cit., p. 20 ]. 11. GeorgGottfriedGervinus,GeschichtederpoetischenNational literatur der Deutschen, 1835-1842. 12. Walter Muschg, Tragische Literaturgeschichte, Francke, Bern, 1957 [N.d.T.].
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po e alla sua brutta lingua, deve essere lodata per il suo disperato muoversi verso quella utopia e solo così essa può dirsi vanto e speranza degli uomini. I suoi linguaggi più preziosi, nonché quelli più volga ri partecipano ancora di un sogno linguistico; ogni vocabolo, sintassi, periodo, interpunzione, metafo ra, ogni simbolo esaudisce qualcosa di quel nostro sogno di espressione che non sarà mai pienamente realizzato.
Nel dizionario troviamo: «Con letteratura si in tende l’insieme delle produzioni spirituali affidate alla scrittura». Ma questo insieme è casuale e in compiuto, e lo spirito che lo anima non ci viene of ferto solo per iscritto. Una volta spenti i riflettori e ogni altra forma di illuminazione, la letteratura, la sciata in pace e al buio, risplende di luce propria, e le sue creature vere, commuovendoci ancora oggi, la emanano. Sono opere di luce ma anche di punti morti, frammenti in cui si avvera la speranza nella lingua intera, nell’espressione intera che dice i mu tamenti dell’uomo e i mutamenti del mondo. Ciò che in arte noi chiamiamo perfezione non fa che ri mettere in moto ciò che perfetto non è.
Proprio per questo, proprio perché la grandezza è qualcosa che è sempre in movimento, gli scrittori non temono le cose grandi che sono state scritte pri ma di loro - che pure dovrebbero spaventarli se questa loro grandezza fosse qualcosa di irraggiun gibile, di non superabile. E dovrebbero spaventarsi se qui si trattasse, come in altri casi, di prestazioni che potessero essere superate da altre più grandi; in tal caso essi sarebbero domani quegli sconfitti che oggi ancora non sono. Ma in letteratura non esisto no nastri di arrivo, né prestazioni di questo tipo, nessun sorpasso e nessun abbandono della corsa.
Ai nostri giorni, tuttavia, sembrerebbe che la let teratura non possa essere altro che titanico passato messo in gioco contro un presente che sin dagli inizi è condannato a perdere. Gli scrittori stessi soffrono
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di questo passato e, allo stesso tempo, di un presen te in cui avvertono segretamente la nullità propria e quella dei loro contemporanei.
C’è un passo di grande onestà, nei Diari di Robert Musil, nel quale egli ammette di essersi concesso so lo a un paio di scrittori, Dostoevskij, Flaubert e al tri,13 ma che tra loro non c’è un solo contempora neo; tutti avevano scritto da venti a cento anni pri ma. A prescindere dalla piccola dose di vanità e di risentimento che parla in queste pagine, ciò che re sta, con nostra sorpresa, è la giusta valutazione dei contemporanei che per motivi di fondo non possia mo apprezzare. In un altro passaggio abbiamo que sto appunto: « Ma oggi, chi c’è?! — Questo giudizio pessimistico sul valore della poesia contemporanea, me compreso ». E ancora: « Eppure il livello medio è decisamente alto. Ragioni: Affine all’anelito verso il “Redentore”».14 Ma la figura cui tende la nostal-
13. Robert Musil, Tagebücher, Essays, Aphorismen und Reden, Ro wohlt, Hamburg, 1955, p. 457, n. 77 [ed. it. Diari 1899-1941, a cura di Adolf Frisé, trad. it. di Enrico de Angelis, Einaudi, Tori no, 1980, vol. II, quaderno 33, p. 1376]. [L’appunto in questio ne (n. 77 del quaderno 33, relativo agli anni 1937-1941) si riferi sce al rapporto del poeta con il suo tempo: « Il fatto che non si partecipi, si resti indietro, si manchi l’aggancio, non si contribui sca e simili. Mi sono aperto in maniera specificamente poetica: Dostoevskij, Flaubert, Hamsun, D’Annunzio e altri: Fra essi non c’è stato un contemporaneo! Essi hanno scritto da venti a cento anni prima! »].
14. Ibid., p. 282; trad. it. cit., pp. 957-958. La citazione completa è la seguente: «“Ma oggi, chi c’è?!”. Questo giudizio pessimistico sul valore della poesia contemporanea, me compreso.
« Ragioni: Affine all’anelito verso il “Redentore”. « Con la non unitarietà del tempo, doppiamente. 1) Non si possono soddisfare tutte le volontà. 2) Il singolo non sa quel che vuole. « Eppure il livello medio è decisamente alto. « Due specie di ragioni: in letterati sconfitti. In persone che sen za sforzo vorrebbero vedersi istillata la grandezza attraverso l’arte ». L’accenno al Redentore, che compare più volte nei diari, si rife-
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già è solo una figura ideale e Musil se ne accorge ri pensando al passato:
« Virgilio, Dante, Omero... lasciamoli da parte. Ci vuole anche un’illusione e un amore del loro mon do per amarli... Ma Balzac, Stendhal eccetera, im maginati un po’ se vivessero e fossero dei “colleghi”. Che repulsione nei confronti di questo scribacchino e di quel pazzo! I loro mondi immaginari non si tol lererebbero, se non li si pensasse collocati in luoghi e tempi diversi. Sono sommabili o si escludono? Quale problema c’è nel fatto che si attenua l’incisivi tà dell’effetto quando si recepisce un artista passato insieme con il suo tempo passato? ».15
Il titolo di questo appunto reca le parole: Sull’uto pia della letteratura. In Musil si incontrano i termini « utopia », « utopico » anche in relazione alla lettera
tura, alla esistenza di chi scrive; Musil non ha svi luppato sino in fondo il suo pensiero, ha solo dato lo spunto che io oggi ho cercato di raccogliere. Ma se coloro che scrivono avessero il coraggio di dichia rarsi in favore di un’esistenza utopica, essi stessi non avrebbero più bisogno di rifugiarsi in quella terra di dubbia Utopia - qualcosa che si è soliti definire cultura, nazione, e così via, e nella quale si no a oggi hanno dovuto lottare per conquistarsi un posto. Così stavano le cose in passato e io credo che già per Hofmannsthal e per Thomas Mann non fosse più da molto tempo uno stato naturale, ma piuttosto una condizione da difendere disperata- mente. 16
risce ai materiali relativi alla genesi dell’f/otno senza qualità [N.d.T.].
15. Ibid., p. 514, n. 88 [trad. it. cit., p. 1471]. 16. Per il passo cui si fa riferimento cfr. Diari 1899-1941, cit.,
p. 1381: « Il mio concetto di letteratura, la mia difesa di essa nel suo insieme, è certo il contrappeso alla mia aggressione nei con fronti dei singoli poeti. Certo io faccio, quando ne faccio, rico-
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Ma è mai stata naturale? O non è piuttosto vero che, per fortuna, in questo paese di Utopia della cul tura esiste una componente di utopia molto più pu ra, una specie di tendenza da seguire quando la no stra cultura non potrà più salvare la faccia nemme no nelle più solenni festività, quando la poesia non sarà più vista come ‘luogo spirituale della nazione’ - il che già oggi è in fondo una cosa impossibile - ed essa agirà piuttosto sul luogo non spirituale dei no stri sventurati paesi giungendo sino a noi dal suo esilio nelle regioni dell’/uc et mine. Perché una cosa rimane: dobbiamo lavorare duramente con la catti va lingua che abbiamo ereditato per arrivare a quel la lingua che non ha ancora mai governato, e che pure governa la nostra intuizione e che noi imitia mo. Esiste la cattiva imitazione nel senso comune del termine, e io non intendo parlare di questa, ed esiste l’imitazione di cui parlavaJakob Burckhardt e della quale oggi, con soddisfazione o deplorazione, profitta la critica conservatrice; imitazione, remini scenza come destino, ma io non mi riferisco nem meno a questa. Mi riferisco invece a una imitazione, appunto, della lingua, che intuiamo e che mai riu sciamo a possedere appieno. La possediamo, come frammento, nella letteratura, materializzata in una riga o in una scena, e in essa sentiamo - con un re spiro di sollievo — di essere finalmente arrivati alla lingua.
L’importante è continuare a scrivere.
Certo, continueremo a tormentarci con la parola « letteratura » e con la letteratura stessa, con quello che essa è e con quello che noi crediamo che sia, e spesso proveremo ancora un grande fastidio per l’i-
noscimenti senza riserve, ma vengo assai più spesso respinto che non attratto. Col tempo ne è forse derivata una cattiva abitudi ne. Per questo mi faccio della letteratura un concetto utopico ». Cfr. inoltre, per l’espressione «letteratura come utopia» ibid., quaderno 33, p. 1410 [N.d.T.].
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naffidabilità dei nostri strumenti critici dalla cui re te la letteratura continuerà a sfuggire. Ma di questo dobbiamo rallegrarci, perché se ci sfugge è pei amor nostro, per rimanere in vita e legare la nostra vita alla sua in quelle ore in cui noi scambiamo il no stro respiro col suo. Letteratura come utopia - lo scrittore come esistenza utopica - i presupposti uto pici delle opere...
Se un giorno fosse possibile formulare corretta· mente le domande che vorrebbero far seguito ai puntini di sospensione, forse potremmo riscrivere· la storia della letteratura e, con essa, la nostra storia Lo scrittore però, lui che dimora da sempre in que sta storia non scritta, solo raramente possiede le pa role per scriverla e vive nella speranza di un patto inviolabile e segreto. Permettetemi dunque di con cludere con la parola di un poeta che mi sembra co gliere perfettamente quello che qui ho tentato di di re. La parola del poeta francese René Char:
« A ogni cedimento delle prove, il poeta risponde con una salva di avvenire ».17
17. René Char, « Partage formel »; la lirica fa parte della raccol ta Seuls demeurent (1945), compresa nel volume Fureur et mystère, in Oeuvres complètes, Gallimard, Paris, 1983, p. 167.
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NOTA AL TESTO
Con queste cinque lezioni pronunciate da Ingeborg Bachmann nell’inverno 1959-60 fu inaugurata la catte dra di poetica donata dalla casa editrice S. Fischer alla
Johann Wolfgang Universität di Francoforte sul Meno. La segreteria dell’ufficio di presidenza dell’Università ha registrato la data di tre lezioni soltanto. La prima il 25 novembre 1959, la seconda il 9 dicembre 1959, l’ultima il
24 febbraio 1960. Il ciclo di cinque lezioni (ma originariamente ne erano
previste sei) fu intitolato: Problemi di poetica contempora nea. Questo titolo, come quelli della prima, della terza e della quarta lezione, sono ricavati dalle registrazioni ra diofoniche delle quattro lezioni che l’Autrice ha letto dal 25 al 28 aprile 1960 alla radio di Zurigo per la Bayerische Rundfunk di Monaco di Baviera, che le ha trasmesse: il 6 maggio 1960 Domande e pseudodomande, il 13 maggio Lio che scrive, il 20 maggio II rapporto con i nomi, il 27 maggio Letteratura come utopia.
Il testo e le note su cui è condotta la presente traduzio ne si trova in Ingeborg Bachmann, Werke, a cura di Chri stine Koschei, Inge von Weidenbaum, Clemens Münster, vol. IV, Piper, München, 1980, pp. 181-271. I titoli delle lezioni sono, nell’ordine, i seguenti: Fragen und Scheinfra gen', Über Gedichte', Der Umgang mit Namen', Literaturals Uto-
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pie. I curatori della edizione tedesca hanno stabilito e ta lora integrato il testo delle lezioni, fondato su dattilo- scritti del Nachlass che spesso presentano lacune o corre zioni manoscritte difficili o impossibili da decifrare.
La prima e l’ultima lezione sono state pubblicate per la prima volta (in versione ridotta) in «Kulturelle Monats schrift», XX, 236, ottobre 1960 e in « Kulturelle Monats schrift», XX, 234, agosto 1960.
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FINITO DI STAMPARE NELL’OTTOBRE 2011 IN AZZATE DAL CONSORZIO ARTIGIANO «L.V.G.»
Printed in Italy
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Estando em sua segunda garrafa de vinho Malina já não fazia mais distinção entre as bebidas e nem poupava palavras, a roda de conversa na sala cada vez ficava maior e é claro que os diversos assuntos acabavam por envolver incomodar um ou outro participante, entretanto no estado de estupor em que a Osborn se encontrava a última coisa que tinha era a usual arrogância com que elegantemente ignorava os amigos do namorado. ❝ °☆ — I’m not saying that I hate christmas, I just don’t like it, but I’m here am I not? And I’m wearing the stupid Sexy Elf costume and Plato is my elf, so can you all drop the whole not in the spirit of things conversation this year? Shit, I even let Nathaniel call me goblin instead of Elf and I’m pretending It’s not disrespectful. — ❞ Um longo gole foi sorvido antes que outra taça fosse enchida. ❝ °☆ — Besides, I’m starting to like you guys, believe me or not, you’re not that bad. — ❞
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Malina, que estava puta da vida por ter ido à festa, tendo certeza que era melhor ter ficado em casa, revirou os olhos. — Mas a gente só tá perto uma da outra, nem vi que ela tava aqui. — Resmungou, sendo o mau humor em pessoa, fazendo caretas a cada frase da menina... Quem era ela mesmo? — Tá, mas precisa mesmo ser as duas? Não dá pra usar só a outra... Ok, ok, eu, ajudo. — Mudou no meio, lembrando que Kai havia a obrigado à ir, e agora estava vai saber onde. Baixinho pilantra. — Mas... Pra que exatamente a Coelhinha da Playboy precisa da gente?
this is a triple chat!!! come on girls @thelcser @chefhwang
Quando viu as duas garotas, próximas uma da outra, apesar de não estarem interagindo, Victoria achou que seria a abordagem perfeita. "O gato comeu a l��ngua de vocês? Estão tão quietinhas... Por que não estão conversando, se divertindo, vocês sabem fazer isso, né?" ela deu o sorriso mais gentil possível e deu uma risada "Eu devia imaginar que vocês são amigas... tão parecidinhas, farinha do mesmo saco" igualmente tontas, foi isso que a Griffin pensou, automaticamente. "Preciso de vocês hoje, minhas lindas..." ela passou um braço ao redor do ombro de cada uma delas, ficando no meio "Vocês estão tão lindas... Eu a-mei as fantasias, juro, fofíssimas!"
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6,7,13
6-What would they think of each other’s tactics? In my first timeline, they’re all mages. Missella is more ice-spells, Belladonna is electricity, and Alena is a force mage with fire as a backup. Belladonna is a very accomplished healer, while Alena can cast a handful of health spells. Alena has always been jealous of Missella because magic comes very easily to her, but Missella would be jealous of Alena’s rift magic because Missella is a magical scholar above all and what’s more intriguing to a scholar than the Fade? But, neither Alena nor Belladonna can prevent their feelings from altering the environment around them, so Missella wouldn’t be too jealous. Belladonna has never had much strong interest in learning any other types of magic so she doesn’t really care either way, but she thinks Alena to be very powerful. Overall, they’re all impressed with one another.
Timeline 2, Mireena Tabris thinks magic is dangerous and doesn’t want much to do with it, but she appreciates how strong mages have to be to stay strong against the temptations of demons. (She does not remember the fade favorably.) She would think Anna Malina Hawke is an incredible warrior with amazing intuition on the battle field because she always seems to know exactly who needs healing and when, and she does all this while setting great destruction about the battlefield, but she would think Vikara Lavellan is sloppy with how wild her attacks come. Anna would think Mireena is too stealth-based but clever, and Vikara’s wild attacks are refreshing to her. If she can’t predict what’s coming next, how can their enemies? Vikara is cocksure so she would think Mireena too timid in a fight because she frequently uses stealth to sneak about but there’s an elegance to it, she could be pressed to say. She thinks Anna is an incredible healer and is rather jealous of her abilities.
Timeline 3, Brilla would be absolutely awestruck by Genevieve Hawke, that she can fight so skillfully even with unseeing eyes. It frankly would blow her mind how easily Genevieve can sense her enemies and how readily she strikes them down. If it weren’t for Leliana’s hand, Brilla might catch herself falling in love with Asena Adaar for how strong and skilled she is. But Gemma Cadash? Brilla thinks her a fair archer but an even better sneak. Genevieve had asked Asena to train with her while they were at Skyhold together, and she likes listening to Gemma talk about her trapmaking but mostly she’s ambiguous about her. She would think Brilla very strong to be able to wield swords taller than she. Gemma thinks warriors reckless, but she and Asena work well together. Asena is her tank. She would think Brilla is bold, maybe a little too quick to enter a fight, but she admires her, especially given that she remembers her from her childhood in Orzammar. (She always thought Brilla would grow up to be just another noble prat spoutin babies, but to become the Hero of Ferelden?) And she thought Genevieve an impressive fighter even before she realized the woman was blind. Asena likes fighting with Gemma, knows she always has a skilled archer at her back and so she can be a little crazy on the battlefield. When she met Genevieve, she insisted on learning how she became so good, and they trained together frequently when they could. She would think Brilla adorable but mighty and strong.
Timeline 4 (I’m running out of steam lol.) Rastig Brosca is a dick. Frankly, anyone who isn’t him or Morrigan, he has no time for. So, he wouldn’t think much of either Mariana Hawke nor of Kalam Adaar, but if hard pressed he might admit he thinks a Qunari assassin would be cool to watch. Mariana would think Rastig too impetuous and easy to anger in a fight and that anger makes him sloppy and vulnerable. If it weren’t for his crew at his back, she would doubt he would’ve made it through the Tower of Ishal let alone the entire Blight. But Kalam is a good fighter, finessed and quick. She thinks her abilities as an alchemist are an amazing advantage and would like to learn a few of her recipes. Kalam would think Rastig is a tit and she’d tell him so right to his face, just to anger him into a fight. But Mariana is pretty, and watching her muscles move when she fights is a beloved pastime of both Kalam and Sera. (They like to sit on Sera’s roof and watch her train.)
7- Are they all the same/what specializations? Since I already answered Timeline 1, I’ll just skip it. Timeline 2, Mireena is a dagger-wielding rogue with assassin and duelist classes. Anna is a spirit healer mage. Vikara is an ice mage knight-enchanter. Timeline 3, Brilla is a Champion/Reaver 2 handed warrior. Genevieve is a Templar 2 handed warrior. Gemma (the wielder of the Mark) is an archer artificer and Asena is a reaver 2-handed warrior. Timeline 4, Rastig is an assassin ranger dagger rogue. Mariana is a duelist rogue. Kalam is a tempest dagger-wielding rogue. (I guess I really don’t like the weapon/shield class of warriors.)
13-Do they share the same opinion on The Game? The only Warden who would have anything to do with The Game is Mireena, and she’s a far better player at it than Alistair is. She wasn’t kidding when she said she would help him through his regency. None of my Hawkes could give two shits about it, not even Anna or Genevieve who become Viscountesses of Kirkwall (though Genevieve does play it better than Anna, but that’s because she’s had to develop good inter-personal skills so people can get past her being blind.) Alena, like Cullen, openly abhors it. At the Palace, her only saving grace is that she sticks close to Dorian who helps keep her grounded, otherwise she might’ve freaked out. (She does cause quite a stir, however, by shooing the would-be suitors surrounding Cullen away by sweeping into his side and placing a delicate kiss to his cheek and then slipping off while holding his hand. (She’s quite proud of how much trouble that causes for Josephine.)) Vikara finds it entertaining to watch. Like Solas, she thinks the human nobility is absurd (she, too, enjoys the heady blend of power, intrigue, danger, and sex that permeates those kinds of events.) Gemma doesn’t care, but Asena thinks it’s exciting and is quite skilled at it (she’d have to be, to gain Josephine’s favor so quickly.) Kalam thinks it’s tits and asses and actively does her best to tear it all down. She’s the only one who gets kicked out of the Winter Palace.
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Suspirava baixo, comendo em silêncio enquanto tentava desenhar o que queria para o próximo cosplay. Poderia estar focando em outra coisa? Tipo, voltar para casa? Poderia. Mas Malina não queria, mesmo, ajudar ou ter contato com qualquer um deles, pelo contrário, só iria aparecer lá quando fossem voltar, mas de resto, Calloway preferia ficar afastada. Ergueu os olhos assim que ouviu Miller, arqueando as sobrancelhas. — Que? — Perguntou, revirando os olhos e deixando seu mingau com morango parado. Arregalou levemente os olhos, olhando para os lados, procurando por ajuda. — Eles? — Confusa, Malina se levantou, indo até Ringo. Não se importava com ele, na verdade, podia morrer que não daria falta. Mas... Eles? Quem eram eles? Quem era a própria Malina? — QUEM SÃO ELES, SEU MALUCO? — Gritou, indo até onde estava, agarrando a camiseta do rapaz, e o sacudindo. — PORRA ME FALA LOGO QUEM SÃO ELES. PELO AMOR DE DEUS, DE GANDALF, NÃO SEI. SÓ ME FALA LOGO QUEM SÃO ELES!
ㅤㅤ⸻ starter to @thelcser at the cafe!
ㅤㅤQuando entrou ali e viu Gay sentada, ele não conseguiu se controlar. Era sempre muito bom zoá-la e, sendo assim, foi na direção dela sem nem pensar duas vezes. Sentou na mesa na frente dela, batendo com força e fazendo barulho para assustá-la logo de começo. ⸻ Você não sabe o que eu descobri, isso vai mudar tudo sobre o que está acontecendo e acho que... ⸻ Começou a falar com uma feição séria, como se fosse realmente algo e de uma forma que ela nunca tinha visto antes. Era a faceta de Richard Miller, o homem de negócios. Até que ele parou, colocou a mão no peito e soltou um som como se estivesse se engasgando, algo muito gutural. Jogou o corpo para trás de supetão e se tremeu no chão, fingindo que estava passando mal. ⸻ Socorro... ⸻ Murmurou com dificuldade. ⸻ Eles estão me matand... ⸻ Continuou se tremendo. Quem eram eles? Não fazia ideia, só queria tirar uma da cara dela mesmo.
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Mr and Mrs Avatar
Type: Oneshot [Romantic] / Submission for kataang week 2018: Sacred Summary: The most special event in Aang’s and Katara’s relationship finally occurs. Word count: 2072 Author’s note: My final submission for Kataang Week 2018! Thanks so much to @kataang-week for the amazing event and for letting me participate in it :) I’m not quite sure if it’s enough to qualify as “sacred”, but it’s called “holy bond of matrimony” for a reason, right? xD Have fun!
He was so nervous he could faint. The ceremony was about to start any moment now. He watched the people sitting in a crowd on pillows on the floor, only separated by a pathway for the bride to walk through. The ceremony was held in the big courtyard of the southern air temple, but most of the guests were from the southern water tribe, mostly Katara's friends and family, the most important ones being Sokka, Hakoda and Kanna of course, but also Niyok and Nutha, Pakku and Malina. Of course there were other important guests at the Avatar's Wedding, too, namely his close friend and ally Fire Lord Zuko, but also Earth King Kuei and chief executive officer of earthen fire industries, his old friend and former teacher, no other than Toph Beifong.
The muttering in the crowd stopped suddenly when the music came in. Everyone's eyes stuck to the big wooden door at the other end of the courtyard as was slowly opened by two servants. Finally, the bride entered the yard, and except for the slow tune played by the flameo's, everything was silent. So silent that the Avatar could hear his own heart beat. He could do this. This was the girl of his dreams and the day he thought would never come.
She slowly came closer and he got even more freaked out. She was beautiful. Well, she was beautiful all the time, but now it was just incredible. She somehow managed to stay true to her own, down-to-earth, simple, but beautiful style, but also include some very chic and classy elements in her appearance to make her look even better. She wore her hair in her usual water tribe style with her hair loopies running loosely across her temples, and a big braid with small flowers carefully woven in. Her dress was long and in a light blue tone, reaching from right under her shoulders down to her feet. Her shoulder region itself was pretty blank however, so the beautiful betrothal necklace he had carefully crafted for her was prominently shown to advantage.
She was beautiful. Breathtakingly beautiful, even more that normally. He took a few breaths. The nearer she came, the more nervous he got. Only a few steps left...
Then she was there, right in front of him. He offered her his hand which she gladly accepted. No word was spoken. They just stared at each other with eyes full of love and anticipation. He blushed pretty darkly and she chuckled nervously. The were BOTH really excited.
"Dear guests, Family, dear bride and groom, first of all, it is my wish to welcome you all to this very special occasion. Special, for a couple reasons.", the minister, a shaman of the southern water tribe, continued, "First of all, it's the Avatar's wedding. The last wedding of an Avatar was almost onehundredfifty years ago, and I feel deeply honored to be the one to marry the first Avatar in well over a century. Second of all...", the priest continued,
"second of all, this is the first ever recorded inter-national marriage between an air nomad and a water bender. The first marriage ceremony ever held in the sacred halls of this temple, and I feel nothing but gratitude to unite two people from two nations that so clearly belong together. And third of all, this is a very special occasion as it is for every couple in love. Special in its very own way. We've gathered her today to celebrate the unity of Aang from the southern air temple and Katara, daughter of Hakoda, from the southern water tribe."
The bridal couple exchanged loving gazes, seeming to ignore everything around them.
"Aang, everybody's watching." An old memory popped into her head, resembling her current situation very well.
"Don't worry about them. It's just you and me right now.", he seemed to tell her via his expression and the soft grip he had on her hands. His touch and his presence managed to calm her down again, at least for the moment. "...just you and me..."
"Now first of all, let bride and groom take their vows. Afterwards, family has the opportunity to either give their blessing or intervene."
The Avatar cleared his throat and looked deeply into his fiancée's eyes. "Katara...", he said, "I... I could tell you now how much I love you. How much I cherish you and that you're more important to me than anything else. But I'm pretty sure you know all that already. You know I could never be without you." Her gaze was tender and her eyes began yet to glisten. "So what I'm going to say now is something I might not have said so many times so far. I'd like to thank you. For everything you gave to me for the last five years. You literally found me alone and helpless and didn't hesitate to help me, even though I was a complete stranger. Then you cared for me, gave me strength during the hardest time of my life. You fought at my side, and... and you even brought me back from the dead. You literally saved my life, Katara." His voice broke for a moment when he remembered the painful memory, and a first tear began to roll down her cheek.
"First, you were my friend. Then you were my family. Then you became my love and now you're becoming my soulmate. The most incredible part is, that I don't have to give up on all the other aspects of our relationship. You're still and you will always be my friend, my family and my love."
"You've always been my soulmate", she whispered calmly, barely interrupting him.
"You're right", he grinned, "but now we're finally making it official." He cleared his throat again to end his sincere speech.
"So thank you, Katara. For everything you've given me. For giving me hope when I was desperate, for being at my side when I needed you. I love you, Sweetie, more than anything in the world, and I can't wait to spend the rest of my life on your side."
For his words he earned soft, smiling faces from the crowd and a tearful, but tender expression in his soon-to-be wife's eyes.
"Oh, Aang...", she sniveled, trying to wipe the tears off her cheeks with the side of her hand, "you're just perfect. In every way. You're so calm and wise, yet so energetic and joyful. Just like you said, You're my friend, my lover and my soulmate. I could never love someone else. I... I know that we're meant to be together. You belong to me and I belong to you. Forever." She slowly rubbed the backs of his palms with her fingers to calm herself down. "I love you and I promise to keep loving and cherishing you as long I live."
She took a few deep breaths right after finishing her vow, looked into her now almost husband's eyes and their eyes met each other. The world seemed to shrink even more. Even the shaman was gone now. In their world, there was only enough room for both of them. No one else.
"Now, that the bride and groom made their vows, the bride's family has the right to speak. The bride's father may speak now." On that commando, Hakoda stood up from the first row of the audience, und went to stage to his daughter. For the last time, she let go off her boyfriend's hands and took her father's. His eyes were glistening as well as he hugged his daughter firmly. "My little girl...", he whispered with his deep voice, "you know, I let you choose who to marry, because I knew that whoever you would eventually choose, would be worthy of being your husband. And now that I stand here and watch my son-in-law, I'm glad that my trust in your judgement was rightful. I wish you two all the luck in the world, sweetie. You deserve every little bit of it."
"Thanks, Daddy.", she whispered in his ear.
"I'm so proud of you, Katara. And your mother would be so proud, too."
When she heared him say that, she burst into tears again. "I...I... wish she was here...", she stuttered before trying to contain her emotions again.
"She is. She'll always be with you. Now, go with your husband. I give you two my blessing.", he finished, kissing her forehead before finally letting her go. The next one to hug her was her brother, and even he seemed deeply touched by their words. "Man, my little sister...", he mumbled, "...and my best friend. I admit, I maaaybe wasn't that supportive at first and I had to lie if I said that you're never giving me the oogies when I see you kissing and stuff, but...", he rambled on, harvesting a confused look from his sister, before playing it safe again. "...but I know you two pretty well by now and I think you're perfect for each other. Of course I'm giving you my blessing, Sis. If he's the one who makes you happy, go for it."
She hugged him tightly before loosening up. "Thanks, you big jerk.", she laughed and he joined her after letting go off of her, too. Hakoda took his son by the shoulder and stepped back.
The minister came closer to the bridal couple again and continued the marriage ceremony.
"Now that the bride's family has spoken, and for lack of the groom's family, let's now..."
"Wait a second, who says he got no family?", he was quickly interrupted by someone else on the stage- it was Sokka again. Opposing his father's attempts to hold him back, he went for the groom, and hugged him, too. "Just because all the other airbenders are gone, it doesn't mean you've got no family. Even without this marriage I would call you my family... brother. Now take good care of my little sister from now on, got that?"
Aang's grin spread all over his face. "Thanks, Sokka. I promise, I will."
"Sokka, sometimes you're so swee...", his sister tried to throw in from behind, only to be overheard and interrupted by him again.
"She's your problem now", he joked darkly, "and good luck with her when she's all..."
"Alright, Thanks, Sokka. That's enough." Hakoda grabbed him by the shoulder and dragged him back again.
After everyone was back at their right place, Aang took one deep breath one last time while she giggled lightheartedly at the typical confusion her brother had caused for the last few moments. Those were there last few moments together as boyfriend and girlfriend. Any moment now...
"Let's proceed with the ceremony now, shall we?", the shaman continued. "The families gave their blessings and bride and groom made their vows. Now I ask you, one last and final time. Answer truthful and the spirits will give you their blessing, too.
Aang from the southern air temple, Avatar, bringer of peace and great bridge between the worlds, do you wish to take Katara from the southern water tribe as your lawfully wedded wife, in good times as in bad, til death do you part?"
He looked deep into his girlfriend's eyes and soaked in all the love she laid out in front of him. "More than anything else."
"An do you, Katara from the southern water tribe, daughter of Hakoda, wish to take Aang of the southern air temple as your lawfully wedded husband, til death do you part?"
"Yes... oh Spirits, yes, I will!", she cried again and could barely hold back the urge to kiss her husband.
"Therefore your connection is blessed by the spirits now. I hereby pronounce you husband and wife. You may now..."
He never got to finish his sentence as everyone stood up and cheered the newlyweds who very eagerly shared their first kiss as a married couple. His arms embraced her neck and her hands held his waist while their lips smashed together under the cheering of the whole wedding party, including their family, but also friends like Toph, Suki and Iroh.
This had all been so exciting and now it was finally real. She was his wife now and he was her husband, and every time they opened their eyes when their lips parted they got the chance to look into each other's face again, they couldn't help but grin at each other and close the distance again for another quick (or long) kiss.
It was perfect. Far too good to be true. And the best part even was that
this
was only the beginning.
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Zaustavljen izvoz maline u Evropu: "Nije se desilo da do sada ne dobijemo novac"
Obustavljen je izvoz malina iz Unsko-sanskog kantona (USK) na evropsko tržište jer ne postoji interes za ovim voćem, potvrdio nam je to Emir Mahmutović, predsjednik Udruženja proizvođača jagodičastog voća u ovom kantonu. – Otkupljivači jednostavno ne mogu naći kupce na evropskom tržištu. Trgovina se do sada najviše bazirala na Srbiju, ali je i kod njih sve stalo. Srbija je do sada najviše…
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“Sacred + Ordinary” based on Isaiah 40:21-31 and Mark 1:29-39
I can't get past Peter's mother-in-law. There is so much more in this passage, and there is so much in the Isaiah passage that I want to get to, but she won't let me go.
For those who don't know I'm using the name Peter for the man in the passage called Simon, because he has a name change later, and because of the name change we're more familiar with him as Peter, “the rock on which the church is built.”
Now, there really isn't much of a story here. It is two verses. “Now Simon's mother-in-law was in bed with a fever, and they told him about her at once. He came and took her by the hand and lifted her up. Then the fever left her, and she began to serve them.” (NRSV Mark 1:30-31)
Yet, somehow, the story just won't let me go.
One part may be obvious. I try, regularly, to let my feminist guard down, and say, “well, those were different times” but COME ON. She's unnamed, which indicates Mark didn't think she was that important – even important WOMEN get named in the Gospels. And after she is healed, she gets up and SERVES.
While not entirely resolving this issue, Debie Thomas offered some helpful insight about the word used here for “serve” in Greek. She says:
The verb St. Mark uses to describe the mother-in-law’s service is the same verb the gospels use to describe the angels who attend Jesus after his forty days in the wilderness. It is the same verb Jesus uses to describe himself when he washes his disciples’ feet: “I am among you as one who serves.” And it is the same verb the early church uses to commission deacons, the “servant” leaders of the church.
What if Simon’s mother-in-law is not an undervalued woman in a patriarchal system, but the church’s first deacon? The first person Jesus liberates and commissions into service for God?1
That helps a bit. I still don't love that she gets healed and starts serving, but if I'm honest, I know those people. The ones with such profound servant hearts, that nothing short of profound illness could keep them from offering exceptional hospitality. The ones who would get up from a sickbed and start cooking immediately, if the opportunity arose. And, to be honest, they're not all women.
The other little bit of new insight into this passage came from my beloved commentary “The Social Science Commentary on the Synoptic Gospels” which pointed out the obvious. Galilee in the time of Jesus was patriarchal, and in particular that meant that when a couple got married, the woman left her home and went to live with her husband's family. Which means that it is actually quite weird that Peter's mother-in-law lived with them. It indicates that she'd run out of who should take care of her: her husband, her sons, her father, her brothers. I think even her cousins would have been responsible for her care before her son-in-law. But nevertheless, she was there.2
Somehow, this little story keeps getting further under my skin. Peter's mother-in-law was a widow without sons. She was living in the home of some fishermen, and while there is some debate on this, I don't think fisherman were doing well in the socio-economic systems of the day. They're all in Galilee which was the backwater part of the backwater Jewish portion of the great Roman Empire.
Peter's mother-in-law is yet another figure in the Gospels who would have been ignored and counted as unimportant by society. Peter's mother-in-law is yet another piece of proof that the Way of Jesus isn't the way of the world.
I'm still sad she's unnamed. I'm still a little sad she jumps up to serve them.
But at the same time “they told Jesus about her at once.” The family cared about her, and Jesus cared about her. Just because she was a poor widow didn't mean she was unloved by her own family. DUH. Value in society really doesn't have any relation to the value a person has to their own people.
Many of the most moving celebrations of life I have presided over have been for caring mothers, many of whom never worked outside the home, others of whom had jobs that were notably secondary to their roles as caregivers. As far as today's society is concerned, stay at home mothers aren't particularly notable. But as far as their families are concerned, they were the center of the world.
Similarly, most of the imperative lessons I've learned in life have been from campers with Special Needs and from those living without homes. Both are populations the world tends to overlook, yet inter-personally people are people, with wisdom, and gifts, and love to share.
I think, deep down, we all know that the things that make a person MATTER in society aren't at all related to what matters in day to day life. And, of course, in the eyes of God, EVERYONE matters.
When it came to Peter's mother-in-law, they didn't hesitate or confer about whether or not she mattered, thank God. Because of course she matters! Would any of us decline to ask for help for a beloved family member? Since Jesus had JUST healed in the Synagogue, in front of her family members, there was good data on his abilities.
I keep thinking about how society teaches each of us our place, and teaches us how to inhabit that place. The things that don't REALLY matter in life, still get under our skin. Who walks down the street head held high? Who carefully avoids eye-contact? Whose language is considered appropriate for a business meeting? Whose appearance is considered appropriate? Or, even, who has a right to be angry about how life turned out, and to take their anger into explosions of violence on others?
We're well trained by society, enough so that it is notable when people buck trends.
I'm now at an age where most of the time people assume I'm reasonably capable. But 10 or 15 years ago, as a young woman in ministry, that was less true. I often got invited to sit on committees where I was the only young woman, and often I could tell people thought I should be grateful to be allowed to be present, and keep my mouth shut while people who knew what they were talking about made decisions.
Thanks be to God, I was raised in the Jesus movement, and formed in the radical Ways of Jesus, and I assumed that if I had a place at the table I had a responsibility to use it.
It is clear that Jesus doesn't give two figs about the roles that society prescribes to us. A beloved child of God was sick, Jesus had the capacity to heal, and he healed her. He reached out to touch her, even though she was an unknown woman to him, even though she was ill.
And if this perfectly ordinary woman was seen and healed by Jesus, then we can be assured that our perfectly ordinary lives are also seen by Jesus, and healing energy is available to us as well.
For me, Peter's mother-in-law serves as a reminder of the sacredness of the ordinary. God is in each of us, God's value is on each of us, and ordinary lives are saturated with the capacity to be lived with love and to thereby change the world.
In a culture, like many others before it, that often pushes us to think we have to be extraordinary to matter, it is good to be reminded of the sacredness of the ordinary. Thanks be to God. Amen
1https://www.journeywithjesus.net/essays/2897-a-day-in-the-life
2Bruce J. Malina and Richard L. Rohrbaugh Social-Science Commentary on the Synoptic Gospels (Minneapolis: Fortress Press, 2003) “Textual Notes: Mark 1:21-34” p. 150
Rev. Sara E. Baron First United Methodist Church of Schenectady 603 State St. Schenectady, NY 12305 Pronouns: she/her/hers http://fumcschenectady.org/ https://www.facebook.com/FUMCSchenectady
February 7, 2021
Photo by Barbara Armstrong
#thinking church#progressive christianity#Peter's mother in law#ordinary women#sacred in the ordinary#schenectady#FUMC Schenectady#UMC#Sorry about the umc#Rev Sara E Baron
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Deu uma risada alta, batendo palmas animadamente quando o melhor amigo concordou em ajudá-la, comemorando da forma mais adulta possível: tentando uma dancinha nada humilhante. — Obrigada, obrigada, obrigada! — Cantarolou, voltando sua atenção para o que estavam organizando. — Nah, você é mais o Ackerman mesmo, depois pensamos em algo de socos e beijos, mesmo que seja Levihan. — Murmurou, dando de ombros em seguida. Se inclinou até recolher o caderno que tinha suas anotações; um lembrete muito bom para quem tinha voltado recentemente e só queria arrumar um jeito de ficar famosa antes da formatura e, consequentemente, sair vazada dali. — Hum, estava pensando entre a gente recriar alguma cena deles juntos os imitar a cena de outro filme, mas como sendo eles, sabe? Acho que seria algo que faria sucesso algum dia, não sei. — Franziu o cenho, imaginando se a ideia de um tiktok sem ser tiktok seria ou não interessante naquele tempo; ao menos era algo mais rápido do que abrir as lives, estava acompanhando obsessivamente o próprio canal, vendo que os inscritos e os views subiam devagar. — Se for a cena deles, tem uma que eu gosto muuuito no manga! Mas se for recriando cena de outro lugar, podemos usar algo dos Vingadores, enquanto eles ainda são populares.
Ergueu as sobrancelhas quando Malina inventou de falar da piada dos titãs, mas não comentou nada. — Um lenço. Gay classy. Tá. — ergueu as mãos em rendição quando ela disse para não fazer piada, e não o fez. Apenas puxou os cantos dos lábios, desviou o olhar para o lado. Definitivamente pensou em algo. Só não durou nada, não quando tinha a amiga de mãozinhas dadas e olhinhos brilhantes e implorando para vestir uma fantasia que tinha meia coisa legal. Suspirou pesadamente. Não era tão difícil de ser convencido, assim. Só precisava dos pares certos de olhos pidões. — Tá legal. Te ajudo. Eu posso ser o mano do lenço gay, não tem problema. A não ser que você queira me socar, me beijar e me socar de novo. — soprou uma risada pelo nariz, ficou em silêncio. Sentia que ia se arrepender em um segundo. — O que a gente vai precisar fazer com isso mesmo? —
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Agilidade - Formas de desenvolvimento e de avaliação
RESUMO
A presente investigação tem como objectivo, o estudo das formas de desenvolvimento e de avaliação da capacidade motora – Agilidade.
O estudo baseou-se na realização de uma delimitação do conceito; quais as suas formas de manifestação; os fatores determinantes e dentro dos mesmos, os fatores comuns á espécie humana, fatores resultantes de diferenças individuais; as formas de desenvolvimento; formas (testes e exercícios) de avaliação da capacidade; relação com outras capacidades e por fim terá uma conclusão, uma bibliografia e nos anexos iram estar descritos os testes e os exercícios.
Através da sua análise pode-se concluir que o tema irá ser trabalhado consoante a pesquisa elaborada e retida de livros e artigos científicos e irá constar uma revisão bibliográfica.
A capacidade motora Agilidade é uma capacidade coordenativa complexa, e que todas as outras capacidades motoras se interligam á agilidade, tal como a agilidade se interliga com as restantes capacidades motoras. Com este trabalho procuramos entender melhor como a capacidade motora Agilidade se comporta e se classifica perante as restantes capacidades motoras.
1. Considerações Gerais.
O tema que irá ser abordado no presente trabalho é a capacidade motora agilidade, a mesma pode ter vários nomes como destreza, ligeireza, lepidez ou até mesmo presteza. É uma capacidade motora muito complexa devido a inter-relacionar-se isto é a agilidade está presente na coordenação e na velocidade.
O trabalho irá estar organizado por tópicos, sendo estes, a delimitação do conceito; quais as suas formas de manifestação; os fatores determinantes e dentro dos mesmos, os fatores comuns á espécie humana, fatores resultantes de diferenças individuais; as formas de desenvolvimento; formas de avaliação da capacidade; relação com outras capacidades e por fim uma conclusão.
Com este trabalho procuramos entender melhor o conceito de Agilidade, e procurar como esta capacidade motora se comporta em relação as restantes capacidades motoras, e quais se agrupam com a agilidade que são todas.
2. Delimitação do conceito.
Actualmente, parece não existir uma definição clara de agilidade no meio da comunidade científica de desporto, isto cria uma confusão quando se fala do conceito desta capacidade motora. Com passar dos anos novos conceitos foram surgindo, primeiramente a agilidade foi definida como a habilidade para manter ou controlar a posição do corpo, enquanto se muda de direcção rapidamente, durante uma série de movimentos (Twist & Benicky, 1996) ou a habilidade para mudar de direcção, arrancar e parar de forma brusca (Gambetta, 1996).
Recorrendo a outro autor (Grosser, 1983) este define destreza (agilidade/habilidade) como uma capacidade complexa que permite ao desportista adaptar-se rapidamente a ações motoras de difícil execução, adaptar-se às circunstâncias do movimento e além disso aprender rapidamente novas ações motoras.
Mais recentemente, a agilidade segundo Barrow e McGee citado por (Sheppard & Young, 2006) foi definida como a agilidade é a habilidade para mudar de direcção rapidamente e de forma exacta.
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3. Formas de manifestação.
A capacidade motora destreza/agilidade pode ser considerada a junção de duas capacidades motoras, sendo estas a velocidade e a coordenção.
Coordenação
A Coordenação Motora é referida por Piret e Beziers (1971) como uma sinopse da anatomia e da fisiologia a nível do movimento, como a composição que permite obter um equilíbrio entre os grupos musculares antagonistas, organizados pelos músculos condutores. Segundo o estudo de Pellegrini (2003), A coordenação motora fina está relacionada com as atividades que requerem o movimento dos pequenos músculos do nosso corpo, tais como escrever, coordenar os movimentos das mãos e dos olhos, mover os lábios, são exemplos de habilidade motora fina. Por outro lado, a coordenação motora grossa diz respeito a atividades que envolvem os músculos maiores do nosso corpo, resultando em movimentos maiores, tais como sentar, usar os braços, pernas e pés, andar e correr. Segundo (Paula Girotto, 2007) a coordenação Motora Geral faz com que o indivíduo consiga dominar o seu próprio corpo e controlar todos os movimentos. A coordenação Motora Específica faz com que o indivíduo controle os movimentos específicos para realizar um tipo determinado de atividade.
Velocidade
De acordo com o clássico estudo de Zatsiorsky (1966), a generalidade dos autores considera, ainda que sob denominações nem sempre idênticas, diversas formas de manifestações da velocidade.
Seguindo a orientação daquele autor e, Mitra e Mogos (1979), apresentamos um quadro síntese com as referidas formas de manifestação da velocidade, precisando a sua noção e referenciando os principais fatores condicionantes, mas também sugerindo orientações metodológicas e situações práticas para o seu respetivo desenvolvimento.
Fig 1- Formas de Manifestação da Velocidade (Proença, Jorge 1989 – O desenvolvimento da velocidade, Treino Desportivo, Série II pág. 48)
4. Fatores determinantes.
Fig 2- (Componentes universais da agilidade – Sheppard & Young, 2006) – segundo estes autores:
"Movimento rápido de todo o corpo, com mudança de velocidade ou direcção em resposta a um estímulo"
Young et al. (2002) incluem o termo velocidade de mudança de direcção, não só como uma componente principal da agilidade, mas igualmente para descrever um movimento que não seja uma resposta a um estímulo, ou seja, alguns exercícios poderão ser classificados como exercícios de velocidade de mudança de direcção (corridas rápidas com mudanças de direcção) e outros classificados como agilidade (corridas rápidas com mudanças de direcção em resposta a um estímulo). Desta forma, a proposta mais recente, encontrada na literatura, para uma definição mais completa da agilidade, parece ser: "movimento rápido de todo o corpo, com mudança de velocidade ou direcção em resposta a um estímulo" (Sheppard & Young, 2006). Tendo em conta a definição proposta por estes autores, a agilidade pode descrever, por exemplo, uma situação, num jogo de futebol, em que um jogador realiza uma desmarcação de ruptura, com mudança de velocidade e até mesmo de direcção, em resposta a uma movimentação da defesa.
4.1. Fatores comuns à espécie humana: (estruturais, bioquímicos, fisiológicos, volitivos).
Um estudo levado a cabo por Reilly et al (2000), teve como amostra trinta e um jogadores de futebol (dezasseis de elite e quinze de sub-elite) com idades compreendidas entre os quinze e os dezasseis anos, e como objetivo comparar os dois grupos através da aplicação de uma bateria de testes físicos. fator que demonstrou ser mais discriminatório, em que o grupo de elite apresentava uma melhor performance do que o de sub-elite, foi precisamente a agilidade.
Desta forma, uma vez que o presente estudo foi realizado com jovens futebolistas, consideramos importante analisar de que forma poderá a maturação interferir com a performance física e mais especificamente com a agilidade.
Segundo Malina, Bouchard & Bar-Or (2004) a maturidade é um estado compreendido num processo que se denomina por maturação. Em estudos que envolvam jovens, a maturidade é sempre algo a terem conta. Mais importante do que a idade cronológica, nestas idades devemos tentar avaliar a maturidade, já que se refere ao caminho já percorrido pela criança até ao seu estado adulto. A maturidade relaciona a idade biológica com a cronológica. Uma criança mais velha não tem que estar necessariamente num estado maturacional superior. Nos estudos com jovens, os indicadores mais comuns do estatuto maturacional são: maturação do esqueleto, a maturação somática e a maturação sexual. (Malinaetal,2004)
Maturação do esqueleto
Esta forma de avaliar a maturidade biológica de um indivíduo é a mais indicada, mas também a mais invasiva. Parece ser o método mais eficaz, já que todo O processo pelo qual passa o desenvolvimento desde um esqueleto cartilagineo até um esqueleto ósseo é conhecido. No entanto, é necessário a realização de um raio-X à mão do indivíduo (outras zonas podem ser escolhidas, como por exemplo o joelho, mas a mão é a mais frequentemente utilizada). (Malinaetal, 2004)
Maturação somática
Esta forma, por si só, não é suficiente para avaliara maturidade, masse existir um registo longitudinal da altura durante a adolescência, a inflexão da curva pode determinar indicadores da maturidade. Por outra palavras, olhando “ao momento do pico de velocidade podemos concluir que a criança se encontra no período pubertário. (Malinaetal, 2004)
Maturação Sexual
Uma vez que este tipo de avaliação foi a utilizada durante a realização deste trabalho, será analisada de uma forma mais pormenorizada. A maturação sexual é um processo que ocorre desde o embrião até atingirmos o estado adulto. No meio desse processo passamos por um período de transição denominado de puberdade, onde ocorre o aparecimento dos caracteres sexuais secundários, a maturação do sistema reprodutor e salto pubertário (aumento abrupto da altura)
Este método de avaliação baseia-se na análise dos caracteres sexuais secundários: desenvolvimento da pilosidade da axila e o aparecimento da menstruação nas raparigas; desenvolvimento do pénis e dos testículos nos rapazes; desenvolvimento da pilosidade púbica em ambos os sexos. A avaliação através deste método está limitada na medida em que só pode ser aplicada a partir da puberdade, ao contrário da maturação óssea.
Figura 3 – Cinco estados do desenvolvimento da pilosidade púbica do homem (tanner 1962)
A progressão no desenvolvimento dos caracteres sexuais secundários, estão divididos em cinco ou seis estados para cada um dos caracteres. O mais utilizado, é utilizado neste estudo foi o descrito por Tarner, 1962 (citado por Malina et al. (2004)). O estado 1 corresponde ao estado pré-púbere, o estado 2 ao estado inicial após o desenvolvimento dos caracteres sexuais secundários, o estado 3 à puberdade, o estado 4 ao tipo adulto e o estado 5 (e 6 no caso de se considerar) ao tipo adulto pós-pubertário. Os esquemas referentes aos cincos estados do desenvolvimento da pilosidade púbica e dos genitais podem ser vistos nas Figuras 6 e 7 respetivamente.
4.1 Formas de desenvolvimento (Exercícios).
4.1.1 Exercício de Salto
4.1.1.1 Salto entre os arcos.
4.1.1.2 Salto entre a escada de agilidade.
4.1.1.3 Salto sobre as barreiras de atletismo.
4.1.1.4 Salto entre barreiras
4.1.1.5 Salto e sprint
4.1.1.6 Salto ao pé coxinho
4.1.1.7 Salto de pés juntos
4.1.1.8 Salto á corda
4.1.1.9 Salto no trampolim
4.1.1.10 Polichinelo na escada de agilidade
4.1.1.11 Salto ao pé coxinho sobre o step
4.1.1.12 Salto ao pé coxinho para o trampolim
4.1.2 Exercício de Corrida
4.1.2.1 Tocar nos cones em sprint no chão
4.1.2.2 Sprint com mudanças de direção
4.1.2.3 Sprint nas escadas alternadamente
4.1.2.4 Sprint até ao cono e vir
4.1.2.5 Sprint ao pé coxinho até ao cone
4.1.2.6 Passos Cruzados
4.1.2.7 Passos para os lados
4.1.2.8 Fazer um “8”
4.1.3 Exercícios Estátios
4.1.3.1 Afundos com peso corporal
4.1.3.2 Agachaento no trampolim
4.1.3.3 Avião na escada de agilidade
4.1.3.4 Lunge no step
4.1.3.5 Tocar nos cones sobre o trampolim
Aqui estão os exemplos dos exercícios que estão em anexo (ver anexo), podendo-se ver mais detalhadamente.
5. Formas de Avaliação da capacidade.
Algumas das formas de avaliação da capacidade motora agilidade são:
5.1 Teste “505”;
Os atletas iniciam o teste deslocando-se em linha reta até à linha referente á mudança de direção, que tiveram que cruzar obrigatóriamente com os dois pés, e voltar tambem em linha reta. O tempo do teste era iniciado quando os atletas cruzavam a mesma linha inicial e final do tempo terminado quando o atleta voltava a cruzar a mesma linha, após ter ultrapassado a linha mudança de direção com os dois pés. Do ponto de á linha de mudança de direção distam 15m e da linha mudança de direção á linha corrrespondente ao início e final do tempo distam 5m. Os 10m iniciais servem de corrida de balanço.
5.2 Teste “Illinois”;
O aluno parte da posição de pé, com um pé avançado á frente imediatamente atrás da linha de partida. Ao sinal do avaliador, deverá deslocar-se até ao próximo cone em direção diagonal. Na sequência, corre em direção ao cone á sua esquerda e depois desloca-se para o cone em diagonal. Finalmente, corre em direção ao último cone, que corresponde ao ponto de partida. O aluno deverá tocar com uma das mãos em cada um dos cones que marcam o percurso. O cronometro deverá ser acionado pelo avaliador quando o avaliado realiza a prova. O tempo de desempenho deve ser anotado em segundos e centésimos de Segundo.
5.3 Teste “ZigZague”;
Este teste consiste num percurso de 20m com mudanças suscetíveis de direção a cada 4m. Os atletas iniciaram o teste passando pelo primeiro par de células acionando a contagem do tempo, efetuando todas as mudanças de direção assinaladas até cruzar o Segundo par de células ao fim de 20m de percurso, onde a contagem do tempo terminava.
5.4 Teste “T”;
O ponto de partida e de chegada será o mesmo, tal como poderemos verificar na imagem. Os atletas tiveram de iniciar a corrida deslocando-se até ao meio do “T” onde teriam de tocar num cone, e dali deslocar-se para o cone da direita, posteriormente ao cone da esquerda, voltando ao cone do meio e por fim voltar ao ponto de partida onde terminaria a contagem do tempo. As distâncias são de 10m do ponto de partida ao primeiro cone, e 5m do cone central aos cones quer da direita quer da esquerda.
5.5 Teste “4x10”;
Consiste na realização de um percurso pré-determinado, combinando a velocidade máxima de execução, com a coordenação traduzida no movimento de agarrar, transportar e colocar uma esponja num lugar pré-determinado. Avaliando a agilidade do aluno, o teste tem como objetivo caraterizar a capacidade de aceleração, a coordenação dos movimentos requeridos e a sua velocidade de execução.
5.6 Teste “10x5”;
O teste inicia-se de pé, com um pé mais avançado e imediatamente atrás da linha de partida. Após o sinal de partida deve-se correr o mais rápido possível até á outra linha transpondo-a com ambos os pés, e voltando de novo á linha de partida, o que complete um ciclo. Repetindo esta ação mais 4 vezes num total de 5 ciclos. No final do último ciclo os sujeitos atravessam a linha de partida sem desacelerarem. O resultado o teste e expresso em segundos e centésimos de Segundo.
5.7 Teste do “arco e bola no meio”;
O aluno coloca-se sobre a linha de lançamento (costas na direção do lançamento e os calcanhares sobre a linha) e tem como objetivo lançar cada uma das bolas sobre a cabeça ou sobre o ombro de forma a que ela caia se possível sobre a bola medicinal que está colocada no centro do arco a 2 metros da linha de lançamento. Durante o lançamento o aluno não pode voltar-se (só depois de o efetuar a fim de ser informado do local onde caiu a bola)
5.8 Teste “Balson”;
Este teste consiste em realizar sprints repetidos de 10x10x10 metros, intervalado com períodos de recuperação ativa de 42 seg. O objetivo do teste é correr cada circuito de sprint no menor tempo possível. O circuito do teste consiste num triângulo equilátero de 10 metros de lado (circuito do sprint) e um círculo de recuperação com as mesmas dimensões do perímetro de uma grande- área. O teste consiste em completar o circuito de sprint, os três lados do triângulo, no menor tempo possível, correndo em linha reta. Seguidamente da corrida o sujeito tem 42 seg. para completar o circuito de recuperação e voltar à zona de partida prepara par novo sprint. Este procedimento é repetido até o sujeito ter completado 20 circuitos de sprint.
5.9 Teste de “Reação”;
O aluno coloca-se de costas para a bola; o professor dá um sinal (apito ou outro) ao mesmo tempo que larga a bola; o aluno, deve então reagir tão rapidamente quanto possível ao sinal acústico, virar-se, correr na direção dos bancos e parar com as duas mãos a bola que vem a rolar. É avaliada a distância em centímetros percorrida pela bola nos bancos. O aluno executa duas vezes, contando para a avaliação o melhor resultado.
5.10 Teste “Cone ou Bussula”.
Os cones são dispostos de acordo com o diagrama, com quatro cones marcadores colocados em forma de diamante e um no meio. Os cones são colocados a 3 metros do centro. O jogador agacha-se com a mão esquerda no cone do meio, voltado para a frente (em direção ao cone 5). O jogador vira e corre para a direita e toca no cone (2) com a mão. O jogador volta a correr para o cone central, para o próximo cone (3), de volta para o centro, para o próximo cone (4), de volta para o centro e, finalmente, volta e termina a correr até á linha de chegada no cone 5. O jogador deve tocar no cone com a mão.
Exemplos dos exercícios que estão em anexo (ver anexo), podendo-se ver mais detalhadamente.
6. Relações com outras capacidades.
Velocidade e Agilidade
Num estudo que teve como objetivo descrever a performance de velocidade, agilidade e de potência muscular em futebolistas profissionais e testar a força de associação entre as mesmas, os autores (Rebelo & Oliveira, 2006) encontraram uma relação elevada entre o teste de agilidade e a velocidade em 15 metros. Neste estudo foram utilizados o teste ZigZague (teste de agilidade) e o teste de velocidade em 15 metros e em 35 metros. Relativamente á conexão entre a agilidade e a velocidade aos 35 metros, esta apresentou valores inferiores. Segundo os mesmos autores, o resultado poderá estar relacionado com o facto destes testes partilharem fatores em comum e porque os movimentos exigidos nos dois testes são realizados em jogo, muitas vezes, de forma combinada.
Força e Agilidade
A força muscular, definida como a capacidade de vencer considerável resistência externa com grandes esforços musculares (Forteza, 2006) deve ser tratada de maneira especial, pois apresenta manifestações variadas, já a agilidade é definida como capacidade de movimento corporal rápido com mudança de velocidade e direção em resposta a um estímulo (Sheppard, Young, 2006) no menor tempo possível. Neste contexto, acredita-se que o desempenho em agilidade pode ser melhorado em função do desenvolvimento de força e potência muscular (Brughelli e colaboradores, 2008), pois as acelerações e reacelerações, características das mudanças de direção rápidas, são consideradas ações de potência.
De acordo com a nossa pesquisa estas foram as capacidades nas quais conseguimos interligar através de palavras, mesmo assim afirmamos que a agilidade está acoplada a todas a capacidades motoras.
7. Conclusões.
As conclusões inerentes a este trabalho apontam algumas recomendações e sugestões que nos parecem importantes para futuras investigações neste âmbito.
Com este trabalho podemos concluir que a capacidade motora agilidade é uma capacidade muito complexa. Esta capacidade motora está interligada com as restantes capacidades motoras, interligando-se mais com a velocidade e a coordenação. Podemos dizer que um jogador de futebol profissional, quanto mais ágil for mais facilmente passará pelos adversários podendo criar oportunidade de golo. A agilidade provém de fatores intrínsecos e extrínsecos, os intrínsecos são os que a pessoa tem, como o género, o tipo de fibras musculares entre outros) os extrínsecos são os que odem ser treinados.
Na certeza de que as conclusões definitivas sobre este campo de investigação ainda estão por encontrar, pensamos que só um conhecimento mais profundo da(s) problemática(s) nos permitirá um melhor conhecimento da(s) mesma(s), para o que aqui deixamos a nossa modesta contribuição.
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Lista de los ganadores de la Supercopa
- Historial de la Supercopa de Europa:
1974 Milán (ITA) - AJAX (HOL) 1-0 0-6 1975 Bayern Múnich (GER) - DINAMO KIEV (URS) 0-1 0-2 1976 Bayern Múnich (GER) - ANDERLECHT (BEL) 2-1 1-4 1977 Hamburgo (GER) - LIVERPOOL (ING) 1-1 0-6 1978 ANDERLECHT (BEL) - Liverpool (ING) 3-1 1-2 1979 NOTTINGHAM (ING) - Barcelona (ESP) 1-0 1-1 1980 Nottingham (ING) - VALENCIA (ESP) 2-1 0-1 1981 No sé disputó 1982 Barcelona (ESP) - ASTON VILLA (ING) 1-0 0-3 1983 Hamburgo (GER) - ABERDEEN (ESC) 0-0 0-2 1984 JUVENTUS (ITA) - Liverpool (ING) 2-0 1985 No se disputó 1986 STEAUA B. (RUM) - Dinamo Kiev (URS) 1-0 1987 Ajax (HOL) - OPORTO (POR) 0-1 0-1 1988 MALINAS (BEL) - PSV Eindhoven (HOL) 3-0 0-1 1989 Barcelona (ESP) - MILAN (ITA) 1-1 0-1 1990 Sampdoria (ITA) - MILAN (ITA) 1-1 0-2 1991 MANCHESTER U.(ING) - Estrella Roja (YUG) 1-0 1992 W. Bremen (GER) - BARCELONA (ESP) 1-1 1-2 1993 PARMA (ITA) - Milán (ITA) 0-1 2-0 1994 Arsenal (ING) - MILAN (ITA) 0-0 0-2 1995 Zaragoza (ESP) - AJAX (HOL) 1-1 0-4 1996 París SG (FRA) - JUVENTUS (ITA) 1-6 1-3 1997 BARCELONA (ESP) - B. Dortmund (GER) 2-0 1-1 1998 CHELSEA (ING) - Real Madrid (ESP) 1-0 1999 LAZIO (ITA) - Manchester Utd. (ING) 1-0 2000 GALATASARAY (TUR) - Real Madrid (ESP) 2-1 2001 LIVERPOOL (ING) - Bayern Múnich (GER) 3-2 2002 REAL MADRID (ESP) - Feyenoord (HOL) 3-1 2003 MILAN (ITA) - Oporto (POR) 1-0 2004 VALENCIA (ESP) - Oporto (POR) 2-1 2005 LIVERPOOL (ING) - CSKA Moscú (RUS) 3-1 2006 Barcelona (ESP) - SEVILLA (ESP) 0-3 2007 MILAN (ITA) - Sevilla 3-1 2008 Manchester U. (ING)- ZENIT S.P. (RUS) 1-2 2009 BARCELONA (ESP) - Shakhtar (UKR) 1-0 2010 ATLÉTICO DE MADRID (ESP) - Inter (ITA) 2-0 2011 BARCELONA (ESP) - Oporto (POR) 2-0 2012 ATLÉTICO DE MADRID (ESP) - Chelsea (ING) 4-1 2013 BAYERN MÚNICH (GER) - Chelsea (ING) 2-2 (5-4 p.) 2014 REAL MADRID (ESP) - Sevilla (ESP) 2-0 2015 BARCELONA (ESP) - Sevilla (ESP) 5-4 2016 REAL MADRID (ESP) - Sevilla (ESP) 3-2 2017 REAL MADRID (ESP) - Manchester United (ING) 2-1. 2018 Real Madrid (ESP) - ATLÉTICO DE MADRID (ESP) 2-4. 2019 LIVERPOOL (ING) - Chelsea (ING), 2-2 (5-4). from Blogger https://ift.tt/2H97QUx via IFTTT
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Brandon Woolf
Hometown?
Port Washington, NY
Where are you now?
Long Island City, Queens, NY (I recently moved back after living in Berlin for six years).
What's your current project?
There are a few things in process:
In 2017-18, I will be a fellow at LABA, the Laboratory for Jewish Culture at the 14th Street Y. The focus of this residency will be to create a new performance inspired by the five pages of the Babylonian Talmud that tackle the “Messiah.” Psychically stunted by the “what the fuck do we do now?” of our current (geo)political situation, it seems that many (or is it just me?) are hoping, waiting for messiah – in some form or other, religious or secular. Messiah, that mystical political force that will, should, must relieve the pressure of our current chaotic calamity. AND/OR: Messiah, that excuse to do (virtually) nothing while we wait. But what are we waiting for? What should we do while we wait? What beauty arises (or not) out of the ashes of destruction? It all sounds a little serious, no? I mean, is Rabbinic exegesis suitable fodder for performance? We’ll have to see; but it is clear that one major formal challenge of this performance-in-progress is to find the associational meeting points of Talmudic hermeneutics and its pop-cultural-analogues, scenic leanings, cartoonish moments, song-and-dance numbers, etc. The Talmudic text-fragment itself is so rich with dialogue, debate, parable, philosophical reflection, social commentary, apocalyptic conspiracy theory, etc. that it can’t help but provide an exceedingly rich archive of stimuli for a new work of devised performance.
For the last two years, I have also been developing The Summer Way, a new play created with my Berlin-based collaborator Maxwell Flaum. Sequestered in a Tony Soprano-style basement, ravaged by binge consumption of contemporary television and under threat of imminent drone strike, Torn (white) and Timbre (black) wrestle with major issues of the day in an attempt to make a broadcast that “speaks to people.” During the course of their mind-bending skirmishes, the two would-be media gurus come face-to-face with the “Golden Age” of TV in the form of a 1967 broadcast-battle-royale between Norman Mailer and Marshall McLuhan, which quantumly entangles itself into the fabric of their flagging podcast. Torn and Timbre must therefore reckon with a bygone era in the American media when public intellectuals, rock 'n' roll stars, and politicians were all go-go dancing in the same corporate miniskirt; a brazen and audacious time when white people could say just about anything, as long as it was entertaining. This descent into an older, black-and-white America on the brink of a personality crisis, leads to a host of questions Torn and Timbre must face up to: What is the role of the public intellectual in contemporary mainstream culture? And how do we effectively speak to each other without getting bowled over by technological feats of restive schizoid chatter at a Trumped-up time when people will say just about anything? We were Next Stage artists-in-residence at the Drama League with this piece in March 2017, and are currently in workshop to continue developing and refining both the text and the piece’s directorial vision.
A few other things are at the very beginning stages as well: a song-cycle about Black + Jewish relations (in collaboration with Stew) and an olfactory piece of “Culinary Theater” in the “outer” boroughs (in collaboration with Ben Gassman).
Why and how did you get into theatre?
Not sure I can precisely pinpoint one “how” or “why.” It is some mercurial admixture of that first role in the elementary school musical, working on weekends as a cashier at my stepdad’s record store smack in the middle of the theater district, high school and college theater-club-like-activities, and that stumble and fall head-over-heels into the theater and theory of Bertolt Brecht. It was with Brecht that all-things-theater first “really” clicked, and my life took a pretty dramatic turn. Fascinated by the power and the faith he found in the theater as a social practice, I co-founded two performance ensembles – first in Berkeley and then in Berlin. Between 2010 and 2014, Shake im Park Berlin, our playfully (ir)reverent take on the Papp model, created site-specific performances that drew thousands of audience members to Berlin’s Görlitzer Park in order to rethink its dynamic spaces as sites of multi-lingual and inter-cultural performance, (post)dramatic experimentation, and participatory art. Between 2009 and 2011, UCMeP engaged performance as a tactical means of “creative protest” and mobilization against the austerity measures that beset public education in California.
What is your directing dream project?
My mother served four years in federal prison between 2010 and 2014. During that time, we corresponded mainly by handwritten letter. During that time, we also lost our family home. I dream of (and hope I find the guts) to explore these writings as investigative fodder for a not-yet-existing performance work. I want to put these texts in conversation with related legal documents as well as Brecht’s classic Mother Courage. I want to (re)read his play with my own mother and other mothers I have met whose lives and homes have been (re)shaped by the prison-system and by various financial and housing “crises.” Together we would begin with the question: How might we collaboratively reconstruct tales of Mother Courage, who worked relentlessly to provide for her children by “living off” yet another 30 Years War – for American prosperity, which came to an abrupt close with the housing crisis of 2007?
What kind of theatre excites you?
I say something else about “excitement” and political/civic/social investment below, but from the perspective of the types of theater aesthetics that most excite me, I am drawn to theater practices and artists that/who embrace theater’s fundamental interdisciplinarity. I am deeply invested in modes of performance that de-hierarchize “the story” as the only mode of story-telling. Instead, I understand performance as a productive meeting point of multiple intelligences and media. Performance (through a park, within a protest, at a rehearsal, on a stage) provides an explosive site of parataxis: text and body and environment and music and… Of: simultaneity, dream-image, spectacle, hallucination, intimacy, immediacy, and collage. Of: pop-culture and obsolescence, real and play, aesthetics and ethics. The kinds of work(s) I am most excited about are those which strive to challenge our inherited assumptions: about agency, spectatorship, identity, and community. I am inspired by a theater of big ideas: curious, probing, intransigent (when necessary). I think the great power of performance lies in its capacity to promote and provoke controversy, critique, even discomfort and antagonism, just as much as it promotes and provokes exuberance, laughter, amusement, and joy. And I am deeply invested in the power of irreverence; but an irreverence that serves reverence in an effort to tease out – aesthetically and politically – intangible truths about belonging, collaboration, and civic responsibility.
What do you want to change about theatre today?
I don’t dare offer prescriptions because, after all, who am I? But here are a few hopes for and dreams about theater as a social practice that are important to me and which I am trying my best to make manifest in my own little way:
As a public laboratory of existential experiments, I believe theater is one of the most vital civic institutions we have. It helps us to reckon with the state of things as they’ve been, but also as they could be. Theater helps us – or even forces us – also to reckon with each other, in our similarity and difference, as a citizenry, and as a public.
I believe that theater makers have a unique opportunity to provoke us all – sometimes gently and sometimes not so gently – to reimagine just what “public” means.
I believe in theater as workshop, as process: never (quite) finished, always fleeting, exploratory, and improvisatory – and yet always also striving for formal precision.
I believe in the power of collaborative ensemble, of the embodied practices of mutual exploration, interdependence, and critical generosity that performance demands and facilitates.
I believe in a theater of desperation – a theater that demands we ask “why are we at the theater?” every time we walk through its doors.
I believe in a theater that demands we reckon with the question: what is essential about live performance – and what does it do that TV or cinema cannot?
What is your opinion on getting a directing MFA?
Since I don’t have an MFA, again, I won’t dare to offer an opinion. Instead of the MFA, I pursued a Ph.D. in Performance Studies from UC Berkeley. While this was a rather (or radically) different path, Performance Studies has helped me in so many ways to understand, clarify, and even experiment with the kind of theater maker I want to be. As an interdisciplinary field, Performance Studies has supported my diverse explorations into both the practice and theory of “performance” in its many incarnations. Performance Studies has also afforded me incredible opportunities to work across languages, cultures, and continents, across different communities of artists and thinkers, across different theater worlds and economies of art.
Who are your theatrical heroes?
An obviously impossible question. But I am teaching a course at NYU this semester on “Experiments in 20th Century Performance,” and here are some of the artists we’ll be spending time with: M. Duchamp, G. Stein, A. Artaud, J. Cage, M. Cunningham, A. Kaprow, Y. Ono, Y. Rainer, C. Schneemann, J. Malina & J. Beck, R. Schechner, S. Sanchez, E. Bullins, J. Grotowski, P. Bausch, T. Kantor, H. Müller, R. Wilson, E. LeCompte & S. Gray, and F. Castorf.
Any advice for directors just starting out?
Since I feel like I am still “starting out” in many ways, I can only say that, for me, to continue to believe in theater is to believe in the enduring persistence of radical possibility.
Plugs!
I’m teaching another course this term that takes us to see theater across NYC every Thursday evening. Here are some of the pieces we’ll be checking out. Maybe we’ll see you at the theater?!
A Doll’s House, Part 2, Groundhog Day, Hear Their There Here, 7 Pleasures, Sam’s Tea Shack, BLACKOUTS, The Siege, The Treasurer, Bronx Gothic, Miracle, Measure for Measure, 17c, The Fountainhead, Home, and Race Card.
There are more words, pictures, music, and video from me at: www.brandonwoolfperformance.com.
And if any of the above resonates with you, and you’re interested in talking further or collaborating on something, please do be in touch.
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